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Opere in pietre dure nell’inventario Gonzaga del 1626-1627. Qualche nota su stime, prezzi e costi (tra Milano e Mantova)
DOI: 10.7431/RIV22022020
Straordinaria per qualità ed entità, la raccolta dei Gonzaga ci è restituita dall’inventario avviato dopo la morte del duca Ferdinando (29 ottobre 1626). Viene steso da squadre di periti specializzati dal 3 dicembre 1626 al 14 aprile dell’anno successivo, poco prima quindi dello smembramento della collezione attraverso la vendita di opere all’Inghilterra e del terribile Sacco mantovano che sconvolse la città tra il luglio 1630 e il settembre del 1631. Ambiente dopo ambiente sono passati in rassegna i manufatti distribuiti nel palazzo ducale di Mantova, divisi per categorie merceologiche, a partire dal «Camerino delle Dame» dove si trovano gioielli, spade, pugnali e fornimenti da cavallo (370 voci), quindi la «Camera degli argenti» (nn. 371-664) e i dipinti, ubicati in locali elencati consecutivamente ma ripassando anche nel «Camerino delle Dame» o andando nella «stanza detta la Libraria» (nn. 665-1401). Si arriva quindi alle pietre dure, iniziando con i cristalli posti sia nel «camerino sopra il padre Zenobio» (nn. 1402-1540) sia nel «camerino piciolo» (nn. 1541-1549); quindi si passa ai «diaspri», «orientali» (nn.1550-1588) e «d’Alemagna» (nn. 1589-1624), poi alle «pietre di santa Maria» (nn. 1625-1639), alle «corniole bianche» (nn. 1640-1648), alle «isadre» (nn. 1649-1653), ai «lapislazzuli» (nn. 1654-1675), alle «pietre agate» (nn. 1676-1691) e alle «corniole rosse» (nn. 1692-1695), per continuare con altri manufatti lapidei di diverso tipo (nn. 1696-1797). In altre stanze si censiscono i mobili, oggetti in paste profumate, minerali da lavorare, statue, ricominciando con sezioni compatte a partire dalla «prima Camara della Mascarada» (dal n. 2336), con paramenti, capi vestiari, telerie, pellicce, pelli e guanti, porcellane, maioliche, tappeti, ecc., per un totale di 4525 voci, comprendenti ciascuna talvolta gruppi di manufatti, sino a otto per voce.
Benché parziale – mancano la sezione dei cammei e la libreria, gli oggetti del museo scientifico e quelli nelle cosiddette «catacombe», dove Ferdinando Gonzaga, aveva fatto trasferire alcune parti del Tesoro di santa Barbara -, l’inventario è importante anche perché diversamente da altri documenti di questo tipo ci fornisce la stima dei manufatti, espressa in Lire, Ducatoni e Scudi, indicando inoltre attraverso le lettere «V» o «F» apposte alla fine di ogni voce, l’appartenenza del pezzo a Vincenzo I (duca dal 1587 al 1612) piuttosto che al figlio Ferdinando (duca dal 1613 al 1626)1.
Quanto alle valutazioni, a riguardo della quadreria si nota che dei circa 1800 dipinti, almeno 140 superano le 100 Lire, raggiungono le 500 Lire 18 quadri, 25 opere sono tra le 300 e le 500 Lire, tra le 100 e le 200 Lire sono 72 quadri, meno di 50 Lire risultano le opere anonime. Il prezzo più alto è assegnata alla Madonna della perla (n. 672) di Raffaello e Giulio Romano («scudi 200, lire 1200»), seguito da Correggio con Venere, Cupido e un satiro (n. 673) per «scudi 100, lire 900», un prezzo identico a quello assegnato alla Madona della Scala di Andrea del Sarto (n. 668), mentre le nove grandi tele con i Trionfi di Mantegna (n. 895) sono stimate 150 scudi ciascuna («lire 8.100»). Se passiamo a osservare gli oggetti nel «Camerino delle Dame», osserviamo invece che una collana di perle, diamanti e oro è stimata 50.000 Lire (n. 81), un cinturino («centiglio») d’oro con rubini 60.000 (n. 194), due diamanti montati usati come ornamento da cappello 120.000 Lire (n.153) e un «fornimento da cavalo alla gianetta», gemmato, Lire 20.000 (n. 369)2. Questione di materiali, certamente, d’ oggetti in metalli pregiati e ricchi di pietre preziose, dalla funzione monetaria, con possibilità anche immediata di scambio attraverso il pegno, la vendita, o il noleggio.
Ma continuiamo con le valutazioni passando alla sezione delle pietre dure. I due grandi vasi di cristallo con legature in rame dorato (n. 1402) con i quali si apre l’inventariazione di questo gruppo di manufatti, che l’incrocio con altra documentazione ha permesso di riportare alla famosa bottega milanese dei Saracchi, valgono 3000 ducatoni, mentre viene stimata 1500 ducatoni la «cassetta d’ebano» con dodici lastrine in cristallo di rocca recanti le Storie di Ercole (n. 1431), che avevo identificata in quella realizzata dal celebre Annibale Fontana (1540- 1587), orafo, medaglista, intagliatore di pietre dure, nonchè scultore, un contenitore lungo circa 50 cm., con due figure d’oro sul coperchio, del quale oggi rimangono solo alcune lastrine di cristallo incise (ca. 10 cm. di altezza) in diversi musei3. (Fig. 1) Considerata di grande importanza per la raccolta Gonzaga e sempre citata dai visitatori di palazzo ducale, insieme al ‘grande cammeo con due teste’ e ai vasi in materiali lapidei, entrerà nelle trattative del mercante di origine fiammniga Daniel Nys che nel 1626 avvia per il re d’Inghilterra Carlo I l’acquisto di opere d’arte dalla raccolta mantovana4.
