Giovanni Boraccesi

g.boraccesi@libero.it

Le oreficerie della Cattedrale di San Giacomo di Corfù fra Quattro e Seicento

DOI: 10.7431/RIV06032012

Molteplici e variati sono gli aspetti che attraggono un visitatore nella bella isola di Corfù (il capoluogo è nella lista del patrimonio dell’UNESCO), eppure vi è un elemento d’ordine devozionale e artistico di primissima qualità che non ha sinora avuto la considerazione e l’apprezzamento che invece meriterebbe. Mi riferisco alle oreficerie e agli argenti della cattedrale cattolica di San Giacomo apostolo (Fig. 1).

L’argomento si inserisce in un programma di più ampio respiro teso ad analizzare le suppellettili preziose conservate nelle chiese latine di Grecia. I primi risultati di questo ambizioso progetto sono stati pubblicati nel 2011 in due distinti articoli1.

Prima di analizzare questo cospicuo patrimonio credo sia opportuno tratteggiare le vicende storico-religiose dell’isola e del sacro tempio, giacché le une e le altre, come vedremo, favorirono l’orientamento dei committenti nella richiesta di tali manufatti.

L’isola di Corfù – la cui ubicazione la rendeva strategicamente importante come scalo primario per i traffici commerciali e logistici con le città dell’Adriatico, con i Balcani e con l’Estremo Oriente, conferendole dunque con una vocazione cosmopolita – dopo essere stata a lungo contesa tra i Normanni, l’Impero di Bisanzio, i Veneziani, i despoti dell’Epiro, gli Svevi e gli Angioini, nel 1386 finì per essere definitivamente occupata dai Veneziani ai quali rimase legata fino al 17972, anno della caduta della Serenissima Repubblica di San Marco. La successiva occupazione politico-militare dei Francesi durò dal 1797 al 1799, quella dei Russo-Turchi dal 1799 al 1807, cui seguirono ancora i Francesi fino al 1814. Nel frattempo la città di Corfù fu prescelta quale capoluogo della Repubblica Settinsulare (Corfù, Paxos, Leucade, Itaca, Cefalonia, Zante e Kithira). L’isola passò poi sotto le forze del protettorato Inglese dal 1814 al 1864, anno in cui fu definitivamente riunita alla Grecia.

La prima cattedrale di Corfù, intitolata ai santi Pietro e Paolo e sede di cattedra vescovile fin dal 1274, fu costruita sull’area dell’attuale Fortezza Vecchia, una cittadella veneziana edificata, dopo l’assedio dei Turchi del 1537, su uno sperone roccioso a picco sul mare (Fig. 2). Proprio la costruzione di questa immensa fortezza – una seconda, la Fortezza Nuova, verrà eretta tra il 1576 e il 1588 dall’altro lato della marina – costrinse gli amministratori della Serenissima a trasferire, nell’agosto del 1632, la cattedrale in un’altra zona della città denominata Borgo o Xòpolis, precisamente nella chiesa di San Giacomo, consacrata il 31 dicembre 1553 dal vescovo Giacomo Cocco (1528-1560); a breve distanza di tempo qui pure si trasferirono le reliquie di sant’Arsenio (1 gennaio 1633)3. Ciò creò le premesse per far divenire quest’area il fulcro politico e religioso, oltre che economico, della città.

A questo punto trasformazioni e ampliamenti della preesistente chiesa di San Giacomo si resero necessari sia per le sue ridotte dimensioni, sia per la nuova e autorevole funzione di cattedrale latina; altri lavori furono intrapresi dopo i ripetuti terremoti che interessarono l’isola e il territorio circostante, come quello verificatosi nel 1658. Un cinquantennio dopo, si pose mano a una radicale ristrutturazione dell’edificio ecclesiastico, che il 23 ottobre 1709 veniva consacrato dal vescovo Augusto Antonio Zacco (1706-1723)4. Un ennesimo terremoto si ebbe il 22 febbraio 1743. Alla luce di tutto ciò, non deve pertanto stupire se nel minuto tessuto edilizio del capoluogo si contano a tutt’oggi una serie di chiese edificate tra il Seicento e il Settecento. All’intensa attività architettonica della cattedrale di Corfù e degli ambienti connessi corrispose una non meno fervida e solerte azione in campo artistico, tra cui l’adozione e il rinnovamento di vasi sacri necessari alla pratica sacramentale e alle celebrazioni connesse alle festività solenni.

La lunga dominazione veneziana, che permeò di sé diverse città greche e le isole – soprattutto quelle ionie di Corfù, di Leucade (già Santa Maura), di Cefalonia e di Zante (dai veneziani denominata “fior di Levante”), ma naturalmente anche di Creta (la Candia dei veneziani) e delle isole dell’Egeo (Naxos, Tinos e Siros) – determinò un’ampia domanda delle produzioni artistiche della città dei Dogi, non ultime le argenterie come hanno evidenziato gli studi di Athanasios Tsitsas e di Stamatios Chondrogiannis per Corfù5, e di chi scrive per Naxos6.

