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Arte e devozione tra Calabria e Sicilia. Argentieri messinesi, monaci migratori e la Madonna della Lettera: un breve excursus tra reliquiari antropomorfi e mante nel territorio reggino tra ‘500 e ‘700
DOI: 10.7431/RIV22042020
Nel 1922 lo studioso messinese Ludovico Perroni Grande (1879 – 1941) pubblicava sul primo numero di “Brutium”, la rivista d’arte fondata da Alfonso Frangipane,1, un articolo con il quale rendeva noto il documento relativo ad un ancora sconosciuto maestro Guidono Giustino, calabrese di Nicotera che «Il 4 gennaio 1472 in Messina [..] si impegnava a costruire per Ascanio Pittello, suo corregionario di Satriano, una croce di rame dorato con Cristo […]»2. Il contributo dell’illustre studioso apriva, in maniera quasi pionieristica, la strada ad un filone di ricerca che fino a quel momento aveva rivestito scarsissimo interesse presso gli studiosi calabresi, e non solo3. Negli anni successivi in occasione della compilazione dell’Inventario degli oggetti d’arte (1933) relativo alla Calabria, primo e fondamentale censimento del patrimonio artistico regionale sopravvissuto a tante perdite e dispersioni, lo stesso Frangipane catalogava con scrupolo certosino le numerose testimonianze di argenteria sacra da lui rinvenute presso tutte le diocesi della regione, argomentando con metodo, spesso anche sulla scorta di notizie d’archivio in suo possesso, circa la manifattura e/o l’area di provenienza delle opere: cominciavano a delinearsi le coordinate culturali e gli ambiti artistici di riferimento di centinaia di oggetti, tavole, sculture, legni, oreficerie e stoffe da ascriversi, come le successive ricerche avrebbero ben documentato, alla fitta rete di rapporti commerciali, culturali ed artistici tra le due sponde dello Stretto.
In quegli stessi anni La Corte Cailler4, nelle note redatte a commento di alcuni atti notarili del secolo XV, forniva altrettanto preziosiragguagli circa la commissione ad argentieri messinesi di suppellettili sacre da parte di prelati calabresi: così tale Pandolfo di Gerace che nella qualità di procuratore della chiesa di Santa Venera dei Disciplinati di Polistena commissionava nel 1488 ad Artesio di Artesio5, argentiere con bottega in contrada dei Banchi a Messina, «quemdam calicem argenti, […] magistraliter laboratum, deauratum et bullatum bulle messane», e Petrus de Romano6 «aurifaber, civis messanensis» che il 7 luglio 1458 consegnava al sac. Marco Savani, abitante in Sant’Agata di Calabria, «calicem unum argenteum cumpatenam»per il prezzo di 12 fiorini. Ricerche archivistiche successive hanno evidenziato anche la presenza di maestri messinesi a Reggio, forse qui stabilitisi con propria bottega quali Ettore Trofeo7, «orifexsivegioyellerius» presso il quale Bartolomeo Grani mette a bottega il figlio Ambrosio di 15 anni8 e Placido Furnari9, già documentato a Reggio nel 162310 ed incaricato il 7 gennaio 1632 di stimare i gioielli della dote di donna Margherita d’Alogna, vedova di Agostino Monsolino11.
Giovani calabresi venivano messi bottega presso le più accreditate maestranze isolane, come Matteo Taurini o Tauroni12 da Reggio Calabria apprendista presso l’argentiere messinese Giovanni Foti13, Pietro Geraci14 nativo di Cosenza a bottega presso Angelo D’Alosa15 fino al meglio noto Cesar de Judice «auri faber civis messanensis oriundus Terre flomare muri calabrie», ricordato dall’Accascina per l’esecuzione nel 1513 di una custodia in oro e smalti per il Corpus Domini16.
In tale contesto e a fronte della dispersione che purtroppo ha interessato il patrimonio di suppellettile sacra delle chiese calabresi acquista rilievo la sopravvivenza di un discreto numero di suppellettili sacre17 ed in particolare di alcune custodie reliquiarie in argento, databili tra l’ultimo ventennio del XVI secolo e la metà del XVIII pertinenti frammenti del corpo di santi eremiti e monaci “migratori” spesso provenienti dalla vicina Sicilia18 e sospinti dall’avanzata musulmana tra l’VIII ed il X a trovare rifugio in Calabria dove, risalendo dalle aspre giogaie ioniche e tirreniche fino alle estreme falde dell’Appennino, crearono una fitta rete di eremitaggi e monasteri, la “nuova Tebaide”19.
Il monachesimo italo-greco, infatti, lungi dall’esaurirsi con l’avvento normanno20 o in conseguenza dello scadimento morale registrato già a metà del XV secolo dai “visitatori” pontifici21, conobbe sul finire del ‘500 rinnovato impulso con l’istituzione nel 1573, ad opera del pontefice Gregorio XIII , della Congregazione dei Greci «pro reformatione Graecorum in Italia existentium et monachorum et monasteriorum Ordinis Sancti Basilii»22 ed indusse le autorità ecclesiastiche, pur ligie alle raccomandazioni del Concilio, a muoversi con molta cautelain territori dove, nonostante l’abolizione ufficiale del rito greco,23 l’anima delle popolazioni rimaneva tenacemente ancorata alle tradizioni dei padri.
Questa premessa, necessariamente sintetica, consente di delineare le coordinate culturali entro le quali si muoveva in Calabria, ancora alla fine ‘500, l’autorità latinacui si chiedeva di contemperare lo zelo riformistico con la cautela politica, canalizzare la pietas della popolazione di cultura greca verso forme di normalizzazione alla latina e promuovere il culto delle reliquie dei santi monaci in una gara di emulazione che avrebbe coinvolto devote famiglie feudali quali i Carafa della Spina ed alcune universitas.
Oltre alla dottrina grande ebbe santità di vita, per mezzo della quale è tenuto e nominato santo24.
Tra le “memorie figurative” più rilevanti di questa koiné culturale rientrano a buon diritto i busti in bronzo dorato raffiguranti i Santi Nicodemo25 (Fig. 1) e Giovanni Terista o Theriste26 (Fig. 2), databili al nono decennio del XVI secolo ed oggi conservati nelle eponime chiese di Mammola e Stilo site nell’attuale territorio diocesano di Locri-Gerace27. Le custodie furono entrambe commissionate dal cardinale Antonio Carafa (1538 – 1591)28, abate commendatario dal 1583 del monastero di San Nicodemo di Cellarano o Kellerana29, il cui stemma è ben visibile al centro di entrambi i busti. Il Carafa, personaggio di notevole spessore culturale e di grande prestigio nell’ambiente curiale romano, particolarmente sensibile al rapporto con le confessioni religiose di rito non latino e membro autorevole della Congregazione dei Greci, procurò che le reliquie del santo, già oggetto di frequentatissimi pellegrinaggi, venissero trasferite dal monastero in un nuovo edificio, qui poste sotto la mensa dell’altare maggiore ed il capo incluso in un busto di rame da lui stesso donato alla collettività religiosa30. E’ probabile che entrambe le custodie siano tratte da un medesimo modello messo in opera da abile intagliatore dotato che con vivo senso plastico ne scolpisce i volti incorniciati dalle ciocche della barba bipartita e raccordata senza soluzione di continuità ai baffi e alla chioma ondulata; per esse è stata avanzata una condivisibile attribuzione ad argentiere siciliano31 in virtù delle caratteristiche stilistiche che le apparentano alla produzione isolana tardo rinascimentale di cui condividono anche la soluzione tipologica con il taglio arrotondato del busto32).
In quegli stessi anni i vertici ecclesiastici della curia metropolitana reggina si rivolgevano al messinese Rinaldo Bonanno per la pregevolissima scultura in marmo dell’eremita San Leo (1582) da destinare alla diocesi “greca” di Bova33 alla quale, qualche tempo dopo (1635), veniva fatto dono di un prezioso reliquiario argenteo34 raffigurante il medesimo eremita. Secondo la tradizione sarebbe stato Mons. Annibale D’Afflitto (1593 – 1638)35 illustre prelato palermitano alla guida della diocesi più importante ed antica della Calabria a commissionarlo per la suffraganea sede bovese forse per “pacificare” la comunità religiosa da tempo in lite con quella del vicino villaggio di Africo per il possesso delle reliquie del «Santo Padre Nostro Leone di Africo»36. La committenza del manufatto costituisce fatto rilevante dell’episcopato del D’Afflitto37 che ligio e zelante nell’applicazione dei dettami conciliari non mostrò verso la parte greca le aperture – anche politiche – del suo predecessore Mons. Gaspare del Fosso38 cui va ascritto il generoso tentativo «di far risorgere dalle ceneri (il monachesimo greco locale n.d.r.) mediante il rinvigorimento con monaci chiamati dalla Sicilia»39.
Conservato nella cappella dell’omonimo santuario il reliquiario argenteo di San Leo40 (Fig. 3), raffigurato a tre quarti di busto in posizione frontale, poggia su un’urna ottocentesca di argentiere napoletano realizzata nel 1855 in sostituzione dell’originaria teca vitrea et lignea de argentata contenente caput integru/et alias reliquias in multis corporibus ossis41 documentata dalle Visite pastorali settecentesche. Il santo indossa la veste monacale alla cui canonica semplicità fa contrappunto una sobria quanto raffinata decorazione consistente di un minuto ornato floreale che emerge dal fondo fittamente inciso; sulla pazienza, tirata a lucido e incorniciata da una passamaneria a piccole volute, fa bella mostra una vistosa collana disegnata dal susseguirsi di elementi quadrilobi ed ovoidali e terminante con un raffinato gioiello assimilabile ad una croce pettorale, forse metafora della dignità vescovile da leggersi quale segno di speciale riguardo. Il volto dagli zigomi alti, la barba corta e minutamente incisa come la capigliatura a ciocche lisce e piatte, la fronte solcata da rughe, ha un’espressione ieratica simbolo di una vita ascetica ed eremitica, ma anche molto laboriosa suggerita dagli attributi iconografici, la falce e la pece che, come riferiscono le fonti agiografiche, l’eremita ricavava con duro lavoro nei boschi dell’Aspromonte a vantaggio dei poveri. Emblematica la tangenza fisiognomica riscontrabile con un’altra immagine del santo, datata anch’essa 163542, conservata nel vicino centro di Africo che, come ricordato, lungamente contese a Bova tanto le reliquie quanto il privilegio di avergli dato i natali.
