Elisabetta Digiugno

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La raccolta Ginori di impronte in zolfo di cammei e intagli

DOI: 10.7431/RIV04072011

Presso il Museo delle Porcellane di Doccia si conserva una fra le più cospicue raccolte  di impronte in zolfo di cammei e intagli ancora esistenti. La sua acquisizione, oltre a rappresentare una delle espressioni più peculiari e ricche di implicazioni della scienza antiquaria settecentesca,1 (Fig. 1) costituì come vedremo una concreta esigenza della manifattura Ginori.

Simile alle serie di calchi prodotte in quegli stessi anni dalla bottega Dehn-Dolce, sicuramente la più celebre e prolifica di Roma2, «centro glittico e capitale del Grand Tour»,3 l’insieme custodito presso il Museo delle Porcellane di Doccia se ne distacca da più di un punto di vista.

Conformi ad essa sono la disposizione in 10 contenitori lignei atti all’impilamento, il tipo di cornici cartacee avvolte attorno ai singoli pezzi, le segnature numeriche su di esse inscritte e le sigle impresse a fuoco sul lato corto delle cassette. Diversa è invece la numerazione dei contenitori lignei, nei quali i numeri e le lettere sono per lo più sfalsati (si ha per esempio M 11  anziché M 12 come nella serie Dehn-Dolce), quella dei singoli calchi e la posizione ad essi assegnata entro tali custodie (Fig. 2)4.

La raccolta Ginori presenta inoltre un certo numero di ulteriori particolarità. Una parte delle impronte, prive di brillantezza e sottotono dal punta di vista cromatico, non è stata eseguita come di consueto in zolfo rosso, la cui tinta veniva ottenuta mediante l’aggiunta di minio all’impasto durante le fasi iniziali della lavorazione, ma con uno zolfo incolore, rivestito, soltanto sulla superficie del recto, da una lacca rossa. Un piccolo gruppo di queste appare inoltre punteggiato da una fitta serie di crateri rotondi, verosimilmente bolle d’aria prodottesi a composto caldo durante i primi stadi della preparazione. Nessuna, fra le maggiori botteghe di impronte del tempo, quali quella Dehn-Dolce5, quella del Lippert, o di James Tassie6, avrebbe messo in vendita simili manufatti.

In aggiunta a ciò, l’elemento che più distacca la serie Ginori dalle succitate è la limitata cultura classica e mitologica dimostrata dal suo esecutore. Il catalogo manoscritto che, come di consueto, accompagna la raccolta di calchi (Figg. 3a3b) riporta, infatti, numerose imprecisioni, solo in parte riconducibili ad una individuale trascuratezza nello scrivere. Assai distante dallo sfoggio di erudizione compiuto dal Dolce nella sua Descrizione Istorica7, tale scarsa conoscenza della materia, distanzia nettamente la messa in opera dei pezzi Ginori dalla produzione di tale bottega, cui essi tuttavia si richiamano nella struttura e nella generale disposizione.

Composizione

La raccolta Ginori è formata da circa 1526 impronte in zolfo mai studiate, né inventariate. Esse sono state contate, fotografate, misurate e catalogate, assegnando un numero arabo progressivo ad ogni impronta e un numero romano a ciascuna cassetta, soltanto in occasione del presente studio8.

L’insieme, niente affatto omogeneo, risulta suddiviso in due grandi sezioni: una prima, composta da circa 906 pezzi ancora aderenti al fondo degli originari contenitori in legno di palissandro, e una seconda, formata da 614 calchi sciolti (Fig. 4), strappati dalle sedi originarie in un momento imprecisato9 ed arbitrariamente disposti in una delle teche di cristallo del primo piano del Museo di via Pratese.

Come già ricordato, la collezione manca di uniformità anche dal punto di vista della conservazione; alcuni calchi presentano una superficie imperfetta, sbollata, o con ampi sollevamenti della laccatura, e con una diversa colorazione, in alcuni prossima al rosso scarlatto o al carminio, e in altri, verosimilmente nei più antichi, al violetto o al vermiglio sbiadito. Solo alcuni di essi mantengono l’originaria brillantezza.

Ciascun pezzo è circondato da una cornice formata dal ripetuto avvolgersi di una fascetta cartacea, dorata e decorata in superficie da una serie di trattini a pressione.

La serie è inoltre corredata da un breve catalogo a quadernetto, formato da 28 fogli manoscritti10. Sommariamente rilegati, divisi in “Primo Tomo” e “Secondo Tomo” e databili come le impronte agli anni Ottanta del Settecento, essi danno succinta (e spesso errata) indicazione delle iconografie e delle gemme da cui ciascuna impronta deriva11.

Le 906 impronte che costituiscono la prima sezione, ancora incollate sul fondo rivestito con carta felpata di 14 contenitori lignei, possono essere divise in tre ulteriori insiemi, diversi per cronologia ed aspetto:

1. due numerate in modo non progressivo disposte in cassette rettangolari esternamente siglate a lapis da un solo numero di difficile lettura e apparentemente di poca importanza12;

2. nove numerate in modo progressivo collocate in cassette rettangolari esternamente marcate a fuoco da una lettera dell’alfabeto e da un numero, e a lapis da una cifra ulteriore13;

3. tre numerate in modo non progressivo ordinate in cassette triangolari prive di segnatura esterna14.

1. Le 199 impronte contenute nelle due cassette rettangolari del primo insieme, in più di un caso logore o lacunose, talvolta mancanti delle cornici e contraddistinte da dimensioni spesso ridotte (di norma prossime al cm. 1,50), risultano sbiadite, tanto nel colore della laccatura, quanto nella doratura del cordolo circostante (Figg. 56). Tratte in larga misura da gemme molto arcaiche, in minima parte rinascimentali, e solo in rarissimi casi da intagli o cammei moderni, esse riportano iconografie oscure e fortemente simboliche, spesso legate alla monetazione di antiche civiltà. Molti di questi calchi sono inoltre direttamente correlati a gemme presenti nella collezione formata dal marchese Philipp von Stosch.

Nel corso dei secoli denominate chimere15, gryllos16, abraxas17, gemme gnostiche (Figg. 7a7b7c), esse appaiono prevalentemente legate al mondo egizio ed etrusco, risultando per tale motivo, e per la difficoltà di lettura che le caratterizza, assai più prossime agli interessi archeologico-eruditi della scienza antiquaria di primo Settecento, piuttosto che all’estetica neoclassica tipica della seconda metà del secolo. Esse non presentano alcun collegamento con il suddetto catalogo.

2. Le nove cassette formanti il secondo insieme, invece (Figg. 8a8b), i cui zolfi appaiono ben conservati, di dimensioni maggiori ed assai più splendidi dei precedenti, sia nel rosso della laccatura, sia nell’oro delle cornici, presentano iconografie più semplici e note, tratte per la maggior parte da gemme ellenistico-romane, rinascimentali e settecentesche (Figg. 9a9b9c9d). Esse sono assai più facilmente riconducibili alle maggiori collezioni del tempo.

Formalmente prossime al più tardo gusto neoclassico, ed esteticamente più belle, tali impronte sono direttamente connesse a quelle sciolte incluse nella seconda sezione e la loro numerazione al catalogo che accompagna la serie.

3. Il terzo insieme, formato dalle tre cassette triangolari (Figg. 10a10b), costituisce invece un vero unicum. Prive, come già ricordato di qualsiasi contrassegno esterno, esse sono inoltre sprovviste del rivestimento interno in carta felpata ed accolgono una quantità assai variabile di zolfi, rispettivamente 74, 57 e 23. Sia i contrassegni numerici da essi riportati, in nessuno dei tre casi legato ad un ordine progressivo ma caratterizzato da un diverso numero di cifre, sia le dimensioni e il contenuto iconografico delle impronte, paiono ricondurne l’esecuzione a periodi diversi e connotare l’insieme come un assemblage operato su pezzi acquistati in momenti diversi. Anche queste, come quelle del primo gruppo, non stabiliscono alcuna relazione con il catalogo manoscritto.

Tale supposizione parrebbe trovare conferma nelle caratteristiche presentate dalle 3 scatole che, oltre ad un’insolita sagoma esterna, presentano una sporadica presenza sul fondo (II-III) di zone circolari più chiare, simili a ombre prodotte da ripetuti spostamenti di pezzi.

La seconda sezione è, come sopra accennato, formata da 614 calchi sciolti (Fig. 4). Strettamente legati agli zolfi contenuti nelle 9 cassette del secondo insieme, essi si presentano debitamente contrassegnati con numeri ad una o due cifre che, partendo dall’«1», arrivano nella maggioranza dei casi al «60» per raggiungere, scemando in quantità, il «74». Il fatto che la serie, nella sua integrità, sia accompagnata da un catalogo manoscritto in cui, sotto la lettera dell’alfabeto corrispondente alla cassetta, i diversi calchi risultano elencati con numeri progressivi corrispondenti a quelli inscritti sulle fascette, ha permesso di risalire all’originaria disposizione da essi detenuta all’interno delle 10 scatole ancora conservate nei magazzini del Museo (Figg. 11a11b11c). Il lavoro di ri-collocazione effettuato dalla scrivente, si è infatti basato su una meticolosa comparazione fra gli zolfi, i numeri inscritti sulle cornici, la forma e le dimensioni delle sagome lasciate nelle cassette vuote dai pezzi staccati e le laconiche menzioni presenti nel catalogo, dove sotto alla lettera corrispondente alla cassetta si elencavano con numero progressivo le diverse iconografie18.

Le cassette ricomposte sono 10: 9 di forma rettangolare contrassegnate con le lettere A, C, D, E, F, G, I, P, Q e per questo legate al catalogo, ed una triangolare priva di numeri o lettere esterne e quindi avulsa da esso.

Anche le impronte di questa seconda sezione, come quelle delle 9 cassette del secondo insieme, paiono databili alla fase più tarda. Tale supposizione, scaturente dall’analisi delle caratteristiche iconografiche, formali e stilistiche di ciascun pezzo, trova conforto nella presenza di alcuni ritratti databili ad un preciso arco cronologico. Tanto l’effige di papa Pio VI (personaggio appassionato di gemme che nel 1777 aveva acquistato la dattiloteca di Christian Dehn), tratta da una gemma eseguita da Giovanni Pichler e presente simile in collezione anche in una più grande versione in gesso, quanto quella dell’imperatrice di Russia Caterina II costituiscono due validissimi terminus post ed ante quem.

Se il ritratto del pontefice (Figg. 12a12b) riconduce l’esecuzione della serie ad un momento compreso fra il 1775, anno dell’elevazione di Giovanni Angelo Braschi al soglio pontificio, e il 1779, momento della morte di questi, quello di Caterina II (Figg. 13a13b13c) dilata ulteriormente tale ambito cronologico dal 1762, anno dell’incoronazione imperiale, al 1796, anno in cui la vedova di Pietro il Grande si spense. A dispetto di questo, la giovane età della sovrana e la somiglianza del rilievo con una medaglia realizzata per i membri della Società Economica nel 1762, quando avvenne l’incoronazione imperiale, parrebbero portare la datazione ad un momento anteriore19.

