Angelo Pantina

angelo.pantina@unipa.it

Artigianato e Design. Antiche tradizioni e nuove opportunità

DOI: 10.7431/RIV18102018

Il forte interesse intorno alle arti applicate, che si registra in continua crescita, testimoniato da una rinnovata attenzione di alcune istituzioni come Comuni, Regioni, enti privati e pubblici, il fiorire in ogni angolo di associazioni, di gruppi di lavoro, cooperative e varie aggregazioni finalizzate a ridare valore ed importanza alla cultura del fare, fanno ben sperare per il futuro. Sempre più artisti/designer si presentano sulla scena con la loro “autoproduzione” rinnovando quella che, per molto tempo, è stata definita la figura dell’artigiano/artista, da Ron Arad al Gruppo Droog Design, dalla “Produzione Privata” di Michele de Lucchi alle esperienze di moltissimi giovani che si autopropongono al Salone del Mobile. Questo rinnovato interesse verso la cultura del fare conferma che siamo di fronte ad un vero fenomeno nuovo e ad una attenzione da parte del designer verso l’arte, nuove materie, nuove tecniche – povere o ricche che siano – nuovi sistemi di autoproduzione.

La generazione di artigiani/designer di oggi si muove con delle logiche nuove, anche quella siciliana. All’interno della cultura del fare si muovono due grandi filoni espressivi (il reale ed il virtuale), laboratori che privilegiano il rapporto individuo-strumento (disegno, modellistica, computer) e il rapporto individuo-materia (legno, metalli, argilla, gesso, pellami vari, tessuti, materiali riciclati, etc.). Se prima il design doveva rispondere alla necessità sociale di avere prodotti di serie, esteticamente adeguati, espressivi, oggi deve adeguarsi all’urgenza di innovazione del mercato in evoluzione. Bisogna ricordare che a Palermo il tema dell’artigianato, all’epoca del miracolo economico italiano, era in piena crisi. Nella vecchia struttura artigiana non sempre il progetto era aggiornato, mentre i procedimenti tecnici e di lavorazione si tramandavano da generazione a generazione spesso perdendo, nel tempo, valore. La prima ragione della disfatta dell’artigianato storico è da attribuirsi al declino dei ceti nobiliari e proto industriali, committenti principali delle botteghe artigiane. Assistiamo così a un lento declino degli antichi mestieri e a un generale degrado della popolazione. Ma tornando alle ragioni che hanno contribuito alla crisi di tante piccole e medie aziende storiche, enorme rilevanza hanno avuto anche le scelte politiche comunali che, dagli anni ’60  e fino agli anni ’90, sono state  indirizzate alla massima speculazione edilizia, con massiccia espansione delle periferie e svuotamento ed abbandono del centro storico,  della sua cultura e dei suoi beni, lasciati per decenni all’incuria ed al degrado, con le conseguenti ricadute negative per le attività artigianali e commerciali. Deportata la popolazione nelle periferie, e privato il centro storico dei servizi essenziali, poche botteghe hanno resistito, molte si sono trasferite perdendo parte della loro identità.

Questa era la situazione nel Centro Storico di Palermo quando, alla fine degli anni ‘70 del Novecento, Anna Maria Fundarò ha condotto una ricerca organica e sistematica sulle attività artigianali, su questa parte di città, indirizzata alla valorizzazione, ma anche alla riqualificazione, delle strutture produttive locali, soprattutto artigianali, per attivare un rapporto organico e continuativo fra cultura del progetto e produzione, troppo spesso confinato in situazioni occasionali e casuali. Questa ricerca rappresenta il paradigma del lavoro svolto da Anna Maria Fundarò: da una parte centrato sui problemi di ordine generale dell’artigianato nella sua essenza di “forma fisica e ben definita del lavoro umano”, dall’altro centrato sui problemi di ordine particolare, riferiti alla specifica situazione produttiva artigianale in una precisa area: il Centro Storico di Palermo1.

Questo lavoro di analisi non è stato un caso isolato nel panorama italiano, ma è in linea con gli studi e le sperimentazioni di altri architetti e gruppi di ricerca come i Global Tools e i loro sistemi di laboratori diffusi per la propagazione dell’uso di materie, tecniche naturali e relativi comportamenti, con un programma sperimentale e multidisciplinare di didattica del design. Il gruppo fu fondato in Italia nel 1973 da alcuni membri dell’architettura radicale (Sottsass, Branzi) e dell’arte povera (Germano Celant, Luciano Fabro, Riccardo Dalisi). Questi laboratori furono pensati per stimolare il libero sviluppo della creatività individuale e collettiva, e mirarono a stabilire un rapporto alternativo con l’industria italiana.