Sulle lamine del busto e dell’aureola è impresso lo stemma del consolato di Messina ed il monogramma SC affiancato dalle ultime cifre dell’anno 1635 (Fig. 4) riferibili probabilmente all’argentiere Santo Casella43, documentato già nel 1618 ed il cui punzone è stato rilevato lungo un arco cronologico compreso tra le date 1626 ed 1634 su diversi arredi, tra cui un reliquiario fitomorfo ed una pisside del Duomo di Messina44 e, nella stessa provincia, a Molino su due turiboli della chiesa di Santa Maria della Scala e su una pisside della Chiesa Madre di Santo Stefano Briga45 e, più di recente, anche su un ostensorio della chiesa di san Pietro di Lipari46.
L’intervento conservativo condotto sul manufatto47 ha consentito di rilevare alcuni scarti esecutivi e stilistici nella conduzione plastica delle mani, forse non contestuali (sostituite?) alla realizzazione delle altre parti, ipotesi avvalorata dal riscontro di una diversa punzonatura proprio sulla scure che il santo stringe nella mano destra dove sono leggibili, anche se parzialmente abrasi, oltre allo scudo crociato del consolato messinese, il monogramma NT in campo rettangolare ed AS entro altro campo. Questi sembrerebbero rinviare all’argentiere ANT PAS (Fig. 5), forse individuabile in Antonio Pasqualino o Pascalino o Pascaluni, il cui marchio è attestato in manufatti messinesi della seconda metà del XVII secolo quali la coppa di una pisside della Chiesa Madre di Castroreale48, un piatto da parata in collezione privata a Marsala49 un tabernacolo architettonico della chiesa di S. Calogero di Naro e, tra gli altri, un calice della Cattedrale di Noto ed una coperta di immagine sacra del Duomo di Messina50.
La rivalità tra Bova ed Africo è certamente all’origine di un’altra interessante ma più tarda testimonianza iconografica di San Leo, consistente anch’essa in un busto reliquiario51 (Fig. 6) ma contenente in realtà la reliquia del solo dito della mano, forse inizialmente conservata in un braccio sostituito nel 1739 con l’attuale custodia52. L’immagine dell’eremita nella sua rigida frontalità appare ancorata adunformulario iconografico di gusto arcaizzante, il volto allungato incorniciato dalla barba ondulata e raccordata ai baffi e ai capelli che lasciano scoperta la fronte alta solcata da rughe. Il saio è costruito con lamine finemente lavorate a sbalzo ed incise sulle quali si effonde un repertorio esornativo di volute specchiate, tralci fogliacei e motivi floreali evocanti la preziosità dei damaschi settecenteschi. La resa del volto, eseguito non a fusione ma a sbalzo, risultato della saldatura di due forme (cranio e viso), è modellato con accurata anatomia e sembra evocare, per quanto attiene alle caratteristiche somatiche, il simulacro marmoreo tardo cinquecentesco del Bonanno, posto sull’altare maggiore dell’omonimo santuario bovese.
Il recente restauro53 ha consentito di leggere con maggiore chiarezza la bulla del consolato messinese, già in precedenza rilevata54, costituita dallo scudo crociato e coronato della città di Messina con accanto i punzoni PF739, da riferirsi al console per l’anno 1739, ed il monogramma P.SC all’argentiere facitore (Fig. 7). Il bollo consolare è stato rilevato su esemplari alquanto noti e rappresentativi, quali un ostensorio della chiesa madre di Alì55, le aggiunte settecentesche del veneratissimo busto reliquiario cinquecentesco di san Marziano nella Cattedrale di Siracusa56, una pisside di collezione privata messinese57 e due calici, uno nella chiesa di S. Nicola di Bari in San Fratello ed un altro in quella di san Sebastiano a Militello Rosmarino58, entrambi in provincia di Messina. L’attività del console PF, che alcuni studi identificano con l’argentiere Placido Furnari59 , è ampiamente documentata tanto per l’anno di nostro interesse quanto per l’anno precedente, il 1738, durante il quale dovette ricoprire la carica per l’ultimo semestre: il suo punzone è impresso sulla pregevole stauroteca rococò del Tesoro della Cattedrale di Messina esibente un apparato decorativo «in chiave arcadica e naturalistica»60, su una lampada pensile della chiesa madre di Rometta61 ed ancora su un gruppo di manufatti della chiesa di S. Maria delle Grazie di Castel di Lucio (Me)62 e per il 1736 su un calice della chiesa madre di Comiso63. Più difficile, invece, il tentativo di ricostruire la produzione dell’argentiere P.SC che, al momento, sembrerebbe attestato in maniera incerta per l’anno 1738 dal punzone rilevato su una patena ed un reliquiario del velo della Madonna della chiesa di Santa Maria delle Grazie di Castel di Lucio64.
Le fonti relative al bios del «Santo Padre Nostro Leone di Africo» rinviano ai rapporti con la vicina Sicilia, dove l’eremita si sarebbe “rifugiato” per sottrarsi alla popolarità che i miracoli compiuti in Calabria gli avevano procurato: ciò, probabilmente, costituisce un topos che ne accumuna la vicenda umana a quella di altri “santi migratori” come sant’Elia da Enna65 un santo siciliano vissuto nel IX secolo, le cui reliquie giungevano nel 90366 sul litorale tirrenico reggino nel territorio dell’antica diocesi di Taureana67 in vallis Salinarum. La testa reliquiario68 (Fig. 8) che ne conserva il cranio rappresenta un unicum in Calabria per le inusuali aperture delle lamine che ne compongono il viso e ne lasciano vedere il teschio. Il volto iconico, assunto ad emblema del più severo ascetismo, ha un’espressione quasi accigliata, la fisionomia è caratterizzata da sopracciglia marcate, gli occhi leggermente ravvicinati ed il naso curvo, la bocca piccola incorniciata da una corta barba resa con striature verticali e raccordata ai baffi. L’artefice «M. DANIEL VERVARE» forse messinese probabilmente attivo nell’ambiente culturale del monastero basiliano di Messina firma e data (1603) il manufatto che si suppone eseguito per commemorare l’anniversario del diesnatalis del santo monaco, proponendo – probabilmente su precise indicazioni della committenza – una tipologia a “testa” sicuramente arcaizzante se si considera la maggiore diffusione, a quella data, della più aggiornata forma “a busto”.
La devozione al santo di Enna si intreccia “spiritualmente” in Calabria e nella stessa Seminara con quella di un altro grande asceta del monachesimo bizantino, il siciliano Filarete69 (1020 -1070) il cui corpo venne miracolosamente ritrovato, a seguito del terremoto del 1693, tra le rovine del convento di sant’Elia Nuovo dove erano state trasferite in seguito all’abbandono del monastero sul monte Aulinas in terris Salinarum70. La custodia della reliquia del cranio (Fig. 9), commissionata dopo lo straordinario evento, risulta particolarmente efficace nella descrizione fisiognomica dell’eremita quasi “ritagliata” sulla descrizione tramandataci dal biografo Nilo «il viso allungato il colorito bruno, in esso vi era ben visibile la traccia di una bruttissima malattia che aveva contratto da bambino [..] aveva un bel naso, belle sopracciglia, gli occhi vagamente celesti, la barba non troppo folta»71. Il volto emaciato ha un’espressione severa e lievemente accigliata; gli occhi ombreggiati da folte sopracciglia, le guance flosce, il naso prominente e l’ovale del viso incorniciato da una barba che si presenta come una massa compatta solcata da striature che ne definiscono le ciocche rese dal sapiente uso del bulino. Il manufatto reca incisa sulla nuca un’iscrizione, che ci ragguaglia circa il committente il Rev. P. D. Giova. Batt. Di Lauro, e la data 1717 confermata dalla bulla consolare messinese affiancata dalle iniziali del console P.P.C., riferibili probabilmente a Placido Pascalino72; il punzone P.P.C. è stato rilevato sul raffinatissimo calice in filigrana d’argento della chiesa di Santa Maria La Nova di Scicli recante la data 170673 e su una serie di manufatti «di elevata finezza esecutiva» tra cui nel Duomo di Messina una monumentale croce ed alcuni candelabri datati 171174, un fermaglio da piviale datato 1716 in collezione privata romana75, un calice del Museo di Arte Sacra di San Marco D’Alunzio76, un bussolotto per elemosine in collezione privata77, un calice della chiesa di Maria SS. Assunta di Cesarò78, ed un altro in collezione privata messinese79, un piatto da parata sempre in collezione privata a Marsala80.
La sigla dell’argentiere GC è, invece, di incerta identificazione per cui sono stati proposti al riguardo i nomi di Giovanni Calamita, Giovanni Caruso e Giuseppe Conti81. Il punzone di questo maestro appare in qualità di vidimatore in numerosi manufatti che a partire dal 173782 si scalano lungo un arco cronologico che giunge quasi alla fine del secolo83: tra questi, oltre ad un calice della chiesa madre di Regalbuto84, il “pezzo” più rilevante è certamente costituito dallo scenografico paliotto rocaille raffigurante la Vergine Santissima della Sacra Lettera della Cattedrale Santa Maria Assunta di Messina85 datato 1769. In Calabria il monogramma GC68 è stato censito unitamente a quello P.C. su un raffinato ostensorio della Concattedrale di San Nicola vescovo di Palmi86.