Il valore economico piuttosto alto di questa categoria di oggetti non è tuttavia motivato solo dai completamenti preziosi, che talvolta peraltro mancano del tutto, come nella «cappa con dentro dell’amatista, senza legatura» (n. 1685) valutata 45 ducatoni, oppure sono di scarso pregio, come succede per i due vasi di cristallo poco fa ricordati (n.1402). Non aveva per esempio gemme ed era in argento dorato la legatura del «vaso lavorato a cameo», stimato 300 ducatoni (n. 1680), ritenuto quello registrato nell’inventario Gonzaga del 1540-1542, oggi all’Herzog Anton Ulrich –Museum di Braunschweig (15,3 cm. x 6,5; ca. 54 d.C), già nella collezione di Michele Vianello e acquistato da Isabella d’Este nel 1506, asportato da un soldato durante il Sacco di Mantova e venduto con un altro piccolo vaso per l’irrisoria somma di 100 ducati. (Fig. 2) L’ esemplare per cui, a mio avviso, Alessandro Algardi (1595-1645) -a Mantova dal 1618 vivendo all’interno di palazzo ducale fino al 1624-1625 per poi trasferisi a Roma- su indicazione del duca Ferdinando aveva realizzato manici e piede. Secondo la testimonianza di Giovanni Pietro Bellori, proprio questi completamenti, fatti «per conservazione del vaso furono poi cagione di distruggerlo», poiché durante il Sacco «l’avidità dell’oro indusse i soldati a romperlo in pezzi, ingannati dalle legature che non erano d’oro ma di rame indorato, come avvenne ancora dalla credenza inestimabile de’ cristalli di rocca ridotti in terra in un monte di vetri rotti per rapire le medesime legature ed ornamenti creduti d’oro ch’erano di rame»5. La logica del manufatto raro da collezione non è quindi compresa dalle soldataglie, che mirano a entrare in possesso non dell’opera, di cui ignorano storia e valore, ma solo delle parti che essi reputano preziose6.
Ma torniamo all’ inventario gonzaghesco e ai prezzi.
Sono proprio le stime a farci comprendere quali siano gli indici di apprezzamento e valutativi del momento. Ci forniscono infatti una precisa gerarchia, al cui vertice troviamo manufatti oggi relegati nella sotto- categoria delle cosiddette ‘arti minori’, mentre i dipinti appaiono in posizione decisamente secondaria7. Sono gli esemplari in materiali lapidei ad avere valore di status e ad essere promossi a prova della ‘magnificenza’. Indispensabili per preservare l’onore del rango, queste opere sono connotate dall’ esclusività. Avendo costi assai elevati, sono accessibili solo a finanze principesche, e sono eseguite in un numero assai limitato da un gruppo ristretto di artigiani milanesi per selezionati committenti. Si sposano quindi alla distinzione e ne sono l’equivalente, mentre la produzione pittorica con il moltiplicarsi dei generi e l’apprezzamento delle copie, caratterizzava in quegli anni numerose raccolte, appartenenti a personaggi di ceti diversi8.
Dare un prezzo a beni unici e carichi di significati simbolici, sottratti al circuito dello scambio economico, era senza dubbio un’impresa complessa, non sempre praticabile o desiderata. Guglielmo Gonzaga (duca dal 1563 al 1587) quando il fratello Ludovico gli chiede di dividere l’eredità di Isabella d’Este e il suo Studiolo, osserva: «le cose gentili […] portano reputatione alla casa nostra et a dividerle […] se leverà la reputatione del luogo […] non son cose da vendere, né delle quali, quando se volesse contrattare, se ne trovassero denari in somma notabile et che il farle stimar non vi sarà chi lo possa fare giustamente, per essere cose che non hanno prezzo ordinario, ma si stimano più et meno secondo la volontà e delettatione della persona»9.
In casa Gonzaga nel 1626 tuttavia la logica muta. Lo stato delle finanze non era più quello dell’epoca di Guglielmo e i personaggi erano cambiati. Vincenzo II (ultimo duca della linea italiana dei Gonzaga), morto senza eredi il fratello Ferdinando, decide infatti di chiudere il progetto di catalogazione avviato nel 1614 dallo stesso Ferdinando e mai portato a termine, facendo stimare gli oggetti custoditi nel palazzo mantovano. Fissa cioè un prezzo ‘inventariale’, prezzo che è diverso da quello ‘di mercato’, quando si formula una cifra nuova che potrà essere accetta o no, così come da quello ‘di status’, vale a dire il valore extraeconomico determinato dal peso sociale delle parti in gioco, spesso più elevato di quello ‘di mercato’10
Il problema dei valori di stima e dei prezzi implica l’esame delle figure dell’esperto e dell’intermediario, del grado della loro affidabilità e bravura. Per l’inventario gonzaghesco e i nostri esemplari la scelta era caduta su esperti del settore, optando per noti orafi e intagliatori. Il 12 agosto 1614 Ferdinando aveva infatti nominato «per estimare le gioie, oro et argenti» gli orefici Apollonio de Comi, Giovanni Andrea Spiga e Giacomo Ruscelli, mentre per i «vasi di cristallo et altre pietre fine et simiglianti» Girolamo Coiro e Gabriele Saracchi11. Cambiando corte, per i Savoia mediatore capace si dimostrò Gian Giacomo della Torre. Da Milano, il 6 luglio 1594 egli informava Carlo Emanuele I che era in procinto di comprare da un non dichiarato venditore un «quadretto di cristallo con un Cristo alla Colonna», «legato nel puro ebano», eseguito da Annibale Fontana, «cosa molto bella et da Principe, il prezzo è alto assai, poiché ne vorrebbero 800 scudi ma però con alcuni mezzi io spero di haverlo per manco assai». Due giorni dopo egli era in grado di inviarlo al sovrano: durante la contrattazione era riuscito quasi a dimezzare il prezzo di partenza, accordandosi per 450 scudi, da pagarsi «la mesata di Aprile prossimo del 1595»12.
