Il Museo Stibbert

di Enrico Colle – direzione@museostibbert.it

DOI: 10.7431/RIV15012017

“Una grande scuola d’insegnamento artistico per le generazioni future” con queste parole Alfredo Lensi, il primo direttore del Museo Stibbert (Fig. 1), dopo la morte del suo fondatore nel 1906, concludeva un articolo, pubblicato sulla rivista Emporium, incentrato sulle ricche collezioni del nuovo museo fiorentino da poco aperto al pubblico1. Nello scritto Lensi metteva giustamente in evidenza lo spirito che aveva animato Stibbert nella creazione delle sue raccolte d’arte e degli ambienti che le avrebbero ospitate e cioè di attuare a Firenze “ciò che l’Inghilterra aveva fatto col Museo di South Kensington e la Germania coi suoi musei d’arte industriale”. E in effetti il museo si presentava ai visitatori e agli studiosi d’inizio secolo come un inesauribile repertorio di opere di pittura, scultura e arte decorativa esposte secondo l’estro fantasioso e accattivante del suo fondatore il quale, mano a mano che acquistava gli oggetti che dovevano incrementare le collezioni, progettava contemporaneamente, insieme ai suoi architetti e decoratori di fiducia, anche la creazione e la decorazione degli spazi che avrebbero dovuto accoglierli.

Il risultato del lavoro di Stibbert è il museo che tutt’ora ammiriamo, ma fino ad oggi non ci era noto con quale criterio il suo fondatore avesse proceduto nella realizzazione degli edifici destinati ad esporre tutti i settori delle raccolte. Se per le esposizioni delle armature le fonti artistiche sono state rese note da Lionello Boccia2, tutto quello che riguarda l’aspetto decorativo e arredativo della casa museo meritava un’indagine più accurata, supportata sia dalla lettura dei documenti conservati nell’archivio di famiglia, sia dal confronto con analoghe esperienze europee e fiorentine poiché durante gli anni trenta Alfredo Lensi modificò in modo sostanziale le sale del museo di cui era divenuto direttore dopo la morte di Stibbert. Lensi infatti, per attuare il suo progetto di far divenire lo Stibbert un museo d’arti decorative in grado di rivaleggiare con quelli del resto d’Europa, privilegiò, secondo il gusto degli anni Trenta, le collezioni d’armature, le opere del Rinascimento e la ricca collezione di arazzi rispetto agli arredi commissionati da Stibbert creando di fatto un “nuovo” museo dove tutta la mobilia ottocentesca fu tolta per lasciare spazio all’esposizione delle armi, parte delle quali disposte entro nuove vetrine, e degli arazzi (Fig. 2). Quest’ultimi vennero tolti dalle sale per le quali Stibbert li aveva acquistati e appositamente adattati per essere restaurati e reintegrati delle parti mancanti al fine di esporli nel grande salone da ballo (Fig. 3) al posto dei dipinti e di parte del monumentale camino intagliato dal Gajani smontato e trasferito nei depositi insieme a gran parte della mobilia3. Era quello che stava succedendo in quegli stessi anni nelle ex regge italiane il cui fastoso tono umbertino fu progressivamente cancellato a tutto favore di una più asettica esposizione degli arredi provenienti dal collezionismo delle varie dinastie che si avvicendarono nel governo degli Stati della penisola.

Il Museo Stibbert è uno dei luoghi più affascinanti e inaspettati per tutti coloro i quali volessero affrontare il tema del collezionismo italiano di fine Ottocento e, insieme approfondire lo studio dei costumi civili e militari europei4.

Nato nel 1838 da un alto ufficiale inglese e da madre fiorentina5, erede di una grande fortuna, Frederick Stibbert (Fig. 4) si dedicò a studiare e raccogliere gli oggetti significativi del divenire storico, primi fra tutti le armi. Il clima culturale di Firenze, tutto rivolto alla celebrazione dei fasti antichi e in cui era attiva una numerosa colonia inglese, fu particolarmente consono agli interessi di Frederick, alle cui rievocazioni storiche non mancò mai di partecipare. Ma i suoi interessi andarono ben oltre i limiti della cultura cittadina. Affascinato da civiltà diverse e lontane, dal Medio Oriente all’allora misterioso Giappone, mise a confronto i nostri con i loro diversi modi di combattere e di vivere, con intuizioni moderne e tuttora valide. Agenti che operavano in tutto il mondo gli permisero di scegliere gli oggetti più belli, curiosi o interessanti e uno stuolo di artigiani fiorentini al suo servizio fu incaricato di restaurare e ridare vita ai pezzi più significativi radunando così una collezione che, alla sua morte, nel 1906, fu valutata comprensivamente di ben 36.000 pezzi, già disposti secondo percorsi didattici ed evocativi nella casa da lui disegnata e strutturata per questo scopo6.