Al 1704 si data il pregevolissimo busto reliquiario di Santa Veneranda87 «[…] Il suo culto fu portato nella Bassa Italia dai Bizantini e quivi la santa fu appellata s. Venera e assunta come patrona della città di Acireale in Sicilia (26 luglio), di Gerace in Calabria (28 luglio) e di Lecce nella Apulia (5 maggio). Le plebi cristiane di questi tre luoghi attribuirono ciascuna alla propria città la nascita della santa e vi localizzarono il martirio. Ma si tratta di una sola e medesima santa, cioè della santa Parasceve dei Greci»88. A Gerace il culto di Santa Veneranda giunse in epoca imprecisata89 ma sicuramente già nel X secolo esisteva un monastero a lei dedicato90 che, distrutto dagli Atei Agareni, venne ricostruito dal vescovo Leonzio nel 1106 e nel 1540 durante l’episcopato di Tiberio Muti (1538 – 1552) aggregato a quello di Sant’Anna, sotto la regola di San Basilio. Fu infatti la Badessa di questo convento, più tardi passato all’ordine agostiniano, a commissionare insieme alle suore Fortunata Infusini, Anna Cavallo ed Agnese Mangullo, la custodia argentea (Fig. 10) che conserva il cranio della martire cristiana. La scultura poggia su un’alta base poligonale modanata la cui anima lignea è rivestita da lamine d’argento sbalzato e cesellato; sulla fascia mediana delimitata da due cornici baccellate trovano posto tra gli ornati floreali i cartigli contenenti le iscrizioni relative alla committenza e lo stemma del vescovo Mons. Domenico Diez De Aux (1689 – 1729) alla cui prodigalità sono da ricondurre manufatti tra i più notevoli della cattedrale geracese e tra questi, oltre al già ricordato calice in filigrana91, la custodia argentea dell’antica stauroteca della Sacra Croce giunta in diocesi grazie al vescovo Atanasio Chalkeopulos (1461 – 1497)92. La santa, raffigurata a tre quarti di busto, indossa una veste il cui tessuto leggermente drappeggiato all’altezza della vita e lungo lo scollo della veste è fittamente rabescato e curato nel prezioso dettaglio delle ruches delle maniche dalle quali fuoriesce la camicia che riveste gli avambracci della santa. L’espressione del volto garbatamente reclinato è dolce ed assorta e la capigliatura raccolta in fitte ciocche lascia scoperto il viso e l’aristocratico collo. Sul capo è la corona il cui modulo decorativo è costituito da un serto floreale reso con sbalzo deciso. Su di essa sono impressi il marchio consolare messinese ed il punzone SEBA ***AR (Fig. 11) riferibile a Sebastiano Iuvarra esponente di spicco di una tra le più prestigiose ed affermate famiglie di argentieri messinesi nella cui vastissima e diversificata produzione93 l’interpretazione del modulo floreale raggiunge esiti formali di notevole senso plastico raffrontabili con quelli della corona geracese: si vedano in proposito il reliquiario di San Biagio della chiesa di Maria Assunta di Novara di Sicilia94 e quello della chiesa di Sant’Alfio di Lentini95 per citarne alcuni tra i più rappresentativi.
La mancanza di punzonatura sulle altre lamine della custodia pone degli interrogativi relativi al possibile coinvolgimento del maestro anche riguardo al busto che potrebbe essere stato realizzato, in via di ipotesi, sempre nell’ambito della bottega degli Juvarra ma non punzonato, pratica non inusuale nel caso di un rapporto fiduciario tra committente ed argentiere; la corona è l’unico elemento che reca il punzone del maestro e, in assenza della data di vidimazione e del punzone consolare, potremmo ritenere o che Sebastiano ne sia l’artefice – cosa al momento in contrasto con l’estremo cronologico della sua attività fin qui documentata – o supporre l’ utilizzo del suo marchio all’interno della bottega successivamente alla data (1701) che oggi costituisce l’estremo cronologico ante quem della sua produzione.
Accanto ai vertici ecclesiastici anche le più notabili famiglie feudali calabresi, oltre a finanziare importanti imprese decorative, gareggiarono soprattutto tra ‘600 e ‘700 nel promuovere e sostenere con donativi e splendide committenze le più sentite devozioni popolari di tradizione greca.
Giovanni Fiore da Cropani scrivendo alla fine del ‘600 il suo Della Calabria Illustrata96, dedicato a Don Carlo Maria Carafa Branciforte (1651 – 1695) figlio di Fabrizio Carafa ed Agata Branciforti, quarto principe di Roccella e dal 1675 anche di Butera97, dopo aver lodato la munificenza di mons. Carlo Carafa (1611 – 1680) che, già arciprete della chiesa Matrice dell’antica Castelvetere, fece dono alla sua Chiesa di «[…] alcune reliquie insigni in Istatue bellissime indorate»98 si sofferma sul reliquiario del «S. Braccio incrostato dentro un Braccio e mano di Argento, costrutto con mirabile maestria, dentro la Chiesa matrice, in una Cappella sita pomposamente in onore del S. Protettore»99 Ilarioneeretta da Girolamo II Carafa quarto marchese di Castelvetere e Principe della Roccella100.
Il simulacro argenteo (Figg. 12 – 13) della venerata reliquia «visitata ed enunciata in tempo di Monsignor Ottaviano Pasqua» poggia su una base triangolare rialzata su peducci, realizzata con lamine d’argento finemente incise con simbolici motivi floreali (gigli) e definite da cornicette di tarsie; sulla lamina di prospetto è impresso lo scudo sormontato da corona e bipartito con a sinistra lo stemma dei Carafa e a destra quello dei Branciforte. Su questo piedistallo triangolare si innalza la custodia simulante la manica di una veste priva di decorazione e morbidamente drappeggiata in un susseguirsi di pieghe interrotte dall’aprirsi della teca reliquiaria evidenziata da una liscia incorniciatura. Dal polsino fuoriesce la mano risolta naturalisticamente le cui dita, all’epoca della visita pastorale di mons. Il denfonso Del Tufo del 1730, esibivano tre anelli oggi mancanti101.
Recenti approfondimenti documentari102 hanno consentito di contestualizzare storicamente il manufatto e, in virtù dello stemma inciso sulla base, ricondurne con sufficiente certezza l’esecuzione e la committenza alla circostanza che vide l’unione delle famiglie Carafa e Branciforte con il matrimonio di Fabrizio II Carafa, figlio di Girolamo II, e donna Agata Branciforte dei Principi di Butera; per tale motivo è stata proposta una plausibile, ma solo parzialmente condivisibile, datazione ad un periodo post 1640 ma certamente anteriore al 1691, data quest’ultima dell’edizione postuma del primo libro del Fiore. Un’attenta lettura stilistica ingenera infatti alcune perplessità dovute alle evidenti incoerenze riscontrabili tanto nella morfologia della custodia, esageratamente allungata e dal linguaggio quasi arcaizzante, quanto nella differente qualità dell’inciso delle lamine, decisamente più corsivo in quelle costituenti il piedistallo triangolare rispetto a quello più fitto e vibrato esibito sul piano d’appoggio del braccio. Si può, dunque, ipotizzare – prassi assai usuale soprattutto quando il valore devozionale e storico di certa suppellettile ne consigliava la manutenzione e la sopravvivenza, – che la custodia argentea sia stata oggetto di assettamenti o adattamenti resisi necessari nel corso del tempo come la sistemazione di quel catinaccio pieno di piombo, ricordato nella visita pastorale del 1730, lascia ipotizzare. Ciò spiegherebbe anche l’incoerenza stilistica della cornicetta a palmette ricadente sulla base alla quale risulta fissata tramite un aggiustamento tecnico, suggerito dal chiodino posto al centro dell’elemento decorativo.
Alla committenza di Carlo Maria CarafaBranciforte, figura di principe illuminato e devoto, è da ricondursi la presenza nella cappella delle reliquie della chiesa matrice di Caulonia del reliquiario ad ostensorio del capello della Beata Vergine103 che esibisce sulla specchiatura centrale del piede, impostato su base poligonale e gradinata, lo scudo con corona delle famiglie Carafa e D’Avalos la cui unione veniva sancita dal matrimonio nel 1674 del principe Carlo Maria con Isabella d’Avalos figlia del marchese del Vasto e di Pescara. Un repertorio ornamentale di gusto chiaramente manierista accompagna in un gioco di volute curve e spezzate simulanti figure mostruose l’elevarsi del fusto con nodo a vaso sul cui recto è incisa l’immagine dell’Immacolata e sul verso quello della Madonna della Lettera. Due testine alate di diversa grandezza, eseguite a fusione e di bella resa plastica, fungono da raccordo con il ricettacolo di forma ottagonale lungo i cui lati è un alternarsi di testine ed elementi polilobati dall’articolato intreccio di piccole volute a ricciolo affrontate. L’esecuzione della raffinata custodia priva di punzonatura può ragionevolmente collocarsi cronologicamente tra gli anni 70 ed ‘80 del ‘600 tanto in considerazione di quanto argomentato circa la presenza dello stemma bipartito riproducente le armi dei Carafa e dei D’Avalos, sia in ragione del repertorio esornativo esibito: dalle testine di cherubini alati, molto in voga nell’argenteria sacra dell’epoca, ai ritmi concavo convesso delle volute, alla sopravvivenza di figurazioni tipiche degli apparati decorativi di gusto manierista riscontrabili nei fregi culminanti con teste di drago presenti sulla base e ai lati del vaso. L’alta qualità esecutiva dell’opera si coniuga ad un impaginato che testimonia la condivisione ed elaborazione di repertori napoletani circolanti in Sicilia104, reinterpretati nell’ampio campionario delle arti decorative e nella suppellettile sacra: stringenti affinità stilistiche ed iconografiche si possono cogliere tra il manufatto calabrese ed il reliquiario di argentiere palermitano databile a metà del ‘600, punzonato dal console Carlo Di Napoli e conservato in Palazzo Abatellis105.