Tutto ciò parrebbe ricondurre l’esecuzione di questa seconda serie ad un momento successivo al 1775, ma precedente all’inizio degli anni Novanta quando, su impulso di Giovanni Pichler e del nuovo gusto neoclassico che ne condizionò le scelte, al rosso dello zolfo e della ceralacca si cominciò a preferire largamente il candore del gesso e della scagliola20.

Fortuna critica e vicende storiche della collezione

La raccolta di calchi in zolfo acquistata dai Ginori è, da un punto di vista storico-critico, praticamente inedita. Le uniche brevi menzioni su di essa si trovano in un saggio sulle tabacchiere di Doccia pubblicato dal Ginori Lisci nel 196521, in un volume edito due anni dopo dal Liverani22, e in un lavoro a più mani sulla Manifattura uscito nel 198823. Il richiamo più puntuale, in ogni caso, compare in un articolo pubblicato da Mirella Benini sul finire degli anni Ottanta24 quando, fra le carte dell’archivio Ginori, questa rinveniva un’interessante missiva inviata dall’abate Pappiani a Carlo Ginori nel 174925. In essa il padre scolopio, precettore di filosofia dei figli del marchese, elogiando l’interesse di questi per la glittica, commentava con dovizia di dottrina le antiche effigi a cammeo presenti su tre tabacchiere in porcellana prodotte in quegli stessi anni dalla Manifattura26.

Ancorché il Pappiani non facesse alcun riferimento esplicito alla collezione di zolfi, la studiosa riteneva possibile porre la lettera in relazione con esse. Considerando «basilare la conoscenza della genesi della raccolta» e «dei motivi che indussero Carlo Ginori a cercare con tanto interesse nelle collezioni pubbliche e private d’Europa, le gemme più preziose dell’antichità da cui trarne le impronte», ella perveniva a datarne l’esecuzione ai primi del Settecento e ad assegnarla interamente alla Manifattura sestese.

La serie viceversa, lungi dal poter essere considerata una creazione Ginori, è facilmente identificabile come il prodotto di un’officina specializzata, operante in Roma secondo il modello codificato e diffuso dalla bottega Dehn-Dolce.  Anche sul versante cronologico, la presenza dell’invalicabile terminus post quem rappresentato dall’effige di papa Pio VI, elevato appunto al soglio pontificio nel tardo 1775, ne allontana senza alcun indugio la datazione dal periodo in cui visse il marchese Carlo.

Le soprastanti conclusioni, derivanti da un rapido esame visivo dei pezzi, hanno trovato conforto in alcuni documenti recentemente rintracciati presso l’archivio familiare di Palazzo Ginori. Nel ricco carteggio del marchese Lorenzo (1743-†1791), amante come il padre dei prodotti dell’arte glittica e toreutica, e ordinariamente coinvolto nell’acquisto, nello scambio e nella trasformazione in porcellana di gemme e medaglie, sono comprese alcune lettere capaci di datare la commissione delle cassette all’anno 1786 e di ricondurne l’esecuzione ad uno oscuro artefice romano di nome Gioli27.

Dell’acquisizione di tali impronte, già si accennava in una lettera scritta da Benedetto Lisci alla figlia Maria Francesca, moglie del marchese Lorenzo, proprio nel dicembre di quell’anno28. Dopo aver fornito le notizie del caso ed aver lamentato il mancato ricevimento di un «oriolo» da parte di Vincenzo Sebastiani, agente in Roma per la famiglia Ginori, il Lisci riferiva di necessitare di «poco denaro in più» per pagare appunto «il prezzo degli zolfi provvisti e delle altre cose commesse».

Soltanto una ventina di giorni dopo, egli scriveva nuovamente al genero per informarlo di aver consegnato al Sebastiani, fra le altre cose, il denaro necessario per «l’acquisto che doveva fare di una nuova serie di Zolfi», a quanto pare ordinata direttamente dal Lisci («[…] ha dato agli Zecch:ni mandatigli, e forse può darsi che qualche porzione dei med:mi possa egli averla impiegata nell’acquisto che doveva far per me di una nuova serie di Zolfi»;29. L’aggettivo usato, “nuova”, ben parrebbe sposarsi con le osservazioni sin qui avanzate riguardo alla diversa datazione dei gruppi di impronte che compongono la serie.

Il 14 gennaio dell’anno successivo, in ogni caso, le cassette non dovevano essere ancora terminate se questi, inviando una nuova missiva al marchese Lorenzo, sempre da Volterra dove dimorava, riferiva di non «avere avuto riscontro alcuno, che questa provvisione di Zolfi» fosse «stata ultimata», dicendosi più oltre «persuaso che da quegli» sarebbero stati «inviati in Toscana unitamente alle altre Robe commesse»30. Cosa fossero questi altri oggetti più volte menzionati dal Lisci, lo si deduce finalmente dalle successive carte scambiatesi fra il marchese Lorenzo e lo stesso Sebastiani a Roma.

Era proprio questi, infatti, nei mesi seguenti, a informare il Ginori dalla città papale, riguardo alla spedizione di una certa cassetta31, per la quale faceva, nel luglio 178632, il nome del “Valle” come autore di «diversi Bassi rilievi, e di diverse grandezze» che erano stati saldati con «l’Importare in Scudi 14. 15», somma per la quale rimetteva esatta nota di pagamento33.

In data 22 luglio poi, sempre da Roma, il Sebastiani informava il marchese di aver ricevuto un’ulteriore serie di bassorilievi, decisamente corposa dacché questi non gli aveva «limitata la quantità» anzi gli aveva «detto di tirar tutto quello che avesse creduto a proposito»34. Più oltre, ricordava di «doverne sborsare anche in somma maggiore al Formatore Venasca, ed al Gioli», quest’ultimo identificato come autore degli zolfi.

In una lettera scritta meno di un mese dopo35, oltre al Venasca, considerato una «birba», egli menzionava Giuseppe Valadier36, dicendolo pronto a «formare i suoi modelli» e a «fare le forme con tutta e fattezza».

Il 29 agosto poi, comunicando al marchese di aver raggiunto con grande difficoltà «il formatore Venasca ed il Gioli delli Zolfi», l’agente si dilungava nel riferire come i due, sprovvisti di una bottega stabile, vivessero all’epoca come «veri Zingari», e, sottolineando l’intenzione del Venasca di voler «far mercimonio sulla cassa» in legno destinata a contenere le forme in gesso e gli Zolfi, egli riferiva di aver rintracciato il Gioli in «una piccola Locanda». Il Sebastiani, inizialmente fermato dalla moglie del Venasca, aveva poi obbligato l’artigiano a «venir fuori» finché questi, sulle prime un po’ confuso, non gli aveva assicurato di star per terminare, tanto i lavori eseguiti per il Marchese, quanto quelli fatti per il «Signor Bali per i quali aveva ricevuto dei denari anticipati»37. Da ciò deduciamo con chiarezza ancora maggiore che le serie di zolfi dovevano esser almeno due, una eseguita per il Ginori, e l’altra per il Lisci.

In ogni caso, soltanto il primo settembre il Sebastiani rincarava la dose, ricordando come il Venasca non avesse «bottega e neanche» lavorasse in casa, ma andasse «a lavorare per le botteghe di formatori a giornate». Egli annunciava inoltre di essere stato in procinto «di dargli sul capo» per indurlo a farsi consegnare i gessi e di trovarsi ancora in attesa di ricevere un altro gruppo di bassorilievi che questi doveva modellare di nuovo a causa del prodursi di alcune rotture («[…] ed alcuni bassirilievi che non ho voluto ricevere perché li ha rotti, essendomi fatto promettere di rifarli in questi primi giorni»38.

Per tutti i mesi seguenti il Sebastiani continuò ad agire da tramite fra il Marchese, il Valadier, il Della Valle, il formatore Paolo Venasca e il Gioli degli zolfi, due artefici, questi ultimi, descritti ancora come persone inaffidabili con le quali sosteneva di aver più volte dovuto usare le maniere forti. Il Sebastiani assicurava che anche il Valadier era stato costretto a comportarsi con loro in modo parimenti brusco, consapevole che con «costoro quando le buone maniere non giovano» bisognava «farsi conoscere risoluti»39.

Ancora nel settembre 1786, poi, oltre a riferire in merito allo stato di alcuni lavori preparati dal Venasca, dal Valadier e dal Della Valle, egli metteva a conoscenza il Marchese di come «quell’altro cattivo soggetto del Gioli», usando sempre «raggiri e pretesti», non gli avesse ancora consegnato «le formette e gli zolfi» e di come «quella birba del formatore Venasca» fosse stato obbligato dal Valle a realizzare i gessi mancanti. Tale rinvio, aggravato da certi raggiri da questi fatti sulle somme ricevute, induceva il Sebastiani a rivolgersi, in nome del Marchese, a «Monsignor Governatore»40.

Del resto anche negli anni precedenti egli si era più volte curato di supervisionare il lavoro di artefici romani, e quindi spedire a Firenze, le casse con i gessi e le forme di gemme e medaglie che questi avevano eseguito. In una lettera datata settembre 178041,  ad esempio, il Sebastiani avvisava il Marchese dell’imminente spedizione di «una cassa di Gessi» ricevuta dal Carradori42.

Ancorché la missiva non specificasse la natura dei gessi, è possibile presumere che essa si riferisse a forme di medaglie o gemme realizzate in questo materiale. Presso i depositi del Museo delle Porcellane di Doccia, unitamente alle cassette con le impronte in zolfo, si conservano numerose forme di questo tipo che ben potrebbero esservi correlate (Fig. 14).

Con uno scritto del successivo mese di novembre del 1786, lo stesso comunicava al Marchese di avere finalmente «avuto il compimento delle Stampette e delli Zolfi del Signor Bali», sostenendo di averne però dovuti «scarzare una buona quantità che erano veramente orrendi», e di averli «fatti surrogare de’ migliori». Anche le formette erano state “scarzate”, sebbene di queste non si potessero «tanto riconoscere i difetti»43.

In un’altra lunga missiva, vergata il 30 dello stesso mese, il Sebastiani dava informazione al Marchese che «i cavi erano fatti» e che, come da nota acclusa, essi sarebbero stati presi e spediti nel volgere di pochi giorni. Nelle righe seguenti si occupava di fornire informazioni riguardo «all’altare de’ Bassi rilievi del Valle» per la realizzazione del quale questi, ed il formatore, consideravano il Valadier, e lo stesso, degni di essere mandati in galera perché rei del furto di alcuni bustini44.

