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Gli argenti della cattedrale di Caltanissetta. Spigolature d’archivio sul «monte del Glorioso San Michele Arcangelo» dell’argentiere Pietro Paparcuri
DOI: 10.7431/RIV24052021
Non è rado intercettare nei documenti sulla Chiesa Madre di Santa Maria La Nova di Caltanissetta il riferimento a suppellettili e arredi sacri in argento, opera di abili maestri orafi e argentieri documentati dal XVI al XVIII secolo1. Si tratta di manufatti spesso attestati solo attraverso le fonti d’archivio, dal momento che nei secoli le esigenze indotte dalle istanze dell’aggiornamento stilistico, il mutare del gusto nelle scelte della committenza e le requisizioni regie di argenti e ori hanno portato alla loro scomparsa. Il riferimento va nello specifico al ‘Real Comando’ del 1796, col quale i Borbone per «supplire alle indispensabili spese dell’Esercito» pignorano gli «argenti ed ori delle chiese, luoghi pii, monasterii, e confraternite, ad eccezione de’ puri vasi sagri indispensabili per le sagre funzioni»2.
Il primo riferimento archivistico agli argenti della Chiesa Madre compare nel 1560, anno in cui dopo la morte dell’arciprete Francesco De Forte vengono ritrovati nella sua abitazione diversi calici, di cui uno «grandj smaltato di argento cum sua patena» e altri quattro «di argento cum suoi patenj», assieme ad un incensiere con navicella e una custodia eucaristica «supra deorata cum sua imbosta». L’elenco si arricchisce con «una cruchj grandj di argento cum so pumo grandj et XIX pumetj doratj» e la «bulla dila confraternitatj dilo gloriosissimo Corpo di Christo»3.
Alla stessa confraternita viene donato nel 1605 dal medico fisico Achille Caruso un «lamperi grandi d’argento», oggi perduto4. Su di esso vengono fatte incidere per volontà del committente «li proprij armi epitafij et altri ornamenti»5.
Più avanti, nel 1608, viene registrata la vendita di argento all’arciprete della città ad opera di Antonino de Lumia, maestro degli orafi e degli argentieri di Palermo, per la fattura di quattro calici6.
Ma le notizie più consistenti circa gli argenti della Chiesa Madre si ritrovano nell’ultimo capitolo dello Stato della città, compilato nel 1731 dall’arciprete Giovanni Agostino Riva con l’assistenza e la collaborazione di don Lucio Daidone e del sagrestano don Pietro Cammarano7.
Il testo elenca le suppellettili sacre presenti al tempo nella Chiesa Madre, consistenti in sette calici con le rispettive patene, tre pissidi «con suo piede d’argento», due croci in argento e quattro ostensori o ‘sfere’, in uno dei quali – purtroppo andato perduto – compaiono «numero 12 statuette dell’Apostoli tutto d’argento dorato»8.
L’opera, benché non rintracciata, parrebbe attraverso la sua descrizione assimilabile per ricchezza compositiva, e forse anche per linguaggio, all’ostensorio oggi conservato nel Museo Diocesano della cittadina nissena proveniente dalla stessa Chiesa Madre, probabilmente eseguito da un argentiere messinese nei primi anni del Cinquecento9. Si tratta di un manufatto caratterizzato dalla presenza di elementi tipici della tradizione gotica, sul modello dell’ostensorio della chiesa di Santo Stefano di Milazzo, attribuito a maestranze messinesi e datato tra la fine del Quattrocento e i primi anni del Cinquecento10 (Fig. 1).
Viene rubricata nell’elenco settecentesco anche la seicentesca statua dell’Immacolata Concezione, datata intorno al 1682, «d’altezza di palmi setti con suo piedestallo foderato d’argento», adornata di una corona d’argento nella quale vi erano «alcune pietre ordinarie»11.
L’opera, finanziata con 40 onze da un tale Giuseppe Di Maria12, viene eseguita da un ignoto argentiere messinese sul modello del simulacro dell’Immacolata Concezione di Catania13. Tuttavia, nel 1759, la statua verrà sostituita da una nuova scultura argentea realizzata dagli argentieri Giacomo Glorioso e Pietro Salemi14.
Seguono nell’inventario due «toribili con sue navette e cocchiarelle d’argento» e alcune mezze corone in argento per le immagini sacre di San Filippo Neri e dell’Immacolata Concezione, assieme ad una «girlanda d’argento con 12 stelle per Nostra Signora del Monte» e «altra mezza corona per il puttino di ditta Signora dil Monte»15.