La devozione alla gloriosa Vergine Madre di Dio protettrice di Messina cui nel 1644 Placido Samperi dedica la sua monumentale lconologia106 trova in Calabria già dal finire del XVI secolo un’importante attestazione nell’icona della sacra Lettera, documentata già nel 1576 in un disegno d’archivio107, ma rivestita solo nel Settecento da una preziosa manta108 e collocata sull’altare maggiore della Concattedrale di San Nicola vescovo in Palmi, cittadina della costa tirrenica reggina dove, secondo una consolidata tradizione, la reliquia del sacro capello giunse nel 1582 quale dono dei cittadini messinesi per l’aiuto ricevuto dai palmesi in occasione della pestilenza del 1575. Nel corso del XVIII secolo, in concomitanza con l’elevazione di Maria della Sacra Lettera a patrona (1733), la devozione dovette conoscere particolare incremento e dar luogo ad importanti committenze cui non furono estranee le cure rivolte dal vescovo Michele Ajerbe D’Aragona (1723 – 1734) ed i decreti del 23 agosto 1732 e 23 settembre 1733 relativi alla concessione della recita dell’Ufficio in uso a Messina e di quaranta giorni indulgenza “in perpetuo” ai sacerdoti che, dopo l’Ufficio divino, avessero letto la Lettera a Maria e recitato l’antifona109. Tra le testimonianze figurative della devozione mariana è il reliquiario fitomorfo110 (Fig. 14) che custodisce il pio dono del messinesi. Il manufatto, mutilo del piede originario oggi sostituito con la base di un calice settecentesco, ripropone la tipologia delle frasche fiorite, assai diffuso nella cultura figurativa meridionale tra ‘600 e ‘700. Un fitto tralcio di tulipani ed anemoni cui si accompagna un serto fogliaceo, accuratamente descritto nelle varietà che lo compongono, si svolge trattenuto da un nastrino che dà vita qua e là a minuti fiocchetti intorno alla teca e si raccoglie in alto a formare un cespo fiorito. Sul reliquiario, il cui inserimento nell’attuale base sembra aver comportato un assettamento anche dell’elemento centrale in cui si inserisce la custodia, non è stata riscontrata alcuna punzonatura ma può raffrontarsi con analoghi prodotti delle maestranze siciliane quali la serie di cornici con fiori marchiate a Palermo di collezione Virga111 datate entro il quarto decennio del ’700, epoca in cui a Palmi conosce rinnovato vigore la devozione alla Madonna della Sacra Lettera.
Nel 1774 Michele Guido procuratore della Venerabile Cappella della Vergine commissionava quale testimonianza del culto speciale riservato alla sacra effige la preziosa manta argentea112 (Fig. 15) che ancora oggi ricopre l’icona lasciandone scoperti solo i volti della Vergine e del Bambino e le rispettive mani. Un fastoso ornato floreale formato da girali fogliacei, naturalistici boccioli, peonie ed anemoni, resi con accurata esecuzione e nitida definizione grafica ripropone i repertori tessili coevi, si effonde sull’intera superficie del manto edescrive su un fondo inciso con un sottile rigatino elementi romboidali con al centro minute corolle; sulla veste si svolge invece un lucido reticolato di motivi sinusoidali con inseriti elementi floreali: ne risulta un ornato serrato il cui effetto è un vibrare dolce ed effuso della luce. Su ciascuna delle 13 lamine costitutive il manufatto sono impressi il punzone della zecca messinese ed il monogramma dell’argentiere PC (Fig. 16) che potrebbe intendersi quale vidimatore del manufatto o piuttosto coincidere con quello del facitore, ipotesi quest’ultima più plausibile dal momento che ad oggi si conoscono per l’anno 1774 le sigle consolari MC e PG113. Lo stesso punzone PC (con un puntino in basso tra le due lettere) è stato rilevato unito al bollo consolare GC68 su un ostensorio della Concattedrale palmese114 e, dubitativamente, sempre nel corredo di vasa sacra dello stesso edificio, su una pisside recante il marchio consolare OL73115: manufatti che consentono di integrare il corpus delle opere di un argentiere che, grazie alle ricerche documentarie condotte da Grazia Musolino e relative al monumentale ostensorio con raffigurazioni della Fede e della Speranza della chiesa di Santo Stefano di Milazzo116, è possibile identificare nell’argentiere Bonaventura Caruso “professore ed orefice di Messina”, personalità di grande prestigio e molto ricercato non solo dalla committenza isolana – come testimonianola croce processionale del duomo di Santo Stefano Protomartire di Milazzo117, la cassa reliquiaria di santa Flavia della chiesa di san Giovanni di Malta in Messina ed i manufatti del Duomo e del monastero benedettino di Santa Caterina d’Alessandria di Geraci Siculo ed altra sacra suppellettile in Mistretta118 – ma anche da quella calabrese.
Gli esemplari palmesi la cui cifra stilistica si caratterizza per l’adesione ai più aggiornati formulari di gusto rococò sono opera certamente di grande valenza ed impegno che confermano il credito di cui il Nostro dovette godere negli anni 70 del ‘700 presso la curia della diocesi di Oppido-Palmi con la quale si impegnava a realizzare per l’anno 1779 quattro calici con patene, una lampada grande e due piccole ed il guarnimento di un messale, da destinarsi alla chiesa di santa Maria delle Grazie di Sinopoli e tutti da realizzarsi con la fusione dell’argento vecchio119.
La diffusione nella Calabria meridionale della devozione messinese alla Madonna della Sacra Lettera è attestata fin nel cuore dell’Aspromonte reggino dove nel Santuario della Madonna di Polsi, meta di documentati pellegrinaggi di devoti siciliani già nel ‘600, si conserva un’icona su tavola a lei intitolata recante la data 1715120. Le cronache del Santuario e le viste pastorali settecentesche ci forniscono ragguagli relativi ad un prezioso reliquiario mariano ivi conservato, la stauroteca de «la Sacra Croce ritrovata dal Toro con l’incastro d’Argento, fatto da divoti Messinesi l’anno 1739»121 (Figg. 17 – 18 – 19). La preziosa reliquia consistente della croce in ferro rinvenuta miracolosamente da un toro che, secondo la leggenda, venne trovato dal suo padrone in adorazione davanti all’oggetto proprio nel luogo dove poi, per indicazione della Vergine, sarebbe sorto il santuario, si imposta su una base che si erge a guisa di monte lungo i cui fianchi l’eccellente artista sbalza e descrive nel dettaglio, guidato da una sensibilità decorativa di gusto arcadico, gli elementi arborei e vegetali che concorrono a restituire l’intricato paesaggio boschivo e le asperità dell’Aspromonte calabrese. Sui terminali della croce dai profili a volute fogliacee includenti testine angeliche sono ben leggibili la bulla della zecca messinese, i punzoni del vidimatore P.DC, riferibile probabilmente a Placido Donia122 e dell’argentiere DG, da identificarsi con Domenico Gianneri123, la cui personalità artistica contraddistinta da un’ «innegabile vivacità inventiva» è stata recentemente approfondita da Grazia Musolino124 nell’ambito della disamina di due delle sue creazioni più singolari ed innovative: il calice della chiesa di S. Maria dell’Annunziata di Comiso125 datato 1736 e l’ostensorio del seminario vescovile di Caltagirone che, a ragione della straordinaria valenza artistica e della «tecnica ineccepibile» intrisa di stringenti contenuti dottrinari, possono figurare tra i capi d’opera del maestro, insieme al raffinato calice di gusto rocaille della chiesa del SS. Crocifisso di Milazzo126.
Un’altra importante presenza di argentieri messinesi – questa volta nel nord della Calabria- è fornita dal rivestimento argenteo dell’immagine della Madonna delle Grazie nella chiesa della SS. Annunziata in Carpanzano (Cs) (Fig. 20) che nel lasciare scoperti i volti e le mani della Vergine e del Bambino riproduce «esattamente i profili, le movenze e alcuni particolari iconografici dell’immagine sottostante»127. La superficie sbalzata, incisa e modellata sull’icona per simularne il manto è decorata da racemi di foglie e fiori liberamente composti mentre la sottostante tunica finemente pieghettata è resa nella sua serica vaporosità da un leggero cesello; su entrambe le teste della Vergine e del Bambino si disegna un’aureola suddivisa da piccole specchiature quadrate con iscritto un fiore a cinque petali. Su ogni lamina sono riprodotti la bulla del Consolato messinese ed i punzoni, rispettivamente dell’argentiere SV e del console St.C[*6, quest’ultimo di non facile identificazionee per il quale è stato propostouncondivisibile riferimento all’argentiere Stefano Stagnitta128.La medesima punzonatura contrassegna per l’anno 1767 un pregevole ostensorio figurato di gusto rococò ed una copertura di messale pertinenti la chiesa conventuale di San Pietro in San Pier Niceto (Me)129, mentre il solo marchio consolare risulta apposto su un ostensorio di Mongiuffi Melia130 e su una legatura di messale in Alì Superiore131. Il monogramma SV rferibile all’argentiere facitore marchia le lamine che compongono la preziosa sopraveste argentea posta a copertura del seicentesco dipinto di San Francesco di Paola132 in San Pier Niceto ed individua con ogni probabilità l’argentiere Stefano Vinci la cui produzione,133 distinta daapprezzabile raffinatezza esecutivae manifesta adesione alle più aggiornate mode decorative del rococò, si svolge lungo un arco cronologico che dalla metà degli anni ‘60 del ‘700 – come conferma la data 1766 del marchio consolare rilevato sulla manta di San Pier Niceto – giunge fino agli anni ‘80 del secolo e precisamente al 1784 con la tiara conservata presso il Duomo di Taormina134.
Il breve e certamente non esaustivo excursus tra i capi d’opera dell’argenteria sacra di provenienza messinese tutt’oggi conservati in territorio calabroha intesomettere in luce la duplice rilevanza che ad essi va attribuitanell’ambito delle secolari relazioni artistiche e culturali,ma anche di devozione,di cui è intessuta la storia dello Stretto: se, da una parte, infatti, parteciparne la conoscenzaagli studiosi o appassionati del settore contribuiscead implementare in maniera qualificata e significativa il catalogo di importanti maestri messinesi come Bonaventura Caruso o Sebastiano Juvarrao Domenico Gianneri, dall’altra aiuta a riannodare le sfilacciatetrame di un tessuto prezioso dai colori consunti e mortificati da secoli di polverosatrascuratezza restituendone, a quanti lo vorranno ammirare, una più corretta lettura.
