Giovanni Boraccesi

g.boraccesi@libero.it

Una sinfonia di argenti nell’isola di Tinos: le chiese di Kampos, Loutrà e Xinara

DOI: 10.7431/RIV17112018

Questa nuova ricerca verte sugli argenti sacri dell’isola greca di Tinos, da secoli sede di una comunità cattolica e di un vescovado latino con giurisdizione sulle limitrofe isole cicladiche di Naxos, Paros, Mykonos, Andros e, a ridosso della costa turca, di Chios e Samos. Si sofferma sullo specifico patrimonio custodito nelle chiese dei villaggi di Kampos, Loutrà e Xinara e va ad aggiungersi alle altre finora pubblicate in maniera ormai quasi cadenzata per quest’area dell’Egeo1.

Il progredire degli studi sul prezioso arredo fin qui investigato, pur con qualche dubbia attribuzione e in assenza di documenti, sta comunque facendo emergere dall’oblio, oltre alla più che scontata predominanza di suppellettili delle manifatture occidentali (Venezia, Roma, Genova, Palermo Messina, Napoli, Parigi), il sinora misconosciuto ruolo avuto dai maestri argentieri dell’impero ottomano, in particolare delle maestranze attive a Smirne e a Istanbul, spesso influenzate dalla moda dell’Europa occidentale. Si potrà avere un quadro complessivo di questa articolata realtà solo dopo un esame accurato delle argenterie raccolte in tutte le chiese cattoliche di Tinos e nel locale Museo del Vescovado, come pure dopo l’auspicabile catalogazione della suppellettile riveniente dalle altre diocesi latine di Atene, Siros e Corfù, della quale sono già noti gli argenti della cattedrale di San Giacomo2. Pertinente alla diocesi di Atene è l’isola di Rodi, di cui pure si sono recentemente investigati gli arredi preziosi3.

L’odierna indagine muove dalla chiesa della Santissima Trinità di Kampos che custodisce il reperto più antico della collezione: un raffinato Calice (Fig. 1) in argento e rame dorato, eseguito a sbalzo a fusione e a cesello. Se la base e il nodo ovaliforme sono decorati da un repertorio di volute, palmette e foglie di sapore tardorinascimentale, il sottocoppa è interessato da baccelli mentre un motivo a tralci trifogliati corre sul bordo superiore. Sul reperto è incisa un’iscrizione a caratteri maiuscoli aggiunta in un secondo momento: ANTONIO MACRIPODHARI SAC(ERDO)TE 1737. A tal riguardo, padre Marco Foscolo che ringrazio mi comunica che questo cognome non è originario di Tinos bensì dell’isola di Chios, vicinissima alla Turchia, da dove il reperto potrebbe essere stato prelevato dallo stesso sacerdote che qui venne a officiare per un breve periodo. Può essere utile aggiungere che Leone Macripodari fu vicario apostolico della diocesi di Smirne dal 1659 al 1689. Non si conosce l’identità dell’argentiere che realizzò il sacro vaso in esame, tuttavia esso è cronologicamente databile ai primi decenni del XVII secolo e con probabilità riferibile a un maestro napoletano. Sul piano tipologico, infatti, è affine a molti altri esemplari licenziati tra Cinque-Seicento, come quelli rinvenuti nella diocesi di Tursi-Lagonegro4.

Sul piano stilistico e morfologico, il successivo Calice (Fig. 2) è anch’esso un prodotto di manifattura italiana, la cui cronologia andrebbe fissata fra gli anni Cinquanta e Sessanta del Settecento. Di spiccato gusto rococò, ha il piede mistilineo e gradinato adornato da un’esuberante e traboccante motivo naturalistico dal quale fuoriescono teste di angeli alati. Questo stesso repertorio connota pure il movimentato fusto con nodo a balaustro e ancor più l’arioso sottocoppa.