Al termine dell’inventario compare la «Statua del Glorioso Protettore San Michele Archangelo con l’ali foderate d’argento dorate e diadema tutta d’argento con suo piedestallo similmente foderato e spadino parimente d’argento», attribuita allo scultore nicosiano Stefano Livolsi16 (Figg. 2 – 3).
A tal proposito, si ricorda che un recente ritrovamento archivistico ha condotto alla documentazione sulla fattura del «monte del Glorioso San Michele Arcangelo nostro Protettore d’Argento». L’opera, non più esistente, «in piancia lavorata con le sue fiammette indorate, per conforme richiede l’arte» va identificata col basamento menzionato della statua dell’Arcangelo, finanziato nel 1708 dal sacerdote Stefano d’Amico attraverso il ricavato della vendita di «tutti li soi fascelli d’api allo numero di 350»17.
Il religioso decide anche che le somme non spese per il basamento vengano impiegate per l’esecuzione di un paliotto e di un ‘lamperi’ entrambi in argento. E in effetti, il paliotto oggi scomparso parrebbe proprio essere quello documentato nell’inventario del 1731 recante «tre mezze statue nel mezzo», requisito nel 1796 ma restituito alla Chiesa Madre l’anno seguente18.
Nel medesimo elenco del 1731 compaiono anche due ‘lamperi’ argentei, il primo identificabile con quello finanziato nel 1605 da Achille Caruso ed il secondo con quello voluto dal sacerdote d’Amico. È difficile capire, però, quale dei due ‘lampieri’ sia proprio quello indicato nell’elenco degli argenti requisiti nel 179619.
La realizzazione del ‘monte’ si pone a completamento del restauro del simulacro dell’Arcangelo, attuato a partire dal 1697 attraverso il legato testamentario di 100 onze, disposto dal notabile Arcangelo Romano, per «accommodarsi la statua di San Michele […] dentro la Matrice Chiesa»20 e in «habellimento e ornamento» del suo tabernacolo21.
Il basamento viene certamente concepito per nobilitare l’immagine dell’Arcangelo, sull’esempio forse di quello dell’Immacolata presente all’interno della chiesa. Inoltre, la sua esecuzione potrebbe aver presentato un linguaggio affine a quello del basamento della seicentesca statua dell’Immacolata, conservata nel tesoro della Cappella Palatina di Palermo, attribuita ad Andrea Mamingari o a quello del reliquiario antropomorfo di Santa Lucia del 1666, custodito a Savoca, attribuito all’argentiere messinese Bartolo o Bartolomeo Provenzano22.
È centrale nella esecuzione del ‘monte’ la figura del sacerdote Raffaele Riccobene, a cui va il merito di aver acquistato dai fidecommissari dell’eredità del sacerdote d’Amico 245 arnie per il prezzo di 52.9 onze, da destinare al «monte d’Argento del glorioso San Michele Arcangelo»23.
Sebbene non sia stato rinvenuto il contratto di obbligazione relativo alla fattura dell’opera, è possibile attraverso alcuni mandati di pagamento individuarne gli inventori. Si tratta dell’argentiere messinese Pietro Paparcuri, di cui è celebre l’Arca Santa, ornata con due pannelli raffiguranti la Nascita e la Decollazione del Battista, eseguita nel 1731 in collaborazione con lo scultore Gaspare Garufi per la chiesa di San Giovanni Battista di Ragusa24.
Il secondo argentiere documentato è Vincenzo Cipolla. Nonostante i documenti lo indichino come cittadino catanese, in realtà potrebbe essere originario di Palermo ed appartenere alla famiglia omonima di argentieri, di cui è nota in quegli anni la figura di Tommaso Cipolla, attivo nella capitale e console degli orafi e argentieri tra il 1725 e il 172925.
Paparcuri e Cipolla sono in società nel 1712, quando ricevono la somma di 100.24 onze per il prezzo di tutto l’argento impiegato «in haver fatto il monte d’Argento del Glorioso San Michele Arcangelo nostro Protettore»26.
Gran parte delle somme viene impiegata per l’acquisto di 24 libbre27 d’argento, «di bolla in piancia», necessarie per la fattura del basamento secondo un modello forse fornito dall’inedito ingegnere nisseno Francesco Magrì. Non a caso, sarà proprio lui l’anno seguente a ratificare «d’essere ditto Monte fatto magistribimente secondo il disegno et l’arte».