La scelta del Centro Storico di Palermo era strettamente legata al problema del risanamento edilizio e monumentale di questa parte di città. Un recupero corretto e concreto doveva passare anche attraverso la valorizzazione del lavoro produttivo che in quest’area si svolgeva, oltre che attraverso la ricomposizione del tessuto sociale e ambientale particolarmente disgregato. Ma perché un docente interessato alla cultura e alla pratica del design a un dato momento decide di interessarsi di artigianato? Il periodo compreso tra il 1950 e l’inizio degli anni Settanta è caratterizzato, dopo i faticosi anni della ricostruzione, da una prolungata e significativa crescita economica. L’Italia passa da una economia prevalentemente agricola a una di tipo industriale che sposta la Sicilia e il Meridione a un ruolo di marginalità. Nonostante un passato ricco di storia e di tradizioni artigianali non elabora più una “cultura del progetto” ma importa modelli culturali esterni. Quando questo tipo di modello comincia a far vedere la corda e il sistema fordista entra in crisi, le situazioni periferiche riacquistano un po’ della sicurezza che hanno perso. Cominciano a capire che il passato, la tradizione, il saper fare costituiscono un bagaglio prezioso per la comprensione del presente e per proiettarsi verso il futuro. Ma il ritorno alla propria identità, alla propria specificità culturale può avvenire soltanto se si ritrova la giusta mediazione tra i fatti universali e i bisogni e la peculiarità del contesto. Artigianato e design sono due diversi modi di costruzione del sistema degli oggetti e degli artefatti, ma sono inconciliabili? Nella vulgata comune l’artigianato è un modo di lavorare e di produrre tipico delle società povere mentre il design è espressione di società complesse ad alto livello di industrializzazione e di specializzazione dei ruoli. Ma a quale di questi modelli deve fare riferimento chi lavora e opera in Sicilia?

Lavorare in astratto per industrie che non esistono oppure prendere atto concretamente di una realtà produttiva artigiana e piccola-industriale trascurata e penalizzata dalla grande produzione industriale d’importazione?

Dalla lettura di questa realtà nasce il desiderio di fare design in Sicilia, convinzione rafforzata da tre ordini di motivi.

1 «La dimensione delle piccole cose non può essere trascurata all’interno degli studi di architettura” poiché “la piccola dimensione, con la sua peculiarità di costituirsi per differenze e variazioni fondate su tecniche e usi locali, legate alla cultura di un territorio definito e finito, in questa ricerca di radicamento, offre un campo di applicazione e di ricerca complesso e ricco»2.

2 Esiste in Sicilia una situazione abbastanza generalizzata di disinformazione sul design moderno e contemporaneo, a differenza del Nord, dove esso è presente sia all’interno della produzione, sia all’interno di istituzioni culturali. Tale carenza di informazione rende doppiamente debole la situazione siciliana, sia sul piano del progetto che su quello del consumo di modelli importati.

3 «In Sicilia il design inteso come product e/o industrial design non esiste. Esiste però, nei paesi o in certe vecchie zone della città, un tessuto produttivo artigianale di piccole industrie in progressiva estinzione, travolto dalla forza prepotente del mondo industriale; esiste cioè un sottofondo di cultura materiale molto ricco e apprezzato. […] Infatti proprio questa situazione periferica di arretratezza tecnologica ha contribuito a tenere in vita questo tessuto produttivo»3.