Non si può non fare a meno di rilevare come molti vescovi della Chiesa di Roma in Corfù7, e in altre sedi vescovili della Grecia, furono per la gran parte originari di Venezia o dei territori sottomessi: l’entroterra Veneto e la Dalmazia soprattutto. Proprio per questa ragione, essi stessi dovettero innescare processi culturali e linee di indirizzo unilaterali di non poco conto. Non sarà neppure insignificante rilevare il fatto che la nuova cattedrale di Corfù e l’ex Palazzo Arcivescovile (1632) sorsero sulla stessa piazza ove poi verrà eretta la bella Loggia (1663-1690), oggi Municipio, ossia la sede dei governatori della Serenissima che, facile a immaginarsi, avranno avuto anch’essi, come la folta comunità veneziana insediata nella città, una parte non secondaria nella committenza di argenti di uso domestico e/o di destinazione ecclesiastica.

A tal proposito, penso all’autentico profluvio di lussuosi oggetti (posaterie, brocche, bacili, utensili da parata, candelieri, servizi da toilette, servizi da scrittoio, vasi sacri, gioielli, galanterie, finimenti di abiti, ecc.) che come uno status symbol qualificavano le dimore dell’aristocrazia e della borghesia corfiota (operatori mercantili e marittimi soprattutto), via via acquistati a Venezia dagli argentieri, dagli orafi e dai gioiellieri più alla moda.

Sembra quindi verosimile che oltre alle gerarchie ecclesiastiche, agli alti funzionari della Serenissima, alle casate nobili e ai borghesi locali, attori di questo mecenatismo furono anche, pur se in misura diversa, gli ordini religiosi e le confraternite laicali.

Se appare incontrastato il predominio di argenti veneziani nella cattedrale di Corfù, non mancano tuttavia esemplari di diverse manifatture; fra queste è da segnalare quella dell’omonimo capoluogo isolano, visto che dai dati finora raccolti dovette essere sede, almeno tra la seconda metà del Settecento e il primissimo Ottocento, di una corporazione di orefici e argentieri che adoperò come simbolo di riconoscimento lo stemma municipale della città, ossia il veliero con la sottostante lettera C. I motivi ornamentali della produzione corfiota sembrerebbero mutuati – e non poteva essere diversamente – da quelli in uso a Venezia, ma non mancano citazioni decorative desunte dall’arte dei Balcani e perfino dell’Oriente.

A questo punto mi si consenta una digressione dall’argomento principale, pur restando nel tema. Su quanto già detto dell’argenteria custodita nelle chiese, nei santuari e nei monasteri ortodossi di Corfù, non condivido la proposta di Athanasios Tsitsas sull’origine tedesca del pregevolissimo calice (Fig. 3) conservato nella chiesa di San Spiridione; sulla coppa è incisa la scritta dedicatoria in lingua latina: CALIX P(RO)PRIVS LAVRENTII PLEBANI IN WIEDENBACH FUNDATORIS HVIVS CAPELLE 15198.

La ragione sta nel fatto che il nostro benefattore fu plebano di un villaggio agricolo che da indagini da me condotte risulta essere non in Germania ma in Romania, propriamente in Transilvania. A otto chilometri dalla città di Braşov, infatti, si trova il villaggio di Ghimbav che nel XIII secolo fu popolato, come altri nella zona, da coloni sassoni dell’Ordine teutonico; all’epoca era conosciuto con il nome di Wiedenbach, poi Vidombák sotto la Corona d’Ungheria9. Della cappella cui fa riferimento il calice non c’è più traccia. In ogni caso, il riscontro più interessante che mi preme sottolineare è che il calice di San Spiridione, chissà come finito a Corfù, sotto l’aspetto tipologico e tecnico rivela chiare origini ungheresi, precisamente transilvane. Tale modello venne a collocarsi tra la metà del Quattrocento e il Cinquecento; in tal senso, confronti si possono istituire con il cosiddetto calice di Mathie Literati (circa 1480) custodito nel Tesoro della Cattedrale di Esztergom10 e con l’altro del Museo d’Arte ed Arti Decorative di Zagabria11. In Transilvania, un puntuale termine di confronto si individua con il cosiddetto calice Casper conservato nella chiesa Nera di Braşov12.

A riprova dell’ampia circolazione dei calici ungheresi di età tardogotica, ormai apprezzati in molte parti d’Europa, basterà ricordare quelli registrati in Italia: ad esempio, nel Museo della Basilica di Gandino (Bergamo)13, nel Museo del Duomo di Monza14, nella chiesa di Santa Corona a Vicenza15, nel Tesoro di San Marco a Venezia16 e nella collegiata di Santa Maria della Pieve a San Ginesio (Macerata)17.