La villa che Stibbert possedeva alle pendici dei colli fiorentini fu infatti da lui stesso trasformata in parte secondo il gusto neogotico allora in auge in Toscana ed in parte seguendo i vari revival stilistici presenti in gran parte dell’architettura e della decorazione d’interni della seconda metà dell’Ottocento. Le decorazioni ispirate al Medioevo servirono così da scenografico fondale alla collezione delle armi e armature europee (Fig. 5) come quelle ricavate dagli ornati moreschi furono utilizzate per ambientare la collezione Islamica (Fig. 6). Non meno suggestiva si presenta la sezione dedicata al Giappone (Fig. 7), con i suoi guerrieri colorati e fantastici e l’estrema eleganza delle vesti e degli arredi. Oltre alle armature, armi e bardature di cavalli, la collezione comprende bronzi, costumi, lacche tanto da farne, per la sua ricchezza e qualità dei pezzi, una delle più importanti al mondo fuori dal Giappone7.

Stibbert infatti amò soprattutto collezionare ciò che era attinente alla persona e ne formava l’immagine come appunto le armature e le vesti8. Proprio a tal fine egli acquistò, oltre ad una cospicua raccolta di abiti antichi (Fig. 8), importanti dipinti che meglio illustrassero la storia del costume e delle armi. Anche gli arazzi (Fig. 9) che decorano le pareti della villa furono scelti con lo stesso criterio illustrativo, mentre la raccolta di cuoi seicenteschi impressi e dipinti, che Stibbert usò per abbellire le pareti della sua casa museo (Fig. 10), i mobili, le maioliche, le stoffe, i parati sacri ed infine i libri9 possono essere intesi come una sintesi del suo intenso lavoro collezionistico di tutta una vita.

Se quindi la cultura positivistica della prima metà del secolo scorso aveva ribaltato le premesse storiografiche ed artistiche di Stibbert a tutto favore dell’esposizione di una selezionata tipologia di opere d’arte, a partire dagli anni Settanta si è proceduto al riallestimento e al restauro delle sale seguendo lo stesso criterio allestitivo con cui furono rimontati i fastosi ambienti di Palazzo Pitti e cioè ricorrendo alle indicazioni inventariali contenute nei documenti del ricco archivio Stibbert.

Come era stato per  Pitti, anche per il museo Stibbert ci si trovava di fronte ad una realtà unica in Italia dove arredi ed oggetti d’arte si erano conservati di pari passo con la documentazione d’archivio recentemente riordinato da  Simona Di Marco e Martina Becattini la quale ha analizzato le fonti documentarie chiarendo così, in un volume dedicato alle vicende architettoniche e decorative della villa10, la cronologia di tutti gli interventi che portarono l’antica costruzione della famiglia Mezzeri, inizialmente acquistata dalla madre di Stibbert per trascorrevi la villeggiatura (Fig. 11), all’attuale Museo. Non solo, la studiosa è riuscita, grazie ad una attenta interpretazione dei documenti, anche a spiegare certe originali scelte decorative e arredative che a noi, a più di in secolo di distanza dalla loro creazione, risultavano di difficile comprensione.

Come si è detto, durante tutta la prima metà del secolo scorso Alfredo Lensi, che nella sua biografia dice di aver trovato il Museo in un assoluto “disordine” – e cioè con quella particolare fisionomia da wunderkammern ottocentesca raggiunta da Stibbert in lunghi anni di studio -, portò avanti un riordino delle collezioni a tutto discapito degli arredi ottocenteschi che vennero in gran parte collocati nei depositi o spostati in ambienti diversi da quelli per i quali Stibbert li aveva pensati. Sono, all’incirca gli stessi anni in cui le sale di Palazzo Pitti e delle ex ville reali, dopo essere state donate dai Savoia allo Stato italiano, furono depredate della loro mobilia per essere trasportata a Roma nei ministeri degli Interni e degli Esteri per poi venire smistata presso ambasciate e prefetture o arredare le sedi di altri ministeri romani. Così svuotati – contravvenendo ad una precisa volontà reale che tali ambienti fossero mantenuti intatti e destinati come sede di musei e raccolte d’arte, in modo che conservassero la loro “nobiltà e dignità”, creando allo stesso tempo, con gli oggetti d’arte in essi conservati, nuovi istituti “in specie di arte applicata alle industrie tanto richiesti dai bisogni del nostro paese”11 – i maestosi interni delle regge italiane servirono per decenni come sede espositiva.

