Giovanni Boraccesi

g.boraccesi@libero.it

Una sinfonia di argenti nell’isola di  Tinos: le chiese di Komi, Tarambàdos e Volax

DOI: 10.7431/RIV15102017

Gli argenti sacri qui studiati sono stati rinvenuti nelle chiese cattoliche di Komi, di Tarambados e di Volax, tre villaggi dell’isola greca di Tinos; la loro consistenza va a infoltire il già nutrito numero di simili reperti fin qui censiti nel territorio dell’arcidiocesi di Naxos-Andros-Tinos-Mikonos1. Come già rilevato altrove, nessuna informazione archivistica è emersa sulla genesi di tali opere.

Il piccolo villaggio di Komi si caratterizza per essere sede di due chiese dedicate rispettivamente alla Santa Vergine e a San Giovanni Battista.

Gli argenti di pertinenza della chiesa della Santa Vergine, quasi tutti di produzione parigina della prima metà del XIX secolo, si distinguono in buona parte per essere stati donati dai fratelli Mugetti, una famiglia cattolica di Costantinopoli e di Smirne (come mi suggerisce padre Marco Foscolo che ringrazio).

Il Turibolo (Fig. 1) è, come ripetutamente detto in altre occasioni, un interessante documento della diffusione di argenti francesi in Grecia. Fin dai primi decenni dell’Ottocento, infatti, col consolidarsi della libertà di questa nazione dopo il lungo dominio turco, le opere francesi inondano le cattedrali, le chiese parrocchiali e quelle di campagna, anche in ragione del fatto che qui si trasferiscono taluni ordini religiosi d’oltralpe.

Il turibolo in argomento fu confezionato nella Parigi del primo Ottocento, come attesta il punzone con la Testa di Cerere e quello, forse, con la Testa di Socrate, entrambi in uso dal 16 agosto 1819 al 9 maggio 1838. Il terzo punzone è contraddistinto dalle lettere MJ in campo rettangolare; esso va riconosciuto, come mi riferisce Anne Dion conservatrice del Museo del Louvre, in quello personale di Mutius-Scaevol Joly. La tipologia e i decori di gusto vegetale che contraddistinguono il manufatto in esame si attengono a quelli largamente usati nei laboratori orafi francesi di questo periodo. Al riguardo, un confronto è istituibile con il più tardo turibolo della chiesa della Trasfigurazione a Karkados, eseguito tra il 1865 e il 1870 dall’atelier di Martin & Lebas2.

La successiva Pisside (Fig. 2) presenta un piede caratterizzato da motivi vegetali e simboli eucaristici inframezzati da tre medaglioni con le effigi delle Virtù Teologali; sulla coppa, invece, sono raffigurate le teste della Madonna, di San Giuseppe e di Gesù. Sull’orlo del piede è incisa un’iscrizione con il nome dell’offerente: Obblazione di Carlo Mugetti. In virtù della data e dell’iscrizione riportata sul successivo calice, un dono di due membri della famiglia Mugetti, si può ragionevolmente fissare al 1843 la realizzazione della pisside in argomento.

I punzoni qui rilevati sono due: quello di garanzia con la testa di Minerva, in uso dal 9 maggio 1838 fino al 1919, e l’altro spettante a un probabile argentiere parigino, contraddistinto dalle lettere RA (Luois-Nicolas Alban Roquelin?)3, inserite in una losanga e divise tra loro da un simbolo non meglio identificato. La tipologia e i decori che caratterizzano la pisside in esame, e in generale di gran parte degli argenti francesi del XIX secolo da me sinora rintracciati in Grecia, furono spesso rubricati, con qualche minima variante, dai numerosi ateliers parigini, dunque in linea con la moda imperante. A voler rimanere nella nostra isola cicladica, confronti in tal senso si possono instaurare con i già esaminati esemplari di Smardakito e di Karkados4.

Anche la committenza del successivo Ostensorio (Fig. 3) vide coinvolto Carlo Mugetti, come si evince dall’iscrizione incisa: Obblazione di Carlo Mugetti. Il manufatto si sviluppa su una base trapezoidale sostenuta da quattro volute fitomorfe; com’è consuetudine per gli ostensori francesi di quest’epoca, la facciata principale si arricchisce di una placchetta raffigurante l’Agnello accovacciato sul libro con i sette sigilli. Il fusto ha un nodo a vaso dal quale aggettano testine di cherubini; dalla teca circolare, perimetrata da nuvole e da angeli, si diparte una fitta raggiera sormontata da una croce mentre in basso compaiono i simboli eucaristici dell’uva e del grano.