Tra gli elementi oggettivi utilizzati per determinare le valutazioni economiche c’era naturalmente anche quello del livello della fama dell’artista. Venne infatti pagata l’esorbitante cifra di seimila scudi la non grande cassetta cassetta realizzata da Annibale Fontana intorno al 1560- 1570 per Alberto V di Baviera (Monaco, Schatzkammer del Residenz), con i sei pannelli di cristallo raffiguranti episodi del Vecchio Testamento incassati entro una struttura d’ ebano arricchita da una profusione di cammei e gemme13. Anche lo status del proprietario incide. La «pietra con quelle due teste» richiesta a Mantova con insistenza nel 1603 dall’imperatore Rodolfo II in cambio di un diamante prezioso, divenne sicuramente più appetibile agli occhi di Rodolfo II perché posseduta da Vincenzo I Gonzaga, che l’aveva pagata ben 4.880 scudi. Dopo molti tentennamenti, un cammeo con questo soggetto -credo probabilmente quello in sardonica oggi all’Ermitage di San Pietroburgo con la coppia Tolomeo II Filadelfo e Arsinoe II-, fu inviato a Praga, dove giunse l’1 settembre, venendo immediatamente fatto stimare da Ottavio Strada, antiquario di fiducia delll’imperatore; si esprimerà affermando che se il prezzo fosse stato di «4 mila talleri», sarebbe stato a «buon mercato»14. Passa nel corso dei secoli sempre nelle mani di personaggi illustri uno dei più noti cimeli della glittica antica, la cosiddetta Tazza Farnese, un piccolo manufatto in pietra dura, privo di legature, presumibilmente realizzato in età ellenistica ad Alessandria per i Tolomei (Napoli, Museo Archeologico). Nel 1239 è acquistata dall’imperatore Federico II di Svevia, prima del 1458 è a Napoli di proprietà di Alfonso d’Aragona, giungendo in seguito al cardinale Ludovico Trevisan, quindi nella collezione di papa Paolo II Barbo e poi in quella del suo successore Sisto IV, per essere comprata nel 1471 da Lorenzo il Magnifico e successivamente (1537) entrare nella collezione Farnese in seguito al matrimonio di Margherita d’Austria, vedova di Alessandro de Medici duca di Firenze, con Ottavio Farnese. L’elenco e stima delle gioie pervenute a Margherita alla morte del marito Alessandro si apre proprio con il celebre pezzo: «Una tazza d’agata grande, dicono del Re Alphonso che la comperò ducati 1200, et dipoi del Magnifico Lorenzo che la comperò ducati 3000, hoggi ci pare vaglia […] ducati 2000»15.
Tra gli elementi valutativi stanno anche l’eccezionalità dei materiali e la manifattura.
Il 27 dicembre 1550 lo scultore Leone Leoni informava da Milano la corte cesarea di avere spedito la settimana precedente un cammeo eseguito in due mesi, ricavato da una «fantastica pietra» e recante da un lato l’effige dell’«imperatore» con il figlio, dall’altro dell’«imperatrice»: la «più rara cosa che si possa vedere», per la «difficultà dell’arteficio, come per la rarità de la pietra». Il dato della manifattura, benchè di difficile quantificazione economica, non sfugge certo a Benvenuto Cellini. Nel rispondere a papa Clemente VII che, dopo l’ennesimo ritardo di consegna, gli aveva chiesto la restituzione del calice d’oro commissionatogli anche se incompiuto, con i 500 scudi d’oro somministrati per la fusione, afferma che avrebbbe potuto restituirgli la somma, ma non il calice, esito del suo lavoro e delle sua arte, il cui valore era da considerarsi a parte16. Né tantomeno a Prospero Visconti, (intermediario tra le botteghe suntuarie milanesi e la corte di Monaco) quando scrive al duca Guglielmo di Baviera ragguagliandolo sul «cameo di assai notabile grandezza» e «grandissimo prezzo» in procinto di essere portato a corte dall’orafo milanese Gasparo Fasolo e da un altro non precisato «mercante», costato «di prima compra scudi 80, et l’hanno fatto lavorar loro con commodità sua in magniera che in ogni conto non arriva a scudi 200»17.
Il valore della manifattura viene calcolato anche per una delle rarità della raccolta di Vincenzo I Gonzaga, la «tazza di corniola bianca» di «circa un piede» di diametro la cui «sola fattura senza la pietra» era stata pagata 4.000 corone. Doveva tattarsi di un materale di pregio, particolarmente apprezzato dallo stesso duca. Distingue un’ intera sezione nell’elenco del 1626-1627 (nn. 1640-1648), composta da oggetti tutti siglati con la «V», con stime che vanno dai 300 ducatoni del «vasso a otto bocche » con manici e piede d’oro (n.1641), ai 5 ducatoni di un «vassetto con coperto senza legatura, lavorato a fesoni» (n. 1648); la voce n. 2328, relativa a «Pezzi cinque di corniola bianca di Monferrato» (15 ducatoni), serve a localizzare nei possedimenti gonzagheschi la provenienza di questo materiale che aveva peraltro attirato l’interesse anche dell’imperatore Rodolfo II. Nel febbraio 1603 informandosi sui «vasi» Gonzaga, cercò infatti notizie sugli esemplari eseguiti con quella «pietra stravagante» che si dice essere un tipo particolare di «corniola» ritrovata da poco «in una montagna del Monferrato». Vincenzo I non potè esimersi dal farne trarre una «tazza», con ogni probabilità ad opera del suocero di Gabriele Saracchi, il milanese Girolamo Coiro, stabilitosi a Mantova al diretto servizio dei Gonzaga, inviandola dopo un mese all’imperatore18.