Finalmente, il 26 gennaio del 1788, il Sebastiani comunicava al Marchese di aver «incassato e gessi e scatole appartenenti sia a V. S. Ill’ma e Clar’ma che al Sig.r Balì Lisci» in modo tanto accurato da esser «difficilissimo che possa in alcun modo patire». Dicendosi poi in attesa della «partenza di qualche legno [nave] per Livorno», egli ricordava come «Cassa e Cassetta», siglate «colla marca S. G.» appartenessero al Marchese e come quelle segnate «B. L. al Sig.r Balì»45.

Il 23 febbraio 1788, egli trasmetteva infine la polizza di carico emessa a favore di Vincenzo Cecchi «sul cui Bastimento» aveva «caricato la Cassa, e cassetta delle cose appartenenti» al Marchese «e al Signor Bali, non dubitando che tutto» sarebbe arrivato «sano e salvo» ed esprimendo «tutto il piacere che questa benedetta spedizione» fosse «venuta una volta a fine»46.

Il 13 febbraio dell’anno successivo, era invece lo stesso Valadier a scrivere al Marchese lamentando il mancato ricevimento, da parte del Sebastiani, dei 50 scudi necessari per il pagamento di alcuni «Cavi», personalmente ordinati dal Ginori a seguito di una visita effettuata nella bottega di questi47. Confidando in una pronta risposta, l’artista si diceva più oltre disposto ad accettare in pagamento anche con «tanti generi di Maioliche spettanti alla di Lei Fabrica alli prezzi Mercantili». Il caso dava avvio ad un lungo carteggio, durato fino al luglio 1789, fra il Valadier, il Ginori e il Sebastiani, il quale tentava a più riprese di discolparsi dall’insinuazione di non essere stato in grado di gestire la commissione ed aver mal amministrato il relativo denaro48.

Con queste ultime carte si conclude la ricerca documentaria compiuta attorno alle impronte in zolfo della collezione Ginori. Come già evidenziato, essa non ha unicamente confermato la tarda datazione della serie e l’esecuzione di essa da parte di artefici specializzati di area romana, ma ha altresì nettamente reciso il legame da tempo stabilito49 con la lettera scritta dall’abate Pappiani nel 1749. Essa nondimeno, affrancata dal legame con la serie di zolfi, torna ad essere oscura nel contenuto, non spiegando ancora l’origine delle antiche teste a cammeo presenti sulle tre tabacchiere da questi commentate.

Preziose informazioni a riguardo, potrebbero tuttavia già nascondersi nelle parole dell’abate, il quale ricordava come nella «deliziosa Villa di Doccia» abili artefici si dedicassero, oltre che alla fabbricazione di «bellissime porcellane», anche all’arte «di incidere le dure preziose pietre». Utilizzando la parola «scolpire» in riferimento alla «serie dei Re d’Egitto degli Imperatori romani e delle Auguste e quella dei Greci e Latini Poeti e Filosofi», riportate in parte su tali opere in porcellana, egli accennava alla «numerosa abbondanza di cammei» conservata dal Marchese nella propria Villa. Premettendo inoltre di essersi limitato a raccogliere notizie su tali soggetti, egli riconduceva interamente «il pensiero, la raccolta della serie, la disposizione di questo lavoro» al genio del marchese Carlo50, il quale, non pago di tenere «occulto presso di sé» un «tanto tesoro» e desideroso di renderlo noto «ai lontani», aveva di fatto inventato «la nuova arte di fare nei sottili lavori di Porcellane riportare le bellissime impronte di quei cammei» (Ivi).

Quanto affermato dal Pappiani riguardo all’esistenza di una ricca dattiloteca presso la Villa Buondelmonti (Fig. 15), veniva del resto ribadito da altri testimoni dell’epoca. Un lapidario commento su di essa veniva inserito, ad esempio, in una pagina delle Efemeridi, scritte da Antonio Cocchi nel 174151, a seguito di una visita compiuta allo stabilimento Ginori in compagnia di Horace Mann, John Chute e Francis Whithed.

Un rendiconto ben più preciso veniva più tardi lasciato da Giuseppe Pelli Bencivenni, il quale sosteneva di avere ammirato nella «galleria» di Villa Ginori, visitata nel 1776, assieme a «pochi quadri, molte porcellane di China […] dei buccheri, delle statue di porcellana di doccia, dei lavori di corallo, d’ambra e di pietre», anche una pregevole collezione di «qualche migliaio» di gemme, «tanto incavi che cammei», disposta «senza intelligenza» entro teche, ovvero «quadri col cristallo»52. La raccolta, assemblata a suo dire dal senatore Niccolò e dal marchese Carlo, era formata «da soggetti molto belli […] soggetti curiosi […] pietre etrusche […] scarabei […] pietre egiziane e […] pietre di lavoro greco a lato degli intagli moderni e di meno che mediocre bontà»53.

Forse anche da queste gemme54, e certamente non dalle più tarde impronte in zolfo, furono tratti gli eleganti partiti decorativi riportati in a rilevo e in pittura55 sui «meravigliosi quadri» e sui «delicati lavori in porcellana» ricordati dall’abate Pappiani. È possibile infatti che il Marchese si adoperasse, oltre che a collezionare pezzi antichi, anche a far formare in gesso le gemme e le medaglie più belle presenti nelle maggiori collezioni del tempo, facendole poi duplicare in pietra dura dagli artisti operanti presso la Manifattura («l’arte di incidere le dure preziose pietre»56.

Fra le raccolte settecentesche, la più celebre era indubbiamente quella posseduta dal barone Philipp von Stosch, dai primi anni trenta di fatto residente a Firenze (Fig. 16). Nel quartiere nobile di palazzo Ramirez-Montalvo in borgo Albizi 26, dove si era stabilito con il fratello Heinrich, egli aveva riunito appunto un gran numero di schizzi, disegni, stampe, carte geografiche, anticaglie e soprattutto una straordinaria collezione di monete, medaglie, gemme e impronte glittiche in zolfo ed in vetro57.

Attorno alla sua figura e alla sua abitazione era pertanto venuto originandosi un fitto movimento di accorti antiquari, di collezionisti invidiosi, di eruditi come il Winckelmann o il Gori, di visitatori ammirati e soprattutto di abilissimi intagliatori, i quali venivano da questi invitati a riportare sulle gemme che realizzavano, le stesse iconografie scolpite dagli antichi predecessori.

Chiunque si interessasse di glittica o di toreutica non poteva esimersi dall’interpellare questo nobile facoltoso, sia per la rete di relazioni che egli aveva intessuta per effettuare baratti, acquisti e doni, sia per l’enorme quantità, rarità e bellezza della collezione posseduta, composta a quanto pare da circa 3.000 gemme, di cui una quarantina soltanto moderne, e 28.000 impronte in pasta vitrea e in zolfo58.

Del resto in un momento tanto precoce, soltanto lo Stosch poteva disporre, anche in virtù della sua antica consuetudine con Christian Dehn, primo artefice dedito alla riproduzione in pasta di gemme, di un numero tanto vasto di iconografie59. Alcune delle creazioni Ginori che ancora si conservano, sono infatti ornate da rilievi o disegni tratti da pietre di cui unicamente lo Stosch o il Dehn potevano all’epoca disporre.

Fra queste, il cammeo con Aphrodite ed Eros (Fig. 17), appartenuto in origine a Fulvio Orsini e poi passato nelle mani di Ottavio Farnese, fu a lungo presente in pasta unicamente in collezione Stosch. Riprodotto in rilievo su una tazzina in porcellana del primo periodo (Fig. 18)60, esso è presente in una forma cava in gesso custodita presso magazzini della Manifattura (Fig. 19)61. A ben vedere, infatti, una buona parte delle decorazioni “a cammeo” campeggianti sui pochi pezzi del genere ancora rimastici, sono spesso iconograficamente non connesse alle impronte in zolfo presenti in collezione (Figg. 2021).

Proprio allo Stosch dovette rivolgersi il Ginori (Fig. 22) allorquando cominciò a maturare l’idea, enfaticamente celebrata dal Pappiani nel succitato scritto, di allargare la propria dattiloteca, anche per ornare con tali rilievi le eleganti produzioni della Manifattura.

Alcuni documenti conservati presso l’archivio familiare comprovano infatti l’esistenza di tale rapporto62. In una lettera scritta già nel gennaio del 174963, il conte François De Baillou64, scienziato ed erudito, assicurava al Ginori di essersi recato «subito dal Sig.re Barone di Stosch», di avergli «consegnato la lettera» e «nell’istesso tempo» di avergli spiegato «quanto è necessario a tenore della di lei [di Carlo Ginori] richiesta». Sebbene non venisse chiarita la natura di tale istanza, qualche riga più avanti il De Baillou ricordava di «aver fatto sapere al sig. Webber quanto occorre e sempre che» questi si fosse lasciato «vedere dal Sig.r Barone» egli gli avrebbe fornito tutto il necessario65.

Con un’altra missiva, poi, scritta nel successivo mese di marzo66, il Baillou forniva maggiori indicazioni riguardo all’interesse mostrato dal Ginori nei confronti dello Stosch; egli riferiva infatti di non aver «mancato di pregare il Sig.r Barone Stosch affine che egli» volesse «lasciare formare dal Webber le connote medaglie a tenore della nostra mandata». Poco oltre egli sosteneva di aver parlato con il medaglista e di averlo sollecitato a preparare quanto richiesto nel più breve tempo possibile, ricevendo come risposta «che tutto sarebbe già terminato se da Doccia» avessero rimandato «di mano in mano prontamente le medaglie» da spedire alla Manifattura «per rimpicciolirle». Poco oltre aggiungeva che la mattina seguente il Weber si sarebbe recato dallo Stosch per «fare le forme di buona parte delle note medaglie».

Era però una carta inviata nell’aprile dello stesso anno67 a fornire informazioni più chiare riguardo alle teste di imperatori a cammeo usate per decorare le famose tabacchiere menzionate dal Pappiani (Fig. 23), la cui esecuzione data non a caso a quel medesimo 1749. In essa il Baillou scriveva infatti: «In risposta alla Stimatiss.ma lettera all’Ecc[ellenza]. V[ost]ra del dì 2 del corrente, mi do l’onore di dirle che il Webber [h]a  formato tutte le teste degli Imp.ri che mancavano alla di Lei Serie, ed il detto Webber mi ha assicurato che egli non manca di continuare il lavoro con la maggior premura possibile, con tutto ciò non tralasciando di salutarlo.»68.

