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Una sinfonia di argenti nell’isola di Tinos: le chiese di Kato Klisma, Ktikados e Sant’Antonio di Tinos
DOI: 10.7431/RIV20062019
Questo contributo si sofferma ad analizzare gli argenti di due villaggi rurali dell’isola greca di Tinos, vale a dire Kato Klisma e Ktikados, come pure quelli custoditi nella chiesa dei Minori Conventuali del capoluogo isolano, qui con taluni reperti di respiro europeo. Come finora rilevato negli altri centri delle isole Cicladi1, tali manufatti sono per la gran parte essenziali alla quotidiana liturgia, tenendo altresì conto delle ridotte disponibilità economiche che caratterizzavano ognuna di queste comunità cattoliche, da secoli stanziate in questo lembo di Grecia. Ricordo ancora una volta che l’assenza di documenti archivistici non permette di fornire precise datazioni, ragion per cui la loro cronologia si basa essenzialmente sugli elementi stilistici e, in alcuni casi, su iscrizioni, date o punzoni incussi. Come nelle altre chiese isolane da me investigate, non sono stati presi in considerazione oggetti in metallo non prezioso, in quanto di fattura scadente o perché di produzione seriale.
Nella chiesa di Kato Klisma, dedicata all’Assunta, ho rinvenuto sette pezzi d’argenteria. L’opera più antica è rappresentata da una ragguardevole Pisside (Fig. 1) in argento e argento dorato, con base mistilinea rigonfia scompartita in campi triangolari decorati da minuti e variegati elementi naturalistici frammisti a teste di angeli. Il fusto ha un nodo a sezione triangolare, pur esso con decori vegetali che tornano a caratterizzare il sottocoppa dal profilo movimentato. La semplice coppa è chiusa da un coperchio, ugualmente scompartito e decorato a motivi naturalistici, a sua volta sovrastato da una sfera che in principio sosteneva una perduta crocetta apicale.
Sebbene i punzoni impressi risultino illeggibili, l’opera in esame, come il calice descritto subito dopo, sembra configurarsi nell’ambito di una produzione romana, di cui proprio a Tinos si sono rinvenuti diversi reperti; ciò non deve stupire, in quanto l’isola, come più volte sottolineato, è fin dal medioevo sede di un episcopato latino. Per motivi stilistici la pisside in esame, un esempio ricco e raffinato di argenteria chiesastica, è databile alla metà del XVIII secolo. Confronti si possono stabilire, per esempio, con alcuni esemplari conservati nelle chiese di Roma2 e in quelle marchigiane (Fermo, Servigliano)3.
Alla medesima cultura, appartiene il successivo Calice (Fig. 2). La base, su orlo mistilineo, è decorata a sbalzo e a cesello da motivi fogliacei che si alternano a teste di cherubini e cartigli contenenti i simboli della Passione. Movimentati sono pure il fusto e il nodo a sezione triangolare che accoglie altre testine di cherubini. Il sottocoppa, in argento dorato e forse non pertinente, presenta in basso una corona di baccelli e in alto motivi foliacei inframmezzati da teste di cherubini. Sul bordo superiore corre un irregolare motivo a volute vegetali. Esemplari simili si ritrovano abbondantemente in quello che fu lo Stato Pontificio; si vedano, per esempio, i calici di alcune località delle Marche (Ripatrasone, Offida)4 e di Roma5.
Al periodo iniziale del secolo XIX, sarebbe da ricondurre un Ostensorio (Fig. 3) in argento e argento dorato poggiante su un piede circolare decorato da un semplice motivo di baccellature affiancate tra loro in maniera obliqua. Sul collo del piede sono cesellati motivi naturalistici. Il fusto, alquanto articolato, presenta un nodo a vaso con tre teste di cherubini. La raggiera mostra nel mezzo una teca circolare perimetrata esternamente da un nuvolario e superiormente da una croce con vetri colorati. Opera di discreta fattura è ascrivibile a un argentiere ottomano. Un ostensorio molto simile, specialmente per la base e il fusto, è allogato nella chiesa di San Giovanni a Komi6).