E’invece solo il materiale, con totale indifferenza della manifattura, a costituire l’elemento valutativo del cammeo di cui scrive il 2 marzo 1626 Gabriele Bertazzolo, architetto e ingegnere, esperto in pietre dure, attivo per trentacinque anni alla corte gonzaghesca, informandone Ferdinando Gonzaga, il duca interessato ai reperti lapidei principalmente nella variante bidimensionale della campionatura, tipica del Seicento19. Presumibilmente non «antico», dotato di un «fondo leonato scuro» giudicato «bellissimo» come «il bianco delle teste […], macchiato di rosso», viene visto da Bertazzolo a Venezia presso il mercante- collezionista Bartolomeo della Nave e reputato «buono da accompagnare» il cammeo ‘con due teste’ presente in quel momento nella raccolta Gonzaga. Ipotizzava di poterlo avere per «honesto prezzo perché è fatto veramente male», proponendo di intervenirvi egli stesso per migliorarne la resa formale («si farebbe presto et con poca spesa»): una pratica che avrebbe scandalizzato collezionisti quali Isabella d’Este o lo stesso Vincenzo Gonzaga. Come emerge dalla missiva del 9 marzo, l’esperto coinvolto per «trattare» con Bartolomeo risulta il gioielliere veneziano Giulio Cesare Zavarelli, intermediario di corte e poi segretario particolare del nuovo duca Carlo I Gonzaga Nevers, subentrato dopo la morte di Vincenzo II, avvenuta la notte di Natale del 1627; nella lettera Bertazzolo insiste sulla scarsissima qualità della manifattura («costui che la scolpì era ignorante et che non ha rilievo et per essere quasi piano fa bruttissimo effetto»), suggerendo nuovamente di modificare l’esemplare e anche di «restringere la prima testa una costa di cortello tutto intorno per acquistar spatio di dargli alquanto più di rillievo», operazione attuabile secondo lui «con facilità», che avrebbe aumentato molto il «prezzo, onde stando come sta io la stimo assai meno per non dire molto poco»; sottolineava tuttavia ancora l’eccezionalità della «pietra» e le sue dimensioni. Accompagnato da Bertazzolo nella bottega del possessore del cammeo, Giulio Cesare Zavarelli valuta il pezzo 2.000 scudi, giudicandolo «di bellissima pietra, di grandezza maggiore di quello di sua altezza», notandolo inoltre anch’egli -come scrive lo stezzo Bertazzolo- «molto male scolpito per non havere l’ignorante artefice saputo dargli il conveniente sillicone». Il prezzo di stima non era stato intenzionamente comunicato al della Nave («Non sa però il signor Bortolo che il signor Zavarelli l’habbia estimato tanto né quanto, né voglio che lo sappi»). Lasciato libero di esprimersi sul prezzo di vendita («che il venditor tratti lui»), Bartolomeo chiederà 6000 scudi, cifra ritenuta da Giulio Cesare Zavarelli troppo alta, come egli stesso comunicava a corte il 30 marzo20.
Purtroppo non abbiamo ulteriori notizie su questa trattativa, condotta ad ogni modo sulla base di parametri assai diversi da quelli in precedenza attivati per l’acquisto di un altro grande cammeo ‘con due teste’. L’ 11 dicembre 1587 gli antiquari veronesi Mario Bevilacqua e Girolamo Canossa avevano infatti periziato per Vincenzo I Gonzaga un magnifico esemplare, da loro valutato mille scudi, ritenuto dalla critica essere quello con Alessandro e Olimpia (il cosiddetto ‘cammeo tolemaico’), asportato dallo Scrigno dei Re Magi a Colonia nel 1574, attualmente conservato a Vienna (Kunsthistorisches Museum), (Fig. 3) «antico et di buon maestro ma in qualche parte modernamente ritoccato» che avrebbe potuto «fare concerto» con «quello d’Augusto et di Livia che tiene la vostra Altezza Serenissima»; nell’ottobre del 1586 l’erudito Fulvio Orsini aveva segnalato il cammeo ad Alessandro Farnese, giudicandolo per qualità secondo solo alla già ricordata Tazza Farnese, ormai da tempo nella raccolta farnesiana21.
Anche le intermediazioni avevano naturalmente dei costi. Dalla corrispondenza tra Prospero Visconti e i regnanti bavaresi, sappiamo per esempio che il 15 giugno 1581 Michele Scala -altro membro di una famiglia di intagliatori a lungo impegnata per i Gonzaga22, aveva inviato a Monaco un globo di cristallo di circa un braccio di diametro (ca. 59 cm), composto di «diversi pezzi […] ligato in oro», con «la Spagna miniata», per cui egli chiedeva 1200 scudi. Otto anni dopo però, non essendo riuscito a smerciarlo, Michele affiderà il «mapamondo» a Pompeo Leoni, scultore e orafo, figlio di Leone, perché lo portasse in terra iberica e lo vendesse a «sua Regia Maesta o vero ad altri che lo vorano comprare», per non meno di mille scudi. Per le sue fatiche Pompeo avrebbe trattenuto 800 Lire imperiali, ma se durante il trasporto ci fossero stati incidenti (cioè se la nave «indasesse in scoglio di qualche piratti, o siano assassini turcheschi, o mori, o altri infortunii per strata nell’andate ut supra, et che gli fusser levate o tolte dette robbe per disgratia»), egli non sarebbe stato obbligato a risarcire in alcun modo l’intagliatore23.
Forniscono ulteriori dati alla nostra questione le vicende relative all’acquisto e lavorazione di un voluminoso blocco di cristallo.
Il 26 febbraio 1598 Pirro Visconti Borromeo, colto e aggiornato intermediatore tra le botteghe di Milano e i Gonzaga, viene incaricato da Vincenzo I di procurare «certi cristalli, cercando di tirarli, se fusse possibile, ad uno scuto la libra», stringendo «il prezzo a scuti 700, essendo i cristalli un pezzo di libre 770, e l’altro 300, o almeno a tre quarti di scuto la libra»; Pirro riuscirà a chiudere a 750 ducatoni. Trasferiti nella bottega dei Saracchi, i cristalli giaceranno per molto tempo senza che gli intagliatori, oberati dal lavoro, vi mettessero mano. Alla fine di settembre, dopo l’ennesimo sollecito, temendo di indispettire il duca Gonzaga, i Saracchi fecero sapere che avrebbero finalmente iniziato e che erano disposti a «lavorare a rischio» per tre mesi senza ricevere alcuna somma; passato questo periodo avrebbero chiesto «danari per pagare li lavoratori conforme a quello sarà conveniente visto quello sarà operato, et così seguendo di tre mesi in tre mesi»24.