Ma nel 1713, l’argentiere Cipolla abbandona i lavori subito dopo il loro avvio, forse per una malattia che ne impone il rientro a Catania. Alcune note di pagamento di quei mesi attestano, infatti, l’acquisto di medicamenti «in tempo dell’infermità di ditto di Cipolla», rinviando anche alla figura del nisseno Giovanni Guarneri. Si tratta di un inedito argentiere coinvolto nella realizzazione del manufatto nella qualità di socio del mastro catanese. Guarneri, probabilmente imparentato con l’argentiere palermitano Michele Guarneri28, deve dunque farsi carico della lavorazione dell’argento che un tale Francesco Rogiero aveva venduto al Cipolla «per operarlo e doppo non operato».
Paparcuri e Guarneri, impegnati «in laborando et erigendo monte argenteo ut dicitur a plancia», portano a termine i lavori col coinvolgimento di altre figure intervenute per la costruzione di un tornietto, col quale «tirarsi l’argento alla trafila per li chiodi di detto monte», e per la fornitura di olio, acqua, tartaru e pece nigra, impiegata per «manipularsi l’operatione di detto argento»29.
Le lamine lavorate e cesellate sono, dunque, fissate al basamento ligneo, preparato probabilmente dal mastro d’ascia Orazio Scaglione, assieme ad «una piancetta d’argento con titolo dell’habbito della Madonna del Carmelo», opera di un tale mastro Giuseppe Lo Baglio.
- Sulla storia della Chiesa Madre si rimanda a Il Restauro della Cattedrale di Caltanissetta. Lettura di un complesso architettonico, pittorico e decorativo, a cura di S. Rizzo, A. Bruccheri, F. Ciancimino, Caltanissetta 2001; e al più recente contributo sul cantiere della fabbrica pubblicato in G. Giugno, Caltanissetta dei Moncada. Il progetto di città moderna, Caltanissetta 2012, pp. 55-74. [↩]
- La trascrizione del documento è stata pubblicata in S. Bartolozzi, Argenti delle chiese di Caltanissetta e San Cataldo pignorati dai Borboni, in Il tesoro dell’isola. Capolavori siciliani in argento e corallo dal XV al XVIII secolo, catalogo della mostra a cura di S. Rizzo, Vol. II, Palermo 2008, pp. 1109-1110. [↩]
- Archivio di Stato di Caltanissetta (d’ora in poi ASCl), Not. Baldassare Bruno, reg. 261, f. 756r. [↩]
- Si tratta di un importante notabile nisseno che tra il 1614 e il 1615 dona 50 onze per il completamento della nuova Chiesa Madre. Sulla requisizione del ‘lampiere’ si rimanda a S. Bartolozzi, Argenti…, in Il tesoro dell’isola…, 2008, p. 1112. [↩]
- ASCl, Corporazioni Religiose Soppresse (d’ora in poi CC. RR. SS.), Gesuiti, reg. 31, f. 13r. [↩]
- ASCl, Not. G. B. Calà, reg. 190, f. 284r II. Su Antonino de Lumia si vedano S. Barraja, in Arti decorative in Sicilia. Dizionario biografico, a cura di M.C. D Natale, Palermo 2014, vol. II, p. 341, ad vocem; Id., Gli orafi e argentieri di Palermo attraverso i manoscritti della maestranza, in Splendori di Sicilia. Arti Decorative dal Rinascimento al Barocco, catalogo della mostra a cura di M.C. Di Natale, Vicenza 2001, p. 673. [↩]
- Cfr. Stato della città di Caltanissetta nel 1731 sotto l’arciprete Giovanni Agostino Riva, a cura di G. Giugno, D. Vullo, Caltanissetta 2016, pp. 347-348. [↩]
- Cfr. Stato della città …, 2016, p. 347. [↩]
- Cfr. Catalogo delle Opere del Museo Diocesano “Giovanni Speciale” di Caltanissetta, a cura di F. Fiandaca, Caltanissetta 2013, pp. 55, 61. [↩]