Dal 1977 il corso di design che nei primi anni aveva avuto una predilezione per le tecniche sofisticate, per i sistemi degli oggetti e per la prefabbricazione, dà una direzione diversa al proprio lavoro. «Tale lavoro esprime la volontà di riappropriarsi della cultura del fare legandola strettamente alle circostanze materiali e produttive, promuovendo da un lato, una presa di coscienza ravvicinata delle strutture produttive in termini diacronici e sincronici, proto industriali, artigianali e industriali, e, dall’altro esprimendo il desiderio di sperimentare direttamente sulle cose, sugli oggetti di consumo, le attrezzature per la campagna, per il mare, e la pesca, per la scuola, per la città, per la casa: è un lavoro terapeutico, liberatorio delle possibilità di espressione del progetto, un lavoro attento alle dimensioni più minute dell’ambiente costruito. Una ricerca di creatività, quindi, indagata attraverso l’utilizzazione poetica della materia che perimetra un campo che può essere diverso sia dal disegno industriale canonico sia dall’architettura come cultura dello spazio. Una direzione di ricerca che porta a un atteggiamento verso la costruzione dell’ambiente fisico che privilegia la materialità e l’abitabilità delle strutture ambientali, la qualità del processo e del prodotto del costruire, dei suoi materiali e delle sue tecniche, e la complessità delle implicazioni sociologiche e antropologiche di una società che è consumistica, postindustriale, urbana e nel contempo attenta a ricercare radici e continuità nella storia»4.

La volontà di focalizzare la didattica sul lavoro artigiano con un obiettivo progettuale richiede tempi lunghi e convergenza di interessi.

Per prima cosa bisogna gettare le basi per una ricostruzione della cultura materiale in Sicilia, storicamente espressa attraverso procedure di natura artigiana; occorre poi riprogettare la capacità di organizzare lavoro e produzione, che è stato sempre il lato debole per la disfatta del Meridione; infine, partendo dalla specificità siciliana (essere e produrre), scavando nel patrimonio di cultura materiale offerto dal territorio siciliano, costruire un supporto su cui porsi in confronto con la cultura progettuale delle sedi più evolute.

Metodologicamente, nell’affrontare la ricerca, occorre misurarsi con tre ordini di problemi.

Il primo è quello della conoscenza, che viene superato attraverso il “rilievo” avendo come obiettivo la descrizione dell’esistente e in modo particolare la rappresentazione degli strumenti, delle tecniche e degli oggetti della produzione artigianale presenti nel Centro storico di Palermo.

Per rendere più specifico il punto di osservazione dell’indagine e più pertinente con la disciplina del design, si è privilegiato l’area dei problemi connessa con il come, con il dove e con il che cosa si produce, con un’attenzione particolare a quel «peculiare rapporto con la materia da trasformare, fondato su conoscenza tecnica e creatività per la realizzazione delle cose concrete»5.

Il metodo di analisi trova riferimento nell’Encyclopedie di Diderot e D’Alembert.

Ogni attività produttiva veniva, dunque, analizzata seguendo un preciso iter metodologico che iniziava dal sopralluogo, intervista con l’artigiano, rilievo dell’ambiente di lavoro, dell’equipaggiamento di attrezzi, strumenti e macchine utensili, rilievo degli oggetti prodotti,

prescindendo, nei prodotti rilevati, dalla loro qualità estetica o dal loro essere testimonianze di tradizioni e di costumi, ma privilegiando il processo che porta alla realizzazione del prodotto partendo dalla materia agli attrezzi, dal microambiente di lavoro al circuito di distribuzione e consumo. Nelle tavole elaborate, oltre agli ambienti e agli attrezzi è analizzato e descritto il prodotto del lavoro nel suo farsi oggetto durante il processo di lavorazione, come oggetto in relazione al luogo e al modo di produzione e infine come oggetto in sé esistente al di fuori dell’essere umano (Figg. 12345).

Un secondo problema emergente dalla ricerca è relativo al rapporto tra attività artigianale e centro storico. Entrambi coabitando hanno finito col soffrire degli stessi mali che sono legati all’abbandono, alla ghettizzazione e alla terziarizzazione.

Mali che devono essere affrontati e risolti organicamente e unitariamente in modo che il risanamento edilizio possa procedere in parallelo con il progetto di rinnovamento delle attività produttive, senza di ciò, la distruzione dei micro-rapporti umani e sociali renderebbe la città restaurata un contenitore vuoto dalla faccia rifatta.

Il terzo problema più importante dal punto di vista disciplinare è legato a un progetto di rinnovamento dell’artigianato.

Per alcune attività artigianali gli anni del miracolo economico hanno segnato la fine, mentre per altre ancora è iniziato il declino. Il tutto riconducibile a condizioni di non redditività, di mancanza di manodopera, di trasformazioni del mercato.

A Palermo artigianato voleva dire storia locale e familiare, tradizione, senso di appartenenza ai luoghi, ma anche piccoli spunti di creatività pratiche produttive non represse e alienate, ma soprattutto riserva di potenziale tecnico ed espressivo.