- Alfonso Frangipane (Catanzaro, 1881 – Reggio Calabria, 1970) fondò nel 1922 e diresse fino alla sua morte il periodico “Brutium Rivista d’Arte Moderna” una esperienza editoriale di alta valenza scientifica e tutt’oggi insostituibile fonte di ricerca. Cfr. R. Cioffi, Per uno studio delle riviste d’arte del primo Novecento: note su Alfonso Frangipane e la rivista “Brutium, in L’arte nella storia, a cura di V. Terraroli-F. Varallo-L. De Fanti, Milano 2000, pp. 85-93. Appassionato studioso di storia calabrese, infaticabile ricercatore, storico dell’arte, saggista, decoratore raffinato il Frangipane fu figura centrale della cultura artistica calabrese e stimato organizzatore delle Biennali d’Arte Moderna e nel 1913 della prima mostra retrospettiva su Mattia Preti. Promosse nei più prestigiosi contesti nazionali l’artigianato della regione e fu convinto sostenitore degli studi artistici che sostenne favorendo la nascita nella città di Reggio dell’Accademia di Belle Arti, del Liceo artistico e dell’Istituto d’Arte Cfr. Alfonso Frangipane e la cultura artistica del ‘900 in Calabria, Atti del Convegno di studi (Reggio Calabria, Biblioteca P. De Nava, 26 settembre 2009) a cura di G. De Marco- M.T. Sorrenti, Roccelletta di Borgia 2010. [↩]
- L. Perroni Grande, Per la Storia d’Arte i Calabria. Un orafo calabrese del XV secolo, in “Brutium”, a. I, n. 2, p. 2. [↩]
- Sull’argomento si veda G.C. Sciolla, La riscoperta delle arti decorative in Italia nella prima metà del Novecento. Brevi considerazioni, in Storia, critica e tutela dell’arte nel Novecento. Un’esperienza siciliana a confronto con il dibattito nazionale, atti del convegno internazionale di studi in onore di Maria Accascina (Palermo – Erice, 14-17 giugno 2006), a cura di M.C. Di Natale, Caltanissetta 2007, pp. 51-58. [↩]
- G. La Corte Cailler, Orefici ed argentieri in Sicilia nel XV secolo (da documenti inediti), in Le arti decorative del Quattrocento in Sicilia, catalogo della Mostra (Messina, Chiesa dell’Annunziata ai Catalani, 28 novembre 1981 – 31 gennaio 1982) a cura di G. Cantelli, Roma 1981, pp. 131-154. [↩]
- Per il profilo dell’argentiere si rimanda a G. Molonia, in Arti Decorative in Sicilia. Dizionario biografico, a cura di M.C. Di Natale, vol. 2, Palermo 2014, I, p. 195, ad vocem. [↩]
- Per il profilo dell’argentiere si rimanda a G. Molonia, in Arti Decorative …, 2014, I, p. 530, ad vocem [↩]
- Per il profilo dell’argentiere si rimanda a G. Chillè, inArti Decorative…, 2014, I, p.590, ad vocem [↩]
- F. Arillotta, Reggio nella Calabria spagnola. Storia di una città scomparsa (1600-1650), Reggio Calabria 1981, p. 258. [↩]
- Per il profilo dell’argentiere si rimanda a A. Raffa, in Arti Decorative…, 2014, II, p. 459, ad vocem [↩]
- C. Ciolino, L’arte orafa e argentaria a Messina nel XVII secolo, in Orafi ed Argentieri al Monte di Pietà: artefici e botteghe messinesi del XVII secolo, catalogo della Mostra (Messina, Monte di Pietà, 18 giugno – 18 luglio 1988) a cura di C. Ciolino, Messina 1988, p. 137 nota 38. [↩]
- F. Arillotta, Reggio…, 1981, p. 258. [↩]
- G. La Corte Cailler, Orefici ed argentieri …, 1981, p. 145. [↩]
- Per il profilo dell’argentiere si rimanda a G. Molonia, in Arti Decorative …, 2014, I, p. 256, ad vocem [↩]
- Per il profilo dell’argentiere si rimanda a G. Molonia, in Arti Decorative…, 2014, I, p. 281, ad vocem [↩]
- Per il profilo dell’argentiere si rimanda a G. Molonia, in Arti Decorative…, 2014, I, p. 163, ad vocem [↩]
- M. Accascina, Oreficeria di Sicilia dal 12. al 19. secolo, Palermo 1974, p. 226;
Per il profilo dell’argentiere si rimanda a G. Molonia, in Arti Decorative…, 2014, I, p.372, ad vocem; si veda inoltre G. Larinà, Storia, arte e iconografia di un Ostensorio, in Acqua e pane. Arte e teologia di un Ostensorio, a cura di G. Larinà – N. Fazio, Messina 2005, pp. 5-26. [↩]
- Si rinvia per l’argomento al catalogo della mostra Argenti di Calabria. Testimonianze meridionali dal XV al XIX secolo, a cura di S. Abita, catalogo della mostra (Cosenza, Palazzo Arnone, 1 dicembre 2006 – 30 aprile 2007), Pozzuoli 2006, pp. 84-85. [↩]
- G. Strano, Considerazioni sui Bioi dei Santi greci tra Sicilia e Calabria meridionale (secoli IX – XI), in Elia il Giovane. La vita e l’insegnamento dall’età bizantina al mondo contemporaneo, a cura di P. Spallino – M. Mormino, Palermo 2019, pp. 57-70; S. Pricoco, Un esempio di agiografia regionale: la Sicilia, in Santi e demoni nell’Alto Medioevo Occidentale (Spoleto, 7-13 aprile 1988), XXXVI Settimana di Studio del Centro Italiano di Studi sull’Alto Medioevo, Spoleto 1989, pp. 319-376. [↩]
- G. Roma, Il fenomeno monastico nel territorio dell’attuale Calabria dalle origini alla conquista normanna, in Dialogando. Studi in onore di Mario Boselli, a cura di C. Masseria – E. Marroni- S. Borsari, Pisa 2017, pp. 359-372: 364; Si veda inoltre S. Borsari, Il monachesimo bizantino nella Sicilia e nell’Italia meridionale prenormanne, Napoli 1963; G. Musolino, Calabria bizantina. Iconi e tradizioni religiose, Venezia, 1966; E. Follieri, I Santi dell’Italia greca, in Histoire et Culture dans l’Italiebyzantine. Acquis et nouvelles recherches, a cura di A. Jacob – J. M. Martin – Gh. Noyé, Roma 2006, pp. 95-126. [↩]
- C.D. Fonseca, L’organizzazione ecclesiastica dell’Italia normanna tra l’XI ed il XII secolo: i nuovi assetti istituzionali, in Le istituzioni ecclesiastiche della Società Christiana dei secoli XI-XII: diocesi, pievi e parrocchie. Atti della Sesta settimana internazionale di studio, Milano 1-7 settembre 1974, Milano 1977, pp. 342-345. [↩]
- Si veda sull’argomento M. H. Laurent-A. Guillou, Le “Liber Visitazionis” d’AthanasaeChalkeopoulos (1457-1458), Città del Vaticano 1960. [↩]
- Cfr. V. Peri, Chiesa latina e Chiesa greca nell’Italia post–tridentina (1564-1596), in La chiesa greca in Italia dall’VIII al XVI secolo,Atti del Convegno storico Interecclesiale, (Bari, 30 aprile–4 maggio 1969), Voll. 3, I, Padova 1973, pp. 271-469; M. Petta, Apollinare Agresta abate generale basiliano (1621 – 1695), Mammola 1981; Idem,Documenti e appunti sulla Riforma postridentina dei monaci basiliani, in “Aevum”, a. 51, fasc. 5/6, pp. 411-478. [↩]
- Sull’argomento si veda F. Russo, Storia della Archidiocesi di Reggio Calabria, voll. 3, I, Dalle origini al Concilio di Trento, Napoli, 1966, II, pp. 48-57; E. D’Agostino, La diocesi greca di Bova, in Calabria bizantina. Il territorio grecanico da Leucopetra a Capo Bruzzano, Soveria Mannelli, pp. 89-113; Idem. La Cattedra sopra la rupe, Soveria Mannelli 2014. [↩]
- F. Russo, Storia …1966, I, p. 374. [↩]
- Per il bios di San Nicodemo cfr., Vita di San Nicodemo abate dell’ordine di San Basilio Magno / scritta da P. Maestro D. Apollinare Agresta edita in Roma nel 1677 riprodotta con note dal prof. Antonio Aromolo, Cirò 1901; V. Saletta, Vita inedita di S. Nicodemo di Calabria: dal cod. messian. 30, Roma 1964; Monaco Nilo, Vita di San Nicodemo, trad. D. Minuto, Reggio Calabria 2010; A. Acconcia Longo, Santi greci della Calabria meridionale, in Calabria bizantina. Testimonianze d’arte e strutture di territori. VIII – IX Incontro di Studi Bizantini, Soveria Mannelli 1991, pp. 211-230; G. Musolino, Santi eremiti italogreci. Grotte e chiese rupestri in Calabria, Soveria Mannelli 2002, pp. 57-66. [↩]
- Per il bios di San Giovanni Terista cfr. S. Borsari, Vita di S. Giovanni Terista: testi greci inediti, in Archivio Storico per la Calabria e la Lucania, 1953 (22), Tivoli 1953, pp. 136-151; A. Acconcia Longo, S. Giovanni Terista nell’agiografia e nell’innografia, in Calabria Bizantina. Civiltà bizantina nei territori di Gerace e Stilo, Soveria Mannelli 1998, pp. 137-154; G. Musolino, Santi eremiti…, 2002, pp. 81-86. [↩]
- E. D’Agostino, La diocesi greca di Gerace, in Storia della Calabria medioevale, a cura di A. Placanica, voll. 2, I, pp. 321-345. [↩]
- G. Benzoni, Carafa Antonio, in Dizionario biografico degli italiani, 19, Roma 1976. [↩]