Nel tentare di comprendere quali siano state le logiche di attribuzione dei valori di stima, occorre infatti tenere presente che esisteva la consuetudine degli anticipi e delle caparre, non sempre dichiarate, oltre ad esborsi in natura, che potevano comprendere la corrisponsione di vitto, vestiario e alloggio per l’autore e i propri famigliari, collaboratori o lavoranti25. Una buona esemplificazione è fornita dalle richieste avanzate intorno al 1573 dai fratelli Giovanni Ambrogio, Simone, Stefano Saracchi, disposti a trasferirsi temporaneamente alla corte del duca Alberto di Baviera. Il trentaduenne Giovanni Ambrogio, che «lavora di grossaria», avrebbe lasciato a Milano la «moglie in casa di suo suocero», chiedendo per sé una «casa franca per allogiare, et per lavorare» e come salario 15 scudi mensili, con «li danari d’un anno inanzi tratto»; le spese per il viaggio dovevano essergli anticipate prima della partenza e il salario conteggiato iniziando dal giorno in cui avrebbe lasciato Milano, ricevendo appena arrivato in Baviera «il restante d’un anno»; «instrumenti, utensilii et materie» necessari, sarebbero stati a spese del duca di Monaco, il quale in aggiunta avrebbe dovuto pagare i diversi «lavori rimettendosi al suo discreto giuditio»; Giovanni Ambrogio avrebbe realizzato un «vaso solamente solio con fessoni», ma non gli intagli di «fogliami e figure», di pertinenza invece del venticinquenne fratello Simone. Questi sarebbe venuto solo, chiedendo venti scudi mensili «per essere il suo lavore di maggiore importanza»; rimanevano invece identiche a quelle del fratello Giovanni Ambrogio le formule di pagamento. I compensi del ventiduenne Stefano, anch’egli impegnato a lavorare «di grossaria» sarebbero stati uguali a quelli di Giovanni Ambrogio. I tre avrebbero inoltre portato con loro un aiutante «che disgrossi li lavori», per il quale chiedevano otto scudi mensili «ò poco più ò meno secondo si trovarà». Giovanni Ambrogio si offriva inoltre di andare un mese in Baviera, «senza premio alcuno, accio’ che S. Ecc.a lo possa veder lavorare», salvo il pagamento del viaggio, «insieme con una cavallata de utensilii»; Simone invece sarebbe rimasto a Milano, perché «lavorare un mese a benplacito […] gli sarebbe di troppo danno»26. La documentazione nota non fa sapere se la permanenza in Baviera si effettuasse o no. Un esemplare di cristallo in forma di imbarcazione, intagliato con «Historie antiche», munito di legature d’oro gemmate, «a sembianza d’una Galera naturale», con «Schiavi Mori a nove banchi per parte […] Capitani, Soldati, Comiti, Sottocomiti, Bombardieri con diversi pezzi d’artigliaria, li quali sparavano, con arbori e vele», consegnato nel 1579 al duca Alberto di Baviera insieme a un «grandissimo vaso» di cristallo, fruttò ad ogni modo «di premio» sei mila scudi d’oro e due mila Lire Imperiali «del ben servito»27.
Anche la presenza di altre figure contribuiva a determinare il prezzo finale dei prodotti. La lavorazione era spesso avviata sulla base di somme elargite da soci finanziatori, ai quali andava una quota del ricavato. Maurizio Visconti per esempio finanziò più di un’impresa dei Saracchi. Con atto notarile del 26 giugno 1596 Giovanni Ambrogo Saracchi (q. Bartolomeo) diveniva unico proprietario d’ alcuni cristalli (bacili, boccali, vasi diversi, anche in «forma di drago», o di «tinca», o di «Gallo d’India», croci e candelieri, una «pace», nonché una «cassa d’ebano con cristalli non finita»), (Fig. 4) approntati a decorrere dall’agosto 1590 con i fratelli Simone e Michele, in società finanziaria con Maurizio Visconti. Il 4 e l’8 luglio successivo Giovanni Ambrogio vendeva quindi al Visconti per 2000 scudi d’oro la «metà» di questo insieme di oggetti con il patto che il socio sborsasse i soldi necessari per comprare oro e gioie necessari a concludere alcuni pezzi. (Fig. 6) Gli introiti delle vendite sarebbero stati divisi a metà, ma Giovanni Ambrogio avrebbe dovuto a sue spese «perficere li cristalli» e il fondo «della cassetta non finita». In totale il Visconti versò 16 mila Lire imperiali, ripartite in vario modo, tenendo anche in conto l’importo per l’affitto della casa di sua proprietà abitata dai Saracchi, versatogli durante il 1595 e il 159628.
Per connotare il livello del prodotto e i relativi costi, era fondamentale l’apporto dei dettagli preziosi, gemme e soprattutto cammei, nella cui lavorazione le botteghe milanesi erano specializzate.