Strettamente legato a questo è il contenuto di due carte precedenti, entrambe sconosciute alla Benini69, una scritta nel dicembre 174870, e una nel gennaio del 1748/1749 (s.f./s.c.)71. Con la prima il Pappiani ricordava di non esser stato capace di terminare i motti per la difficoltà di identificare i poeti presenti sui cammei che aveva presso di sé, e nella seconda di essere «giunto a compimento del […] lavoro per quello che riguarda[va] ognuna di quelle Serie» lasciategli dal Ginori «prima di sua partenza per Livorno». Comunicando di aver consegnato «i fogli copiati» alla Signora Marchesa quella stessa mattina, l’abate si augurava che essi incontrassero «il suo genio», ovvero il gusto del Ginori, in modo da esser libero di «proseguire la Serie degli Imperatori fino a Costantino» e, nel caso, di «aggiungere alla Serie degli Uomini Illustri» ciò che mancava «per rapporti a Poeti Latini».

Quanto segue è davvero illuminante per comprendere la natura di tali prototipi; il Pappiani accennava infatti a una «altra Serie di Cammei» che non aveva preso con sé al ritorno da Doccia, lamentando più avanti di non avere avuto il tempo necessario per preparare i motti latini a commento di altri cammei, quali «Psiche scottata nell’atto che va a vedere Amore», «il Gruppo che rappresenta Marsia scorticata (sic) da Apollo», «il Gruppo che mostra Laocoonte con i due figli circondati dalle serpi» ed altri, e di averne aggiunti alcuni fra quelli che gli erano stati richiesti in gran fretta dalla fornace in calce. La missiva si concludeva con le scuse dell’abate per aver tardato a consegnare tali scritti a causa di un fastidiosa «infermità» che lo aveva bloccato a letto «per diversi giorni» (Ivi)72.

Con una carta successiva, datata al 22 di febbraio (Figg. 24a24b)73, il Pappiani informava il marchese di aver consegnato a Cosimo Coli «gli scritti» che dovevano essere copiati dal «Sig.r Marini» in cui vi era «il seguito della serie degli Imperatori fino a Costantino».

L’abate si diceva inoltre soddisfatto di avere compreso che le sue fatiche avevano «incontrato compimento insieme, e gradimento» da parte del Marchese e, ricordando più avanti di non avere «ancora all’ordine tutta la serie dei motti, secondo la nota» che conservava presso di sé, si dichiarava tuttavia pronto a terminarli nel più breve tempo possibile.

I motti composti dal Pappiani per le famose tabacchiere74 venivano, infatti, delineati dal Marini, e i rilievi, formati in cera dal Weber, dipinti poi da Giuseppe Romei75. Fra i vari pagamenti conservati, è registrata una somma ricevuta dal Weber in data 27 agosto 1749, per «un conto di diversi modelli di cera per formare tabacchiere, ornamenti con cammei». Nello stesso libro comparivano i nomi di molti incisori del tempo76, quali Felice Bernabé77 o il medaglista Antonio Selvi78.

Anche in questo insieme di scritti, il ripetuto uso di termini come “scolpire” e “incidere”, e della parola “cammei” in luogo di “forme”, “impronte” o “zolfi”, induce a ritenere che il Ginori non si limitasse a far “formare” gemme e medaglie dalle maggiori collezioni del tempo, ma utilizzasse tali stampi per farne replicare le iconografie, dagli artefici operanti presso la manifattura, sulle «dure e preziose pietre», incrementando in tal modo anche la propria dattiloteca.

Come si evince dalle parole dello stesso Pappiani («aggiungere alla serie degli Uomini Illustri ciò che manca per rapporto a Poeti Latini»)79, il desiderio del Marchese doveva essere quello di formare una piccola galleria di celebri personaggi del passato da utilizzare soprattutto per ornare, in modo erudito ed elegante, le bellissime creazioni in porcellana prodotte dalla Manifattura.

Dal contenuto delle diverse lettere, si comprende facilmente come il Pappiani fosse in possesso di vere e proprie pietre incise, attorno alle quali andava elaborando quei motti che gli erano stati richiesti dal Marchese già dagli ultimi mesi del 1748. Sicuramente nel procedere del lavoro i due dovettero rendersi conto che le serie di effigi di imperatori romani e degli altri «Uomini Illustri», presenti su tali gemme, non erano complete e, per questo, il Marchese dovette ricorrere a quell’enorme serbatoio di iconografie costituito dalla dattiloteca del barone Philipp von Stosch, presso la dimora del quale venne inviato il Weber, più volte pagato, già dal 1743, fu per la fattura di forme80.

Cammei e Medaglie: elementi per la decorazione

Cammei e medaglie costituirono senza dubbio, almeno durante i primi decenni di vita della Manifattura, vale a durante il Primo ed il Secondo periodo, alcuni fra partiti decorativi più apprezzati.

Fra le creazioni con essi ornate, le più note sono la Fiasca (Fig. 25) e il Tempietto (Fig. 26), donato dal marchese Carlo all’Accademia Etrusca di Cortona. Il Ginori ne fu infatti «Lucumone nell’anno 1756 e parte del 1757» (Fig. 27), e fu proprio in quella occasione che egli onorò l’istituzione cortonese di questa «superba Macchina in porcellana da porsi nel Museo Accademico per memoria del suo Principato»81. In essa era stata riprodotta la famosa serie di rilievi con effigi medicee eseguita da Antonio Selvi, incisore attivo presso la Manifattura fra il 1745 ed il 1747, come collega di Luigi Siries, per la quale aveva formato modelli di fiori in piombo e di cammei in cera82. Presso i depositi del Museo delle Porcellane di Doccia ancora si conservano i calchi in gesso usati per la realizzazione di esso, mentre fra gli oggetti della Collezione Pratesi si trovano le versioni in cera  (Figg. 28a28b; 29a29b).

Il precoce interesse del fondatore della Manifattura, il marchese Carlo, per i prodotti dell’arte toreutica (Figg. 3031), è comprovato da numerose missive, fra cui una inviata ad Antonio Cocchi il 16 dicembre 1738 da cui risultava chiaro il suo coinvolgimento nella progettazione del rovescio della medaglia coniata per celebrare la venuta a Firenze del granduca Francesco Stefano di Lorena nel 173983. Come risulta dagli inventari conservati presso l’archivio Ginori, in Manifattura doveva esser custodito un modello in gesso di tale rovescio («N° 8 Il Secondo un Bassorilievo detto dell’arco di San Gallo, che l’originale si trova al sopradetto arco, il med[esim]o rilievo rappresentante l’Imperatore Francesco in Trionfo, seguito da gran numero di Persone»)84.

Molti anni dopo, nel giugno del 1765, sarà il figlio Lorenzo a pregiarsi di inviare all’Imperatore, tramite il bibliotecario viennese Duval85, con il quale terrà una fitta corrispondenza sull’argomento, il conio della medaglia fatta «fare nella congiuntura della venuta di Sua Maestà Imperiale in Toscana», rinvenuta casualmente «fra le cose del fù mio Padre»86. Fra le impronte in zolfo della collezione è presente inoltre un’altra effige del sovrano, tratta da una medaglia coniata da Mathias Donner nel 1745 in occasione dell’elezione imperiale di questi (Fig. 30)87.

Un’ulteriore conferma di tale interesse risulta chiaramente dalla corrispondenza scambiatasi fra il Marchese Carlo e il noto incisore francese Louis Siries88. Nel giugno del 1748, ad esempio, questi scriveva al Ginori per comunicargli di avere  «formata nella […] idea» la «tabacchiera di corniola» che gli era stata ordinata e di avere «intenzione di porvi mano» in quegli stessi giorni89. Più oltre il Siries, inserendo nello scritto importanti informazioni riguardo al personale modo di lavorare, pregava il Ginori di dispensarlo dall’obbligo di farne il modello, avendo «operato […] sempre facendo il pensiero e l’opera ne medemo tempo».

Ed era ancora il Siries, in una lettera scritta nel precedente dicembre 1747 a dilungarsi nel lodare, dopo aver informato il Ginori sullo stato di alcune «Ouverages de Lapis-lazuli» da poco montate,90, l’erudito francese Johannon de Saint-Laurent91, considerato «un curieux qui voïage dans ces contrées», nonché un esperto di glittica e mineralogia, del quale inviava un pubblicazione di quegli anni92.

Una presentazione ancor più precisa del Saint-Laurent veniva fatta l’anno dopo, il 29 aprile 1749, dal conte De Baillou. Uomo di scienza e possessore di una ricca collezione naturalistica, confluita proprio in quegli anni nelle raccolte viennesi93, questi riferiva al Ginori, come il francese, «autore della Abbreviata descrizione» del suo Museo94, fosse «un giovane di ottimi costumi e di una ottima condotta e timorato di Dio». Egli, infatti, «molto dotto, e […] stimato da tutti i letterati di Toscana», aveva espresso il desiderio di entrare al servizio del Marchese per insegnare ai suoi salariati il metodo per tingere «le Agate, e le altre Pietre»95.

Le ricerche tecniche svolte dal giovane, infatti, ben si sposavano con i propositi del Ginori riguardo alla trasposizione in porcellana di importanti opere di glittica. I tentativi che egli, una volta entrato in contatto con la Manifattura, compié per replicare le iconografie a rilievo di gemme e medaglie, si risolsero nella messa a punto di un inedito procedimento per creare, in discreto anticipo sulla produzione inglese di Sir Josiah Wegwood, medaglioni in porcellana con il fondo scuro imitanti le diverse striature delle pietre, con una tecnica che, a detta del Pelli, era di gran lunga più semplice ed economica di quella usata dalle botteghe romane e per questo assai più conveniente nel caso in cui vi fossero da riprodurre grandi quantità di gemme o medaglie96.

Usando questo stesso metodo il Saint-Laurent riprodusse attorno al 1759 molti dei pezzi inclusi nella dattiloteca Stosch, donando alcune delle repliche migliori al Granduca di Toscana97. Il Pelli poneva l’accento proprio su questo aspetto: «Di presente si fa ricavare tutte le pietre del Museo Stoschiano, e spera [il Saint-Laurent] che tali cammei non debbano costare più di un giulio l’uno, prezzo che a Roma si fa pagare per uno zolfo di una gemma. Perché la vernice non venga a guastare i più delicati delineamenti delle figure, ha pensato [Saint-Laurent] di non la dare a questi cammei, e di tingere il fondo di nero per imitare il nicolo. Il nostro sovrano ha già avuti dei saggi di questi cammei, e gli ha infinitamente ammirati. Il detto signore è un uomo che accoppia ad una somma abilità, un naturale docile e una onestà senza pari»98.

Il Saint-Laurent aveva del resto affrontato, anche nella Dissertazione sulle pietre preziose degli antichi99, il tema della lavorazione delle gemme da un punto di vista tecnico affine a quello della manifattura, per la quale continuò ad operare anche durante il “secondo periodo”, ovvero sotto la direzione del marchese Lorenzo100. Il francese era inoltre assai noto all’epoca per la ricca collezione di gemme che possedeva, in cui era compresa anche una serie dedicata ai simboli della marina e della navigazione degli antichi101, le cui iconografie venivano utilizzate, secondo la mentalità di primo Settecento, come ricchi almanacchi visivi102.