Da un altro punto di vista, ma sempre in relazione al tema di cui ci stiamo occupando, interessanti sono le informazioni di alcuni studi critici che hanno evidenziato la presenza di argentieri greci in Italia: qui mi limito a ricordare i nomi dei fratelli Andrea (documentato dal 1546 al 1588) e Antonio Draguleo (documentato dal 1549 al 1555), di Michele Stomati (1530-doc. 1546) e di Antonio de Ghieni (1537-doc. 1553) tutti originari di Corone (l’odierna Koróni) che assieme ad altri concittadini trovarono rifugio a Barletta a seguito dell’occupazione della loro città da parte dei turchi nell’agosto del 150018; un Giorgio Sofiano è per tre anni impiegato come garzone nella bottega orafa di Antonio Pannico di Palermo (23 agosto 1541)19; un Giovanni di Candia, ragionatamente dell’isola di Creta, è anch’esso documentato a Palermo il 13 giugno 154720. Il trasferimento in Occidente di questa comunità di greci fu anche la logica conseguenza del duro colpo attestato all’armata pontificio-veneta e imperiale di Carlo V – a quel tempo agli ordini dell’ammiraglio genovese Andrea Doria – con la nota sconfitta di Préveza del 27 luglio 1538 da parte della flotta del sultano capeggiata da Khair ad Din e che segnerà l’inizio dell’egemonia turca nel Mediterraneo orientale.

Altri nomi di argentieri ellenici si devono aggiungere a quelli ora evidenziati: Giovanni Fakis (a volte anche Faces o Faci), nato a Tinos attorno al 1634, è documentato a Roma tra il 1685 e il 169221; una famiglia di argentieri, i Papadopoli, è protagonista nella Palermo del XVII e del XVIII secolo22. Abbiamo pure notizia di Michele Speranza (Corfù 1757-Trieste 1834), figlio di Spiridione e Diamantina Bonincontro, un pittore di icone ma soprattutto orefice23. Nel 1798 giungeva poi a Trieste l’orefice e gioielliere Giorgio Faccea o Facea (Zante 1776-Trieste doc. 1817), figlio di Alessandro24.

Dopo quest’ampia introduzione, veniamo alla proposizione iniziale. Come già accennato, gli argenti della cattedrale di San Giacomo rappresentano finora la migliore testimonianza della rigogliosa diffusione in Grecia delle maniere artistiche dell’arte orafa veneziana. Di essi, tuttavia, un consistente corpus è estraneo alle vicende dell’edificio religioso in quanto provenienti dalla cattedrale di San Marco di Zante, distrutta dal terremoto del 1953. Altre suppellettili in argento si conservano nelle chiese corfiote della Madonna del Carmine e di San Francesco d’Assisi, ma queste costituiranno l’argomento per una prossima indagine.

Pur nel totale silenzio delle fonti riguardanti gli argenti della cattedrale di Corfù – l’archivio è andato distrutto nei bombardamenti dell’ultima guerra ­– questi in ogni modo non sono che una parte di quelli sopravvissuti agli eventi avversi che funestarono l’isola e l’intero arcipelago nel corso dei secoli: occupazioni straniere, saccheggi dei turchi, terremoti, rifusioni per assecondare i nuovi gusti, razzie antiquariali, ecc.

È opportuno, infine, sottolineare che quasi tutti gli argenti necessitano di un accurato e inderogabile restauro conservativo; in seguito andrebbero sistemati in un auspicabile e adeguato Museo Diocesano – ovviamente assieme ai dipinti, alle sculture, ai paramenti e agli oggetti liturgici in disuso ancora presenti nell’area giurisdizionale della diocesi arcivescovile di Corfù-Cefalonia-Zante – che possa così fornire un’interessante documentazione dell’antica e profonda religiosità cristiana della sua gente e del suo clero.

*  *  *

Dunque la salda tutela della Serenissima Repubblica di Venezia nei confronti di Corfù determinò sul piano culturale una serie di fruttuosi scambi. Se degli arredi della cattedrale di San Giacomo – come anche di San Marco a Zante – sono purtroppo irreperibili quelli relativi alla pittura e alla scultura della prima dominazione veneziana, al contrario, qui sopravvivono quelli dell’oreficeria25.

A cominciare da una croce astile (Fig. 4a e b) in argento, con tracce di doratura, che rappresenta una valida testimonianza dello stile gotico. Sul recto è posto il Crocifisso, in bronzo fuso, mentre le terminazioni accolgono le seguenti figure a sbalzo: del Padre Eterno, in alto; della Vergine, a sinistra; di san Giovanni evangelista, a destra; della Maddalena, in basso. Sulle terminazioni del verso, invece, sono riconoscibili i quattro Evangelisti: san Marco, in alto; san Matteo, a sinistra; san Giovanni, a destra; san Luca, in basso.

Le caratteristiche strutturali della croce in esame – una tipologia che ebbe grande successo nel Trecento – assieme alla plasticità delle figure (non proprio eccelse anche perché deformate da urti) contribuiscono a collocare la manifattura nell’ambito veneziano e a datarla nell’ultimo quarto del secolo XV. Non è neppure da escludere l’ipotesi che questa croce possa essere il lavoro di un orafo autoctono – forse all’epoca attivo nella cerchia delle numerose comunità cattoliche sparse sul territorio greco – contaminato dalle elaborazioni auliche provenienti da Venezia.