Come più volte rilevato dall’esame del patrimonio argentario delle chiese di Tinos, una particolare suppellettile rinvenuta con frequenza è la croce astile, per la gran parte caratterizzata da una comune tipologia e stile nonché da una produzione che, rifacendosi ai prototipi aulici di Venezia, va ricercata nei numerosi laboratori orafi installati nelle due più importanti città dell’impero ottomano prossime alla Grecia, vale a dire Istanbul e Smirne.
Secondo una consuetudine delle croci veneziane di età medievale e rinascimentale, la Croce astile (Fig. 4) di Kato Klisma presenta un profilo perlinato e movimentato da sporgenze; il bordo esterno era perimetrato da decori traforati – ne resta solo uno – che in principio conferivano all’opera una certa eleganza e ariosità. Le terminazioni trilobate accolgono formelle sbalzate e dorate con le figure degli evangelisti: in alto, san Giovanni; a sinistra, san Marco; a destra, san Matteo; in basso, san Luca. Nel mezzo è il Crocifisso mentre il verso, in ragione dalla sagoma stampigliata sulla superficie metallica, ospitava una figura dell’Assunta, titolare della chiesa, in origine circondata da quattro cherubini, di cui due perduti. Nelle terminazioni di questo lato della croce notiamo: in alto, il Padre Eterno; a sinistra, la Vergine; a destra, san Giovanni; in basso, la Maddalena. Il nodo sferoidale presenta elementi foliacei di gusto neoclassico.
Questa croce trova confronti in una serie di esemplari diffusi, come detto, nelle chiese di Tinos. Per quel che qui interessa, sintomatico è l’accostamento con quella, assai più integra, di Ktikados (1817), descritta più innanzi, che sembra essere uscita dalla stessa bottega e, quindi, per analogia, ipoteticamente assegnata allo stesso artefice; tale confonto, inoltre, ci aiuta a capire meglio l’originale impostazione di questa di Kato Klisma.
Il successivo Calice (Fig. 5), dalle linee molto sobrie, presenta una base circolare e gradinata decorata da un fregio a palmette e da una sovrastante fascia a corda. Il fusto ha un nodo a vaso oblungo ravvivato alle estremità dalla riproposizione del motivo a corda. Fitti baccelli decorano il sottocoppa che termina con un cordolo decorato, ancora una volta, con il motivo a corda. La struttura semplice di tale reperto assieme ai decori, di chiaro gusto neoclassico, mi inducono a collocarlo al primo quarto dell’Ottocento e ad assegnarlo a un artefice italiano o ottomano, la cui bottega andrà probabilmente individuata nella città di Smirne o di Istanbul.
Un’altra particolare suppellettile rinvenibile in quasi tutte le chiese di Tinos finora investigate è la lampada pensile. Quella della chiesa di Kato Klisma (Fig. 6), che perpetua modelli veneziani settecenteschi, riporta la seguente iscrizione: + ΧΕΙΡ ΑΝΤΩΝΙΟΥ ΜΑΡΙΣΗ + 1821, vale a dire (DALLA) MANO (DI) ANTONIO MARISI 1821. Ciò porta a conoscere per la prima volta il nome del suo artefice – probabilmente attivo nella città di Istanbul o di Smirne a servizio delle folte comunità cristiane qui stanziate – che si aggiunge agli altri emersi in questa ricerca.
Alla già nota personalità di Giovanni Fakis (o Facis o Face) nato a Tinos attorno al 1634 e attivo a Roma tra il 1685-16927, andrà aggiunto l’argentiere P. Tassi8">www.unipa.it/oadi/rivista))) e numerosi altri anonimi che man mano affiorano dalla lettura dei rispettivi punzoni: φχ sul secchiello della cattedrale di Naxos9; FS sull’ostensorio di Steny10, MC su degli arredi da quadro della chiesa San Nicola di Bari a Tinos11">www.unipa.it/oadi/rivista))); NM sul turibolo ed IM sulla croce e sul vassoio tutti ad Agapi12); MA sulla navicella di Potamia13; MJ sul turibolo di Komi14. In questo elenco, inoltre, anticipo la presenza di altri due punzoni, CV e ZK, rispettivamente rilevati su una cartagloria e su un vaso entrambi conservati nel Museo del Vescovado di Xinara.