- Sul finire del Cinquecento la produzione di ostensori abbandona gli stilemi propri della cultura gotica per radicarsi in quella classicista. Si rimanda all’ostensorio realizzato dall’argentiere Antonio Cochiula nel 1567 per la chiesa di Santa Maria Maggiore di Randazzo (M. Vitella, in Il tesoro dell’isola…, 2008, pp. 796-797) e a quello eseguito da Nibilio Gagini nel 1604 per la chiesa di Santa Lucia di Mistretta (C. Di Giacomo, in Il tesoro dell’isola …, 2008, pp. 806-807). Sull’ostensorio di Milazzo si veda S. Serio, Argenti messinesi del XVII e XVIII secolo, Tomo I, Tesi di Dottorato, Ciclo XXI, Università degli Studi di Palermo, 2015, p. 7. [↩]
- Cfr. F. Pulci, Caltanissetta e la Vergine. Monografia sul culto di Maria Santissima, Caltanissetta 1904, Rist. an., Caltanissetta 2011, p. 167. Il simulacro seicentesco dell’Immacolata Concezione è stato trattato anche in S. Di Mauro, La statua argentea dell’Immacolata della cattedrale di Caltanissetta, in Il tesoro dell’isola…, 2008, pp. 1137-1141. [↩]
- Il legato doveva essere depositato presso il sacerdote Mariano Salerno ed impiegato esclusivamente per la realizzazione del simulacro argenteo «uncias quadraginta debent depositari penes R. Sacerdotem D. Marianum Salerno qui debet illas solvere statim ac debet conficii ditta statua et non aliter» (ASCl, CC.RR.SS., Gesuiti, b. 33, f. 31r). [↩]
- Cfr. F. Pulci, Caltanissetta…., 1904, pp. 171-172. [↩]
- Cfr. Id, Lavori sulla storia ecclesiastica di Caltanissetta, Caltanissetta 1977, p. 160. Per un approfondimento sul rifacimento della statua dell’Immacolata si rimanda a G. Giugno, «Pro maiori Dei Gloria et Integerrime Immaculate eius Matris Marie». Il simulacro dell’Immacolata Concezione della Cattedrale di Caltanissetta, in «OADI. Rivista dell’Osservatorio per le Arti Decorative in Italia», Anno 9, n. 18, dicembre 2018, pp. 85-96. [↩]
- Cfr. Stato della città …, 2016, p. 348. [↩]
- Cfr. Stato della città …, 2016, p. 347. Allo scultore viene anche attribuita la statua di San Michele Arcangelo della Chiesa Madre di Leonforte. Su Stefano Livolsi si veda S. La Barbera, in Arti decorative …, 2014, vol. II, pp. 367-368, ad vocem. [↩]
- ASCl, Not. M. Fiandaca, reg. 829, f. 164r. [↩]
- Cfr. S. Bartolozzi, Argenti…, in Il tesoro dell’isola…, 2008, p. 1112. [↩]
- Ibidem. [↩]
- ASCl, Not. M. Riccobene, reg. 809, f. 421r. Alla donazione del 1697, si aggiunge nel 1717 quella di donna Felicia Romano e Cantella, moglie di Arcangelo Romano, consistente in «una gioja con sue pietre e perle e paro uno di pendenti» d’oro, da porre sul simulacro nel giorno della sua processione (ASCl, Not. L. Fantauzzi, reg. 796, f. 167r). Nel 1748 anche l’arciprete Giovanni Agostino Riva dona 100 onze «in giugali ed abbellimenti di ditta cappella e statua di ditto Santo». [↩]
- ASCl, Not. F. la Mammana, reg. 629, f.439v. [↩]
- Cfr. G. Chillè, in Il tesoro dell’isola…, 2008, p. 907. Sull’Immacolata conservata nel tesoro della Cappella Palatina di Palermo si rimanda a M.C. Di Natale, in Splendori di Sicilia…, p. 423, in part. Scheda 96. [↩]
- Nel 1709, fidecommissari di don Stefano d’Amico sono don Giuseppe Calefato e Ignazio d’Alesso. [↩]
- Cfr. P. Nifosi, L’urna di S. Giovanni Battista a Ragusa, in “La Provincia di Ragusa”, a. VIII, n. 6, dic. 1993, pp 1-3. Sul profilo artistico di Pietro Paparcuri si rimanda a T. Scorsone, in Arti decorative…, 2014, vol. II, p. 476, ad vocem. [↩]
- Su Tommaso Cipolla si veda a S. Barraja, in Arti decorative…, 2014, vol. I, p. 135, ad vocem; Id., I marchi degli argentieri e orafi di Palermo dal XVII secolo ad oggi, Milano 1996, p. 73. [↩]
- ASCl, Not. M. Fiandaca, reg. 834, f. 83r. [↩]
- Una libbra equivale a dodici once cioè 0,792 Kg. [↩]
- Sull’argentiere Michele Guarneri si veda a S. Barraja, in Arti decorative…, 2014, vol. I, p. 307, ad vocem. [↩]
- ASCl, Not. L. Fantauzzi, reg. 792, f. 69r. [↩]