Un progetto di rinnovamento dell’artigianato deve passare attraverso la revisione dei rapporti e delle connotazioni del lavoro manuale e del lavoro intellettuale.

Una possibilità di trasformazione e di rinnovamento era individuata nell’Università e nel grande numero degli studenti che si auspicava diventare qualità. Anna Maria Fundarò vedeva proprio nel lavoro di rilevazione delle attività artigianali in cui erano coinvolti 500/600 studenti un diverso valore e significato dello stesso lavoro svolto da un’équipe di studiosi ed esperti.

La considerava un’esperienza di didattica del territorio che allargando una conoscenza diretta delle cose promuove partecipazione cosciente e collettiva e fa ripensare in termini critici la secolare discriminazione tra homo sapiens e homo faber e fa prendere consapevolezza della propria creatività nell’interazione – dentro il laboratorio artigiano – con una pratica del fare ritenuta separata (Fig. 6).

«I nuovi artigiani dovranno liberarsi dai vincoli di sudditanza culturale ad una classe egemone aristocratica […] e dovranno legarsi alla problematica della ricerca artistica contemporanea, attivando interscambi tra le istituzioni addette alla formazione di operatori culturali dell’ambiente costruito (architetti, designer, pittori, scultori) e il mondo del lavoro artigianale. L’artigianato potrebbe costituire il lievito per un affrancamento da una civiltà dei consumi, anche culturali, dalle imposizioni di pochi mitici specialisti e diventare uno spazio privilegiato per la sperimentazione diretta, per la rivalutazione e la pratica della manualità, spazio in cui il “fare” e il “pensare” possano trovare momenti unitari»6.

La mostra “Progetti, prototipi e modelli” organizzata dalla Facoltà di Architettura nel 1979, dimostra in maniera chiara e precisa l’impegno della docenza, che non si esaurisce in dichiarazioni programmatiche ma costituisce una effettiva volontà di cambiamento, sia della struttura universitaria, sia della condizione di dipendenza culturale attraverso il design.

«Il design è oggi marginale nell’ambito della disciplina architettonica, ma è centrale nella vita quotidiana ed è collegato con i processi di trasformazione dell’ambiente. Questa mostra riassume in termini reali le convinzioni teoriche di partenza. L’interesse a suo tempo suscitato scavalca il puro momento didattico per farsi documento di riflessione poiché tocca temi che investono l’assetto della produzione e la scelta della politica economica fino allora fatte.

L’analisi sulle attività produttive quale campione significativo di situazioni analoghe nel territorio siciliano ha consentito la presentazione di progetti che fondano la loro validità con la reale situazione produttiva. Gli oggetti presentati, pur non avendo un grado di rifinitura elevato, danno prova di una notevole capacità progettuale in linea con le tecniche artigianali e con l’uso di materiali semplici»7.

In questa stessa linea di ricerca si possono situare altre due esperienze con il mondo artigianale e piccolo industriale.

Una è costituita dal Concorso indetto dalla Camera di Commercio: “OGGETTI PER PICCOLA SERIE”.

Con questo primo concorso la Camera di Commercio si propone di valorizzare le risorse umane e tecnologiche dell’artigianato siciliano e di ricomporre la frattura esistente tra lavoro manuale e lavoro intellettuale.

L’obiettivo del Concorso è quello di favorire il recupero dell’immenso patrimonio culturale artigiano capace di innescare, a sua volta, nuovi sbocchi occupazionali.

Molto critica risulta la valutazione di Anna Maria Fundarò sugli esiti di questo concorso, scrive infatti: «Che i risultati del Concorso non siano tali da far intravedere facili soluzioni agli obiettivi in esso riposti, più che deluderci ci comunicano la reale complessità del problema individuato. É difficile trovare uno spazio originale di espressione nel campo del design in un’area marginale oppressa dal sottosviluppo. Proprio questa diversità del contesto impone la formulazione di progetti realmente innovativi, capaci di rispondere ai bisogni reali e che siano una interpretazione peculiare della cultura materiale, figurativa e tecnica dei luoghi.

La qualità innovativa dei progetti la si deve ricercare in una lunga e paziente ricerca in più mature situazioni politiche, in una più costante partecipazione alla costruzione di “infrastrutture materiali”, oggetti di consumo, attrezzature per l’agricoltura, la scuola il lavoro, ecc. Per un design innovativo occorrono risposte appropriate a bisogni reali.