Un altro pezzo di pregevole fattura, ma proveniente dalla cattedrale di San Marco di Zante, è riferito a una pisside in argento dorato (Fig. 5). La base, dal profilo mistilineo con lobi a controcurva, presenta una fitta e virtuosistica decorazione di girali che ritroviamo sul collo del piede, sul nodo del fusto e sulla cupola. In due punti equidistanti della base sono presenti due piccoli clipei, oggi vuoti ma che verosimilmente contenevano lo stemma del committente (vedi oltre). Sul collo del piede, di forma conica, si sovrappongono decori eterogenei: girali, pelte e minute foglie frastagliate. Il nodo, a sfera schiacciata, è arricchito da quattro castoni che includono un dischetto metallico con lo stemma non identificato del donatore: tre fasce sovrapposte realizzate a niello, una lega metallica di colore nero comprendente argento, zolfo, rame e spesso anche piombo.

La semplice coppa è provvista di un coperchio decorato con gli stessi motivi della base; sotto la croce apicale si individuano altri tre stemmi del donatore. Il bordo inferiore del coperchio è cinto da un traforo di cuspidi trilobate di chiaro gusto fiammeggiante. Sullo stesso bordo è saldata una cerniera, provvista di chiavistello e di catenella che dall’altra parte del capo è agganciata al nodo del fusto: un modo inconsueto e frutto di un evidente rimaneggiamento, visto che sovente la catenella è trattenuta appena sotto la cerniera.

Sulla data di esecuzione della pisside, non essendoci indicazioni certe, bisognerà far ricorso alla tipologia e agli elementi stilistici. È forte la tentazione di connettere il manufatto alla produzione di un maestro orafo veneziano o dalmata di fine XV secolo o, al più, d’inizio XVI. Aderenze formali e decorative si ravvisano, per esempio, con la pisside del Tesoro della cattedrale di Trogir26, con l’altra del convento dei Minori Osservanti di Dubrovnik27 e con le due della cattedrale di San Trifone di Cattaro28.

Di rilevante interesse è anche una croce da tavolo (Fig. 6), forse in principio una croce astile, già di pertinenza della cattedrale di Zante. Di forma latina e con i terminali gigliati, essa è sostanzialmente liscia ad accezione delle filettature incise lungo il perimetro; la presenza dei fori lasciati da precedenti chiodature è indice di una manipolazione del manufatto avvenuta in epoca imprecisata. Le terminazioni della croce dovevano probabilmente essere arricchite di placchette figurate, purtroppo perdute. Sulla traversa inferiore è posta una piastra quadrangolare che funge da raccordo con il sottostante piede in bronzo decorato da arabeschi. Quest’ultimo è chiaramente di riutilizzo, con ogni probabilità l’avanzo di un calice veneziano del XVII secolo che ben si accompagna a un altro pezzo gemello (Fig. 7) rinvenuto nella chiesa di San Francesco d’Assisi di Corfù e caratterizzato da un’iscrizione votiva: PETRUS MARIA FERRARIUS A MONTEFERRATO CANONICUS THEOLOGUS CRETEN DIVO SPERIDIONO PRO GRATIAR(UM) ACTIONE 1631.

L’impianto della croce, come quella prima analizzata, si ispira a modelli più antichi di manifattura veneziana eseguiti sia in metallo, sia in cristallo di rocca. Dell’insieme quello che più attrae è il Christus patiens, in argento fuso, particolarmente curato sotto l’aspetto anatomico, tanto da indurmi ad ascriverlo a un artista di talento attivo a Venezia e suggestionato dal Crocifisso di Donatello conservato nella Basilica di Sant’Antonio di Padova. Sulla base di tutto ciò, la croce può essere collocata alla fine del secolo XV.

Una certa maestria si coglie nella successiva croce astile (Fig. 8) in argento fuso e parzialmente dorato, composta da due pezzi disomogenei per caratteristiche stilistiche e per cronologia. Anch’essa, nel corso del tempo, ha subito decurtazioni, manipolazioni e rimontaggi.

La croce, sostanzialmente liscia, ha le traverse bordate da cornici gradinate. I quattro terminali sono costituiti da lastre a fusione di forma bilobata decorate da due girali divergenti; qui è presente un foro nel quale era alloggiato un imprecisato elemento decorativo che sarà stato diverso dal tripetalo, unico e peraltro non coevo, che sovrasta il terminale superiore. Sul terminale inferiore, invece, è fissato un cilindro filettato che serve ad avvitare la croce alla mazza processionale (Fig. 9), caratterizzata da un nodo a vaso con motivi a baccelli. Sul recto, come consuetudine, è presente il Christus patiens, a tutto tondo, posto in asse con il proprio corpo e disposto con le braccia a “Y”. Molta cura è riservata al modellato del corpo e del perizoma, ma soprattutto alla testa, sistemata alla meglio dopo una probabile caduta. Minutamente rifinita da incisioni a cesello, essa è colta nel momento della morte: con le palpebre abbassate e la bocca socchiusa. Il cartiglio con la scritta INRI è un’aggiunta, come pure l’aureola. Nessun elemento ingentilisce il verso della croce.