Un confronto preciso, tanto da assegnarlo alla medesima mano, si può stabilire con il calice della chiesa di San Nicola a Steni, in precedenza proposto come opera di un argentiere veneziano5 e oggi, invece, di un maestro palermitano considerate le affinità con il calice (1751) della chiesa dell’Assunta a Palermo6. A conferma del secolare legame commerciale e culturale tra le isole dell’Egeo e la Sicilia, mi preme far notare che altri significativi argenti messinesi e palermitani si sono rinvenuti nella cattedrale di Naxos, nell’Episcopio di Tinos e nella chiesa di Kalloni7.

Venezia e Tinos, come si sa, è un binomio vincente per la storia e la cultura di quest’isola greca, con esiti positivi anche nella commissione di argenterie sacre. La tipologia della Croce astile (Fig .3) che mi accingo ad analizzare – come di altre rinvenute nelle chiese di Corfù, di Naxos e di Tinos – risente dei modelli aulici confezionati in laguna in età medievale e rinascimentale. Databile tra il XVIII e il XIX secolo, andrebbe probabilmente assegnata non a un argentiere veneziano ma a un artefice di Smirne o di Costantinopoli.

Il fondo decorato da sinuosi racemi su entrambi i lati, presenta al centro il Crocifisso, in alto San Giovanni evangelista, a sinistra la Vergine, a destra San Giovanni Evangelista, in basso la Maddalena. Nel verso, l’effige dell’Immacolata campeggia in posizione centrale, in alto il Padre Eterno, a sinistra San Marco, a destra San Matteo; in basso San Luca. All’incrocio dei bracci si espande una raggiera in bronzo dorato mentre decori vegetali a giorno ne impreziosiscono il contorno. Il nodo, dal profilo movimentato, presenta baccelli e motivi vegetali. Nel tempo la croce deve aver subito una manomissione, poiché in maniera inconcepibile la lamina con l’evangelista Giovanni ha sostituito, nel recto, quella col Padre Eterno mentre il cartiglio INRI appare sotto i piedi del Crocifisso, di poco sovrastante la figura della Maddalena.

Nel medesimo giro di anni, o forse entro il primo quarto del XIX secolo, dovrebbe collocarsi un ennesimo Calice (Fig. 4), la cui gonfia base è decorata minuziosamente da foglie d’acanto e festoni floreali; il collo, invece, da sinuose nervature con le estremità uncinate. Semplice è il fusto con nodo piriforme. Il sottocoppa presenta quattro cartelle con cherubini alternate a rami di giglio; il bordo ha un profilo movimentato decorato da volute contrapposte e da palmette. Da quanto si può arguire, sul piano tipologico e stilistico l’opera andrebbe restituita a un laboratorio dell’impero ottomano, ancora una volta di Smirne o di Costantinopoli.

A questa temperie culturale partecipa anche una Pisside (Fig. 5), il cui corpo inferiore, sul piano stilistico, non si discosta dal calice appena descritto, tanto da indurmi ad assegnarlo allo stesso argentiere. La superficie della base è decorata da un repertorio essenzialmente naturalistico con cartelle, palmette e tralci vegetali. Privo di decori è il fusto con nodo piriforme. Elegante è la coppa, come di consueto provvista di un sottocoppa qui lavorato a traforo con elementi foliacei dorati. Il coperchio, baccellato e con ulteriori elementi vegetali, è munito di crocetta apicale.

Sempre a un argentiere dell’impero ottomano va assegnata questa Navicella (Fig. 6) che si fa notare per l’estrema semplicità e mancanza di decori. Sul coperchio è incisa la scritta SS. T. Ã, acronimo della Santissima Trinità, chiaramente con riferimento al titolo della chiesa. La sua datazione non dovrà superare il primo quarto dell’Ottocento. Rifacendosi a prodotti d’ispirazione veneziana, analogie si possono instaurare tra l’esemplare in argomento e le note navicelle delle parrocchie di Kechros, Potamia e San Nicola di Tinos.