Di questo interesse, fortissimo negli anni della maggiore fortuna dell’antico, ovvero durante la seconda metà di tale secolo, resta presenza concreta nei depositi della Manifattura. È qui, che in occasione del presente studio, sono state scoperte decine di casse e cassette contenenti forme negative realizzate in una pasta dura simile al “tripoli”, in alcuni casi accompagnate dalle forme positive, dei più noti cammei e intagli antichi e moderni103.

Nei magazzini del sottosuolo è conservata, ad esempio,  una grande cassa di cartone (Fig. 32), al cui interno si trovano un centinaio o più forme cave tratte da gemme con busti di imperatori romani. Come già suggerito, per le misure e i soggetti riportati, alcune di esse potrebbero essere facilmente identificate in quelle usate nella metà del Settecento per realizzare le tabacchiere in porcellana le auliche effigi imperiale commentate dal Pappiani (supra).

Entro un grosso armadio collocato in una delle stanze del piano primo, davanti al laboratorio delle forme, trova inoltre posto un ulteriore insieme di impronte e modelli positivi in zolfo e gesso, la cui esecuzione/acquisizione parrebbe essere di poco più recente, casualmente riposto entro alcune cassette lignee simile a quelle della serie Gioli conservata nel Museo (Figg. 33-34). Il rapporto esistente fra alcuni di questi calchi in gesso ed alcune delle impronte in zolfo presenti nei magazzini si rivela utilissimo per comprendere la tecnica usata per trasferire le iconografie delle antiche gemme sulle creazioni di porcellana.

I calchi in zolfo acquistati sul mercato romano venivano infatti sfasciati (Fig. 33), duplicati in un gesso grosso e morbido e, dallo stampo così ottenuto, ulteriormente “calcati”, nella forma positiva e negativa, in una pasta più dura, usata per imprimere l’immagine sulla porcellana. Tutto ciò avveniva sicuramente già nel primo periodo, epoca alla quale appartengono le forme cave in gesso con effigi imperiali rinvenute, entro grosse scatole di cartone, fra la polvere della soffitta (Fig. 32) e, forse con frequenza anche maggiore, durante il secondo, fase a cui si ricollegano le forme in gesso e le impronte in zolfo contenute nelle cassette lignee simili a quelle della collezione Ginori conservata presso il Museo (Figg. 3435).

In alcuni casi la forma cava da usare per trasferire il rilievo sulla porcellana, veniva direttamente tratta dall’impronta in zolfo, come è possibile dedurre da altre forme ritrovate (Figg. 3637).

Illuminanti per comprendere i suddetti passaggi risultano alcuni dei pezzi ancora conservati, quali ad esempio una piccola testa di Medusa, iconografia che torna identica sulla forma positiva, su quella negativa, su un piccolo disco di porcellana (Fig. 38) e, credibilmente, come appare evidente in altri casi (Fig. 39), sul prodotto finito.

Nei magazzini della Manifattura sono infatti ancora conservati una serie di piattini in porcellana con rilievi e una serie di rilievi in bisquit che ben comprovano quanto sopra affermato (Figg. 4041). A tutto ciò si aggiungano alcune creazioni Settecentesche dello stesso genere ancora parte di importanti collezioni private (Fig. 42). In un simile contesto, l’esempio più emblematico è sicuramente rappresentato dalla già citata gemma Orsini con Aphrodite ed Eros.

Molte delle più note gemme antiche e moderne, gran parte delle quali incluse nella serie di zolfi Ginori, presentano qui il loro corrispettivo in gesso nella versione positiva o negativa (Figg. 434445). Anche se è assai difficile credere che le forme cave in gesso presenti in Manifattura derivino dagli zolfi della collezione, per gran parte ancora perfettamente aderenti al fondo delle cassette conservate al Museo di Doccia, la presenza di diverse impronte in zolfo sciolte fra le “formette” in gesso conservate nei magazzini104, e di cassette lignee svuotate dall’originario contenuto, ma molto simili a quelle della serie conservata nel Museo (Fig. 46), induce a supporre l’utilizzo da parte degli artefici della Manifattura di analoghe serie di impronte in zolfo per la realizzazione dei cavi necessari a formare rilievi destinati alla decorazione dei diversi prodotti in porcellana.

Il fatto che un terzo delle impronte in zolfo presenti presso il Museo105 sia stato strappato dalle originarie cassette, potrebbe essere indiziale della volontà di tradurre in gesso, per poi procedere alla realizzazione della versione positiva e negativa, anche questo insieme di iconografie. Tale atto, compiuto ab antiquo dai legittimi possessori per un’effettiva ragione pratica, otterrebbe così una sua legittima valenza, anziché apparire lo sconsiderato gesto di un moderno Direttore di Museo.

Fra le numerose forme positive e negative presenti nei magazzini della Manifattura, in ogni caso, alcune spiccano per la perfezione del modellato. Citiamo ad esempio una testa di Heraklês barbato con leonté (Fig. 47) e un busto di Giulia Flavia tratto da un intaglio in berillo conservato presso il Cabinet des Médailles della Bibliothèque Nationale di Parigi e presente fra gli zolfi della collezione Ginori (Fig. 48)106.

Altre, parimenti esatte nell’esecuzione, derivano da importanti medaglie dell’epoca, come due tondi in negativo che riportano il dritto e il rovescio di una nota medaglia coniata per Maria Teresa d’Austria (Fig. 49)107.

La presenza a tutt’oggi di un numero così alto di forme in gesso nei depositi della Manifattura, nonché nei magazzini del Museo (Fig. 50), non ribadisce unicamente quanto sin qui affermato riguardo all’interesse del marchese Carlo e del figlio Lorenzo per la glittica e la medaglistica, ma comprova anche, in maniera inoppugnabile, la volontà di entrambi di trasfonderlo nelle creazioni in porcellana uscite dall’officina nella seconda metà del Settecento.

Frutto del gusto e del pensiero di un’epoca, tale orientamento si interruppe in modo piuttosto brusco con la morte di Lorenzo; risale, infatti, al 7 dicembre 1791 una «Nota di Pietre» stilata dal noto intagliatore francese Louis Siries, all’epoca direttore dell’Opificio delle Pietre Dure, come stima per la prevista alienazione di parte della dattiloteca del «Fu Illustrissimo» marchese Lorenzo. Ciò non rappresenta unicamente un indizio della perdita di interesse da parte della famiglia e della Manifattura nei prodotti della glittica e della toreutica, ma anche un ulteriore prova dell’esistenza nelle raccolte Ginori, di una ricca collezione di cammei e pietre intagliate108.

