Anastazja Buttitta

anastazja_bt@yahoo.it

La nascita di un gioiello, il Moretto Veneziano*

DOI: 10.7431/RIV17042018

Si vuole qui analizzare un tema fondamentale della iconografia veneziana durante la prima età moderna, il Moro, ovvero l’uomo nero. Da questo soggetto nascerà un gioiello tipico per la produzione orafa veneziana, il cosiddetto Moretto Veneziano, di cui finora non è mai stata indagata l’origine e lo sviluppo a partire dalla Prima età moderna. A tal fine si presenteranno alcuni oggetti inediti, provenienti dai depositi del Museo Correr di Venezia. Attraverso la storia complessa di questo ornamento, si illustrerà l’amore di Venezia per l’esotismo e le profonde connessioni tra Venezia, la cultura classica, le Isole Maggiori italiane e la Germania. Inoltre, si cercherà di utilizzarlo quale spunto per esaminare l’atteggiamento della Serenissima verso schiavi e persone di colore, per poi fare dei raffronti con i gioielli chiamati Blackamoors nel resto d’Europa.
La figura dell’uomo di colore nell’arte rinascimentale è un soggetto iconografico complesso e sempre più discusso. In questo studio si vuole esaminare il tema dell’uomo africano nel contesto delle arti decorative veneziane prendendo tuttavia le distanze dalle controversie contemporanee riguardanti i gioielli chiamati Blackamoors, che rappresentano gli uomini africani quali schiavi e sono quindi percepiti quali oggetti razzisti. Al fine di comprenderne la vera natura, si devono porre questi monili nel loro originale contesto culturale ed etico, cioè quello di Venezia nella Prima età moderna.
Questa, per certo, è una delle tante prospettive che si possono adottare per l’analisi dei neri raffigurati assai di frequente nelle arti decorative veneziane, oltre che nei dipinti e nella statuaria. Durante la prima età moderna, i neri venivano rappresentati in svariate forme dagli artigiani locali, di cui la produzione lignea di Andrea Brustolon (1662-1732) è solo uno dei tanti esiti1. Tuttavia, nel gioiello, con il tempo, vedremo un diverso atteggiamento verso l’uomo di colore, non più schiavo o servitore ma principe orientale e guerriero.
Venezia era una città che faceva da ponte tra l’Europa, il Mediterraneo e il mondo orientale e che andava fiera del proprio cosmopolitismo. Questo potrebbe servire per la comprensione della produzione di piccole teste in pietra presenti nei musei. Nel nostro studio, sono apparsi numerosi quelli conservati nel deposito del Museo Correr, dei “Moretti” lavorati con virtuosismo e precisione nella pietra, dove le diverse sfumature del minerale sono usate per rappresentare nel dettaglio i loro abiti e i tratti fisionomici. Sono parte di una collezione ben più ampia di piccoli busti (tra i 3 e i 5 cm) in cui quelli degli imperatori romani sono la parte più cospicua. Non sappiamo molto di questa collezione, solo che fu donata da Teodoro Correr (1750-1830) stesso, e la datazione degli oggetti potrebbe risalire alla fine del XV e gli inizi del XVI secolo. Con molta probabilità la collezione di busti era pensata per essere inserita in uno studiolo ligneo del quale è rimasto solo un disegno negli archivi del Correr2.
Attraverso questi inediti monili osserviamo un interesse per la fisionomia dell’uomo africano e una necessità di fare di questi busti da studiolo, dei piccoli ornamenti, pendenti o spille. Come il piccolo di misura mezzo busto di africano (Fig. 1), ma dallo stile monumentale, dove la profonda sfumatura del nero della pietra viene impiegata per rappresentarne i capelli ricci; mentre la tonalità chiara dello strato superiore del minerale viene adoperata per creare un turbante. In cima alla testa, notiamo un gancio e un anello che serviva a indossare il mezzo busto come un pendente.
Secondo busto della collezione Correr (Fig. 2), è una piccola testa di ragazzo africano; anche qui si nota il sapiente uso della pietra, sfruttata per creare le fattezze e il costume del soggetto. La testa dai minuziosi dettagli è stata montata in oro e corredata da uno spillo, per essere usata come ornamento.