- G. Gallucci, Documenti per la storia del monastero di San Nicodemo già Grancia di San Biagio: Le urne con le reliquie del Santo; Villa San Giovanni 2004; C. Mammola, Il Monasterodi S. Nicodemo in un Documento del 1580, in “Eco del Chiaro”, 2017, n. 4, pp. 10-21. [↩]
- C. Mammola, Il Monastero …; il documento, conservato presso l’archivio dell’Abbazia di Grottaferrata descrive la visita compiuta dall’abate generale Colantonio Ruffo in data 10 dicembre 1580 al monastero di San Nicodemo e ad altri monasteri calabresi. Il cenobio era sito a Mammola nel luogo detto la “la Grangia” e qui viene aperta la “cascietta” contenente le sacre reliquie e tra queste la “croccia de la testa”. [↩]
- Per l’attribuzione a maestranze siciliane cfr G. Leone,Culto e iconografia dei santi italo-greci nell’area reggina durante la Controriforma,in Sacre Visioni. Il patrimonio figurativo nella provincia di Reggio Calabria (XVI – XVIII secolo), catalogo mostra a cura diR. M. Cagliostro – C. Nostro – M. T. Sorrenti, (Reggio Calabria, Rotonda Nervi, 16 dicembre 1999 – 20 febbraio 2000), Roma 1999, pp. 60-67. [↩]
- Si vedano in proposito i busti di Sant’Agacio del Duomo di Nicosia (R. Vadalà, scheda n. 32 in Splendori di Sicilia. Arti decorative dal Rinascimento al Barocco, catalogo della mostraa cura di M. C. Di Natale (Palermo, Albergo dei Poveri 10 dicembre 2000-30 aprile 2001) Milano 2001, p. 374-375; di San Tommaso Becket (M. C. Di Natale, scheda n. 5 in Il Tesoro nascosto. Gioie e argenti per la Madonna di Trapani, catalogo della mostraa cura di M. C. Di Natale-V. Abbate (Trapani, Museo Regione Pepoli, 2 dicembre1995-3 marzo 1996), Palermo 1995, p. 192; di San Martino (?) del palermitano Pietro Rizo (R. Vadalà, scheda n. 43 in Splendori…, 2001, p. 383) fino ai busti di San Gerlando e del Beato Matteo di Agrigento (G. Costantino, scheda n. 46 in Splendori…, 2001, p. 385. [↩]
- Sulla storia della diocesi di Bova, cfr. E. D’Agostino, La Diocesi greca di Bova in Calabria Bizantina, Il territoriogrecanico da Leocupetra a Capo Bruzzano. Atti del X Incontro di Studi Bizantini (Reggio Calabria, 4-6 Ottobre 1991), Soveria Mannelli 1995, pp. 89-113. [↩]
- M. T. Sorrenti, Argenti. Scheda n. 5, in Sacre visioni…, 1999, p. 136; P. Faenza, Il busto e il reliquiario di San Leo nel Santuario omonimo di Bova, in Bova. Storia di una Comunità Greca di Calabria, a cura di G. Caridi- F. Cozzetto- C. G. Nucera, Bova 2010, pp. 231-243. [↩]
- Vita del venerabile servo di Dio Annibale D’Afflitto, Arcivescovo di Reggio Calabria. Scritta dal padre Giuseppe Fozi della Compagnia di Giesù, Roma 1681; sull’opera episcopale del D’Afflitto rimane fondamentale A. Denisi, L’opera pastorale di Annibale D’Afflitto, Roma 1983; Idem, Gaspare Del Fosso e Annibale D’Afflitto: due arcivescovi reggini durante il Viceregno, in “Calabria Sconosciuta”, 1994, n. 64, pp. 49-51. [↩]
- La più antica attestazione del culto del «Santo Padre Nostro Leone di Africo» è contenuta in una nota a margine del calendario liturgico noto come Sinassario Lipisiense (186), compilato dal monaco Basilio di Reggio nel 1172. La nota, databile tra la fine del dell’XII secolo e gli inizi del successivo, lega i natali del Santo, vissuto probabilmente intorno alla metà del XII secolo (cfr.D. Minuto, Profili di Santi nella Calabria Bizantina, Reggio Calabria 2002, pp. 80-82) al villaggio di Africo, piccolo centro della jonica reggina. Si vedanosull’argomentoS. Lucà, Una nota inedita del cod. Messan. gr. 98 sulla chiesa di San Giorgio di Tuccio, in “Bollettino Badia Greca di Grottaferrata”, n.s. Vol. XXXI, Gennaio-Giugno 1977, pp. 31-40 ed il Compendium gloriosae vitae et mortis Sancti Leonis Civis et Patroni Civitatis Bovae(1774), documento settecentesco che attingendo ad una consolidata tradizione orale fornisce una versione diversa e lo dice «Quinto Saeculonatus [..] Bovae a parenti bus honestis» cfr. F. Toscano, Sul Compendium gloriosae vitae et mortis Sancti Leonis, in Storia e vita di San Leo d’Aspromonte, a cura di P. Faenza-F. Tuscano, Reggio Calabria 2012, pp. 27-74; A. Acconcia Longo, S. Leo, S. Luca di Bovae altri Santi italo greci, in Calabria Bizantina, Il territorio grecanico da Leocupetra a Capo Bruzzano, in “X Incontro di Studi Bizantini”, Reggio Calabria, 4-6 Ottobre 1991, Soveria Mannelli 1995, pp. 76-77. [↩]
- La situazione culturale ed ecclesiastica del lungo episcopato di mons. Annibale D’Afflitto è efficacemente sintetizzata in C. Longo, Gli ultimi tempi della grecità a Motta San Giovanni, in “Calabria bizantina. Testimonianze d’arte…1991, pp. 283-309: 284.Sulla scorta di una approfondita lettura delle visite pastorali effettuate periodicamente dal D’Afflitto, lo studioso asserisce che«[esse] fotografano il lentissimo declino della grecità nell’estremo lembo meridionale della Calabria, la sua indolore morte, non affrettata, ma desiderata, voluta con ogni mezzo da quel prelato palermitano, venuto da Madrid, per il quale ogni difformità dal conformismo imposto diventava incontrollabile forza di disgregazione dell’unità cattolica […]». [↩]
- Sulla figura e l’episcopato di Mons. Gaspare Ricciulli del Fosso si veda Gaspare Del Fosso e la Riforma Cattolica Tridentina in Calabria, Atti del Convegno a cura di Centro Culturale San Paolo (Rogliano – Paola – Reggio Calabria, 5-7 dicembre 1992), Reggio Calabria 1997. [↩]
- E. D’Agostino, Gaspare Del Fosso ed il monachesimo greco, in Gaspare Del Fosso…, 1997, pp. 291-302: 299. [↩]
- M. T. Sorrenti, scheda n. 5, in Sacre Visioni …, 1999, p. 137; P. Faenza, Del Santo Padre Nostro Leone di Africo. Storie di un monaco, di una reliquia e di un reliquiario, Reggio Calabria 2014, p.24, nota n.2.1. [↩]
- ASDRCB, Fondo Bova, Visite Pastorali, Visita pastorale di Mons. Giuseppe Barone, 18 luglio 1730; cfr. M. T. Sorrenti, I busti reliquiari del San Leo di Bova e del San Leo di Africo. Appunti e nuove acquisizioni, in Storia …, 2012, pp. 149-158; P. Faenza, Il busto reliquiario di San Leo nel Santuario omonimo di Bova, in Bova. Storia di una Comunità Greca di Calabria, a cura di G. Caridi – F. Cozzetto-C. G. Nucera, Reggio Calabria 2010, pp. 242 – 243: 239. [↩]
- G. Leone, Le sculture di San Leo a Bova e ad Africo,in Storia …, 2012, p. 135-148:143. [↩]
- Per il profilo dell’argentiere si rimanda adA. Migliorato, in Arti Decorative…, 2014, I, p.118, ad vocem.. [↩]
- G. Musolino, Argentieri messinesi tra XVII e XVII secolo, Messina, Messina 2001, p. 39. [↩]
- Ibidem [↩]
- S. Serio, Argenti messinesi del XVII-XVIII secolo, Tesi di dottorato di ricerca in analisi, rappresentazione e pianificazione delle risorse territoriali, urbane e storico-architettoniche e artistiche, indirizzo Arte, Storia e Conservazione in Sicilia, Dipartimento di Architettura, Università degli Studi di Palermo, Tomo I, a. 2015, p. 268. [↩]
- R. M. Filice, Il busto reliquiario di San Leo in Del Santo padre nostro…, 2014, p. 73-82. [↩]
- G. Musolino, Argentieri messinesi…, 2001, pp. 47-48. [↩]
- M. C. Di Natale, scheda in Ori e argenti…, 1989, II, 67; G. Musolino, Argentieri…, 2001, ibidem [↩]
- G. Musolino, scheda n. 131, in Il Tesoro dell’Isola. Capolavori siciliani in argento e corallo dal XV al XVIII secolo, 2 voll., a cura di S. Rizzo, catalogo della mostra (Praga, Maneggio di Palazzo Wallenstein, 19 ottobre-21 novembre 2004), Catania 2008, pp. 111-112. [↩]
- M. Sorrenti, I busti reliquiari …, 2012, pp. 156-157; R. Filice, Il busto reliquiario di San Leo, in Del santo Padre Nostro Leone di Africo, a cura di P. Faenza, Reggio Calabria 2014, pp.73-82. [↩]
- La notizia di un braccio reliquiario databile forse alla fine XVII secolo appartenuto alla comunità di Africo è in P. Faenza,Del Santo Padre Nostro… 2014, p. 23 ed è tratta da ASDRCB, Fondo Bova, fasc. Velonà. G. Dieni, Appunti riguardanti Bova e la Diocesi, Bova 1894, dattiloscritto, a cura di G. Velonà, Roma 1974, p. 63. [↩]
- P. Faenza, Il restauro del busto e dell’urna di San Leo di Africo, in Del Santo Padre Nostro…, 2014, pp. 87-92. [↩]
- M. T. Sorrenti, I busti …, 2012, pp. 156-157. [↩]
- S. Di Bella, scheda n. 19 in Alì. La Chiesa Madre. La cultura artistica, Messina 1994. [↩]