  1. La scienza antiquaria Settecentesca fissò proprio nell’arte glittica uno dei primari punti di riferimento per la conoscenza dell’antico. A tal proposito si veda D. Levi, “Glittica”, in L’Accademia Etrusca di Cortona, cat. mostra -Cortona, Palazzo Casali, mag. – ott. 1985- a cura di P. Barocchi e D. Gallo, Milano Electa Editore, 1985, p. 176 e sgg. []
  2. Per tale bottega si veda E. Digiugno, La Collezione di “solfi” dei Marchesi Ginori. Impronte di Cammei e Intagli dalle maggiori Dattiloteche Europee nel Museo delle Porcellane di Doccia, Tesi di Dottorato, Università degli Studi di Firenze, Facoltà di Lettere e Filosofia, Dottorato di Ricerca in Storia dell’Arte 2007-2009, vol. I, pp. 82-91 con note e bibliografia. []
  3. In G. Tassinari, Il Carteggio tra l’incisore di pietre dure Giovanni Pichler, Padre Giuseppe Du Fey ed il Principe Alberico Barbiano di Belgiojoso d’Este, Materiali Studi e ricerche, Milano, Edizioni Ennerre, 2000, p. 79. []
  4. Nella sua integrità la serie Dehn-Dolce comprendeva 30 cassette divise in 4 diverse sezioni, o tomi. Il primo, formato da 10 contenitori, portava contrassegni in lettere e numeri che andavano da “A-1” a “K-10”; il secondo, comprendente anch’esso 10 scatole, accoglieva segnature da “L-11” a “V-20” (fra le quali non era però compresa la lettera “U”), un terzo, includente 4 scatole soltanto, presentava sigle da “VV” a “Z”, e infine un quarto, formato da 6 cassette, segnate da “AA” a “FF”. La cassetta marcata “EE”, in cui trovavano posto le cosiddette “Spinter”, ovvero i calchi tratti da gemme a soggetto erotico, era priva di spiegazione (Ibid.). []
  5. Era proprio Francesco Maria Dolce, erede della bottega di Cristiano Dehn, a sottolineare la questione nell’introduzione del suo catalogo a stampa: «Le impronte … che si vedono in giro sono copie delli nostri originali. Hanno in Roma, in Germania, e altrove, con Industria procurato alcuni l’acquisto in Solfo delle nostre Impronte, sovra de’ medesimi ne formorno e ne formano i Gessi, e sovra tali Gessi ne gettano altro Solfo, talché quel minuto, quel spirito, e vivacità, quale dà fuori la Pietra originale, e la Pasta sunta dall’Originale medemo [sic], rimangono affatto smorte, e paiono tali impressioni in Solfo opere monche, ed imperfette, talmente ché fanno orrore alla bellezza dell’Originale…» (F. M. Dolce Descrizione istorica del Museo di Cristiano Denh (sic), dedicata alla Regia Società degli Antiquari di Londra per l’Abate Francesco Maria Dolce, Dottore per l’una e per l’altra Legge, e Pastore Arcade con il nome di Delco Erimantio, Roma, dalle Stampe di Generoso Salomoni, 1772, p. XVIII). []
  6. Per l’argomento si fa ancora riferimento a E. Digiugno 2007-2009, vol. I, pp.  82-91, con note e bibliografia. []
  7. Vedi supra, nota 261. []
  8. Il presente articolo costituisce il sunto di un assai più complesso lavoro di catalogazione degli oltre mille pezzi costituenti la serie Ginori al completo, realizzato dalla scrivente come ricerca dottorale in Storia dell’Arte, esso è ancora in attesa di una integrale pubblicazione. []
  9. Infra. []
  10. I due libretti sono conservati presso l’Archivio Moderno del Museo Ginori, a Sesto Fiorentino (2 fascicoli, cartella 71, 922). []
  11. Archivio Ginori Moderno, Libretto cartaceo manoscritto, “Catalogo dei Calchi”. []
  12. Le due cassette di forma rettangolare sono state registrate dalla scrivente con i numeri romani VI e IX. Per il catalogo completo si rimanda a E. Digiugno 2007-2009, voll. I-III. []
  13. Le nove cassette sono state inventariate con i numeri IV,V, VII, VIII, X, XI, XII, XIII-XIV. Esse sono rispettivamente contrassegnate sul lato corto dalle lettere: T, O, R, M, N, V, L, S, B, direttamente  connesse al cataloghetto settecentesco conservato presso l’Archivio Moderno del Muso Ginori. Supra nota 12. []
  14. Le tre cassette triangolari, prive appunto di segnatura esterna, sono state catalogate con i numeri romani I, II e III. Supra nota 12. []
  15. La definizione “chimera” torna spesso negli inventari settecenteschi in riferimento a soggetti mostruosi o di difficile comprensione. Con significato di “capriccio”, essa compare già in scritti tardo cinquecenteschi («Ma se ‘l pittore dipingesse una chimera, o vogliam dire capriccio non mai più da altro artefice imaginato et espresso, costui farebbe idolo di cosa imaginaria e che avrebbe il suo essere nella sola mente, e non fuori…»; G. Comaini, Il Figino. Overo del fine della pittura. Ove, quistionandosi se’l fine della pittura sia l’utile overo il diletto, si tratta dell’uso di quella nel Cristianesimo e si mostra qual sia imitator più perfetto e che più si diletti, il pittore overo il poeta. In Mantoua, per Francesco Osanna stampator ducale, 1591, p. 255). []
  16. Per i grylloi si rimanda ai capitoli “Grilli Gotici” e “Bizzarrie dei Sigilli e delle Monete antiche”, in J. Baltrušaitis, Il Medioevo Fantastico. Antichità ed Esotismo nell’Arte Gotica,  (I° ed. Le Moyen Âge fantastique. Antiquités et Exotismes dans l’Art Gotique, Paris, Jurgis Baltrušaitis, 1972), Adelphi, 2006, pp. 41-94. []
  17. Tale definizione (talvolta modificata in Abraxas)  si trova, ad esempio, in una lettera scritta dall’abate Giuseppe Querci, per un periodo direttore della Galleria degli Uffizi, al granduca Pietro Leopoldo nel 1772, in cui questi descriveva tali oggetti come «pazze invenzioni di Basilide, il quale essendo cristiano solo di nome, trasfigurò i più sagrosanti misteri della religione colle strane idee della superstizione della magia e del paganesimo. Questi strani capricci furono detti abraxas, perché spesso si trovano queste lettere nelle gemme basilidiane. La parola abraxas fu interpretata per equivalente a Ia W cioè Dio.». Esse riportavano «figure strane d’uomini e donne con simboli di divinità e d’animali e con caratteri greci ed arabi, de’ quali però non si comprende il significato» (A.S.F. Miscellanea di Finanze A 324, lettera datata 07.IV.1772; pubblicata in M. Fileti Mazza, B. Tomasello, Galleria degli Uffizi 1758-1775: la politica museale di Raimondo Cocchi, Modena, 1999, p. 64). []
  18. A dispetto delle approssimazioni e delle imprecisioni (molte voci sono inesatte, altre risultano cassate e i pezzi cambiati), talvolta derivanti da sostituzioni effettuate dallo stesso esecutore, il catalogo si è rivelato comunque uno prezioso strumento ai fini della risistemazione di tale insieme. Si rimanda alla soprastante nota 11. []
  19. Si veda per questo G. Toderi, F. Vannel, Medaglie Russe del Settecento: da Pietro il Grande a Caterina II, pubblicazione a cura dell’Associazione Amici del Museo Nazionale del Bargello Firenze, S.P.E.S., 1988, pp. 64-65, n. 74. []
  20. La Pirzio Biroli Stefanelli, facendo notare come Giovanni Pichler, in appendice al suo “Catalogo di n. 200 impronti non ancora pubblicati” del 1782 suggerisse per la prima volta l’impiego della scagliola («Gli ultimi tre impronti si sono fatti di una mistura bianca… e per l’avvenire non si faranno più di solfo ma di detta composizione»), ne riportava l’introduzione ad un momento di poco successivo a tale data (L. Pirzio Biroli Stefanelli, “Una raccolta disolfidel Museo Boncompagni per il Medagliere Capitolino”, in Bollettino dei Musei Comunali di Roma, n.s., 7, 1993, p. 133). In realtà, nella bottega Dehn-Dolce, già ante il 1772 si producevano alcuni pezzi in gesso o scagliola bianca (si veda per questo la serie conservata presso il Museo Civico Archeologico di Bologna). Il candore della scagliola, in ogni caso, trovandosi perfettamente in linea con il gusto neoclassico, godette in seguito di larga fortuna. []
  21. Citando la lettera lo studioso riferiva come il padre Scolopio, dopo avere ammirato i lavori in pietra dura conservati presso la Villa di Doccia, suggerisse al Marchese di riunire i cammei in quattro serie secondo un criterio storico ed estetico. Si veda L. Ginori Lisci, “Tabacchiere di Doccia”, in Pantheon, XXIII, 2, München, 1965, pp. 90-96. []
  22. In G. Liverani, Il Museo delle Porcellane di Doccia, Sesto Fiorentino, pubblicazione a cura della Società Ceramica Richard-Ginori con il contributo dell’Ente Cassa di Risparmio, 1967. []
  23. Si veda per questo La manifattura Richard-Ginori di Doccia, a cura di R. Monti, con testi di G. Cefariello Grosso, E. Maggini Catarsi, R. Monti, Milano – Roma 1988 []
  24. Pubblicata appunto in M. Benini, “Un documento inedito sulla produzione di Doccia: la lettera del padre scolopio Papiani e la collezione d’impronte in solfo di Carlo Ginori”, in Antichità Viva, XXVIII, 1989, n. 5/6, pp. 62-67. []
  25. Padre Maestro Alberto Pappiani, Lettore di Filosofia nel Collegio delle Scuole Pie di Firenze, Lettera diretta al Signor Senatore Marchese Carlo Ginori, datata 4 Marzo 1749, AGL. f. 138, c. 513 (citata da A. Biancalana, in Pregio e Bellezza. Cammei e Intagli dei Medici. cat. mostra (Firenze, Museo Argenti, mar.- giu. 2010) a cura di R. Gennaioli, Livorno 2010, p. 312; e A. d’Agliana, Ivi, p. 310). []
  26. Per tali oggetti si rimanda a L. Ginori Lisci, “Tabacchiere di Doccia”, in Pantheon, München, H. 1, XXII, 1965, pp. 90-96 e ai recenti contributi di Biancalana e d’Agliano (vedi nota precedente). []
  27. Per alcune delle figure qui citate, di cui al momento conosciamo unicamente i nomi, come il Gioli e il Venasca, autori degli zolfi o delle formette, si auspica la realizzazione di nuove e più mirate ricerche. Dei due, definiti “zingari” poiché privi di un propria bottega, non è stato al momento possibile rintracciare ulteriori notizie. Una pista interessante da percorrere, almeno per il “Gioli”, autore delle impronte, potrebbe trovarsi nella Biblioteca Casanatense di Roma dove è custodita una analoga serie di, assegnata dal relativo catalogo ad un certo «Gerome Gioni… demeurant au Cours dans une boutique vis a vis le palais de S.E. le prince de Fiano» e qui datata a meno di vent’anni prima (Ms. Cas. 469/2). L’affinità fra il nome di questo e quello del nostro Gioli, nella datazione, nonché nelle cassette e nelle impronte, potrebbe condurre verso una più completa identificazione di tale figura. []
  28. AGL, Carteggio di Lorenzo Ginori, f. XIII 1/ 7, cc. 1090-1091. []
  29. AGL, Carteggio di Lorenzo Ginori, f. XIII 1/7, cc. 1101-1102. []
  30. AGL, Carteggio di Lorenzo Ginori, f. XIII 1/7, cc. 1120-1121. []