Inserire il manufatto in esame in un preciso ambito culturale non è facile, anche perché “alterato”, come detto, da manipolazioni; tuttavia, alcuni elementi stilistici mi inducono a ricondurla alla cultura veneziana d’inizio Cinquecento, non oltre il 1530. Esempi apprezzabili, al riguardo, si rinvengono in Veneto, in Friuli e in Dalmazia: per la forma e i decori delle terminazioni lobate, si veda la croce d’altare (1511) di manifattura veneziana del Museo Poldi Pezzoli di Milano29; per il viso di Cristo e per le parti dorate del corpo, un diretto confronto può essere stabilito con la croce astile che Giacomo de Grandis realizzò nel 1548 per Castello di Aviano, oggi nel Museo Diocesano di Pordenone30; un altro confronto pertinente è con la croce astile della chiesa di San Simone di Zara, datata 152831.

È in tale contesto che va a inserirsi una purtroppo ignota figura di argentiere che intorno alla metà del Cinquecento realizzò una pisside (Figg. 1011) ragguardevole per la sensibilità plastico-luministica del suo apparato iconografico, peraltro legato alla precipua funzione del sacro vaso. Il piede circolare è adornato da testine angeliche tra loro unite per mezzo di nappe pendule; più in alto, sul collo del piede, gira un serto di fiori posizionati all’ingiù. Il corto fusto è caratterizzato da un nodo a sfera baccellato. Fulcro dell’intera composizione è la coppa, interessata da una elaborata rappresentazione di scene, emergenti da un fondo opaco, per lo più legate alla Passione di Cristo: la Crocifissione, la Deposizione, il Cristo in Maestà e, sul coperchio, il Cristo Risorto, fuoriuscente dal sarcofago decorato con la testa di un cherubino, circondato in alto dalla scritta RESVRREXIT. Sul coperchio è saldata una croce.

La struttura compositiva dell’opera riconduce alla cultura cinquecentesca mentre l’esecuzione formale delle figure, la forte caratterizzazione dei volti e delle espressioni sono accostabili alla tradizione sia bizantina-medievale, sia rinascimentale. In via d’ipotesi si potrebbe attribuire la pisside a un artista veneto o dalmata. È facile immaginare come dietro la committenza di un siffatto manufatto argenteo si nasconda una figura di alto profilo e di profondo gusto artistico.

Anche l’aspetto della successiva croce astile (Fig. 12a e b) è la conseguenza di improvvidi restauri e mutilazioni. Al centro delle traverse è rilevata una piccola croce ove è inchiodato il Cristo Crocifisso; in asse è posto il cartiglio mentre all’incrocio dei bracci sono inserite quattro lamine raggiate. Le terminazioni quadrilobate includono delle placchette figurate: in alto, il Pellicano; a sinistra, la Vergine; a destra, san Giovanni Evangelista; in basso, la Maddalena. Il bordo esterno dei quadrilobi è animato dall’inserimento di nove testine angeliche a fusione (dodici in origine) entro volute vegetali contrapposte. Anche il verso della croce si connota per la presenza di placchette figurate: in alto, il leone di san Marco; a sinistra, l’angelo di san Matteo; a destra, il bue di san Luca; in basso, l’aquila di san Giovanni. Al centro delle traverse è posta la figura di san Giacomo apostolo – cui è intitolata la cattedrale – rappresentato in qualità di pellegrino, con bordone e cappello.

La croce è inserita in una sfera decorata con motivi vegetali e fiori stilizzati; qui è incisa un’iscrizione a lettere corsive: Rimodernata / sotto la Condotta del Priore / L. Padovan / Compagni. Sulla traversa della croce ho rilevato il punzone dell’argentiere, caratterizzato dalle lettere GP entro struttura rettangolare con un minuscolo apice nella parte centrale; questo bollo differisce da quelli finora registrati in letteratura32, ragion per cui è da considerarsi un inedito.

Il manufatto in esame è realizzato secondo un modello diffuso a Venezia in età gotica e rinascimentale. Orbene, alla luce anche di quanto sopra evidenziato, sono dell’opinione che gli elementi figurati, di gusto rinascimentale, appartengono una croce più antica – se ne può ipotizzare una datazione alla fine del XVI secolo – recuperati e rimontati sull’attuale probabilmente verso la fine del XVII secolo.

Assai più consistente e di particolare interesse è il nucleo degli argenti di età barocca; ciò fu anche la conseguenza, come riferito, dell’ampliamento e dell’ammodernamento della cattedrale di Corfù. A infoltire questo numero di reperti vi ha pure contribuito, come già detto, l’acquisizione di argenti provenienti dalla distrutta cattedrale di Zante. Temi salienti dello stile barocco, di moda in Europa dal XVII al XVIII secolo, sono le forme mosse degli oggetti e l’esuberanza degli ornati che diventano ancor più fantasiosi con il rococò o rocaille, stile di origine francese che ebbe in Venezia uno dei centri più attivi in Italia.

All’interno di questa stagione artistica si pone una ennesima e pregevole pisside (Fig. 13) destinata alla cattedrale di Corfù per volere del sacerdote Antonio Raimondi; sul nodo del fusto, infatti, è presente lo stemma del committente (un’aquila ad ali spigate sovrastante linee verticali) circoscritto dall’iscrizione PRAESB(YTERI) ANTON(II) RAIMONDI. Sullo stesso nodo un altro medaglione con il trigramma IHS e la scritta OLEUM EFFUSUM NOMEN TUUM.