Per ottenere ciò bisogna instaurare un rapporto diverso tra progettista ed esecutore, infatti l’esecutore dovrebbe verificare sin dalla fase progettuale il progetto e a incidere su di esso attraverso la sua cultura tecnica e materiale che riassume in sé la cultura dei luoghi. In pratica si dovrebbe creare uno stretto legame tra progettista ed esecutore dove l’uno deve tendere a una ricerca espressiva e tecnica e l’altro che esegue secondo le regole dettate dalla esperienza e dallo studio, una specifica competenza professionale, rinunciando, magari ai modelli di riferimento esterni, alla ricerca di un legame più stretto e fattivo con le risorse locali»8.

L’altra importante esperienza è costituita dalla presenza di Andrea Branzi come professore a contratto, disponibile a trasmettere la propria esperienza e il proprio sapere.

Un tentativo di mediazione tra la cultura locale e quella del design più noto, ossia quello milanese. Si trattava di un laboratorio progettuale nel quale gli studenti dovevano elaborare dei progetti da realizzare in collaborazione con l’artigiano scelto sotto la guida di Branzi per arrivare a un progetto originale, innovativo e realmente fattibile. Ma la grande importanza del laboratorio è da ricercare nel progressivo realizzarsi di un progetto culturale di innervamento e di risveglio, nella Sicilia contemporanea, di una cultura materiale diffusa nella  quotidianità (Figg. 78).

Nel 1996, a quindici anni di distanza, Anna Maria Fundarò ripete l’esperienza del rilievo della produzione artigianale nel Centro storico di Palermo. Il tema dell’artigianato nel 1979 era allora un po’ meno d’attualità di quanto non lo fosse nel 1996, allorché si era manifestata una maggiore attenzione al tema dell’artigianato e delle arti applicate.

Descrivendo luoghi attrezzature, prodotti, nella prima esperienza, gli studenti avevano rilevato 84 botteghe. Rifacendo lo stesso percorso, con lo stesso metodo, si sono volute cercare le modificazioni che si erano nel frattempo verificate9.

Il numero delle botteghe rilevate è rimasto quasi identico, ma a una analisi più approfondita si evidenzia questo stato di fatto: delle 84 botteghe rilevate nel primo rilievo, molte non esistevano più, ma il dato più interessante consisteva nel fatto che erano subentrate nuove attività (Fig. 9).

Nuovi artigiani si sono affacciati sulla scena, magari con un titolo di studio ma sicuramente con una minore manualità dei vecchi. Alcuni provano a riprendere tradizioni locali dimenticate altri inventano nuove applicazioni, magari importandole da altri contesti.

Questa esperienza didattica non si è conclusa con il solo rilievo ma si è andati un po’ oltre facendo lavorare gli artigiani con i progetti contemporanei degli studenti, con l’obiettivo di

mettere insieme esperienze di progettazione “accademica” con le abilità di costruzione del mondo del lavoro e provare a innovare (Figg. 1011).

Un ragionamento sul senso e sul ruolo del Centro storico, a partire dalle attività produttive, che si prevede possano svolgersi dentro i suoi spazi. Attività che devono restare a condizione che siano oggetto di restauro e di rivitalizzazione nei loro modelli comportamentali, ma soprattutto con la condizione che la cultura del progetto, che un tempo era di casa, torni a contaminarsi con la cultura del fare al più alto livello.

Nel 2018, a ventidue anni di distanza dall’ultima ricerca di Anna Maria Fundarò, si sta conducendo un nuovo studio sulla situazione odierna delle attività artigianali nel Centro storico di Palermo.

Quest’ultima ricerca ha seguito lo stesso iter metodologico adottato per i rilievi precedenti. Per il rilevamento, si sono impiegati strumenti più moderni (camera fotografica, cinepresa, etc.) per effettuare la ricognizione dell’ambiente di lavoro, dell’equipaggiamento di attrezzi, di strumenti e degli oggetti prodotti.

Le variazioni che si sono presentate sono eclatanti (Fig. 12).

Delle 49 botteghe rilevate nel secondo rilievo molte non esistono più, nel Mandamento dei Tribunali, delle 14 attività rilevate ne sono rimaste 8, ma il dato più importante consiste nel fatto che sono subentrate 52 nuove occupazioni nel solo Mandamento dei Tribunali.