- V. Di Piazza, scheda n. 24in Splendori di Sicilia …, 2001, pp. 368-369. [↩]
- S. Serio, scheda 249, in Argenti…, 2015, p. 529. [↩]
- S. Serio, schede 251, 252 in Argenti…, 2015, pp. 531 e 532-533. [↩]
- R. Filice, Il busto reliquiario…, 2014, p.78; P. Faenza, Nuove considerazioni sul busto reliquiario di San Leo della chiesa del Santissimo Salvatore di Africo Nuovo e su alcuni argenti del Settecento della Calabria meridionale, in “Stauros”, a. IV (2016), 2, pp.21-38: 26; G. Di Stefano, Il tesoro della Cattedrale di Siracusa nel XVI secolo. Note e documenti, in Éstudios de Platería, a cura di J. Rivas Carmona, Murcia 2010, p. 291-304. [↩]
- G. Musolino, L’argenteria del Settecento a Messina tra barocchetto e formule rococò, in Argenti e Cultura Rococò nella Sicilia Centro Occidentale 1735-1789, catalogo della mostra (Lubeccca 21 ottobre 2007-6 gennaio 2008) a cura di S. Grasso- M. C. Gulisano, Palermo 2008, pp. 95-122: 106, fig. 16. [↩]
- G. Musolino, scheda n. 23, in Rometta e il Patrimonio storico artistico, a cura di T. Pugliatti, Messina 1989, pp. 166-167. [↩]
- S. Serio, schede 242, 244 in Argenti…, 2015, pp. 522 e 524. [↩]
- G. Musolino, scheda n. 160, in Il tesoro…, 2008, pp. 123-124. [↩]
- S. Serio, in Argenti…, 2015, pp. 160 e 212. [↩]
- Vita di Sant’Elia il Giovane. Testo inedito con traduzione italiana pubblicato e illustrato da G. Rossi Taibbi, in Vite dei santi siciliani, Palermo 1962 (Istituto Siciliano di Studi Bizantini e Neoellenici. Testi e Monumenti, 7); Si veda inoltre G. Musolino, Santi eremiti italogreci…, 2002, pp. 31-38; G. Strano, Alcune considerazioni sui Bioi dei Santi greci fra Sicilia e Calabria meridionale (secoli IX-XI), in Elia il Giovane. La vita e l’insegnamento dall’età bizantina al mondo contemporaneo, a cura di P. Spallino – M. Mormino, Palermo 2019, pp. 57-70. [↩]
- Il Santo morì a Tessalonica durante il viaggio che avrebbe dovuto condurlo a Costantinopoli. [↩]
- G. Moroni, Dizionario di erudizione storico-ecclesiasticada san Pietro ai nostri giorni, Venezia 1840-1861, vol. 73, p. 18; V. Saletta, La diocesi di Taureana, in Studi Meridionali, XII, nn.2-3 e 4, 1979; pp. 219-261, 338-374; D. Minuto, La Valle delle Saline, in “Polis. Studi interdisciplinari sul mondo antico”, 2006, n. 2, pp. 323-328. La diocesi di Taureana veniva soppressa insieme a quella di Vibona nel 1073 dal Conte Ruggero a vantaggio della nuova diocesi latina di Mileto. [↩]
- A. Frangipane, Inventario…, 1933, p.307; M. T. Sorrenti, scheda n. 8, in Sacre Visioni…, 1999, p.137; G. Leone, Reliquiario a testa, in Argenti di Calabria. …, 2006, pp. 84-85. [↩]
- Nilo, Vita di San Filareto di Seminara. Introduzione, testo, traduzione e note di U. Martino, rist. Reggio Calabria 2014. Si vedano inoltre S. Caruso, Il bios di s. Filareto il Giovane (XI sec.) e la Calabria tardo-bizantina, in Sant’Eufemia d’Aspromonte, Atti del convegno di Studi per il bicentenario dell’autonomia (Sant’Eufemia d’Aspromonte, 14/16 dicembre 1990), a cura di S. Leanza, Soveria Mannelli 1997, pp. 91-121; N. Ferrante, Vita di san Filarete, in Santi italogreci, Reggio Calabria 1999, pp. 331-337; G. Musolino, Santi eremiti…, 2002, pp. 87-92. [↩]
- A. Basile, I Conventi basiliani di Aulinas sul Monte S. Elia e di S. Elia Nuovo e S. Filarete in Seminara, in “Archivio Storico Calabria e Lucania”, a. XIV, 1945, pp.19-36. [↩]
- Nilo, Vita …, 1997. [↩]
- G. La Licata, in Ori e argenti…, 1989, p.408, ad vocem. [↩]
- M. C. Di Natale, schedaII.113, in Ori e argenti…, 1989,p. 262-263; G. Musolino, scheda n.148, in Il Tesoro dell’Isola…, 2008, pp. 118-119. Tra gli esemplari stilisticamente riconducibili al calice di Scicli vi è quello del Tesoro della Cattedrale di Gerace ascrivibile alla committenza del vescovo Mons. Domenico Diez de Aux (1689 – 1729) e datato 1726 sul quale è stato rilevato il punzone DFC riferibile al vidimatore Decio Furnò e quello dell’argentiere P.C di più difficile identificazione cfr. M. T. Sorrenti, scheda, in Arte e Fede a Gerace (XII – XX sec.). Guida breve all’esposizione, catalogo della mostra (Gerace, Cattedrale 3 – 31 agosto 1996) a cura di R. M. Cagliostro – T. Sorrenti, p.16; Eadem, scheda n. 66, in G. Leone, Pange Lingua: l’eucarestia in Calabria.Storia, devozione, arte. Catanzaro 2002, p. 617; G. Aita, scheda n. 84, in Argenti di Calabria…, 2006, p.204. [↩]
- G. Musolino, Argentieri messinesi…2001, pp. 37-38; G. Musolino, scheda n.148, in Il Tesoro dell’Isola…, 2008, pp. 118-119. [↩]
- M. G. Aurigemma, scheda II. 127, in Ori e argenti…1989, pp. 271-272. [↩]
- S. Serio, scheda n. 220 in Argenti…, 2015, p. 499. [↩]
- S. Serio, scheda n. 208, in Argenti…, 2015, p. 4877-38; G. Musolino, scheda n.148, in Il Tesoro dell’Isola…2008, pp. 118-119. [↩]
- S. Serio, scheda n.194, in Argenti…2015, p. 475. [↩]
- S. Serio, scheda n. 202, in Argenti…2015, p. 481. [↩]
- M. C. Di Natale, scheda II. 129, in Ori e argenti…1989, p. 273. [↩]
- Cfr. M. Accascina, I marchi delle argenterie…, 1976, p. 109; S. Serio, Argenti…, 2015, pp. 17 e 599. [↩]
- S. Serio, scheda 237, in Argenti…, 2015, p. 516. [↩]
- Il censimento condotto da Salvatore Serio documenta il marchio consolare GC fino al 1798 cfr. S. Serio, scheda 446, in Argenti…, 2015, p. 739. [↩]
- S. Intorre, scheda II. 38, in M. C. Di Natale – S. Intorre, Ex elemosinis Ecclesiae et Terrae Regalbuti. Il Tesoro della Chiesa Madre, Palermo 2012, p. 109. [↩]
- G. Musolino, scheda n. 173 in Il Tesoro…, 2008, pp. 129-131. [↩]
- L. Lojacono, scheda n. 110, in Pange Lingua…, 2002, p. 639. [↩]
- F. Gravina de Cruyllas, Vita di Santa Venera dai latini detta Veneranda, dai Greci Parasceve, vergine, martire e predicatrice di Cristo, Palermo 1645. La vita ed il martirio della Santa sono narrati in alcuni manoscritti greci, poi tradotti in latino in età normanna per esigenze devozionali ed una delle più antiche attestazioni è contenuta nella Passio di Giovanni d’Eubea che, seppure datata all’VIII secolo, si ritiene rappresenti la “trascrizione” di una più antica tradizione orale risalente al VI secolo. Cfr. anche E. D’Agostino, Da Locri a Gerace: storia di una diocesi della Calabria bizantina dalle origini al 1480, Soveria Mannelli 2004, p. 52. Alcuni autori mettendo in dubbio la realtà storica della Santa ritengono si tratti di una “pia finzione” ovvero della personificazione del Venerdì Santo avvenuta, appunto nel VI secolo. L’uso del nome Parasceve risulta, invece attestato ab antiquo su una tomba cristiana del IV secolo il che farebbe riflettere circa la possibilità dell’effettiva esistenza di una cristiana martirizzata tra il III ed il IV secolo. Si veda anche S. Pennisi, Un frammento della Passio di Sancta Venera (BHL 8530) in www.accademiadeglizelanti.it [↩]
- F. Lanzoni, Le Diocesi d’Italia dalle origini al VII secolo (anno 604) studio critico, Faenza 1927, pp. 339- 340. [↩]
- Si veda sull’argomento E. D’Agostino, Da Locri a Gerace. Storia di una diocesi della Calabria bizantina dalle origini al 1480, Soveria Mannelli 2004; Idem, I vescovi di Gerace, Chiaravalle Centrale, 1981, p. 101; Idem, La Cattedra sulla Rupe. Storia della Diocesi di Gerace (Calabria) dalla soppressione del rito greco al trasferimento della sede (1480 – 1954), Soveria Mannelli 2015. [↩]
- V. Naymo, Chiese e monasteri greci di Gerace dall’XI al XVI secolo, in Calabria Bizantina. Civiltà bizantina nei territori di Gerace e Stilo, in XI Incontro di Studi bizantini (Locri- Stilo- Gerace, 6,9 maggio 199), Soveria Mannelli 1998, pp.165-239: 236-237. [↩]
- cfr. supra nota 77. [↩]
- E. D’Agostino, I vescovi di Gerace, Chiaravalle Centrale 1981, pp.77-85. [↩]
- Sebastiano Juvarra, figlio di Pietro e Caterina Donia, emancipato nel 1663 è partecipe con i fratelli ed il padre di prestigiosissime realizzazioni tra cui il tosello per l’esposizione del Santissimo donato da Filippo IV a ai Luoghi Santi in Gerusalemme e preziosi corredi liturgici nel tesoro delle diocesi siciliane. La sua qualificata ed intensa attività è stata oggetto di una ricognizione puntuale supportata da studi rigorosi e documentati ai quali si rimanda per ogni approfondimento cfr. G. Musolino, Argentieri messinesi…, 2001, pp. 96-103; Eadem, in Arti Decorative…, 2014, I, p. 330, ad vocem. [↩]