La base, di forma circolare, poggia su un orlo espanso e gradinato. La superficie del piede è suddivisa in tre sezioni decorate con volute contrapposte e motivi essenzialmente vegetali che delimitano cornici ovali con le rispettive raffigurazioni della Madonna col Bambino, del Crocifisso e di Sant’Antonio da Padova, santo onomastico del committente. Questi stessi decori, arricchiti da testine cherubiche, abbelliscono sia il nodo a oliva, sia la coppa, sia il coperchio con crocetta apicale.

Per quanto riguarda l’ambito di produzione e in ragione dei punzoni impressi, la pisside va restituita a un argentiere veneziano di comprovata esperienza siglato P.P.33; vi è pure il marchio di garanzia della Repubblica di Venezia, ossia il leone di San Marco, più noto come leone in moleca. La datazione della pisside dovrebbe aggirarsi attorno al 1630.

Un altro buon esempio di suppellettile barocca è una navicella (Fig. 14), frutto della giustapposizione di tre parti ben distinte: il piede circolare, il fusto con nodo piriforme e il corpo a mezzaluna. Alle estremità del coperchio, ornato da un doppio motivo a incisione di racemi e foglie d’acanto, sono saldati due minuscoli manici spiraliformi a fusione (parzialmente rotto quello di sinistra); il manico di destra consente l’apertura dello sportellino incernierato. Il manufatto ha subito diverse riparazioni.

Le caratteristiche formali della navicella e il repertorio decorativo del coperchio alludono a una produzione tardo cinquecentesca di matrice veneta; tuttavia, essa andrebbe datata alla seconda metà del XVII secolo. Esemplari di questo genere sono rinvenibili in Veneto, in Friuli e in Dalmazia; esplicativo, a questo fine, è la navicella custodita nel Tesoro del Duomo di Caorle34 e quella del convento francescano di Hvar35.

Proseguendo nell’analisi dei reperti corfioti, più chiari rapporti con l’arte orafa della città dei Dogi rivela uno straordinario ostensorio (Fig. 15) in argento dorato impreziosito dalla montatura di gemme, sicché ne sottolinea l’opulenza e l’alto gusto del suo ignoto donatore. Il piede, a base circolare rigonfia, presenta un ampio orlo liscio sovrastato da una gola baccellata. La superficie del piede, ripartita in tre sezioni triangolari, è arricchita da una decorazione vegetale e da sinuose volute intercalate a spighe di grano, grappoli d’uva e figure di angeli. Il fusto è costituito da una statuina panneggiata della Fede, notevole sotto l’aspetto plastico, affiancata dal consueto attributo della croce, tempestata di ametiste. In posizione stante e con le braccia alzate, essa sostiene la custodia dell’eucaristia, a sua volta contornata da fasci di raggi alternativamente grandi e piccoli, da un nugolo di nuvole ove alloggiano testine di angeli e da un giro di pietre preziose; più in alto, la figura del Padre Eterno e quella della colomba dello Spirito Santo.

Sull’ostensorio si sono rilevati i seguenti punzoni: il marchio di garanzia della città di Venezia, il contrassegno di controllo della Zecca36 e quello dell’argentiere IR, genericamente assegnato al XVIII secolo37. Il manufatto in argomento, ascrivibile tra la fine del secolo XVII e l’inizio del XVIII, fa parte di una tipologia piuttosto comune nei territori già sottomessi dalla Serenissima Repubblica di Venezia: per la morfologia e per i decori del piede, si veda l’ostensorio del 1705 conservato nella basilica di Sant’Antonio di Padova38; un confronto più preciso è col più tardo ostensorio (1759) del convento francescano di Hvar39 e con l’altro (1769) della chiesa parrocchiale di Meduno40.

Dalla cattedrale di Zante proviene un altro ostensorio (Fig. 16). Il piede circolare poggia su un orlo piatto decorato da un’incisione di volute acantiformi. Un ricco e variegato repertorio vegetale ricopre la superficie del piede sulla quale sono sbalzati e incisi tre angeli con i simboli della Passione di Cristo. Altrettanto ricco e movimentato è il fusto, caratterizzato da una serie di rocchetti e da un nodo piriforme che ospita tre testine di angeli. L’ampia raggiera è costituita da una teca circondata alternativamente da dardi e fiamme e ancora, più internamente, da nuvole popolate da altre teste di angeli. Nella parte apicale si erge la statuina a fusione del Cristo Risorto.

La presenza sull’ostensorio del marchio distintivo del leone in moleca, garantisce la provenienza da Venezia; a questo si deve aggiungere il punzone del sazador Antonio Poma, contraddistinto dalle lettere AP intervallate da un pomo fogliato, che Piero Pazzi ha datato tra il 1672 e il 1716, anno della sua morte41. L’ostensorio di Corfù, particolarmente replicato nella produzione veneziana, presenta non poche assonanze con quello della chiesa di Rivamonte Agordino (Belluno)42 e  con l’altro della parrocchiale di San Cipriano (Treviso)43.