Il rapido cambiamento nella distribuzione della popolazione, dovuto allo sviluppo industriale e tecnologico, ha fatto sì che il Centro storico di Palermo abbia progressivamente perso numerose attività commerciali e artigianali che erano parte integrante del suo tessuto socioeconomico (Figg. 13* – 14).

L’artigianato a conduzione familiare ha ceduto il posto alle piccole aziende con i computer e stampanti 3D, gestiti da tecnici qualificati, istruiti, muniti di titolo di studio, capaci di estrarre dalla tecnologia progetti tendenti al recupero di tradizioni artigianali. Questi nuovi artigiani, con i loro progetti, puntano alla valorizzazione dei prodotti locali e alla promozione di nicchie di mercato legate ad antiche lavorazioni (Figg. 151617181920).

Nel 2015 l’Istituto di Ricerche Economico-Sociali del Piemonte ha pubblicato uno studio intitolato “Mutamenti nella composizione dell’artigianato” nel quale afferma che «in un Paese come l’Italia, famoso per i suoi prodotti di alta qualità e per il suo ineguagliabile Made in Italy, dove la disoccupazione giovanile è altissima e scarseggiano carpentieri, fornai, sarti, l’artigianato diventa una grande opportunità. Il “saper fare” rimane un ingrediente indispensabile per l’intero settore manifatturiero italiano e contaminandolo con i nuovi saperi tecnologici, l’Italia si ritrova tra le mani un formidabile strumento di crescita e innovazione»10. Le potenzialità del settore sono confermate dalla Commissione Europea che mette in evidenza che il trend occupazionale dell’artigianato e delle professioni basate sul “saper fare con le mani” è in crescita e che l’artigianato tradizionale non è affatto in via di estinzione. Anzi, se i lavori artigianali coniugano creatività, abilità manuale e padronanza delle tecniche da un lato e innovazione, tecnologie digitali e potenzialità della rete dall’altro, sono destinati a crescere.

Lo studio europeo attribuisce all’artigianato «la capacità di creare nuove fonti di reddito sia per i tradizionali laboratori a gestione individuale e vendita diretta ai clienti, sia per le piccole imprese artigiane a conduzione familiare che operano a livello locale»11.

Dello stesso avviso è anche un’analisi sulle tendenze occupazionali dei prossimi 10 anni pubblicata a gennaio dalla rivista inglese “The resident”12. L’indagine, condotta fra i centri di ricerca economici del Regno Unito afferma che i prodotti di nicchia, fatti a mano e su misura, sono sempre più apprezzati e ricercati dal mercato globale. Le operazioni commerciali online, spiega il report inglese, favoriscono la vendita dei manufatti artigianali e delle produzioni su piccola scala, destinate a soddisfare le esigenze di un numero sempre maggiore di persone che preferiscono la produzione fatta su misura, locale, biologica (ed ecologica) alla produzione industriale di massa.

Secondo il Bureau of Labor Statistics13, i settori artigianali che hanno ottime prospettive sono quello dell’intera filiera della manutenzione e riparazione di oggetti di qualsiasi tipo – favorita dalla sensibilità dell’opinione pubblica ai temi del riuso-riparazione-riduzione rifiuti, quello delle fonti rinnovabili e della coibentazione e isolamento termico degli edifici.

Anche secondo lo studio di Ires Piemonte14, «la capacità di riparare, rigenerare, ricostruire tipica del mondo artigiano, in antitesi con la filosofia industriale dell’usa-e-getta, è oggi più attuale che mai. Oltretutto le botteghe (artigiane) uniscono spesso il luogo di lavoro con l’abitazione, risolvendo il problema della conciliazione famiglia-lavoro. Anche i luoghi di lavoro del XXI secolo stanno allontanandosi dal vecchio modello della fabbrica industriale anonima e standardizzata e assomigliano sempre di più alle botteghe artigiane. Questo modello produttivo è valido ancora di più oggi: gli “artigiani digitali”, ad esempio, sono quasi sempre free-lance che lavorano da casa, o meglio, nei loro appartamenti iper-tecnologizzati che sono un esempio di bottega artigiana del XXI secolo».