Terzo esempio è la testa dell’uomo orientale, forse un saraceno (Fig. 3), dove la barba e i capelli ricci sono i principali protagonisti; sulla testa un originale ed elaborato turbante è creato virtuosamente grazie alle caratteristiche cromatiche della pietra impiegata.
Quarto e ultimo esempio dai depositi del Museo Correr (Fig. 4) è la minuscola testa di soli 2 cm, fornita di gancio per pendente, di un giovane africano o orientale. Anche qui, come nei tre esempi precedenti, non può mancare il turbante, usato per sottolineare l’esotismo dei personaggi e indentificarli come “Mori”.
Il termine “Moro” denotava nell’Italia del XV secolo una persona non originaria della Penisola Italiana, qualcuno dalla pelle scura, non esclusivamente un africano, ma anche un musulmano del Nord-Africa o un Turco. La parola “Moro” stessa poteva quindi assumere diverse connotazioni e sfumature; tuttavia non ci sono pervenute testimonianze che tale attributo avesse una accezione negativa o dispregiativa. Nel XVI secolo, la parola aveva perso il suo significato religioso, per indicare solamente un musulmano e in generale un africano o un ottomano. Come ha sottolineato Kate Lowe, esperta di popolazioni africane nell’Europa rinascimentale, la parola non portava con sé nessuna indicazione di etnia o specifico colore della pelle, tant’è che a Venezia il cognome Moro divenne molto diffuso; si conosce, per esempio, il doge Cristoforo Moro (1390-1471) eletto nel 14623.
La studiosa ha anche analizzato i dipinti veneziani, dove si notano uomini africani, in particolare Il miracolo della Vera Croce al Ponte di Rialto e Caccia in laguna del Carpaccio, e Il miracolo della Vera Croce al Ponte di San Lorenzo di Gentile Bellini, così come la storia di queste genti a Venezia, constatando come, in tutta la complessità e sovente anche crudeltà della situazione, la Serenissima sia stata un luogo sì di schiavitù nelle case dei patrizi, ma anche luogo di integrazione per le popolazioni africane. Infatti, la schiavitù a Venezia poteva essere un momento di passaggio nella vita di un africano, poiché alla morte del “padrone” o alla scadenza dell’accordo, secondo la legge, si veniva liberati da tale condizione. Visto che la Serenissima, a causa del suo sistema lagunare complesso e fondamentale per l’economia della città, aveva un bisogno costante di forza lavoro, la gran parte degli uomini africani divenuti liberi, venivano impiegati come gondolieri, diventando così membri sostanziali della struttura cittadina4.
Come già detto Venezia era una città multiculturale, uno dei porti più importanti del mondo, dove arrivavano persone di qualsiasi origine e dove arrivavano anche schiavi, che in Italia venivano solitamente impiegati come domestici e valletti.
Gli schiavi giungevano in Europa attraverso due vie principali: dal Mediterraneo Orientale e dall’Africa settentrionale oppure dalla costa occidentale africana. Inoltre, un consistente numero di schiavi neri iniziò ad arrivare in Europa con i trasporti portoghesi di africani dall’Africa Orientale nel Quattro e Cinquecento; mentre prima della caduta di Costantinopoli, nel 1453, gran parte degli schiavi proveniva dall’Ucraina, in seguito sostituiti da Circassi, Turchi e Mori5.
Gli schiavi neri in Italia meridionale arrivavano da Tripoli, conquistata nel 1510 dagli Spagnoli, ed erano simbolo di distinzione sociale. Nel Meridione, in particolare, l’influenza lasciata in eredità dalle leggi di Federico II in Sicilia (1310) dava un senso di dignità e alcuni diritti agli africani che facevano da servitori. Inoltre, i Gesuiti, seguendo le direttive del Concilio di Trento, si attivavano per la loro conversione e integrazione nella società cristiana6.