  1. G. Boraccesi, Rapporti tra la Grecia e l’Occidente europeo negli argenti della Cattedrale di Naxos, in «Arte Cristiana», a. XCIX, n. 863, marzo-aprile 2011, pp. 131-144; Idem, A Levante di Palermo. Argenti con l’aquila a volo alto nell’isola greca di Tinos, in «Oadi», Rivista dell’Osservatorio per le Arti Decorative in Italia, a. 2, n. 4, dicembre 2011, pp. 60-67. []
  2. E. Lunzi, Della condizione politica delle isole Jonie sotto il dominio Veneto, Venezia 1858; Κ. ΚΑΙΡΟΦΥΛΛΑΣ, Η Επτάνησος υπό τους Βενετούς, Αθήνα 1942, pp. 230-257; E. Bacchion, Il dominio veneto su Corfù (1386-1797), Venezia 1956; Α. ΤΣΙΤΣΑΣ, Βενετοκρατούμενη Κέρκυρα. Θεσμοί, εκδ. Εταιρείας Κερκυραϊκών Σπουδών, Κέρκυρα 1989; N. Karapidakis, Civis fidelis”. L’avènement et affirmation de la citoyenneté corfiote (XVIème-XVIIème siècle), Francoforte sul Meno 1992; A. Nikiforou-E. Concina, Corfù. Storia, spazio urbano e architettura: XIV-XIX sec., Corfù 1994; S. T. Chondrogiannis, Museo dell’Antivouniotissa Corfù, Thessaloniki 2010, pp.16-23. []
  3. Per la cattedrale di San Giacomo e le chiese latine di Corfù, cfr. Α. ΑΓΟΡΟΠΟΥΛΟΥ-ΜΠΙΡΜΠΙΛΗ, Αρχιτεκτονική των Λατινικών Εκκλησιών της Κέρκυρας και η θέση τους στον ιστό της πόλης κατά τη Βενετοκρατία, Πρακτικά Ζ’ Πανιονίου Συνεδρίου, Λευκάδα 2002, Αθήνα 2004, pp. 242-247. []
  4. Sulla figura del vescovo Zacco, cfr. Σ. Γαούτσης, Άγνωστα οικόσημα των Λατινεπισκόπων Augustus Antonius Zacco και Franciscus Maria Fenzi από τον Καθολικό Καθεδρικό Ναό Κέρκυρας, Δελτίο της Εραλδικής και Γενεαλογικής Εταιρείας της Ελλάδος, τ. 12ος, Αθήνα υπό έκδοση, in corso di stampa. []
  5. A. Tsitsas, Ori e argenti, in Arte bizantina e post-bizantina a Corfù. Monumenti, icone, cimeli, civiltà, (edizione italiana), Corfù 1994, pp. 174-192; S. Chondrogiannis, Museo dell’Antivouniotissa Corfù, cit., pp. 166, 254. []
  6. G. Boraccesi, Rapporti tra la Grecia e l’Occidente, cit., pp. 132, 135. []
  7. C. Eubel – G. Van Gulik, Hierarchia cattolica Medii et recentioris Aevi, Monasteri 1923, rist. anast.. Patavii 1960. []
  8. A. Tsitsas, Ori e argenti, cit., p. 179. Nel Museo Bizantino di Atene, ma proveniente dal monastero di Serres, si conserva un calice del 1632 di manifattura ungherese, cfr. The word of the Bizantine Museum, 2004, p. 298, fig. 285; la parte centrale del manufatto, a mio parere, è di riutilizzo essendo l’avanzo di un reliquiario tardogotico con la cupola montata all’incontrario. []
  9. L. György, Magyar Helységnév-Azonosító szótár, Budapest 1992, pp. 420, 527. []
  10. Treasurers of Hungary. Gold & Silver from the 9 th  to the 19 th century, a cura di J. H. Kolba e A. T. Németh, Budapest 1986, p. 16. []
  11. V. Lovrić Plantić, scheda n. 11, in Tesori nazionali della Croazia. Capolavori dei musei di Zagabria. Muzei za Umjetnosti iObrit, catalogo della mostra (Arezzo 7 settembre-20 ottobre 1991), Arezzo 1991, p. 79; il calice, tuttavia, è assegnato a una manifattura croata. []
  12. T. Gyàsfàs, A brassai ötvössèg törtènete, Brassò 1912, pp. 213-215, fig. 3. []
  13. A. Savoldelli, Il Museo della Basilica di Gandino, Villa di Serio 1999, pp. 171-172. []
  14. G. Sambonet, in Il Duomo di Monza. I tesori, a cura di R. Conti, Milano 1989, pp. 80,82. []
  15. G. Mariacher, scheda n. 13, in Oggetti sacri del secolo XVI nella Diocesi di Vicenza, catalogo della mostra (Vicenza 29 agosto-9 novembre 1980), a cura di T. Motterle, Vicenza 1980, pp. 23-24. []
  16. H. R. Hahnloser, Il Tesoro di San Marco, Firenze 1971, p. []
  17. G. Barucca, scheda n. 51, in Ori e Argenti. Capolavori di oreficeria sacra nella provincia di Macerata, Milano 2001, pp. 145, 147 []
  18. G. Boraccesi, Oreficeria sacra in Puglia tra Medioevo e Rinascimento, Foggia 2005, p. 13. []
  19. D. Ruffino-G. Travagliato, Splendori di Sicilia. Arti Decorative dal Rinascimento al Barocco, a cura di M. C. Di Natale, Milano 2001, doc. I. 62, p. 745, []