Sebbene privo del punzone dell’artefice – è impresso solo quello di garanzia con la testa di Minerva – e in virtù del fatto che dietro questo dono v’è lo stesso committente della precedente pisside, tutto lascia supporre che anche quest’opera sia da ricondurre alla mano dell’ignoto argentiere parigino siglato RA (Luois-Nicolas Alban Roquelin?). Nelle località finora investigate della diocesi di Tinos non mancano esemplari simili: ad Agapi, a Kechros e a Naxos.

Lo stesso punzone RA è impresso su un Calice (Fig. 4) in argento dorato (vermeil), anche questo offerto dalla famiglia Mugetti, come riferisce l’iscrizione sull’orlo del piede: OBBLAZIONE ALLA SANTISSIMA VERGINE/FRATELLI MUGETTI 1843. I motivi decorativi sbalzati sul nostro calice, e in generale anche sulle pissidi, furono largamente utilizzati nella Francia del XIX secolo: elementi vegetali frammisti ai simboli del grano, dell’uva e delle canne d’acqua. Questi stessi elementi tornano a decorare il sottocoppa, qui però intervallati da tre medaglioni con le Virtù Teologali. Analoghi esemplari si sono rinvenuti nella cattedrale di Naxos5 e negli edifici di Tinos6, in particolare nel palazzo vescovile e nelle chiese dei villaggi di Agapi, Potamia e Volax (vedi oltre).

Di manifattura genuinamente turca è, invece, una Lampada pensile (Fig. 5) databile al medio Ottocento, una delle tante da me rinvenute a Tinos e in altre isole dell’Egeo. Gli esuberanti motivi decorativi, prevalentemente di natura fitomorfa, sono quelli che generalmente contraddistinguono questo genere di arredo liturgico.

Per la qualità della manifattura e per l’alta perizia tecnica, particolare rilievo riveste un Calice (Fig. 6) in argento fuso, di per sé il pezzo più antico rinvenuto nella chiesa di San Giovanni Battista sempre a Komi. Qui pervenne nel 1625 per volontà di monsignor Nicolò Righi (1619-1653), all’epoca vescovo di Tinos e Mikonos, come attesta l’iscrizione sotto il piede: NICOLAUS RIGUS EP.S TINEN ET MICONEN A MDCXXV.

Un fitto ed elegantissimo decoro a motivi vegetali inframmezzato a testine di cherubini investe l’intero corpo del manufatto: la base circolare, il fusto con nodo ovoidale e il sottocoppa traforato. La consunzione del punzone, di forma circolare (leone in moleca?), non permette di acquisire dati certi sulla sua genesi, esso tuttavia riprende una tipologia diffusa in area veneziana. Si confronti, per citare solo due esempi, il calice (1609) del duomo di Pordenone7 e quello della sacrestia della basilica di Sant’Antonio a Padova8. Per rimanere nell’isola di Tinos, un calice stilisticamente prossimo è quello del Museo di Xinara, esposto nella mostra del 20109.

La corrente ottocentesca è qui rappresentata da tre reperti di produzione eterogenea. Il primo è un Ostensorio (Fig. 7), contraddistinto da una base circolare decorata da una larga fascia di baccellature oblique; nella parte più centrale della superficie metallica sono incise delle foglie appuntite e frastagliate. Il movimentato fusto presenta un nodo a vaso con tre teste di angeli. La sfarzosa raggiera è composta di una teca circolare bordata da perline, da raggi lanciformi e da false pietre preziose, che impreziosiscono anche la crocetta apicale. L’ostensorio in esame, ispirato a prodotti occidentali, potrebbe essere opera di un argentiere turco o greco a servizio delle tante comunità cristiane (cattoliche e ortodosse) di quest’area della Grecia e di quelle presenti nelle città turche di Costantinopoli e di Smirne.

Sul piano puramente stilistico assegnerei il Turibolo (Fig. 8), per me databile alla metà del XIX, a una manifattura turca, in particolare a un argentiere attivo a Costantinopoli o a Smirne. Nella produzione ormai seriale di tali reperti, rinvenuti in maniera considerevole a Tinos e nelle altre isole dell’Egeo già sotto il dominio dell’impero ottomano, un confronto è istituibile, per esempio, con il turibolo della chiesa del Carmine a Potamia10 e con l’altro di San Michele a Tarambados (vedi più innanzi).