Accompagna la menzionata navicella, il presente Turibolo (Fig. 7), i cui decori fitomorfi, sono in piena sintonia con il gusto neoclassico. Sulla base gradinata sono incisi festoni floreali penduli e corolle di foglie appuntite; lo stesso repertorio, ma in modo più ricco, torna a decorare il braciere e la cupola traforata di gusto orientaleggiante. Sul bordo superiore del braciere sono saldate tre teste di angeli che trattengono le catene di sospensione. Un simile reperto è stato rinvenuto nella chiesa di San Nicola a Steni8.

Da Roma, invece, proviene questa Patena (Fig. 8) come attesta il punzone dello Stato Pontificio qui accompagnato da quello dell’argentiere Angelo Raduini (Roma 1748-1825), una losanga contenente la sigla A106R9. Di tale bollo si hanno notizie dal 1815, ragion per cui il manufatto – che in principio doveva far coppia con un calice, a noi non pervenuto – andrà indiscutibilmente datato tra il 1815 e il 1825.

Considerazioni analoghe vanno fatte per il seguente Calice (Fig. 9), di linea molto sobria e con decori di natura vegetale, realizzato a Roma dall’argentiere Filippo Della Miglia (1795-1856), come certifica il bollo camerale dello Stato Pontificio e quello personale del maestro con le iniziali F60D inscritte in una losanga. Della Miglia, cui appartengono gli argenti conservati in Santa Maria in Campitelli e in Sant’Eligio degli Orefici10, fu attivo dal 1828, anno del conseguimento della patente, al 185611.

Il prossimo Ostensorio (Fig. 10) fu lavorato in Francia; lo certifica il punzone con la testa di Minerva, in uso dal 9 maggio 1838 fino al 1919, e quello dell’argentiere purtroppo incompleto: un rettangolo con gli angoli smussati suddiviso da sbarre decussate con due stelle in alto e in basso e le lettere (?) e T. Su quattro piedini a voluta poggia la base rettangolare, da cui si erge l’elaborato fusto con decori fogliacei e grappoli d’uva. La raggiera, sovrastata da crocetta, presenta nel mezzo la teca circolare contornata da nuvole da quattro angeli; in basso, un fascio di spighe di grano. Appartiene a una tipologia di ostensorio che ebbe larga fortuna in Francia e da qui poi esportata in varie parti d’Europa e della stessa Grecia: nell’isola di Tinos, per esempio, si vedano gli esemplari di Komi12 e di Loutrà (vedi oltre).

Quasi tutti gli argenti della chiesa del Sacro Cuore di Loutrà, dal 1862 affidata alle cure delle suore Orsoline che dalla Francia s’insediarono nell’attiguo monastero, sono di produzione parigina come attestano i marchi statali e quelli degli artefici; sul piano stilistico, perciò, sono manufatti improntati al gusto neoclassico e revivalistico.

A queste caratteristiche risponde una Pisside (Fig. 11), il più antico fra i reperti francesi recuperati a Loutrà. Se la coppa è esente da qualsiasi ornamentazione, sulla base e il fusto, a fusione in bronzo argentato, si sviluppano delicati motivi foliacei e floreali a incisione, ripresi sul coperchio, sormontato da crocetta. Sulla pisside sono impressi due punzoni, entrambi validi dal 19 giugno 1798 al 31 agosto 1809: quello con la testa di un vecchio vista frontalmente affiancata dal numero 85, e quello di forma ottagonale che sebbene illeggibile dovrebbe rappresentare un gallo13.

Sempre nell’ambito della produzione francese si deve inscrivere il successivo Calice (Fig. 12), sul quale ho rilevato sia il punzone con la testa di Minerva rivolta verso destra, sia quello del gallo attaccante che sappiamo in uso dal 1 settembre 1809 al 15 agosto 181914. La base circolare e gradinata è interessata da una decorazione di foglie lanceolate intervallate da steli floreali; questo motivo si ritrova, pur con minime varianti, sul nodo del fusto, a sua volta contenuto entro due collarini. Più ricco è l’ornato del sottocoppa, eseguito a traforo, la cui superficie è scompartita da oblunghe palmette delimitanti grappoli d’uva e spighe di grano, chiari simboli eucaristici.