  20. Ibidem, doc. I. 116, p. 748. []
  21. A. Bulgari Calissoni, Maestri argentieri gemmari e orafi di Roma, Roma 1987, p. 195. []
  22. L. e N. Bertolino, Indice degli orafi e argentieri di Palermo, in Ori e argenti di Sicilia dal Quattrocento al Settecento, catalogo della mostra (Trapani luglio-ottobre 1989), a cura di M. C. Di Natale, Milano 1989, p. 403; G. Bongiovanni, Gli argenti, in Omaggio a Villafrati. Studi sulla Chiesa Madre, Palermo 1993, p. 83; S. Barraja, I marchi di bottega degli argentieri palermitani, in Storia, critica e tutela dell’arte nel Novecento. Un’esperienza siciliana a confronto con il dibattito nazionale, Atti del Convegno internazionale di studi in onore di Maria Accascina, a cura di M. C. Di Natale, Caltanisetta 2007, p. 504. []
  23. L. Crusvar, Orafi e argentieri a Trieste, in Ori e Tesori d’Europa. Dizionario degli Argentieri e degli Orafi del Friuli-Venezia Giulia, a cura di P. Goi e G. Bergamini, Udine 1992, pp. 54, 317. []
  24. Ibidem, pp. 54, 146. []
  25. Ad una manifattura dell’Europa Occidentale di fine XV secolo-inizio XVI è stato assegnato un notevole calice in argento dorato con smalti custodito nel Museo Benaki di Atene, cfr. Greece at the Benaki Museum, Atene 1997, p. 350, fig. 577; si avanza in questa sede la proposta che tale calice, databile tra la fine del XIV e l’ inizio del XV secolo, possa invece collocarsi nell’ambito della produzione orafa di Venezia. []
  26. N. Bezić Božanić, Pisside, in Tesori della Croazia. Restaurati da Venetian Heritage Inc., catalogo della mostra (Venezia 9 giugno-4 novembre 2001), a cura di J. Belamarić, Venezia 2001, p. 125. []
  27. N. Jaksić, scheda Z/13, in Milost susreta Umjetniča baština Franjevačke provincije sv. Jeronima, catalogo della mostra (Zagabria), Zagreb 2010, p. 276. []
  28. N. Jaksić, schede 50 e 51, in Zagovori svetom Tripunu. Blago Kotorske biskupije, catalogo della mostra (Zagabria), a cura di R. Tomić, Zagreb 2009, pp. 149-150. []
  29. G. Gregoretti, Scheda n. 196, in Museo Poldi Pezzoli. Orologi-Oreficerie, Milano 1981, pp. 289-290. []
  30. P. Goi, L’arredo sacro, in Storia e Arte nel Pordenonese. L’Arredo, Pordenone 2006, pp. 22, 54. []
  31. V. B. Lupis, Srednjovjekovna raspela iz Stona i okolice, in «Starohrvatska prosvjeta», III. serija-svezak 38, 2011, /pp. 249, 261. []
  32. P. Pazzi, I punzoni dell’argenteria veneta, Pola 1992, p. 102; la forma del bollo ricalca quella del punzone numero 81 di pagina 73. []
  33. P. Pazzi, I punzoni dell’argenteria veneta, cit., numero 356, p. 128; rispetto a questo punzone, il nostro si discosta per la presenza di due puntini. []
  34. L. Crusvar, Il Tesoro del Duomo di Carole: dal basso medioevo al XIX secolo, in “Antichità Altoadriatiche”, XXXIII, Udine 1988, p. 158, fig. 16. []
  35. R. Tomić, scheda Z/35, in Milost susreta, cit., p. 297. []
  36. P. Pazzi, I punzoni dell’argenteria veneta, cit., numero 440, p. 142. []
  37. Ibidem, numero 255, p. 107. []
  38. C. Rigoni, Ostensorio, in Basilica del Santo. Le oreficerie, a cura di M. Collareta, G. Mariani Canova, A. M. Spiazzi, Roma 1995, pp. 204-205. []
  39. R. Tomić, scheda Z/46, in Milost  susreta, cit., p. 304. []
  40. P. Goi, L’arredo sacro, cit., pp. 26, 68. []
  41. P. Pazzi, I punzoni dell’argenteria veneta, cit., numero 55, p. 67. []
  42. T, Conte, Oreficerie liturgiche tra XVI e XIX secolo nei vicariati di Agordo e di Canale d’Agordo, in Tesori d’arte nelle chiese dell’alto bellunese. Agordino, a cura di M. Pregnolato, Belluno 2006, pp. 56-58; qui l’ostensorio si differenzia per la presenza dei due angeli penduli. []
  43. P. Peri, Ostensorio, in Treviso Cristiana 2000 anni di fede. Percorso storico, iconografico, artistico nella Diocesi, catalogo della mostra (Treviso 6 maggio-15 ottobre 2000), a cura di L. Bonora-E. Manzato-I. Sartor, Treviso 2000. []