Allo stesso torno d’anni rientra anche una seconda Lampada pensile (Fig. 7), la cui tipologia e soprattutto gli elementi ornativi, ripropongono i modelli cari all’argenteria veneziana di età barocca e rococò. Anche questo reperto, privo di punzonature, andrà assegnato a un argentiere dell’impero ottomano.
L’analisi del patrimonio dell’argenteria sacra della chiesa dell’Esaltazione della Croce di Ktikados si apre con un Calice (Fig. 8) in argento fuso di discreta fattura ascrivibile al XVIII secolo. Presenta piede circolare inciso e cesellato con una decorazione a motivi fitomorfi. Gli stessi motivi si ritrovano nel nodo a vaso del fusto e nel sottocoppa in argento dorato, ornato da volute e da cartelle irregolari; la parte sommitale presenta un contorno mistilineo. Priva di punzoni, l’opera in esame andrebbe assegnata a una manifattura dell’Europa occidentale, forse di Venezia potendola confrontare sotto l’aspetto strutturale e decorativo con alcuni calici del territorio bellunese15.
Per le evidenti analogie strutturali e decorative, alla mano dello stesso artista della croce di Kato Klisma, cui rimando per ulteriori e approfonditi dettagli, va assegnata questa Croce astile (Fig. 9) di Ktikados che, però, si differenzia per il nodo della mazza processionale, qui ancora ispirato al gusto tardobarocco. Appena sopra la figura della Maddalena è incisa la data di esecuzione dell’opera, ovvero il 1817.
Il Calice (Fig. 10) che segue è anch’esso dei primi decenni dell’Ottocento ed è con tutta probabilità realizzato da un argentiere francese, per l’uniformità stilistica evidenziata con altri pezzi liturgici contemporanei registrati in quest’isola. Il calice si sviluppa su piede circolare che presenta una fascia di foglie e più internamente festoni penduli. Il fusto è decorato da un nodo con motivi a baccelli che si ritrovano nel sottocoppa sovrastato da un cordone a foglie.
Dall’atelier dei fratelli Favier, originari di Lione, fu licenziato questo Calice (Fig. 11), oggi privo del sottocoppa. Accanto al punzone della celebre casa di argenteria, come si sa connotato dalle lettere F☼F divise da un sole, vi è quello del titolo con la testa di Minerva, in uso dal 9 maggio del 1838.
Il piede circolare e rigonfio è decorato da volute contrapposte che accolgono i simboli eucaristici dell’uva e del grano. Il fusto con nodo a balaustro ha una decorazione fogliacea e minuti baccelli. Della produzione argentaria francese si sono rinvenuti diversi esemplari nelle chiese della diocesi di Tinos; a tal riguardo, si veda il calice della cattedrale di Naxos16.
La successiva Pisside (Fig. 12), di linea molto semplice ed elegante, presenta un piede circolare e gradinato decorato da una fascia a piccoli baccelli; più internamente, in prossimità del collo, mostra una decorazione di foglie lanceolate accostate tra loro. Il fusto con nodo a cono, regge la coppa con coperchio rigonfio, a sua volta perimetrato da perline e sormontato da crocetta. Il sottocoppa è costituito da una corona di foglie lanceolate, come quelle del piede, raccordate in alto da un nastro sinuoso. L’opera, di accurata esecuzione, presenta motivi ornamentali propri del neoclassicismo del primo Ottocento e può essere assegnato a un argentiere francese o a uno attivo a Istanbul o a Smirne fortemente affascinato dai prodotti importati dall’Occidente.
Il Turibolo (Fig. 13), in non buone condizioni, presenta una semplice base circolare; il braciere, dal profilo movimentato, è decorato da baccelli rigonfi. Un lavoro a traforo connota il coperchio, ornato da una varietà di elementi vegetali e sormontato da una piccola croce. Opera di discreta esecuzione e di tipologia abbastanza diffusa, è opera di un autore ignoto riconducibile all’ambito dell’impero ottomano dei primi decenni del XIX secolo.
Una immancabile Lampada pensile (Fig. 14), ancora una volta eseguita da un artefice dell’impero ottomano, arricchisce il patrimonio della chiesa di Ktikados. La struttura e i decori che la caratterizzano sono gli stessi già visti su diversi esemplari coevi. Restando nell’ambito territoriale dell’isola di Tinos, si rimanda alla sopra descritta lampada della chiesa di Kato Klisma.