Nel terzo millennio, infatti, la bottega artigiana non è solo il luogo in cui si producono oggetti di altissima qualità e sono custoditi saperi tramandati di generazione in generazione, ma anche il luogo nel quale oggi c’è maggiore innovazione e spazio per la creatività. L’artigiano, in realtà, ha sempre innovato: attraverso la creazione e il miglioramento degli utensili, la scelta e sperimentazione di nuovi materiali. Oggi, però, gli artigiani sono sempre più “digital makers”, connessi con il mondo e tutti gli studi sul futuro del settore concordano sul fatto che il digitale è una grande opportunità, non solo per l’automazione dei macchinari e la semplificazione delle attività gestionali e amministrative, ma soprattutto per l’e-commerce. Secondo l’economista Stefano Micelli15 solo coniugando cultura e tecnologia possiamo ridare un senso al lavoro. Se il Made in Italy ha successo è perché c’è un legame con una cultura straordinaria.

È l’avvento di un nuovo artista/artigiano che ha saputo introdurre nel proprio lavoro tutte le componenti di un’impresa moderna: la qualità del progetto, le tecniche e i procedimenti innovativi, la comunicazione e la commercializzazione.

* Le foto delle Figg. 13-20 sono di P. Li Vigni.

  1. Alcune pubblicazioni sul tema delle attività produttive artigianali e della cultura materiale della Sicilia precedenti la ricerca sull’artigianato nel Centro storico di Palermo: A.M. Fundarò, La lenta morte del Centro storico, in “Il Mediterraneo”, 1977, n. 11/12, pp. 25-31; A.M. Fundarò, Design e cultura materiale, la produzione industriale del palermitano tra la fine dell’800 e l’inizio del ‘900, in La cultura materiale in Sicilia, Atti del 1° Congresso internazionale di studi antropologici siciliani (Palermo, 12-15 gennaio 1978), Palermo 1980; A.M. Fundarò, Una fonderia nella città, le attività produttive nel centro storico di Palermo, in “Il Mediterraneo”, 1978, n. 1 / 2 / 3; A.M. Fundarò, Strumenti, tecniche, oggetti della produzione artigianale a Palermo, oggi, in I mestieri. Organizzazione Tecniche Linguaggi, Atti del 2° Congresso internazionale di studi antropologici siciliani (Palermo 26-29 marzo 1980), Palermo 1984, pp. 279-288; A.M. Fundarò, La via siciliana al buon design, in “Modo”, n. 31, luglio-agosto 1980, pp. 27-29. []
  2. A.M. Fundarò, Il lavoro artigiano nel centro storico di Palermo, Palermo 1981, p. 3. []
  3. A.M. Fundarò, M. Argentino, Come si faceva una casa per rubare energia alla terra, in “Modo”, n. 23, 1978, pp. 53-56. []
  4. A.M. Fundarò, Il design oggi in Italia tra produzione, consumo e qualcos’altro, in Il design oggi in Italia tra produzione, consumo e qualcos’altro, Atti del Convegno (Napoli, 27-28 giugno 1982), Milano 1983, pp. 21-22. []
  5. A.M. Fundarò, Il lavoro artigiano…, 1981, p. 3. []
  6. A.M. Fundarò, Il lavoro artigiano…, 1981, p. 5. []
  7. A.M. Fundarò, Il lavoro artigiano…, 1981, p. 7. []
  8. A.M. Fundarò, Cultura materiale e centro storico di Palermo: un contributo di analisi dal corso di disegno industriale della Facoltà di Architettura di Palermo (presentazione della mostra omonima alla Camera di Commercio di Palermo), 20 marzo 1978. []
  9. A.M. Fundarò, Il lavoro artigiano nel centro storico di Palermo, a cura di G. Ragonesi, Palermo 1997. []
  10. https://www.byterfly.eu/islandora/object/librib%3A386896#page/68/mode/2up, novembre 2018 []
  11. https://eur-lex.europa.eu/legal-content/EN/TXT/PDF/?uri=CELEX:52015SC0202&from=EN []
  12. https://www.theresident.co.uk/homes-interiors/inspiration/islington-design-district-returns-ldf-2015/ []
  13. https://www.bls.gov/oes/2017/may/oes271012.htm []
  14. https://www.ires.it/files/upload/ 03_2011- []
  15. S. Micelli, Futuro artigiano. L’innovazione in mano agli italiani, Venezia 2011. []