Anche il Museo Stibbert seguì un destino analogo a tante residenze improntate, come gli ex palazzi reali italiani, al gusto ottocentesco messo al bando dalla critica durante la prima metà del secolo scorso e per lunghi anni, sprovvisto di illuminazione e di sistemi d’allarme, fu aperto parzialmente al pubblico e la “grande scuola d’insegnamento artistico” vagheggiata da Lensi non ebbe mai vera vita. Solo a partire da 1977, con la direzione di Lionello Boccia – succeduto alla amministrazione dell’architetto Alfredo Cirri, in carica dal 1952, anno della morte di Lensi – il Museo fu riportato al centro degli interessi culturali cittadini. Boccia infatti lo dotò di un moderno sistema di illuminazione e di allarme, di un nuovo percorso museale, più rispettoso delle volontà testamentarie di Stibbert, e delle aspirazioni di un gruppo di studiosi che, anche a livello internazionale, iniziarono a catalogare e studiare le opere d’arte ponendo così le basi per trasformare il Museo in quel centro di studi che era stato nelle originarie intenzioni di Stibbert. Tale linea è stata portata avanti in anni più recenti da Cristina Piacenti, direttrice dal 1996 fino al 2012, la quale avviò una cospicua campagna di restauri ai numerosi edifici che costituiscono l’attuale complesso museale. Ciò comportò un ulteriore approfondimento degli studi sulle strutture architettoniche e sulla originaria disposizione degli arredi delle sale. Anno dopo anno gli interni del Museo stanno infatti riprendendo, come è accaduto negli Appartamenti reali di Pitti, la loro fisionomia restituendo un’immagine del gusto internazionale del suo fondatore finora falsata da arbitrarie interpretazioni.

Così oggi per chi volesse studiare l’evoluzione del gusto per la decorazione d’interni a Firenze durante la seconda metà dell’Ottocento, sia le residenze di corte toscane che il Museo Stibbert, entrambi riallestiti secondo rigorose indicazioni inventariali, offrono ora una inestimabile fonte di notizie e ci restituiscono una visione corretta di quella cosmopolita cultura tipica delle grandi capitali della seconda metà dell’Ottocento, dove innovazione e storia passata convivevano in assoluta armonia.

  1. Cfr. A. Lensi, Il Museo Stibbert a Firenze, in ‘Emporium’, XXXV, n. 208, p. 256. []
  2. Cfr. L.G. Boccia, Un “caso museale”, lo Stibbert, in ‘L’ippogrifo’, aprile 1988, I, pp. 99-107 e dello stesso autore La Cavalcata. Il Salone e i Guerrieri europei, Firenze, 1995. Altre informazioni bibliografiche si trovano in E. Colle, L’armeria Stibbert. Fonti storiche e iconografiche per il suo allestimento, in Cavalieri Mamelucchi e Samurai, catalogo della mostra, Venaria Reale, 2014, pp. 11 – 17. []
  3. A proposito del riallestimento del Salone delle Feste si vedano i contributi di vari autori raccolti in ‘Museo Stibbert – Firenze’, 10, 2006. []
  4. Nella casa-museo progettata da Frederick Stibbert stesso, sono raccolte e disposte secondo un allestimento emozionante e ricco di scena, le eccezionali collezioni che egli ha lasciato alla sua morte alla città: in particolare la famosa collezione di armi, ma anche oggetti d’arte e di vita quotidiana della civiltà europea, islamica ed estremo orientale, in particolare giapponese.  Essa è la testimonianza del gusto e dell’intelligenza di un individuo e insieme rappresenta la sintesi del più alti valori culturali del secolo scorso: interesse per il passato, esaltazione dell’arte e passione per l’esotico. []
  5. Per una approfondita ricostruzione della vicenda biografica del collezionista si rimanda a S. Di Marco, Frederick Stibbert. Vita di un collezionista, Torino, 2008. []
  6. Dopo il pionieristico catalogo di Alfredo Lensi, Il Museo Stibbert. Catalogo delle sale delle armi europee, la complessa catalogazione delle collezioni del museo fu ripresa agli inizi degli anni Settanta con la pubblicazione dei cataloghi Electa curati da vari specialisti. Attualmente si sta procedendo all’elaborazione di un catalogo digitale che comprenda, suddivise per categorie, tutte le opere d’arte della collezione. []
  7. Cfr. M. Becattini, L’arte giapponese e Frederick Stibbert: un curioso caso di anglo-giapponismo, in Giapponismi italiani tra Otto e Novecento, atti del convegno a cura di V. Farinella e V. Martini, Pisa, 2015, pp. 33 – 46. []
  8. Tra i pezzi di abbigliamento se ne contano alcuni addirittura eccezionali, come indumenti e accessori del Cinquecento e l’abito completo indossato da Napoleone per l’incoronazione a re d’Italia. Sulla formazione della collezione di costumi civili si rimanda a L’abito per il corpo il corpo per l’abito, catalogo della mostra, Firenze, 1998. []
  9. La biblioteca di Stibbert è certo, per i soggetti di armi e costumi, una delle più vaste del tempo, e servì al collezionista  per redigere il suo volume intitolato Storia del Costume civile e militare, edito postumo nel 1914.  La biblioteca è stata oggetto di una approfondita catalogazione condotta da L. Desideri e S. Di Marco, La libreria di  Frederick Stibbert, Firenze-Milano, 1992. []
  10. Cfr. M. Becattini, Villa Stibbert. Decorazione di interni e architettura, Livorno, 2014. []
  11. Cfr. E. Colle, Gli inventari delle corti. Le guardarobe reali in Italia dal XVI al XX secolo, Firenze, 2004. []