La penultima opera di questa chiesa è un Ostensorio (Fig. 15) di evidente manifattura francese. Si sviluppa su base rettangolare poggiante su quattro zampe leonine; sulle facce compaiono motivi di foglie lanceolate e su quella principale l’agnello accovacciato sul libro dei sette sigilli. La raggiera in ottone dorato presenta nel mezzo la mostra circolare, ornata come di consueto da testine di cherubini fra nubi; in basso sono le spighe di grano mentre in alto trionfa la croce. Sebbene punzonato con la testa di Minerva, in vigore dal 9 maggio 1838 fino a oggi, sul piano stilistico il manufatto in esame va, a mio parere, datato a dopo la metà del XIX secolo; lo affianca il punzone dell’argentiere purtroppo illeggibile. Opera di tipologia abbastanza consueta lo si può confrontare con altri diffusi nelle chiese cattoliche di Tinos.
Dall’Italia, segnatamente dalle officine della Fabbrica Bertarelli di Milano, giunse un Calice (Fig. 16) dalle linee molto semplici. Sul reperto si sono individuati i punzoni FB e 800. Di produzione ormai seriale, presenta decori a stampo a motivi vegetali e zigrinati. La cronologia di tale reperto andrà individuata agli inizi del XX secolo.
La dotazione delle suppelletili sacre conservate nella chiesa di Sant’Antonio da Padova a Tinos, occupata dai Minori Conventuali dal 1745 fino alla seconda guerra mondiale e importante punto di riferimento per i mercanti italiani ed europei, contempla due reperti di estremo interesse per la loro origine e qualità oltre che essere i più antichi. Si tratta di un reliquiario e di un ostensorio di produzione viennese della metà del XVIII secolo. Tuttavia, il loro precario stato di conservazione, non permette di godere appieno i passaggi chiaroscurali, dovuti all’uso diverso dei materiali metallici e dei cristalli colorati né tantomeno dei finissimi decori.
Il primo reperto di questa chiesa francescana è riferito al Reliquiario a ostensorio di Sant’Antonio da Padova (Fig. 17), in rame argentato e dorato, che si connota per una esuberante decorazione fitomorfa. Presenta piede rialzato a sezione mistilinea suddiviso da quattro robusti costoloni che delimitano semi corolle floreali. Il fusto, altrettanto movimentato, ha un nodo a balaustro impreziosito da astrusi elementi naturalistici. La ricchissima raggiera ha nel mezzo la teca portareliquie, circondata da volute e larghe foglie di acanto che accolgono tre distinti castoni con cristalli colorati; la stessa raggiera, inoltre, è coronata da un baldacchino con frange e nappe nonché da crocetta apicale, qui malamente rinsaldata dopo essersi spezzata. Sebbene privo di punzonature, la morfologia e i motivi decorativi di questo reliquiario, mi portano ad assegnarlo a un argentiere viennese della metà del XVIII secolo.
Degno di nota è pure l’altro reperto della chiesa conventuale di Sant’Antonio, ovvero l’Ostensorio (Fig. 18) realizzato in argento e argento dorato. Su una base mistilinea, fittamente decorata da sinuose foglie e da volute vegetali, si sviluppa il fusto dal profilo movimentato e anch’esso decorato. La doppia raggiera delimita la teca circolare bordata esternamente da cristalli colorati. Il tutto è sormontato da una crocetta apicale ugualmente arricchita da cristalli. Sotto la base è riportata un’iscrizione con il nome del donatore, forse un frate dell’ordine conventuale di origine siriana: Simeon di Lazzaro Aleppino.
Sull’ostensorio ho rilevato sia il punzone territoriale della città di Vienna per l’argento a 13 lot con la data 1753, sia quello trilobato con le lettere L/SI di pertinenza dell’argentiere Leopold Stelzer (1716/17-1780)17. A questi due ultimi reperti va ad affiancarsi il settecentesco Calice della chiesa di Santa Zaccaria a Kalloni, che ho stabilito essere di manifattura tedesca o austriaca18).