  31. AGL, Carteggio di Lorenzo Ginori, f. XIII 1/ 7, c. 1087. []
  32. AGL, Carteggio di Lorenzo Ginori, f. XIII 1 Filza 7, c. 1091 e AGL, Carteggio di Lorenzo Ginori, f. XIII 1/7, c. 1098 con nota acclusa. []
  33. AGL, Carteggio di Lorenzo Ginori, f. XIII 1/7, c. 1098 nota acclusa. []
  34. AGL, Carteggio di Lorenzo Ginori, f. XIII 1 / 7, cc. 1101, 1103 r nota acclusa. []
  35. AGL, Carteggio di Lorenzo Ginori, f. XIII 1/7, c. 1104r. []
  36. Giuseppe Valadier (Roma, 14.IV.1762 – Ivi, 1.II.1839), figlio dell’orafo Luigi Valadier, si dedicò allo studio dell’architettura in precocissima età vincendo a soli tredici anni il primo premio di seconda classe d’architettura al concorso Clementino del 1775 (bandito dall’Accademia di San Luca). Fu anche uno stimato orafo. Si veda P. Marconi, Giuseppe Valadier, Roma, Officina Edizioni, 1964. []
  37. AGL, Carteggio di Lorenzo Ginori, f. XIII 1/7, c. 1106r/v. []
  38. Lettera inviata da Vincenzo Sebastiani al marchese Lorenzo Ginori in data 1 settembre 1786, da Roma a Firenze (AGL, Carteggio di Lorenzo Ginori, f. XIII 1/7, c. 1108r/v). []
  39. Vedi nota precedente. []
  40. AGL, Carteggio di Lorenzo Ginori, f. XIII 1/7, c. 1112r/v. []
  41. AGL Carteggio di Lorenzo Ginori, f. XIII,1/ 7, cc. 1084, 1086, da Vincenzo Sebastiani al marchese Lorenzo Ginori 9 settembre 1780 con nota di trasporto. []
  42. Francesco Carradori (1747 – † 1824), formatosi fra Firenze e Pistoia la sua patria di origine, si trasferì presto a Roma dove si dedicò ad un assiduo e approfondito studio dell’arte classica. Lavorò a lungo a Villa Medici dove fu restauratore degli antichi marmi parte della collezione granducale. Più tardi a firenze, venne nominato maestro di Scultura presso l’Accademia delle Belle Arti recentemente rinnovata da Pietro Leopoldo di Lorena. []
  43. AGL, Carteggio di Lorenzo Ginori, f. XIII 1/7, c. 1114r/v. []
  44. AGL, Carteggio di Lorenzo Ginori, f. XIII 1/7, cc. 1116r/v, 1118. []
  45. AGL, Carteggio di Lorenzo Ginori, f. XIII 1/7, cc. 1131r. []
  46. AGL, Carteggio di Lorenzo Ginori, f. XIII 1/7, cc. 1134r/v. []
  47. In essa così si esprimeva il Valadier «Da tre anni circa che V[ostra]: E[ccelle]:nza mi onorò di venire nel mio negozio scielse varj modelli, e mi ordinò li avessi fatto fare li cavi, et io per il piacere di servirla mi esebij di farli per il puro costo delli Uomini et altre spese necessarie, l’Eccza: Vra: diede ordine al Sig.r Vincenzo Sebastiani che terminati fosse venuto a prenderli per poi spedirli in Firenze alla di lei rinomata Fabrica, e nello stesso tempo mi avesse rimborsato il danaro speso che sono Scudi Cinquanta» (AGL XIII, Carteggio di Lorenzo Ginori, 1 Filza 7, cc. 1300r/v). []
  48. AGL, Carteggio di Lorenzo Ginori, f. XIII 1/7, cc. 1300r/v. []
  49. AGL f. XII 138, c. 513, 4 Marzo 1749. []
  50. Ciò fu sostenuto ad esempio dal Turci (G. Turci, “Il classicismo barocco ed il bassorilievo istoriato di Doccia”, in Lucca e le Porcellane della Manifattura Ginori, Commissioni patrizie e ordinativi di corte, cat. mostra, Lucca, Complesso Monumentale di San Micheletto 2001, a cura di A. D’Agliano, A. Biancalana, L. Melegati, G. Turci, Lucca. Maria Pacini Fazzi Editore, 2001, p. 66) e dalla stessa Mariella Benini. []
  51. Antonio Cocchi, B.M.C., M.C., Efemeridi, 26, 9 novembre 1741. []
  52. In G. Pelli Bencivenni, BNCF NA, 1050, Efemeridi, s. I, I, 19 settembre 1759, cc. 116-117. []
  53. Ivi. []
  54. Infra. []
  55. Ci riferiamo ad esempio ad una bellissima coppia di vasi proveniente dalla Villa Petraia su cui campeggiano immagini di cammei in grisaille tratti, come chiaramente evidenziato dalle ombreggiature, dal catalogo del Bracci, anziché dalle gemme vere e proprie. Si veda per questo il recente contributo di Andreina d’Agliano in Pregio e Bellezza 2010, p. 315, n. 171. []
  56. AGL f. XII 138, c. 513, 4 Marzo 1749. []
  57. Sulle gemme Stosch si rimanda Ph. Stosch, Gemmae antiquae celate, scalptorum nominibus insignitae. Ad ipsas gemmas, aut eurum ectypos delineatae et aeri incisae, per Bernardus Picart. Ex praecipius Europae Museis selegit et commentariis illustravit Philippus de Stosch, Polon. Regis et Sax, Electoris Consiliarus Ad Imp. Caes. Carulum Sextum P. F. A. C. H. R. Gallicé reddidit H. P. de Limiers, Bonon. Scient. Accadem., socius. Pierres antiques gravées, sur lesquelles les graveurs ont mis leurs noms. Dessinées & gravées en cuivre sur les originaux ou d’aprés les empreintes, par Bernardo Picart, tirées des principaux cabinets de l’Europe, expliquées par M. Philippe de Stosch, Amsterdam 1724 e al testo scritto dal Winkelmann qualche anno più tardi sulla base delle informazioni fornite dall’erudito predecessor J. J. Winckelmann, Description du pierres gravées du feu Baron de Stosch dediée a son eminance Monseigneur le Cardinale Aléxandre Albani par M. l’Abbé Winckelmann Bibliothecaire de son Eminence, Firenze 1760. Sullo Stosch si vedano inoltre i due testi del Justi (Justi K., Antiquarische Briefe des Philipp von Stosch, Marburg 1872; Idem, “Philipp von Stosch und seine Zeit”, in Zeitschrift für Bildende Kunst, VII, 1872, pp. 293-308), il non troppo recente articolo del Lewis (L. Lewis, “Philipp von Stosch”, in Apollo, LXXXV, 1967, pp. 320-327) e il ricchissimo saggio della Borroni Salvadori (F.Borroni Salvadori, “Tra la fine del Granducato e la Reggenza: Filippo Stosch a Firenze”, in Annali della Scuola Normale Superiore di Pisa, Classe di Lettere e Filosofia, s. III, vol. VIII, 2, Pisa 1978, pp. 565-614). []
  58. Ciò lo desumiamo dalle parole del Pelli: «Da questa abbondanza di simil raccolta, si rileva il pregio di essa e quanto fosse atta a istruire. È vero che conteneva molte paste, ma è probabile che i soggetti di essa siano per la massima parte perduti sulle pietre da cui furono tratte queste paste. E poi che importa per l’erudizione se si abbino gli originali o le copie? Stimo ancora per questo che la raccolta che aveva Stosch di zolfi, in numero di 28.000, pezzi tratti dai principali Gabinetti conosciuti e da tutte quelle gemme che incontrava in mano dei particolari. […] Ora tutto credo che sia in potere del re di Prussia. […] Tutte le gemme rappresentanti vasi e vascelli, e tutto quello che appartiene alla marina e alla navigazione degli antichi, è del signor Johannon de Saint-Laurent […]» (BNCF, NA 1050, Efemeridi, s. I, XXIV, 07.VI.1769, cc. 27-30). La collezione fu acquistata dal re di Prussia Federico II, che accrebbe in tal modo quella già posseduta, per una ingente somma di denaro (A. L. Millin, Introduzione allo studio delle pietre intagliate, ed. it. Palermo 1807, p. 98; ed. orig. Introdution à l’étude des monuments antiques et introduction a l’étude des pierres gravées, Paris, de l’Imprimerie du Magasin Encyclopédique, 1796-1797). []
  59. Lo Stosch morì a Firenze il 7 novembre 1757 e ancora nel 1756 acquistava gemme antiche e moderne. Nel 1755-1757 l’abate Jean Jaques Barthélemy (Voyage d’Italie, Paris 1801, pp. 24-25) rilevò che il barone possedeva troppe opere d’arte per essere un privato. Lo stesso era stato affermato da Charles de Brosses (Ch. de Brosses, Le Président de Brosses en Italie. Lettres familières écrites d’Italie en 1739 et 1740, 2 voll., Paris, Didier & C. 1858, vol. I, p. 289) e dal Winckelmann in una lettera scritta a Luigi Valenti Gonzaga (26-30 sett. 1758; J. J. Winckelmann  [1756 ca.], Lettere italiane, a cura di G. Zampa, Milano 1961, p. 103). Il catalogo steso dal Winckelmann, venne redatto su ordine dello Stosch che lo pregò di raggiungerlo a Firenze per chiarire alcuni problemi attributivi e la natura di certe pietre. Dopo la morte dello Stosch, l’incarico di esperto venne riconfermato al Winckelmann dal nipote ed erede dello Stoch, Heinrich Wilhelm Müzell Stosch. Tutto in F. Borroni Salvadori, “Marcus Tuscher artista nordico fra la Toscana e Roma”, in Miscellanea di studi in memoria di Anna Saitta Revigas, Firenze 1978, p. 88, nota 13. []
  60. Per la tazza si rimanda al recente contributo di Andreina d’Agliano in Pregio e Bellezza 2010, p. 306, n. 164. []
  61. Infra. []
  62. Uno dei propositi del presente articolo (tratto da una ben più ampia ricerca sulla collezione Ginori) è quello di fornire spunti per lo studio, certamente foriero di future rivelazioni, della relazione creatasi, sul terreno della glittica e della numismatica, fra Carlo Ginori e il barone Philipp von Stosch. L’argomento è stato in parte affrontato in alcune schede del catalogo redatto in occasione della mostra “Pregio e Bellezza”, cui ha partecipato anche la scrivente, dal Biancalana e dalla d’Agliano, i quali hanno raggiunto conclusioni simili (Pregio e Bellezza 2010, pp. 306-315). []
  63. AGL Carteggio di Carlo Ginori, f. XII, 4/ 5, c. 26, 7 gennaio 1749. []
  64. Proveniente da una famiglia francese stabilitasi a Milano, François de Baillou (1700-1774) fu un personaggio dai variegati interessi. Attivo in molti settori della ricerca scientifica, fu un celebre ottico, che realizzò, nell’arco di un trentennio (dal 1734 al 1764), numerosi microscopi e cannocchiali uno dei quali conservato presso il Museo della Storia della Scienza a Firenze (Inv. n. V. 50). Nel 1750 gli fu conferito il diploma di “Regio Cesareo Ottico” dall’Imperatrice d’Austria Maria Teresa d’Asburgo (1717-1780) e tramite il Governatore di Milano il titolo di Conte di Harnach. Pubblicò anche alcuni libretti sui numerosi strumenti ottici da lui costruiti. Per l’argomento di veda A. LUALDI, “François de Baillou, un ottico della Milano teresiana”, in Nuncius, Annali dell’Istituto e Museo di Storia della Scienza di Firenze, 11, 2, Firenze 1996, pp. 613-630. Per l’argomento si veda infra. []