Improntato a un gusto storicistico è il successivo Calice (Fig. 9), confezionato nella lontana Polonia. La base circolare e gradinata presenta un’ampia fascia decorata da foglie di vite e grappoli d’uva. Il fusto, piuttosto elegante, è sovrastato dalla coppa con il sottocoppa traforato e decorato da foglie e spighe di grano.

Il punzone qui impresso, FRAGET / WARSZAWIE accompagnato dalla scritta PLATER / 2, ci dice che il manufatto fu realizzato attorno al 1896 dalla nota fabbrica Fraget di Varsavia, lì fondata nel 1824 dai fratelli francesi Alphonse e Joseph Fraget11. A questo punzone è affiancato quello con l’Aquila bicipite, di pertinenza dell’impero Russo che a quell’epoca dominava la Polonia. Se non direttamente dalla capitale polacca, il calice potrebbe anche essere stato acquistato in uno dei tanti negozi di articoli religiosi presenti a Roma e da qui, poi, giunto nella chiesa di San Giovanni Battista.

L’analisi degli argenti della chiesa di San Michele a Tarambados inizia con un ragguardevole Calice (Fig. 10) costituito da una base e da un fusto in rame fuso. Qui prevale un’ornamentazione di gusto naturalistico da cui non si sottrae il sottocoppa in argento, nello specifico caratterizzato dall’accostamento di larghe foglie di acanto.

Tale modello di calice prese per lo più il sopravvento nell’Italia centrale, in particolare nei laboratori orafi della Toscana e dello Stato Pontificio. Proprio a un artista di Roma assegnerei il manufatto in esame che va datato alla seconda metà del XVII secolo. A sostegno di questa ipotesi, confronti si possono istituire con il calice del santuario della Madonna della Misericordia a Macerata12 e con quello della chiesa di San Bartolomeo a San Bartolomeo in Galdo (BN)13. Si apparenta a questa morfologia della base e del fusto anche la pisside della cattedrale di Naxos, da me assegnata a una manifattura romana14.

Del 1776, come da data incisa, è una Croce astile (Fig. 11), il cui rinvenimento va a infoltire il già cospicuo gruppo di esemplari simili finora rintracciati sull’isola cicladica. Il fondo della croce è decorato da foglie sinuose e accartocciate mentre il suo bordo era in origine percorso da una serie di motivi vegetali a giorno (ne restano pochi elementi). Sul recto, al centro, è il Cristo in argento fuso; in alto è rappresentato il Padre Eterno; a sinistra, la Vergine; a destra, San Giovanni Evangelista; in basso, la Maddalena. Sul verso, al centro, trovava posto una perduta figura (una Madonna?), mentre le formelle delle terminazioni accolgono ancora gli Evangelisti: in alto, San Giovanni; a sinistra, San Marco; a destra, San Matteo; in basso, San Luca. La croce è infilata in un sostegno (macolla), caratterizzato dall’alternanza di parti concave e convesse decorate da variegati motivi vegetali; elementi fogliacei incisi avvolgono anche la superficie dell’asta tubolare.

Per una palese ingenuità nella trattazione delle figure menzionate, la croce di Tarambados, priva di punzoni, pur rifacendosi a modelli aulici largamente diffusi a Venezia e nei territori controllati dalla Serenissima, è probabilmente opera di un modesto argentiere veneziano, lo lo stesso che licenziò quella gemella e pressoché coeva della chiesa della Trasfigurazione a Koumaros15.

Pressappoco coeva o di poco oltre è una Pisside (Fig. 12) con base e fusto in bronzo; il piede è decorato da ovoli e da foglie. Il sottocoppa, costituito da un serto di lunghe foglie d’acanto, è stato malamente rimontato all’ingiù, giacché la sua consueta superficie concava è destinata ad accogliere la sovrastante coppa argentea. Essa è a sua volta provvista di un coperchio bombato con croce sommitale, distintamente decorato a motivi di ovoli e foglie. Al di sotto del piede è incisa un’iscrizione che ci ragguaglia sul fatto che tale opera sia dono: SAG(R)A CONG(REGAZION)E PROPAG(AND)A FIDE, come si sa con sede a Roma.