Tra queste quella dell’ intagliatore e orafo Gerolamo Desio, maestro che doveva avere una certa fama, tra l’altro in contatto con il noto cammeista Alessandro Masnago, attivo in esclusiva per Rodolfo II. In occasione della stesura del suo testamento, il 27 settembre 1576 Gerolamo decise di inventariare le opere custodite nel suo atelier. Nell’elenco compaiono numerosi cammei. Il prezzo più alto (100 scudi) spetta due «grandi uno de la Natività dil Signore altro Moixè pastore», al «cameio grando de uno Orfeio de agata de colore» e a una «medalia de oro con otto rubini e uno cameio grando maritimo»; 30 scudi è invece prezzato un cammeo recante un’ «archa de agata de colore con […] l’angello che anoncia la Madona» che ho collegato all’esemplare con la scritta AVE. GRATIA. PLENA attualmente a Vienna (Kunshistorisches Museum, Sammlung für Plastik und Kunstgewerbe, n. XII 28); vale invece 60 scudi un «toxone de perle che fu l’ordino dil re Filipo ligato», cioè il re Filippo II di Spagna. Nel documento viene inoltre precisato che il cammeo con la raffigurazione di «una testine» (stimato 6 scudi) era ad opera del «magistre Dominicho di Cameii», presumibilmente il famoso intagliatore Domenico de Rossi, padre di Prudenza, moglie dal 1549 di Gerolamo Miseroni. Ma ci sono anche cammei figurati, anche «picoli» per «bottoni» (a 4 scudi per dozzina), nonché altri trentacinque «grandi per medalia» (10 scudi) e quarantasei con «santi» (9 scudi per dozzina), e si registrano anche una «Madona che ascenda in giello con angello» (12 scudi), una «Diana de agata» (6 scudi), un «cameio de uno Oracio picolo e uno Bacho e una maschera» (5 scudi), oltre a esemplari con rappresentazioni animalisitche proposti in diverse varianti (con uno o due animali per ciascun cammeo, grandi o piccoli)29.
Anche se non sempre descritti negli inventari, questi piccoli elementi preziosi caratterizzavano quasi sempre i vasi in pietra dura che stiamo considerando, specie quelli approntati dai Saracchi, (Fig. 5) come nella raccolta Gonzaga il contenitore in diaspro orientale a sagoma di «baboino», con legature d’ argento dorato ornate da «reporti d’oro et gioie», prezzato 80 ducatoni (n. 1555), eseguito tra il 1603 e il 1605 da questi maestri per Vincenzo I30. Non mancano nell’elenco altre attestazioni. Tra quelle recanti la «V» di Vincenzo I, ci imbattiamo per esempio in due «vassetti» di lapislazzuli con legature d’oro, stimati 129 ducatoni, ciascuno con «quattro arpie», una «figurina sul coperto», «cameini et gioie» (n. 1657); «rubini e camaini» abbelliscono anche un altro «vaso», sempre in lapisalzzuli ma a «otto bocche», con coperchio, legature e «un drago […] in cima» d’oro, valutato 230 ducatoni (n.1668). Al momento della stima risultò invece mancante il cammeo in origine sul manico d’oro di un «caldarino» di cristallo munito di coperchio, prezzato 170 ducatoni (n. 1407), assenza che contribuì sicuramente a rendere meno alta la valutazione dell’opera.
ASMn, AG = Archivio di Stato di Mantova, Archivio Gonzaga. Per i documenti relativi alla corte Gonzaga, si veda il database sul collezionismo gonzaghesco presso il Centro Internazionale d’Arte e di Cultura di Palazzo Te, Mantova, URL http://banchedatigonzaga.centropalazzote.it/collezionismo/
- Per l’inventario, cfr. R. Morselli, Le collezioni Gonzaga. L’elenco dei beni del 1626-1627, Cinisello Balsamo 2000 (d’ora in poi i numeri tra parentesi si riferiscono a questo elenco). Per la quadreria, cfr. S. Lapenta- R. Morselli, Le collezioni Gonzaga. La quadreria nell’elenco dei beni del 1626-1627, Cinisello Balsamo 2006; Sulle pietre dure, i cammei, ecc. Gonzaga, cfr. P. Venturelli, Le collezioni Gonzaga. Cammei, cristalli, pietre dure, oreficerie, cassettine, stipetti. Intorno all’elenco dei beni del 1626- 1627. Da Guglielmo a Vincenzo II Gonzaga, Cinisello Balsamo 2005; Eadem, Venturelli, Ori e avori. Museo Diocesano Francesco Gonzaga di Mantova, Mantova 2012. [↩]
- Per i dipinti, cfr. R. Morselli, Le collezioni Gonzaga. L’elenco, pp. 57-58; Eadem, Un labirinto di quadri. Storie di dipinti scomparsi e ritrovati. Di autori senza opere e di opere senza autore, in S. Lapenta- R. Morselli, Le Collezioni Gonzaga. La quadreria, pp. 38-38, 57-58, 60-61; per il «fornimento» da cavallo citato, cfr. P. Venturelli, Un «fornimento da cavalo alla gianetta» per il duca Francesco IV Gonzaga (1612), in Testi e Contesti per Amedeo Quondam, a cura di C. Continisio-M. Fantoni, Roma 2015, pp. 265-275. Lira mantovana = 20 soldi di 12 denari; Ducatone =10 Lire; per gli «scudi mantuani», «da lire sei l’uno», cfr. R. Morselli, Un labirinto di quadri, p. 58, e nota 48, a p. 59); per valori di scudo, ducato, ducatone, lira; A. Martini, Manuale di metrologia, ossia misure pesi e monete in corso attuanente e anticamente presso tutti i popoli, Roma 1883. [↩]