L’esecuzione particolarmente accurata delle decorazioni floreali e vegetali che connotano una Lampada pensile (Fig. 19), provvista di tre catenelle di sospensione a grossi grani di rosario, mi induce ad assegnarla a un artefice veneziano di poco oltre la metà del Settecento, pur mancando ogni tipo di punzonatura. Questa tipologia di arredo liturgico, dalle forme particolarmente movimentate, ebbe larga diffusione nei domini veneziani di terra e di mare arrivando perfino a essere imitata, come dimostrano i numerosi esemplari recuperati nei luoghi di Grecia finora investigati, da argentieri cristiani e musulmani operanti nelle città dell’impero ottomano, Istanbul e Smirne soprattutto.
Tra le varie tipologie di arredi preziosi qui rinvenuti, va posta questa Navicella (Fig. 20), con piede circolare bombato decorato, su due registri, a motivi vegetali. Questi stessi motivi si ritrovano sul fusto a balaustro e sul corpo con manici a ricciolo. Il coperchio è chiuso da due sportelli con cartigli e corolle nel mezzo. Per struttura e decorazione, l’opera in questione si rifà a modelli veneziani della seconda metà del XVIII secolo, ragion per cui la si potrebbe cautelativamente assegnare a un argentiere lagunare.
Al contrario, a un artefice dell’impero ottomano dei primi decenni del secolo XIX, va riconosciuta l’esecuzione di un Turibolo (Fig. 21). Si sviluppa su un piede circolare con baccellature a girandola. Il braciere è anch’esso decorato, in basso, da baccelli verticali e da rigonfiamenti circolari con motivi vegetali. Un tripudio di elementi vegetali, conchiglie e teste di cherubini affiancate tra loro caratterizzano il coperchio traforato di forma piramidale. Motivi naturalistici si ritrovano sull’impugnatura. Sul piano stilistico, il turibolo in esame, di modesta esecuzione, non dovrebbe accompagnare la navicella sopra descritta.
È tutto in argento fuso il successivo Calice (Fig. 22) che presenta una base circolare ricoperta da una fitta serie di foglie oblunghe accostate tra loro. Questo stesso motivo si ripete nel fusto a cono e nel sottocoppa bordato in alto da una fascia di rosette. Di gusto e tipologia tipicamente neoclassico, quest’opera è databile ai primi decenni del secolo XIX e quasi certamente fu eseguito da un argentiere dell’impero ottomano.
Ugualmente sobria nelle forme e nei decori è questa Pisside (Fig. 23) che poggia su base circolare e liscia. Il fusto tubolare è percorso da scanalature verticali. La semplice coppa ha un coperchio rigonfio bordato in basso da una minuta fascia punzonata a motivi vegetali. Su una corolla di foglie lanceolate s’innalza una crocetta. Il manufatto è databile ai primi decenni del XIX secolo e assegnabile a un argentiere dell’impero ottomano a servizio, come gli altri fin qui descritti, delle comunità cristiane.
Infine, a un probabile argentiere italiano dell’ultimo Ottocento va assegnato questo Calice (Fig. 24) sostanzialmente privo di decorazioni fatta eccezione per alcune fasce zigrinate e per il sottocoppa che mostra foglie lanceolate all’ingiù e, in alto, un cordolo a treccia sovrastato da foglioline.