Talune analogie mi portano ad accostare il nostro esemplare con le due Pissidi conservate nella chiesa di San Lorenzo in Lucina16.

Una Coperta di immagine sacra (Fig. 13), nello specifico quella della perduta icona della Madonna col Bambino (Odegitria), è conservata su una parete della sagrestia della chiesa San Michele. Si trattava di una copia della Madonna di Vryssi, immagine assai cara alla comunità cattolica di Tinos, il cui santuario era alle dipendenze della parrocchia di Tarambados. Realizzata da C. Poli all’inizio del XIX secolo – come mi suggerisce padre Marco Foscolo17 –, riproduce a sbalzo il mezzobusto della menzionata figura mariana, secondo il tipico gusto bizantino; la lamina argentea, decorata da sontuose vesti a fiorami e da elementi naturalistici, è ritagliata nel mezzo a mostrare i volti della sottostante Madonna col Bambino. Alcune mancanze s’individuano lungo i bordi perimetrali della coperta.

L’oggetto va probabilmente assegnato a un argentiere greco o turco dei primi decenni del XIX secolo attivo a Smirne o a Costantinopoli.

La successiva Pisside (Fig. 14) presenta una base circolare e gradinata bordata di due fasce: la prima a perline, la seconda a treccia. Elegantissimo è il nodo del fusto, con la parte superiore decorata da minute foglie lanceolate e da una treccina. Un motivo a palmette impreziosisce il bordo della coppa su cui si adagia il semplice coperchio, forse in sostituzione di quello originale, sovrastato da sfera e da crocetta apicale. La fattura di quest’arredo liturgico è in sostanza assai gradevole e per di più aggiornato allo stile neoclassico di quell’epoca. L’autore è forse un argentiere di Roma che lo realizzò nei primi decenni del XIX secolo.

Sul piano stilistico, a una manifattura turca o greca andrà probabilmente ascritta l’esecuzione di un Calice (Fig. 15) di linea molto semplice e pressoché privo di decori, ad eccezione del sottocoppa in argento dorato con un bel lavoro a sbalzo di cornucopie, alquanto insolite, frammiste a volute e serti fogliacei. Il manufatto è databile alla prima metà del XIX secolo.

I segni dell’influenza ottomana si ravvisano ancora in un Turibolo (Fig. 16), uno dei tanti da me rinvenuti sull’isola (Kalloni, Komi, Potamia, Steni). Curatissimi, come sempre, sono i decori a baccelli e, soprattutto, a motivi vegetali sbalzati e incisi sul braciere e sul coperchio traforato con crocetta sommitale. Il manufatto va datato alla prima metà del XIX secolo e assegnato a un argentiere attivo a Costantinopoli o a Smirne, entrambi fiorenti centri dell’impero ottomano.

L’ultima opera esaminata in questa chiesa di Tarambados riguarda una Coppia di candelieri (Fig. 17) di gusto storicistico, dunque cronologicamente situabile tra la fine del XIX e gli inizi del XX secolo. Motivi naturalistici connotano in particolare la base mistilinea, mentre più sobri sono quelli del fusto e del bocciolo.

Quattro differenti punzoni sono tra loro affiancati e impressi sull’orlo: un cavallo andante, una croce greca inscritta in un ottagono, la sigla MB, la sigla &S (forse pertinenti a una manifattura inglese?).

Nel suggestivo scenario “di rocce lunari” della campagna di Volax, un autentico capriccio della natura, si erge la chiesa della Natività di Maria, al cui interno si conserva un interessante nucleo di preziose suppellettili.

Analizzando, negli anni, gli argenti delle comunità cattoliche di Tinos, di Naxos e di Corfù, ho più volte fatto cenno al lungo dominio della Serenissima su alcune aree della Grecia, in particolare le isole Ionie ed Egee e qualche città rivierasca di terraferma. A questa felice congiuntura storico-artistica appartiene un discreto Ostensorio (Fig. 18) in bronzo e argento dorato. Pur privo di punzoni, esso va indiscutibilmente assegnato a un laboratorio orafo di Venezia della prima metà del XVII secolo.