Dal laboratorio dei Fratelli Favier, attivi a Lione dal 1820, furono licenziati dopo il 1838 un ostensorio e un calice, come attesta il punzone con le lettere F☼F intervallate dal sole, impresso accanto al consueto marchio con la testa di Minerva. Di questa rinomata fabbrica si sono finora recuperati in Grecia il calice della chiesa della Natività di Maria a Volax e la pisside della cattedrale di Corfù.

L’Ostensorio (Fig. 13), di comune tipologia per tutto il corso dell’Ottocento, si sviluppa su base quadrangolare fittamente decorata e sostenuta agli spigoli da quattro volute; qui è fissata una piastrina in bronzo con l’agnello accovacciato sul libro dei sette sigilli. Il fusto ha un nodo a balaustro ove posano due teste di angeli; la parte sommitale è ornata da grappoli d’uva e spighe di grano. L’ampia raggiera, costituita da raggi di varia lunghezza e sormontata da una piccola croce, presenta una teca circolare, a sua volta perimetrata da perline e da nuvole popolate da cherubini. Simili esemplari si sono rinvenuti nelle chiese cattoliche di Tinos: ad Agapi, Kechros e Komi.

Anche l’altro Calice (Fig. 14) rientra in una fortunata tipologia adottata dai laboratori d’oltralpe come pure gli elementi decorativi, di solito connotati da un variegato repertorio naturalistico e dagli immancabili simboli eucaristici del grano e dell’uva, inframmezzati a teste di santi o di angeli. Il nostro manufatto mostra i quattro evangelisti emergenti dalla superficie della base mistilinea mentre nel sottocoppa fanno capolino altrettanti cherubini.

Un certo interesse documentario riguardante la non ancora ben definita attività degli argentieri operanti durante il dominio dell’impero ottomano, in particolare di quelli a servizio delle comunità cristiane di Smirne e di Istanbul e ancor più della Grecia orientale, riveste il successivo Calice (Fig. 15). Reca il punzone P. TASSI, chiaramente il nome dell’autore, già da me rilevato su un riccio di pastorale a suo tempo applicato, con altri elementi in argento ugualmente rimossi, sulla tela di San Nicola di Bari (1738) dell’omonima chiesa del capoluogo Tinos e che per disattenzione omisi di riportare in un precedente contributo, evidenziando, al contrario, solo quelli con il punzone MC15. Future scoperte, ce lo auguriamo, potranno far luce sull’attività di quest’argentiere e accrescerne così il finora esiguo numero di reperti, cui, nel frattempo, andrà aggiunta una Caffettiera (Fig. 16) in argento sbalzato, fuso e cesellato di recente comparsa sul mercato antiquario16; già datata al XVIII secolo e non si sa come associata alla città di Smirne, è un oggetto genuinamente neoclassico.

Il calice di Loutrà, anch’esso dei primi decenni del XIX secolo, presenta una base circolare con decorazioni a foglie e fiori intervallate ai mezzibusti di San Giuseppe, della Vergine e di Gesù; elementi vegetali decorano anche il collo del piede, su cui insiste il nodo piriforme. Alle decorazioni naturalistiche non si sottrae il sottocoppa che in più si arricchisce di ovali contenenti le raffigurazioni della Croce, di Gesù e della Vergine.

All’abilità di un ennesimo maestro d’oltralpe, forse il parigino Bonaventure Maisonhaute17, va restituita una Pisside (Fig. 17), realizzata dopo il 1838 come certifica il punzone con la testa di Minerva; il marchio dell’argentiere è in parte consunto. Si contraddistingue per una scarsità di elementi decorativi, solo fogliette lanceolate e la crocetta apicale.