- Per l’identificazione dei due vasi, cfr. P. Venturelli, “Havendo animo a tutti li christalli, e altri vasi, cameo grande et altri camei”. Oggetti preziosi della collezione Gonzaga (dal duca Guglielmo al 1631), in Gonzaga. La Celeste Galeria, catalogo della mostra (Mantova 2002), Milano, a cura di R. Morselli, Milano 2002, pp. 233-252 (a p. 246); per questa bottega, cfr. Eadem, Saracchi, in Dizionario Biografico degli Italiani, Roma 2017, online (con bibliografia). Per l’identificazione della cassetta del Fontana e le sue vicende, cfr. P. Venturelli, A proposito di un recente articolo sugli ‘Scala e altri cristallai milanesi’. Con notizie circa un’opera di Annibale Fontana, in “Nuova Rivista Storica”, LXXV, gennaio-aprile, 2001, pp. 135-144; Eadem, “Havendo animo a tutti li cristalli…, 2002, pp. 233-252; Eadem, Le collezioni Gonzaga. Cammei, cristalli…, 2005, pp. 125, 133; sulle lastrine di cristallo della cassetta, cfr. Eadem, schede nn. 81-82, in La Celeste Galeria…, 2002, pp. 290-291. Per Annibale Fontana, Eadem,“Raro e Divino”. Annibale Fontana (1540-1587) intagliatore e scultore milanese. Fonti e documenti (con l’inventario dei suoi beni), in “Nuova Rivista Storica”, LXXXIX, gennaio-aprile, 2005, pp. 203-226; Eadem, Annibale Fontana e la Madonna dei Miracoli di san Celso, tra Carlo e Federico Borromeo, in Carlo e Federico. La luce dei Borromeo nella Milano Spagnola, catalogo della mostra (Milano 2005- 2006), a cura di P. Biscottini, Milano 2005, pp.151-157; pp. 284-303. [↩]
- Cfr. P. Venturelli, “Havendo animo a tutti li christalli…, 2002, pp. 233-252; Su Daniel Nys e la vendita della quadreria Gonzaga, cfr. A. Luzio, La Galleria dei Gonzaga venduta all’Inghilterra nel 1626-1628, Milano 1913; S. Lapenta- R. Morselli, Le collezioni Gonzaga. La quadreria; C. M. Anderson, The art of friendship: Daniel Nijs, Isaac Wake and the sale of the Gonzaga collection, in “Renaissance Studies”, 27 (2013), pp. 724-737; Eadem, The Flemish Merchant of Venice. Daniel Nijs and the Sale of the Gonzaga Art Collection, New Haven and London 2015. [↩]
- Rimando a P. Venturelli, Materiali e oggetti preziosi tra i Gonzaga e Mantova. Aggiunte e rettifiche, in Cesare Mozzarelli – Storico e Organizzatore di cultura, Atti del convegno (Mantova 2005), numero speciale di “Bollettino Storico Mantovano”, n. s. 5, gennaio- dicembre, 2006, pp. 111-124 (a pp. 115-118). [↩]
- P. Venturelli, Mantova. Collezioni e collezionisti di oggetti suntuari in pietre dure. Tra la corte e i cortigiani (XVI-XVII sec.) Alcune riflessioni, in Il Seicento allo specchio. Le forme del potere nell’Italia spagnola: uomini, libri, strutture, Atti del convegno (Somma Lombardo 2007), a cura di C. Cremonini- E. Riva, Roma 2011, pp. 355-374; P. Venturelli, Gonzaga Collecting: Palace Inventories and New Objects (1626-1709), in The Transition in Europe between XVIIth and XVIIth centuries. Perspectives and case studies, a cura di A. Alvarez- Ossorio- C. Cremonini- E. Riva, Milano 2016, pp. 350-364. [↩]
- Cfr. G. Guerzoni, Apollo e Vulcano. I mercati artistici in Italia (1400- 1700), Venezia 2006, p. 49; Idem, Prezzi, valori e stime delle opere d’arte in epoca moderna, in M. Barbot – J. F. Chauvard- l. Mocarelli (eds), Questioni di stima, numero monografico di “Quaderni Storici”, 135, XLV, 3, 2010, pp. 723-752. [↩]
- Cfr. P. Venturelli, Mantova. Collezioni e collezionisti…, 2011; Eadem, «…quella splendidissima virtù, che magnificenza si chiama», in Ecco il gran desco splende. Lo spettaccolo del mangiare, catalogo della mostra (Mantova 2017), a cura di J. Ramharten- P. Assman, Mantova 2017, pp. 55-77. [↩]
- D. Ferrari, Le collezioni Gonzaga. L’inventario dei beni del 1540-1542, Cinisello Balsamo 2003, p.14. [↩]
- Cfr. Tra committenza e collezionismo. Studi sul mercato dell’arte nell’Italia settentrionale durante l’età moderna, Atti del Convegno (Verona 2000), a cura di M. Dalpozzolo- L. Tedoldi, Verona 2003; G. Guerzoni, Prezzi, valori…, 2010. Emblematica la lunga trattativa di Danyel Nys per l’acquisto di quadri della collezione Gonzaga da inviare al re d’Inghilterra, con la stesura di diverse liste recanti valori differenti per le medesime opere, i cui prezzi non corrispondono a quelli nell’inventario 1626-1627 (cfr. A. Luzio, La Galleria dei Gonzaga venduta…, 1913). [↩]
- R. Morselli, Le collezioni Gonzaga…, 2000, p. 74 (altri periti sono nominati per altre categorie di manufatti); per Apollonio de Comi, Andra Spiga, Girolamo Coiro e Gabriele Saracchi, cfr. P. Venturelli, Le Collezioni Gonzaga. Cammei, cristalli…, 2005, pp. 15-15 e sub indice; Eadem, Un “fornimento da cavalo alla gianetta”. [↩]
- P. Venturelli, Splendidissime gioie. Cammei, cristalli e pietre dure milanesi per le corti d’Europa, Firenze 2013, pp. 197-198. [↩]
- Rimando a P. Venturelli, “Raro e divino…, 2005; Eadem, Splendidissime gioie…, 2013, pp. 116-127. [↩]