La base circolare e gradinata, come pure il fusto con nodo ovale, sono interessato da un minuzioso e raffinato decoro fitomorfo di gusto tardorinascimentale. La raggiera, con un’alternanza di raggi lanciformi e fiammeggianti, ha la teca circolare circondata da una fascia di foglie di quercia. Il manufatto è assimilabile all’ostensorio della chiesa di Chatzirados18.

L’origine di una ragguardevole Pisside (Fig. 19) di fine fattura va indiscutibilmente ricondotta all’ambito romano, confermando così, ancora una volta, la particolare diffusione nelle sedi vescovili cattoliche di Grecia di molti manufatti confezionati nell’Urbe.

L’oggetto, databile alla seconda metà del XVIII secolo, è un autentico esempio del rococò romano. La base mistilinea è scompartita da costoloni che delimitano una superficie sovraccaricata di volute e di motivi vegetali includenti alcuni simboli della Passione: i chiodi, i dadi e la veste. Il movimentato nodo del fusto è arricchito da tre raffigurazioni cristologiche: l’Agnello posato sul libro dei sette sigilli, il Mandylion e il Pellicano. Gli elementi ornativi già visti nella base sono replicati anche nel sottocoppa e nel coperchio sormontato da crocetta.

La pisside in esame è paragonabile a quella conservata nella chiesa di San Nicola del capoluogo isolano19 e all’altra realizzata da Giovanni Battista Sabatini per la chiesa di San Bartolomeo all’isola Tiberina a Roma20.

Nel campo dell’arredo sacro finora ispezionato a Tinos e in altre comunità cattoliche di Grecia (Naxos, Corfù, Rodi, Volos), un oggetto del tutto inconsueto e unico del suo genere è rappresentato da un Reliquiario a dittico polimaterico (Fig. 20). La custodia in ottone è costituita da due valve centinate e incernierate nel mezzo; sulle superfici esterne sono incisi dei motivi vegetali che contornano, da un lato, il monogramma della Vergine (AM) e, dall’altro, il trigramma di Cristo (IHS). Nella parte interna del contenitore, al di là di un vetro, sono sistemati una serie di ricettacoli con le reliquie di diversi santi, che a loro volta contornano, a sinistra, il Crocifisso (oggi distaccato e caduto in basso) e la sottostante Pietà (forse entrambi in avorio o in osso), a destra, l’Agnus Dei, di forma ovale e realizzato in cera. Attorno all’Agnello eucaristico gira un’iscrizione poco leggibile (Ecce Agnus Dei qui tollit peccata mundi?); altrettanto illeggibile quella posta sotto il libro che sorregge l’Agnello.

Nel mondo cattolico, gli Agnus Dei «erano confezionati dai cistercensi di S. Croce in Roma con i resti del cero pasquale delle basiliche romane e con i ceri offerti al papa il giorno della Candelora (2 febbraio), festività dedicata alla benedizione delle candele»21. A mio parere, il manufatto in esame va datato al XVIII secolo.

La Croce astile (Fig. 21) che si presenta, rientra fra le tipologie d’arredo sovente rinvenibili in ogni chiesa di Tinos. Qui l’argentiere si rese interprete fedele di un modello, nel nostro caso di gusto rococò, imperante nella città di Venezia e nei suoi domini di Terraferma e d’Oltremare.

L’opera, a suo tempo perimetrata da elementi vegetali a traforo (ne sopravvive un solo esemplare) e da quattro raggi all’incrocio dei bracci (oggi ridotti a due), è del 1798: tale data è incisa sul montante del verso, esattamente sopra l’evangelista Matteo. Nel recto, è presente il Crocifisso e nelle terminazioni il Padre Eterno, in alto; la Vergine, a sinistra; San Giovanni Evangelista, a destra; la Maddalena, in basso. Nel verso compare l’Assunta e nelle terminazioni i quattro Evangelisti. Il nodo ove s’innesta la croce, è di forma movimentata decorata da baccelli lisci e bombati e da elementi naturalistici.

Per certe caratteristiche tipologiche e stilistiche la croce di Volax, probabilmente opera di un argentiere greco o turco attivo a Costantinopoli o a Smirne, può accostarsi a quella di Tarambados (1776) sopra descritta e all’altra della chiesa di Sant’Antonio da Padova di Smardakito22.