I due successivi reperti, ovverosia un Calice (Fig. 18) e una Pisside (Fig .19) sono anch’essi di manifattura parigina e mostrano una ricchezza di ornati di gusto neogotico, per di più impreziositi da pietre semipreziose e cristalli colorati. Tipologie e decori questi ultimi, ampiamente adottati dai laboratori della capitale francese nella seconda metà dell’Ottocento.

Alla seconda metà dell’Ottocento, tra il sesto e nono decennio, si colloca un’ennesima Pisside (Fig. 20), contraddistinta da elementi decorativi assai ricorrenti sulle suppellettili di produzione francese. Oltre al consueto punzone con la testa di Minerva, come detto in uso dal 9 maggio 1838 fino al 1919, qui è impressa una losanga includente le lettere PP/R, il marchio dell’argentiere Placide Poussielgue Rusand (1847-1891)18. Di lui si sono finora individuati altri oggetti sacri nella diocesi in esame: nella cattedrale di Naxos, nella chiesa della Trasfigurazione a Karkados e nella chiesa di San’Agapito ad Agapi.

Nel villaggio di Xinara, ai piedi del monte Exobourgo, sorge la chiesa parrocchiale dedicata ai Santi Pietro e Paolo. Qui pure hanno sede sia l’importante Archivio Diocesano sia il Museo del Vescovado, la cui ricca collezione di argenti sarà oggetto di un futuro contributo.

Fra l’argenteria qui rinvenuta, ragguardevole è una Lampada pensile (Fig. 21) a triplice sospensione. Di forma mistilinea e col corpo centrale espanso, presenta un’elaborata decorazione a motivi naturalistici e teste di angioletti a fusione negli attacchi delle catenelle. L’individuazione del punzone con il leone di San Marco ci autorizza ad assegnare l’opera a un laboratorio di Venezia; esso è affiancato dal marchio del maestro, monogrammato ZP, al momento documentato dal 1758 al 178019. Si tratta di una suppellettile assai diffusa nei domini della Serenissima e, per quel che ci riguarda, anche nei luoghi di culto della stessa isola, la cui morfologia fu spesso replicata dagli argentieri operanti nei territori assoggettati all’impero ottomano. Affinità stilistiche, ad esempio, si ravvisano con la lampada pensile della chiesa di Santa Maria Nascente a Pieve di Cadore20.

Sebbene realizzato in metallo dorato, il Reliquiario a ostensorio (Fig. 22) che ora presento è con tutta probabilità assegnabile a un argentiere romano del terzo quarto del XVIII secolo. Il gusto rococò si ravvisa non solo nelle forme astruse e sinuose dei contorni ma anche nei fitti decori di natura vegetale. L’arrivo da Roma di tale manufatto, non l’unico per Tinos, si giustifica per essere quest’isola, comedetto, la sede episcopale dell’omonima diocesi, dunque soggetta a continui contatti istituzionali con la curia papale.

Nel medesimo giro di anni se non proprio al tardo Settecento andrebbe collocata una Croce astile (Fig. 23), forse licenziata da un argentiere di Smirne o di Istanbul che si lasciò affascinare dalle tipologie e dai decori in uso a Venezia.

Si tratta di un oggetto di lavorazione assai accurata, ove predominano elementi decorativi tipici di questa stagione artistica. Nel recto, al centro, è posto il Crocifisso a fusione, dal cui capo si espande un’ampia raggiera. Le terminazioni presentano dei motivi vegetali sbalzati su fondo a rete. Il perimetro della croce e il punto di intersezione dei due bracci sono ravvivati, nonostante alcune perdite, dall’inserimento di elementi naturalistici in bronzo dorato. Nel verso è inchiodata una lamina con la raffigurazione della Madonna con il Bambino. Esuberanti motivi naturalistici e baccelli ricoprono l’intera superficie del nodo.