- G. Musolino, scheda n. 45, in Orafi e argentieri al Monte di Pietà. Artefici e botteghe messinesi del sec. XVII, catalogo della mostra (Messina, Monte di Pietà 18 giugno-18 luglio 1988) Palermo 1988, p.246. [↩]
- G. Musolino, scheda n. 140, in Il Tesoro…, 2008, pp. 112-113. [↩]
- G. Fiore da Cropani, Della Calabria Illustrata, 1691-1743, ristampa a cura di U. Nisticò, Soveria Mannelli 1999. [↩]
- Per la storia e la genealogia della famiglia Carafa rimane fondamentale il volume di B. Aldimari, Historia genealogica della falla famiglia Carafa, vol.3, Napoli 1691; si veda inoltre G. Scichilone, Carlo Maria Carafa Branciforte principe di Butera, in Dizionario Biografico degli italiani, vol. 15, Roma 1972, ad vocem; P. Castagna, La storia dei feudi e dei titoli nobiliari della Calabria, Catanzaro, vol.2, II, 1996, pp. 36-45, e IV, 2003, p. 273 e 288; M. Pisani, I Carafa di Roccella. Storie di Principi, cardinali, grandi dimore, Napoli 1992; V. Naymo, Uno Stato feudale nella Calabria del Cinquecento. La Platea di Giovanni Battista Carafa Marchese di Castelvetere e Conte di Grotteria, Gioiosa Jonica 2005. [↩]
- G. Fiore, Della Calabria … vol. II, p.249; I reliquiari raffigurano le Sante Emerenziana, Eugenia e Facondia e due personaggi maschili di più difficile individuazione, abbigliati all’antica come soldati e dalla pelle olivastra, solitamente identificati con i martiri della legione tebea decimata sotto l’imperatore Massimiano. Si veda M. Panarello, L’altare reliquirio, in Atlante del Barocco in Italia. Calabria, a cura di M. R. Cagliostro, Roma 2002, pp. 366 -367; P.L. Leone De Castris, Sculture in legno in Calabria dal Medioevo al Settecento, catalogo della mostra (Altomonte 30 luglio 2008 – 31 gennaio 2009) Napoli 2009, p. 44. [↩]
- G. Fiore, Della Calabria … I, p.180. [↩]
- M. De Marco – F. Racco, “In eremo Sancti Ilarionis in montanis Castriveteris”: storie di uomini, di arte, di spiritualità. Una proposta per Francesco Cozza, in “Esperide. Cultura artistica in Calabria”, 2011, nn. 7-8, pp. 136-157: 141. [↩]
- M. De Marco – F. Racco, ibidem [↩]
- M. De Marco – F. Racco, “In eremo…pp. 140-142; C. Perri, Il priorato della Roccella in Calabria: committenza artistica al tempo dei Carafa, tra spunti ed approfondimenti, in Mattia Preti e Gregorio Crafa. Due Cavalieri Gerosolimitani tra Italia e Malta, Atti della Giornata di Studio (Malta, La Valletta, 12 maggio 2013), a cura di S. Guido – G. Mantella – M. T. Sorrenti, Serra San Bruno 2015, pp. 21-38: 34; M. Ameduri – C. Perri, Arte e Devozione artistica dei Carafa della Spina in Calabria al tempo di Gregorio: schede delle opere, in Un ponte tra la Calabria e Malta. Il Cavalier Mattia Preti e il Gran Maestro Gregorio Carafa, catalogo della mostra (Reggio Calabria, Museo Archeologico Nazionale, 20 ottobre – 12 dicembre 2015) a cura di M. T. Sorrenti-S. Guido, Campo Calabro (RC) 2015, pp. 64-67. [↩]
- G. Fiore, Della Calabria illustrata…vol. I, p. 249. [↩]
- M. C. Di Natale, Ori e Argenti…, 1989, p. 143; G. Musolino, L’argenteria del Settecento…, 2008, p.98, fig. 4. [↩]
- M. C. Di Natale, scheda II.55, in Ori e Argenti…, 1989, p. 227. [↩]
- P. Samperi, Iconologia della gloriosa Vergine Madre di Dio Maria protettrice di Messina introduzione di G. Lipari – E. Pispis – G.Molonia, rist. anas. Messina 1991. [↩]
- M. P. Di Dario Guida, Icone di Calabria ed altre icone meridionali, Soveria Mannelli 1992, p.207. [↩]
- M. T. Sorrenti, in “Calabria Sconosciuta” a. XIX, n. 70, pp. 31-34; Eadem, Argenti, in Atlante…, 2002, pp. 202-212:210. [↩]
- R. Liberti, Palmi, in “Quaderni Mamertini” a. 2002, n. 31. [↩]
- M. T. Sorrenti, scheda n. 10, in Sacre Visioni…, 1999, p. 137-138; Eadem, scheda n. 72, in Argenti…, 2006, p. 180. [↩]
- M. C. Di Natale, scheda II.162 in Ori e Argenti…, 1989, pp. 296-297. [↩]
- Circa la diffusione nella produzione messinese, in particolare del XVII e XVII, di questi preziosi rivestimenti in argento a protezione di immagini sacre oggetto di speciale devozione si rinvia a G. Musolino, Le forme del divino: mante e simulacri d’argento nelle chiese delle diocesi messinesi, in Il Tesoro…, 2008, pp. 23-39 con bibliografia precedente. [↩]
- S. Serio, Argenti…, 2015, p.862. [↩]
- cfr. supra nota 86. [↩]
- L. Lojacono, scheda n. 115 in Pange Lingua…, 2002, p. 641. Il monogramma dell’argentiere OL in qualità di facitore ricorre in un servizio di anfore per la consacrazione degli oli santi unitamente ai marchi consolari PG87 e PRC89 cfr. L Lojacono, Argenteria sacra tra XVIII e XIX secolo nella Cattedrale Maria SS. Assunta di Reggio Calabria, in “Daidalos”, a. III, 2003, n. 1, pp. 26-33. La studiosa segnala, altresì, il medesimo monogramma su un analogo servizio del museo diocesano di Oppido datato 1792. [↩]
- G. Musolino, scheda n. 179 in Il Tesoro…2008, pp. 132-136; Eadem, scheda III.6 in Tesori di Milazzo. Arte sacra tra Seicento e Settecento, catalogo della mostra (Milazzo 13 giugno-6 settembre 2015) a cura di V. Buda-S. Lanuzza, Milazzo 2015, pp. 90-91. [↩]
- G. Musolino, scheda III.5, in Tesori di Milazzo…, 2015, pp. 88-89. [↩]
- G. Travagliato, Aggiunte al catalogo di Bonaventura Caruso, sacerdote e orafo messinese della seconda metà del ‘700, in “OADI – Rivista dell’Osservatorio per le Arti Decorative in Italia”, n. 4 – dicembre 2011 (www.unipa.it/oadi/rivista). [↩]
- A. Tripodi, In Calabria tra Cinquecento e Ottocento (Ricerche d’archivio), Reggio Calabria, Jason, 1994, p. 264: Idem, Notizie sulla storia dell’arte e dell’artigianato in Calabria (III parte), in“Brutium”, a. 67, 1988, n. 3, pp. 38, 42-43; S. Lanuzza, in Arti Decorative …, 2014, I, p. 116, ad vocem. [↩]
- G. Passarelli, Lettura dell’icona della Madonna “Gorgoepikoos” di Polsi, in Santa Maria di Polsi. Storia e pietà popolare, Atti del Convegno Polsi 19-21 settembre, Locri 21 settembre 1988, Reggio Calabria 1990, pp. 143-162. L’immagine replica quella eseguita dal pittore siciliano Antonio Filocamo per Siracusa Messina (cfr. K. Guida, Le icone postbizantine in Sicilia Secoli XV – XVIII, Roma 2013, pp. 93-94) e reca in basso l’iscrizione con i nomi dei procuratori e la data 1715, probabile frutto di un intervento manutentivo, come supposto da M. P. Di Dario,Icone…, 1993, p. 207. [↩]
- E. D’Agostino, I vescovi di Locri-Gerace a Polsi, in S. Maria…, 1990, pp. 285-342:293 nota n. 19. [↩]
- Il monogramma P.D. probabilmente riferibile a Placido Donia è stato rilevato unitamente al marchio MC7** su un ostensorio con fusto figurato oggi presso il museo diocesano di Reggio Calabria, ma proveniente da Scilla Cfr. L. Lojacono, scheda n. 114 in Pange Lingua…, 2002, p. 641. [↩]
- Gianneri Domenico, in Arti Decorative…, 2014, I, p. 286. [↩]
- G. Musolino, scheda n. 161 in Il Tesoro dell’Isola…, 2008, pp. 123-124. [↩]
- G. Musolino, scheda n. 160 in Il Tesoro dell’Isola…, 2008, pp. 124-126. [↩]
- G. Musolino, scheda III.4, in Tesori di Milazzo…, 2015, p. 87. [↩]
- G. Leone, scheda n. 96, in Argentidi Calabria…, 2006, pp. 232-235. [↩]
- S. Lanuzza, scheda n. XLVIII, in La Calabria, il Mezzogiorno e l’Europa al tempo di San Francesco da Paola, catalogo della mostra (Germaneto, Cittadella regionale 15 maggio – 15 agosto 2018), a cura di A. Acordon – M. T. Sorrenti- M. Panarello, Bari 2019, pp. 432-433. [↩]
- Ibidem [↩]
- G. Musolino, scheda in L’Arma per l’Arte. Beni Culturali di Sicilia recuperati dal Nucleo Carabinieri Tutela Patrimonio Culturale, a cura di A. Mormino – G. Cassata-C. Pastena-F. Spatafora, Catalogo della Mostra (Palermo 27 ottobre-27 dicembre 2009), Palermo 2010, p. 187. [↩]
- S. Di Bella, Alì, la Chiesa Madre. La cultura artistica, Messina 1996, p. 117. [↩]
- G. Musolino, scheda XLVII, in La Calabria…, 2018, pp. 430-431. [↩]
- G. Chillè, scheda in Arti Decorative…, 2014, II, p. 607. [↩]
- Cfr. supra, nota n. 125. [↩]