Alla cultura romana rinvia pure un Ostensorio (Fig. 22) di chiaro stile neoclassico, la cui tipologia fu largamente adottata a Roma e nello Stato Pontificio. Il reperto è realizzato in bronzo e argento. Tre zampe leonine sostengono la base circolare sulla quale posano le statuine allegoriche della Fede, della Speranza e della Carità. Dal centro s’innalza un plinto di colonna decorato da un bassorilievo con scena sacra e, più in alto, un globo su cui insiste un angelo alato e panneggiato che sostiene la raggiera. La teca è circondata da un nuvolario popolato da coppie di testine di cherubini e, più internamente, da cristalli colorati; il tutto è sovrastato da una crocetta raggiata.

La circolazione di opere romane in questi territori non è una novità, in ragione dei frequenti contatti istituzionali tra la locale sede vescovile e la Curia papale, dei diversi doni pervenuti dalla Congregatio de Propagande Fide e dal fatto che proprio nell’isola di Tinos aveva sede un vice Consolato Pontificio23.

Un esemplare coevo e stilisticamente affine all’ostensorio di Volax, da me assegnato a Vincenzo II Belli, è nella cattedrale di Naxos24. Altri ostensori simili, per fare ancora due esempi, sono conservati a Roma: il primo, nella chiesa di San Giovanni Calibita, opera di Antonio Cappelletti (circa 1815-1838) il secondo, nella chiesa di San Lorenzo in Lucina, opera eseguita nel 1847 da Stefabo II Sciolet25.

Ulteriori tracce di oreficeria francese nell’isola di Tinos si ravvisano in quest’ottocentesco Calice (Fig. 23), purtroppo privo del sottocoppa. La superficie del piede circolare è suddivisa da sezioni triangolari decorate da palmette intervallate dai simboli eucaristici dell’uva, del grano e della croce sul Golgota.

Il calice, tipologicamente affine a molti altri presenti in Francia e in altri paesi d’Europa, è punzonato con il bollo di garanzia della testa di Minerva, valido dal 1838, e con quello della celebre casa dei Fratelli Favier di Lione, in altre parole una losanga che racchiude le lettere F☼F26.

Nella collezione della chiesa di Volax riveste un certo interesse questo Turibolo (Fig. 24) che, assieme a quello già noto di Agapi27, presenta una straordinaria omogeneità stilistica (all’infuori del cupolino traforato), con spunti derivanti da modelli aulici italiani. Entrambi, tuttavia, sono opera di due distinti maestri.

Nonostante la presenza di ben quattro punzoni accostati tra loro, in altre parole una “G” in campo ottagonale, una “a” in campo ottagonale, una testa coronata di uomo barbuto in campo ovale, una testa di uomo con elmo in campo ottagonale, non sono in grado di redimere la loro identificazione e rimane cronologicamente oscura pure la genesi di tale manufatto, la cui cronologia è restringibile entro i primi decenni dell’Ottocento.

Tuttavia, l’opacità che caratterizza la superficie del turibolo in questione e, soprattutto, la raffinata esecuzione degli elementi decorativi (festoni penduli e motivi fitomorfi) si ritrovano su taluni oggetti liturgici coevi prodotti in Grecia o in Turchia: penso in particolare alle due lampade pensili della chiesa di Kalloni e al secchiello per l’acqua benedetta della cattedrale di Naxos, tanto da far pensare di trovarci dinanzi alla produzione di un argentiere occidentale attivo nei domini dell’impero ottomano.