Per l’esposizione eucaristica qui pure pervenne un quasi coevo Ostensorio (Fig. 24), che si sviluppa su base circolare brulicante di motivi vegetali sbalzati e cesellati su fondo ruvido. Nel nodo del fusto si ritrovano i motivi ora descritti e testine di cherubini dorati. Ampia è la raggiera, in argento e argento dorato, con la teca circondata da nuvole e da coppie di cherubini; in alto trionfa la croce. L’oggetto, di una qualche eleganza e di evidente riferimento agli ostensori realizzati in laguna in età barocca, andrebbe inscritto alla produzione ottomana della fine del XVIII secolo.

L’analisi dei reperti di Xinara continua con un Turibolo (Fig. 25), con tutta probabilità frutto dell’assemblaggio di due pezzi disomogenei ascrivibili ad altrettante botteghe ottomane. Il piede circolare, leggermente ammaccato e databile al primo Ottocento, è ingentilito da una fascia di foglie d’acanto. Il corpo del braciere presenta una decorazione a baccelli mentre il coperchio traforato è decorato da cartigli e volute di gusto rococò. Tre piccoli cilindri, disposti in maniera equidistante sul bordo inferiore del coperchio, servono ad agganciare le catenelle di sospensione al sovrastante cupolino, anch’esso decorato da baccelli e fili di perline.

L’ultimo argento è una Pisside (Fig. 26) sul cui piede circolare gira una decorazione a sbalzo con losanghe intervallate da fiori su fondo ruvido, che contrasta col fusto a fusione, di estrema sobrietà. Più ricca è la decorazione della coppa, in argento dorato, con palmette alternate a steli foliacei; il coperchio presenta una fascia di grossi baccelli e di foglie alla base della crocetta apicale. Anche questo reperto, del primo Ottocento, va assegnato a un laboratorio attivo a Smirne o a Istanbul.