  65. Il «sig. Webber» citato nella missiva era il noto medaglista fiorentino Lorenzo Maria Weber (Firenze 1697 – † Ivi 1765). Uno dei maggiori esponenti della corrente barocca fiorentina, egli fu apprendista presso Jacopo Mariani e Giovanni Bottari, studiando poi scultura presso Giovanni Battista Foggini. Nel 1720 divenne allievo di Massimiliano Soldani, medaglista e incisore di conii presso la Zecca fiorentina e solo due anni dopo venne nominato dal granduca Cosimo III de’ Medici successore del Soldani nella direzione di tale organismo, carica che ricoprì fino alla morte. Fu soprattutto dal 1743 al 1749 che il Weber prestò la sua opera presso la Manifattura di Doccia, realizzando placchette, tabacchiere, medaglioni e oggetti simili con rilievo. Secondo la sua autobiografia, scritta nel 1753, egli avrebbe inciso oltre 250 monete per le zecche di Firenze e Lucca e, anche se in poche di quelle che rimangono compare la sua firma, molti dei ritratti che compaiono su pezzi coniati fra il 1722 ed il 1765 gli devono essere attribuiti. Su base documentaria può essergli assegnata la fattura di 23 medaglie eseguite prima del 1753. Altre gli sono attribuite invece in virtù della firma (“LMV”, “LAVR..M.VEBERIVS F.”, o “LM WEBER”), quali quella con ritratto di Francesco dal Poggio (1725), quella per celebrare l’arrivo a Firenze di Francesco III di Lorena (1739; infra nota 296), Gian Gastone de ‘Medici (1732), Maria Teresa (1743) e il Granduca Pietro Leopoldo di Toscana (1765). Egli compare con grande frequenza nei registri di pagamento della Manifattura (infra). []
  66. AGL Carteggio di Carlo Ginori, f. XII, 4/ 5, c. 27, 23 marzo 1749. []
  67. AGL Carteggio di Carlo Ginori, f. XII, 4/ 5, c. 28, 5 aprile 1749. []
  68. François de Baillou aggiungeva più oltre alcune annotazioni di carattere tecnico (infra). []
  69. Il riferimento è ancora a M. Benini, in Antichità Viva 1989, pp. 62-67. []
  70. AGL f. XIII, c. 281, 3 dicembre 1748). []
  71. AGL f. XIV, c. 593, 14 gennaio 1748. []
  72. Vedi nota precedente. []
  73. AGL f. XIV, c. 594. []
  74. Delle tabacchiere eseguite dalla Manifattura in quegli anni se ne conserva una in collezione privata a Firenze (A. D’Agliano, in Settecento Europeo e Barocco Toscano nelle Porcellane di Carlo Ginori a Doccia, cat. mostra Roma, Galleria Lukacs & Donath, nov. – dic. 1996, a cura di A. d’Agliano, Roma 1996, p. 48, n. 34), una seconda presso il Museo Duca Martina di Napoli (L. Ginori Lisci, La Porcellana di doccia, introduzione di A. Lane, Milano 1963, tav. 29), una terza nella raccolta Procida Mirabelli di Lauro e una quarta andata in mostra ad Amsterdam nel 1988 (B. Beucamp Markowsky, A Collection of 18th century porcelain boxes, Amsterdam 1988, p. 170, n. 97). []
  75. Giuseppe Romei, nato a Firenze nel 1714 e qui deceduto nel 1785, fu pittore presso la Manifattura dal 1741 al 1749 ca. (A. D’Agliano, in Barocker Luxus Porzellan. Die Manifakturen Du Paquier in Wien und Carlo Ginori in Florenz, Hrsg. -Wien, Liechtenstein Museum, nov. 2005 – jan. 2006- von J. Kräftner, bearb. A. d’Agliano, K. Aschengreen Piacenti, C. Lehner-Jobst, et alii, München 2006, n. 165, p. 327). []
  76. Dai documenti di pagamento conservati, datati al 1747 e al 1749, risulta che il Romei dipinse varie serie di tabacchiere (AGL, Conti e Ricevute, 1747: «[…] al signor Giuseppe romei per pittura di due tabacchiere con cammei», «per pittura di 3 Chicchere, […] e due Tabacchiere con basso rilievo»; AGL, Conti e Ricevute, 1748: «al Signor Giovanni Giuseppe Romei per pittura di due astucci […] e una tabacchiera a bassorilievo», «per pittura di due Tabacchiere di Battaglie e di Bassorilievo ed una Boccettina da acqua della Regina»; AGL, Idem, 1749, n. 505). []
  77. In AGL Conti e Ricevute, 1749 («…pagati a Felice Bernabé per aver ritoccato 4 arme in sigilli di porcellana […] e una cifra in sigillo»). []
  78. Fra questi si legge il nome di Antonio Selvi, per la realizzazione di alcuni «modellini in cera di cammei», per «fattura d’un Baccanale in cera modellato», per «fattura di alcuni modellini in cera» (AGL, Conti e Ricevute, 1747). []
  79. Vedi nota 325. []
  80. Si vedano per questo le pagine del Quaderno di Spese Quotidiane dei quegli anni. []
  81. Per i documenti relativi alla carica di Lucumone da questi detenuta, si rimanda a P. Barocchi, in L’Accademia Etrusca, cat. mostra (Cortona 1985) a cura di P. Barocchi e D. Gallo, pubblicazione a cura della Regione Toscana, Milano 1985, p. 34, n. 21, Fig. 21. []
  82. La notizia (priva di riferimenti archivistici) è tratta da G. Toderi, F. Vannel, Ritratti Medicei in Cera. Modelli di Medaglie di Antonio Selvi MMDCCXXXIX, per Giovanni Pratesi Antiquario, Firenze 1993, p. 9,. []
  83. Ciò in Archivio Baldasseroni, Epist. Cocchi, 101/1 (www.memofonte.it; M. Fileti Mazza, B. Tomasello, Antonio Cocchi primo antiquario della Galleria Fiorentina : 1738-1758, Modena 1996, pp. 32-33). Per la medaglia si veda G. Toderi, F. Vannel, I Lorena. Monete, Medaglie e Curiosità della Collezione Granducale, Firenze 2001, pp. 86-88, n. 148, Fig. 148. []
  84. Per tale menzione si veda AGL, Inventari e Forme, f. 37/22. []
  85. Valentin Jameray Duval, francese di umili origini (Champagne 1695, † Vienna 1775), subì giovanissimo il fascino della lettura. Messa insieme una modesta biblioteca, egli fu accolto da Leopoldo di Lorena che lo pose ben presto sotto le cure dei Gesuiti di Pont-a-Mousson. I progressi fatti gli permisero di recarsi a Parigi con il Duca e di ottenere in breve la nomina di bibliotecario e di professore di storia all’Accademia di Luneville. Quando il duca Francesco Stefano, cedendo la Lorena, divenne Granduca di Toscana, il Duval lo accompagnò come bibliotecario a Firenze. Egli visse in tale città per circa dieci anni, fin quando, dopo la nomina a imperatore di Francesco Stefano, non si trasferì a Vienna, dove divenne direttore della raccolta imperiale di monete e medaglie. La sua opera omnia, prevalentemente dedicata alla numismatica, venne pubblicata a Basilea nel 1784 (V. J. Duval, Oeuvres de Valentin Jamerai Duval, précédées des Memories sur sa vie. Avec figures, 2 voll., S. Pétersburg 1784). []
  86. AGL Carteggio di Lorenzo Ginori, f. 18, c. 278, 25 giugno 1965, da Firenze a Innsbruck. []
  87. Per l’impronta in zolfo si rimanda al catalogo (E. Digiugno, 2007-2009, vol. I, sez. V/243, p. 296). []
  88. Per l’artista, direttore della Galleria dei Lavori dal 1748, si veda A. Giusti, “I Siries; una dinastia di artisti alla guida della manifattura granducale”, in Arte e Manifattura a Firenze, Livorno, Sillabe, 2006, pp. 16-27; e E. Digiugno, Ivi, nn. 32-38, pp. 96-103. []
  89. AGL f. XIII, c. 563, 18 giugno 1748. []
  90. AGL, Carteggio di Carlo Ginori, f. XIII, c. 693, 29 dicembre 1747, da Firenze a Livorno. []
  91. Erudito, scienziato e sperimentatore il Saint-Laurent era in stretto contatto con l’ambiente incisorio del tempo. Nel 1747 aveva pubblicato un’accurata descrizione di un cammeo con il ritratto della famiglia di Maria Teresa d’Austria eseguito da Louis Siries (J. de Saint Laurent, Description et explication d’un camée de Lapis-Lazuli fait en derniere lieu par Mr. Louis Siries Artiste françois, Orfevre du Roi de France, et emploïé dans la Galerie de Florence. Ou lettres de deux amis sur diverses productions de l’art, Avec des Notes curieuses & intéressantes. On a joint à la fine du livre la description d’un camée en onyce travaillè fort singulierement. Le tout avec des Figures de très-bonne main, Firenze 1747), per uscire, pochi anni dopo, nel 1751, con un’altro saggio in cui egli affrontava il tema della fortuna che certe pietre incontrarono e la relazione che queste instaurarono con i luoghi in cui vennero ritrovate (Idem, “Dissertazione sopra le Pietre Preziose degli Antichi, e sopra il modo con quelle furono lavorate,” in ” Saggi, Dissertazioni dell’Accademia di Cortona,” voll. V, VI, 1751). Nel 1746, inoltre, aveva dato alle stampe francesi il catalogo della dattiloteca del conte Baillou (Description abregée du fameux Cabinet de M. Le Chevalier de Baillou pour servir à l’historie naturale des pierres précieuses, métaux minéeraux et autres fossiles, Luques 1746). []
  92. Ovvero la Description et explication d’un camée de lapis-lazuli (supra), che era in sostanza una apologia del Sires stesso, pubblicata in quel medesimo anno. []
  93. Il Duval scrisse più di una missiva sull’argomento al Ginori (ad es. AGL XIII, 3, F. 8, f. 30). []
  94. Supra, nota 301. []
  95. AGL Carteggio di Carlo Ginori, f. XII, 4/ 5, c. 29, 29 aprile 1749. Sullo stesso tenore anche altre missive per le quali si rimanda all’appendice documentaria nn. XIV, XV (AGL f. XII, c. 705, 25 aprile 1749; AGL f. XII, c. 707, 28 aprile 1749). []
  96. Si veda per questo G. PELLI BENCIVENNI, BNCF NA, 1050, Efemeridi, s. I, I, 19.IX.1759, cc. 116-117 (pubblicato in M. Filetti Mazza, La Fortuna della Glittica nella Toscana Mediceo-Lorenese e Storia del Discorso sopra le Gemme Intagliate di G. Pelli Bencivenni, Firenze 2004, p. 48, nota 72). []
  97. Della presenza di calchi tratti dalle gemme incluse nella collezione del barone Phillip von Stosch si fa menzione anche in un inventario di modelli conservati presso la Fabbrica. Per il documento si veda Alessandro Biancalana, in Pregio e Bellezza 2010, p. 312, n. 169. []
  98. Ibidem. []
  99. Si rimanda per questo a www.memofonte.it (01.I.1751). []
  100. Nel 1760 questi gli commissionò la stesura di una dettagliata relazione sullo stato della Manifattura, in conseguenza della quale fu spinto ad approfondire ulteriormente i propri interessi sulle tecniche ceramiche di riproduzione di cammei e intagli (M. Fileti Mazza 2004, p. 49-50). []
  101. BNCF, NA 1050, Efemeridi, s. I, XXIV, 07.VI.1769, cc. 29-30. []
  102. Si veda per questo supra, nota 15, e ancora a M. Fileti Mazza 2004, p. 49-50. []
  103. Il “Tripoli” era un tipo di terra, noto in due diverse versioni. La migliore era il“Tripoli di Venezia” o di Levante e di Francia”, raro e costoso a Parigi, esso veniva definito ottimo era ottimo per ricavarvi paste vitree colorate più simili agli originali (E. Digiugno 2007-2009, vol. I, p. 78, con note). []
  104. Vedi le immagini supra. []
  105. Ci riferiamo qui ai circa 614 calchi sciolti che costituiscono quella che abbiano definito “seconda sezione”. Come altrove ricordato, questi vennero strappati dalle cassette originarie in un momento indefinito della storia della Manifattura. []
  106. Per lo zolfo, e le notizie sulla gemma, si rimanda a E. Digiugno 2007-2009, cat. XII, 803. []
  107. Nei magazzini del Museo delle Porcellane di Doccia è compreso un certo numero di calchi in gesso di forma rotonda e dimensioni considerevoli, tratti da medaglie raffiguranti Maria Teresa d’Austria coniate nelle diverse occasioni []
  108. “Nota di varie Pietre dure Greggie, e Lavorate, Cammei, Pietre intagliate, Bassi rilievi d’avorio e di bronzo dell’eredità del fu Ill.mo e Clariss.mo Sig.e e Senatore Lorenzo Ginori stimate p[er] vendersi da me infratt. Luigi Siries” (AGL, f.  29, c. 14). []