  1. G. Boraccesi, Rapporti tra la Grecia e l’Occidente europeo negli argenti della Cattedrale di Naxos, in «Arte Cristiana», n. 863, marzo-aprile 2011, pp. 131-144; Idem, A Levante di Palermo. Argenti con l’aquila a volo alto nell’isola greca di Tinos, in «OADI», n. 4, dicembre 2011, pp. 60-67 (www.unipa.it/oadi/rivista); Idem, Una sinfonia di argenti nell’isola di Tinos: le chiese di Aetofolia, Kalloni, Karkados, Smardakito e Vrissi, in «OADI», n. 10, 2014 (www.unipa.it/oadi/rivista); Idem, Una sinfonia di argenti nell’isola di Tinos: le chiese di Chatziràdos, Koumàros, Kròkos e Steni, in «OADI», n. 12, dicembre 2015 (www.unipa.it/oadi/rivista); Idem, Una sinfonia di argenti nell’isola di Tinos: la chiesa di San Nicola di Bari a Chora e il Palazzo Vescovile, in «OADI», n. 13, giugno 2016 (www.unipa.it/oadi/rivista); Idem, Una sinfonia di argenti nell’isola di Tinos: le chiese di Agapi, Kerchros e Potamia, in «OADI», n. 14,dicembre 2016 (www.unipa.it/oadi/rivista); Idem, Tα αργυρά του Αγίου Νικολάου της Χώρας Τήνου, in Όρμος ο Γαληνότατος. Η Ενορία Αγίου Νικολάου των Καθολικών Χώρας Τήνου, a cura di Marcos Foscolos, Τήνος 2016, pp. 321-332. []
  2. G. Boraccesi, Una sinfonia di argenti…, 2014. []
  3. C. Arminjon-J. Beaupuis-M. Bilimoff, Dictionnaire des poinçons de fabricants d’ouvrages d’or et d’argent de Paris et de la Seine, t. II, 1838-1875, Paris 1994, p. 324 n. 03586. []
  4. G. Boraccesi, Una sinfonia di argenti…, 2014. []
  5. G. Boraccesi, Rapporti tra la Grecia…, 2011, pp. 140-142. []
  6. Idem, Una sinfonia di argenti…, giugno e dicembre 2016. []
  7. Il Tesoro del Duomo di Pordenone, catalogo della mostra (Pordenone, 13 dicembre 1986-30 gennaio 1987) a cura di G. Ganzer, Pordenone 1987, p. 38. []
  8. C. Rigoni, cat.6, in M. Collareta-G. Mariani Canova-A. M. Spiazzi (a cura di), Basilica del Santo. Le oreficerie, Padova, 1995, p. 195. []
  9. Ι. Γκερέκος, Σκεύη ιερά τω Θεώ ανατεθειμένα, Tήvoς 2010, p. 31. []
  10. G. Boraccesi, Una sinfonia di argenti…, dicembre 2016. []
  11. D.N. Nikogosyan, Marks of European Silver Plate: XII Fraghet, Russia/Poland, in www.ascasonline. Org/windowAGOS99html. []
  12. G. Barucca, Il tesoro del Santuario della Madonna della Misericordia di Macerata, in Sub Tuum P>raesidium. Il Santuario della Madonna della Misericordia a Macerata, Azzano San Paolo 2008, p. 192. []
  13. G. Boraccesi, Gli argenti della sede episcopale di Volturara, in G. Boraccesi –M. Pia Pettinau Vescina, Il Tesoro della Cattedrale di Volturara e della sua ‘Chiesa Badiale’ di San Bartolomeo in Galdo, Foggia 2002, p. 15. []
  14. G. Boraccesi, Rapporti tra la Grecia…, 2011, p. 133: nella relativa didascalia la pisside è erroneamente indicata come di argentiere parigino. []
  15. G. Boraccesi, Una sinfonia di argenti…, giugno 2016. []
  16. A. M. Pedrocchi, Argenti sacri nelle chiese di Roma dal XV al XIX secolo, Roma 2010, pp. 82-83. []
  17. M. Foscolo, La Madonna di Vryssi, storia, leggenda, devozione, Tinos 1981. []
  18. G. Boraccesi, Una sinfonia di argenti…, 2015. []
  19. G. Boraccesi, Una sinfonia di argenti…, giugno 2016. []
  20. A. M. Pedrocchi, Argenti sacri…, 2010, p. 108. []
  21. B. Montevecchi-S. Vasco Rocca, Dizionari terminologici. Suppellettile ecclesiastica, Firenze 1988, pp. 408-409. []
  22. G. Boraccesi, Una sinfonia di argenti…, 2014. []
  23. Όρμος ο Γαληνότατος…, 2016, p. 97. []
  24. G. Boraccesi, Rapporti tra la Grecia…, 2011, pp. 137-139. []
  25. A. M. Pedrocchi, Argenti sacri…, 2010, pp. 137, 140. []
  26. C. Aliquot, Un point de généalogie sur deux orfèvres parisiens du XIXe siècle: les « Favier » orfèvres parisiens de grosserie, in https://insitu.revues.org/6616; M. Chalabi-M. R. Jaze-Charvolin, Poinçons des fabricants d’ouvrages d’or et d’argent-Lyon-1798-1940, Paris 1993, p. 146. []
  27. G. Boraccesi, Una sinfonia di argenti…, dicembre 2016. []