  1. G. Boraccesi, Rapporti tra la Grecia e l’Occidente europeo negli argenti della Cattedrale di Naxos, in «Arte Cristiana», n. 863, marzo-aprile 2011, pp. 131-144; Idem, A Levante di Palermo. Argenti con l’aquila a volo alto nell’isola greca di Tinos, in «OADI», n. 4, dicembre 2011, pp. 60-67 (www.unipa.it/oadi/rivista); Idem, Una sinfonia di argenti nell’isola di Tinos: le chiese di Aetofolia, Kalloni, Karkados, Smardakito e Vrissi, in «OADI», n. 10, 2014 (www.unipa.it/oadi/rivista); Idem, Una sinfonia di argenti nell’isola di Tinos: le chiese di Chatziràdos, Koumàros, Kròkos e Steni, in «OADI», n. 12, dicembre 2015 (www.unipa.it/oadi/rivista); Idem, Una sinfonia di argenti nell’isola di Tinos: la chiesa di San Nicola di Bari a Chora e il Palazzo Vescovile, in «OADI», n. 13, giugno 2016 (www.unipa.it/oadi/rivista); Idem, Una sinfonia di argenti nell’isola di Tinos: le chiese di Agapi, Kerchros e Potamia, in «OADI», n. 14,dicembre 2016 (www.unipa.it/oadi/rivista); Idem, Tα αργυρά του Αγίου Νικολάου της Χώρας Τήνου, in Όρμος ο Γαληνότατος. Η Ενορία Αγίου Νικολάου των Καθολικών Χώρας Τήνου, a cura di Marcos Foscolos, Τήνος 2016, pp. 321-332; Idem, Una sinfonia di argenti nell’isola di Tinos: le chiese di Komi, Tarambàdos e Volax, in «OADI», n. 15, giugno 2017 (www.unipa.it/oadi/rivista). []
  2. G. Boraccesi, Le oreficerie della Cattedrale di San Giacomo di Corfù tra Quattro e Seicento in «OADI», n. 6, dicembre 2012, pp. 64-88 (https://www.unipa.it/oadi/rivista/; Idem, Le oreficerie della Cattedrale di Corfù tra Sette e Ottocento in «OADI», n. 7 giugno 2013, (https://www.unipa.it/oadi/rivista/). []
  3. Idem, Argenti della liturgia cattolica nella cattedrale di Rodi, in «Arte Cristiana», n. 879, novembre-dicembre 2013, pp. 440-450. []
  4. Idem, Argenteria in Basilicata. Il Tardogotico e il Rinascimento nella Diocesi di Lagonegro-Tursi, Foggia 2017, pp. 38, 42-43. []
  5. Idem, Una sinfonia di argenti nell’isola di Tinos: le chiese di Chatziràdos, Koumàros, Kròkos e Steni, in «OADI», n. 12, dicembre 2015 (www.unipa.it/oadi/rivista). []
  6. S. Grasso- M. Concetta Gulisano (a cura di), Argenti e Cultura Rococò nella Sicilia Centro-Occidentale 1735-1789, Palermo 2008, pp. 181-182. []
  7. G. Boraccesi, Rapporti tra la Grecia e l’Occidente europeo negli argenti della Cattedrale di Naxos, in «Arte Cristiana», n. 863, marzo-aprile 2011, p. 133; Idem, A Levante di Palermo. Argenti con l’aquila a volo alto nell’isola greca di Tinos, in «OADI», n. 4, dicembre 2011, pp. 60-67 (www.unipa.it/oadi/rivista); Idem, Una sinfonia di argenti nell’isola di Tinos: le chiese di Aetofolia, Kalloni, Karkados, Smardakito e Vrissi, in «OADI», n. 10, 2014 (www.unipa.it/oadi/rivista). []
  8. Idem, Una sinfonia di argenti…, 2015. []
  9. A. Bulgari Calissoni, Maestri argentieri gemmari e orafi di Roma, Roma 1987, p. 359. []
  10. A.M. Pedrocchi, Argenti sacri nelle chiese di Roma dal XV al XIX secolo, Roma 2010, pp. 145-146. []
  11. A. Bulgari Calissoni, Maestri argentieri…, 1987, p. 179. []
  12. G. Boraccesi, Una sinfonia di argenti…, 2017. []
  13. C. Aminjon-J. Beaupuis-M. Bilimoff, Dictionnaire des poinçons de frabricants d’ouvrages d’or et d’argent de Paris et de la Seine, t. I, 1798-1838, Paris 1991, p. 25. []
  14. C. Arminjon-J. Beaupuis-M. Bilimoff, Dictionnaire des poinçons…, 1994. []
  15. G. Boraccesi, Una sinfonia di argenti nell’isola di Tinos: la chiesa di San Nicola di Bari a Chora e il Palazzo Vescovile, in «OADI», n. 13, giugno 2016 (www.unipa.it/oadi/rivista); le foto di tale rivestimento sono state pubblicate in G. Boraccesi, Tα αργυρά του Αγίου Νικολάου της Χώρας Τήνου, in Όρμος ο Γαληνότατος. Η Ενορία Αγίου Νικολάου των Καθολικών Χώρας Τήνου, a cura di Marcos Foscolos, Τήνος 2016, pp. 321-332. []
  16. www.cambiaste.com/it/cambi-aste.asp; asta 295 del 28-3-2017. []
  17. C. Arminjon-J. Beaupuis-M. Bilimoff, Dictionnaire des poinçons…, 1991, p. 89. []
  18. C. Arminjon-J. Beaupuis-M. Bilimoff, Dictionnaire des poinçons…, 1994. []
  19. P. Pazzi, I punzoni dell’argenteria veneta, Pola 1992, p. 149 numero 473. []
  20. A. Cusinato, Santa Maria Nascente a Pieve di Cadore, Cinisello Balsamo 2000, p. 108. []