- Ho commentato questi documenti collegandoli al cammeo con due teste oggi a san Pietroburgo, in P. Venturelli, Carlo Sovico ed Eliseo Magoria. Gioiellieri a Milano tra Cinque e Seicento. Alcune notizie e documenti anche in relazione alla collezione dei Gonzaga di Mantova, in “Nuova Rivista Storica”, LXXXVI, maggio- agosto (2002), pp. 376-398 (a p. 386); Eadem, scheda n. 77, in La Celeste Galeria…, 2002, pp. 288-289 (sicuramente a Mantova era comunque rimasto un «cameo grande», dato che Daniel Nys nel 1627 lo richiedeva insieme alla cassettina in cristallo di Annibale Fontana). [↩]
- F. Caglioti- D. Gasparotto, Lorenzo Ghiberti, il ‘sigillo di Nerone’ e le origini della placchetta antiquaria, in “Prospettiva” 85, 1997, pp. 2-38 (a p. 20, appendice II). [↩]
- Per le citazioni, cfr. E. Plon, Leone Leoni sculpteur de Charles – Quint et Pompeo Leoni, Paris 1887, p. 262; S. Butters, Making art and pay: the meaning and value of art in late 16th C. Rome and Florenz, in The Art Market in 16th and 17th C. Italy, ed by S. Matthews- Grieco, Modena, 2003, pp. 25-50 (a p. 26). [↩]
- H. Simonsfeld, Mailänder Briefe zur bayerischen und allgemeinen Geschichte des 16. Jahrhunderts, in “Abhandlungen Historischen Classe der Königlich Bayerischen Akademie der Wissenschaften”, XXI (1902), n. 257 (1577, agosto 26); per Gaspare Fasolo, cfr. P. Venturelli, Splendidissime gioie…, 2013, sub indice. [↩]
- P. Venturelli, Materiali e oggetti…, 2006, pp. 113-114; per Girolamo Corio, cfr. P. Venturelli, Le collezioni Gonzaga. Cammei, cristalli…, 2005, sub indice; Eadem, Splendidissime gioie…, 2013, sub indice [↩]
- P. Venturelli, Ferdinando Gonzaga e le pietre dure, in Ritratto di un Principe del Rinascimento Ferdinando Gonzaga. Duca di Mantova e di Monferrato, a cura di R. Maestri, Nepi (VT) 2016, pp. 147-158. [↩]
- Per i documenti citati, cfr. ASMn, AG: busta 1556, f. I, cc. 13-14, 18; f. III, cc. 211-212, 219-219. Per la raccolta di questo mercante, cfr. S. Furtlehner- R. Lauber, La Collezione di Bartolomeo della Nave, in Il collezionismo d’arte a Venezia, a cura di L. Borean-S. Mason, Venezia 2007, pp. 258-261 (con bibliografia precedente); per Bertazzolo, cfr. D. Ferrari, Gabriele Bertazzolo: l’inventario dei suoi beni, in Il Seicento nell’arte e nella cultura con riferimento a Mantova, Cinisello Balsamo 1985, pp. 140-147; per Bertazzolo e la ricerca di pietre dure per i Gonzaga, cfr. P. Venturelli, Materiali e oggetti…, 2006, pp. 112-115. [↩]
- Cfr. C. M. Brown, Isabella d’ Este Gonzaga’s Augustus and Livia Cameo and the ‘Alexander and Olympias’ Gems in Vienna and Saint Petersburg, in Engraved Gems. Survival and Revivals, “Studies in the History of Art”, 54, 1997, ed by C. M. Brown, pp. 85-107 (a pp. 91-92). [↩]
- Per i della Scala, cfr. P: Venturelli, Una preziosa cassetta in ebano, avorio e gioie. Milano 1584, in Contributi per la storia della gioielleria, oreficeria, argenteria, a cura di P. Pazzi, Venezia 1997, pp. 272-275; Eadem, Le Collezioni Gonzaga. Cammei, cristalli…, 2005, pp. 161-163; Eadem, Splendidissime gioie…, 2013, pp. 28-32, pp 178-182. [↩]
- Cfr. P. Venturelli, Un documento inedito per Pompeo Leoni: Milano 1589, in “Arte Lombarda”, 124, 1998, n. 124, pp. 65-67; Eadem, Splendidissime gioie…, 2013, pp. 29-30. [↩]
- In ASMn, AG, b. 1722, alle date 1598: febbraio 26, marzo 16 e 27, settembre 25, ottobre 31; ASMn, AG, b. 1744, 1616, maggio 11 (cfr. P. Venturelli, Le collezioni Gonzaga. Cammei, cristalli…, 2005, pp. 164-165, 215). [↩]
- G. Guerzoni, Apollo e Vulcano, pp. 231-264 (a pp. 233-234). [↩]
- R. Distelberger, Die Saracchi Werkstatt und Annibale Fontana, in “Jahrbuch der Kunsthistorischen Sammlungen in Wien”, LXXI, 1975, pp. 161-162, doc. 4 (documento senza data). Il blocco di cristallo veniva sbozzato grossolanamente e quindi scavato all’interno («lavorare di grossaria»); si passava poi alle raffigurazioni, prima incise (‘disegnate’) e successivamente lavorate mediante asportazione della materia, cfr. P. Venturelli, La lavorazione dei cristalli e delle pietre dure, in Il Rinascimento italiano e l’Europa, III. Produzioni e tecniche, a cura di P. Braunstein-L. Molà, Treviso 2007, pp. 261-282; Eadem, Splendidissime gioie…, 2013, pp. 101-110. [↩]
- P. Morigia, La nobiltà di Milano (1595), ed. rist. Bologna 1979, pp. 484-485. [↩]
- Cfr. P. Venturelli, Splendidissime gioie…, pp. 53-54, 83-88, 206-211. [↩]
- P. Venturelli, Un’ “archa de agata de colore con […] l’angello che anoncia la Madona”. Cammei di Gerolamo da Desio (Milano 1576), in Amicissima. Studia Magdalenae Piwocka oblata, Cracovia 2010, pp. 187-196; per Masnago e Domenico dei Cammei, cfr. Eadem, Splendidissime gioie…, 2013, sub indice. Rimando agli esemplari eseguiti per i Medici, cfr. P. Venturelli, Il Tesoro dei Medici al Museo degli Argenti. Collezioni di Palazzo Pitti, Firenze 2009, sub indice. [↩]
- Identifico le opere dei Saracchi nell’inventario 1626-1627, in P.Venturelli, “Havendo animo a tutti li christalli; Eadem, Le collezioni Gonzaga. Cammei, cristalli…, 2005, pp. 165-166. [↩]