- G. Boraccesi, Rapporti tra la Grecia e l’Occidente europeo negli argenti della Cattedrale di Naxos, in «Arte Cristiana», n. 863, marzo-aprile 2011, pp. 131-144; Idem, A Levante di Palermo. Argenti con l’aquila a volo alto nell’isola greca di Tinos, in «OADI»», n. 4, dicembre 2011, pp. 60-67 (www.unipa.it/oadi/rivista); Idem, Una sinfonia di argenti nell’isola di Tinos: le chiese di Aetofolia, Kalloni, Karkados, Smardakito e Vrissi, in «OADI», n. 10, 2014 (www.unipa.it/oadi/rivista); Idem, Una sinfonia di argenti nell’isola di Tinos: le chiese di Chatziràdos, Koumàros, Kròkos e Steni, in «OADI», n. 12, dicembre 2015 (www.unipa.it/oadi/rivista); Idem, Una sinfonia di argenti nell’isola di Tinos: la chiesa di San Nicola di Bari a Chora e il Palazzo Vescovile, in «OADI», n. 13, giugno 20161 (www.unipa.it/oadi/rivista); Idem, Una sinfonia di argenti nell’isola di Tinos: le chiese di Agapi, Kerchros e Potamia, in «OADI», n. 14, dicembre 20162 (www.unipa.it/oadi/rivista); Idem, Tα αργυρά του Αγίου Νικολάου της Χώρας Τήνου, in Όρμος ο Γαληνότατος. Η Ενορία Αγίου Νικολάου των Καθολικών Χώρας Τήνου, a cura di M. Foscolos, Τήνος 2016, pp. 321-332; Idem, Una sinfonia di argenti nell’isola di Tinos: le chiese di Komi, Tarambàdos e Volax, in «OADI», n. 15, giugno 2017 (www.unipa.it/oadi/rivista); Idem, Una sinfonia di argenti nell’isola di Tinos: le chiese di Kampos, Loutrà e Xinara, in «OADI», n. 17, giugno 2018 (www.unipa.it/oadi/rivista). [↩]
- A.M. Pedrocchi, Argenti sacri nelle chiese di Roma dal XV al XIX secolo, Roma 2010, pp. 83, 108, 111. [↩]
- G. Barucca, Argenti romani del Settecento nella Marca Picena, in G. Barucca-B. Montevecchi, Atlante dei Beni Culturali dei Territori di Ascoli Piceno e di Fermo. Beni Artistici. Oreficerie, Cinisello Balsamo 2006, pp. 222, 224-226. [↩]
- G. Barucca, Argenti romani…, in G. Barucca-B. Montevecchi, Atlante dei Beni Culturali…, 2006, pp. 200, 203, 207. [↩]
- A.M. Pedrocchi, Argenti sacri…, 2010, pp. 106-107. [↩]
- G. Boraccesi, Una sinfonia di argenti…, in «OADI»…, 2017 (www.unipa.it/oadi/rivista [↩]
- A. Bulgari Calissoni, Maestri argentieri gemmari e orafi di Roma, Roma 1987, p. 195. [↩]
- G. Boraccesi, Una sinfonia di argenti…, in «OADI»…, 2015 (www.unipa.it/oadi/rivista); G. Boraccesi, Una sinfonia di argenti nell’isola di Tinos…, in «OADI»…, 2018 ( [↩]
- G. Boraccesi, Rapporti tra la Grecia…, in «Arte Cristiana»…, 2011, pp. 141, 143. [↩]
- G. Boraccesi, Una sinfonia di argenti…, in «OADI»…, 2015 (www.unipa.it/oadi/rivista). Qui restituivo l’ostensorio a una manifattura romana ma può pure assegnarsi a un argentiere dell’impero ottomano. [↩]
- G. Boraccesi, Una sinfonia di argenti…, in «OADI»…, 20161 ( [↩]
- G. Boraccesi, Una sinfonia di argenti…, in «OADI»…, 20162 (www.unipa.it/oadi/rivista [↩]
- Ivi. [↩]
- Ivi. [↩]
- T. Conte, Osservazioni per un catalogo dell’oreficeria sacra nelle antiche pievi di Cadola e dell’Alpago, in M. Mazza, Tesori d’arte nelle chiese del bellunese Alpago e Ponte nelle Alpi, Belluno 2010, pp. 165-167; Eadem, Argenti sacri tra XV e XIX secolo nelle pievi di Limana e Castion, in Tesori d’arte nelle chiese del bellunese – Sinistra Piave, a cura di C. D’Incà-L.Majoli-S. Rotondo, Belluno 2018, pp.142-157. [↩]
- G. Boraccesi, Rapporti tra la Grecia…, in «Arte Cristiana»…, 2011, pp. 138-139. [↩]
- W. Neuwierth, Wiener Silber. Punzierung 1524.1780, Wien 2004, p. 312. Ringrazio Paulus Rainer del Kunsthistorisches Museum di Vienna per le notizie su questo argentiere. [↩]
- G. Boraccesi, Una sinfonia di argenti…, in «OADI»…, 2014 (www.unipa.it/oadi/rivista [↩]