Giorgio Brognolo, agente di Isabella d’Este a Venezia, conosceva bene la moda dei servitori neri a seguito della sua permanenza a Napoli. Fece così da tramite, nel Settentrione, per Isabella, molto interessata ad avere giovani ragazze di pelle nera alla sua corte, veri e propri accessori umani per il suo diletto, come dimostrato anche dai quadri che commissionava al Mantegna. I neri arrivano a Ferrara da Venezia, e Isabella chiese quindi al suo agente Brognolo, il 1° maggio 1491, di procurarle “una moreta” dell’età tra un anno e un quarto e quattro anni, dalla pelle più scura possibile. Isabella aveva già una ragazza africana alla sua corte e da uno scambio di lettere con la cognata Anna Sforza veniamo a sapere che quest’ultima aveva invitato nel suo letto una giovane ancella africana quando questa era ammalata. Isabella prese una bambina nera di due anni in un orfanotrofio veneziano e aprì trattative per ottenere un bambino nero, schiavo presso una famiglia veneziana. Nel 1497 Isabella acquistava anche una bambina schiava nera per sua sorella Chiara7.
Dallo scambio di lettere analizzato dal Kaplan, comprendiamo come i bambini neri, tutti in arrivo da Venezia, fossero percepiti quali gingilli esotici, sia schiavi che servitori. Ovviamente il colore della pelle contava, fornendo così una connotazione razziale; però, dai documenti si potrebbe dedurre che la pelle nera era più che altro simbolo di esotismo e non per forza di inferiorità. Il padre di Isabella, Ercole d’Este, aveva all’epoca stabilito l’uso di lavare i piedi il Giovedì Santo a 6 o 9 monaci etiopi sulla via del loro pellegrinaggio a Roma.
Come già accennato, Isabella d’Este era la protettrice di Andrea Mantegna, autore della prima pittura importante in Italia Settentrionale L’adorazione dei Magi (Firenze, Galleria degli Uffizi) eseguita nel 1464, commissionata per la corte di Mantova, dove vediamo uno dei re magi nero con una corte di africani8. È importante qui ricordare che Mantegna influenzò anche i pittori veneti quali Giorgione e Tiziano; si veda il Ritratto Laura Dianti con il suo paggetto del 1523 (Svizzera, Collezione Privata) – dove l’amante del fratello di Isabella, Alfonso, viene ritratta con un giovane ragazzo africano, uno dei molti servitori neri alla sua corte; o Diana e Atteone del 1559 (Londra, National Gallery), dove uno dei principali elementi decorativi è la figura di un servitore nero dal fascino esotico; e Veronese che scelse di rappresentare un’ancella nera nei quadri dove si narrava la storia di Giuditta e Oloferne.
La scelta di rappresentare i mori come uomini africani e la loro successiva popolarità nell’ambito delle arti decorative e dell’oreficeria in particolare, possono essere collegate, inoltre, al culto tedesco di San Maurizio e alla creazione tardo medievale dell’iconografia legata al Re Mago Baldassarre, anche questa una influenza della Germania su Venezia, collegate da una fitta rete commerciale e culturale.
È stato provato, sempre dal Kaplan, che l’uso di rappresentare Baldassare, uno dei re Magi come uomo africano provenisse dalla Germania e dalla Boemia, dove l’iconografia si era sviluppata tra il 1350 e il 1450, giungendo a Venezia alla fine del Quattrocento9. E fu con Tiziano che il Re Magio africano entrava appieno nell’iconografia veneziana diventando soggetto popolare, come il più giovane dei tre re; qui vale la pena ricordare che le teste di moro del Museo Correr rappresentano uomini giovani, mentre i primi quadri veneti avevano rappresentato il re mago Baldassarre anziano, saggio e con la barba (si veda Lazzaro Bastiani, Adorazione dei Magi, 1470-79, New York, Frick Collection)10.
Baldassarre è un elemento iconografico fondamentale nella tradizione medievale boema e tedesca, dove si narrava dei tre Re in arrivo da parti diverse del mondo, retaggio della tradizione legata alla regina di Saba giunta alla corte del saggio re Salomone dall’Etiopia11. Anche questa era una influenza della corte di Federico II sull’immaginario di Germania e Boemia e successivamente di Venezia.
L’Adorazione dei Magi è una storia evangelica approfondita in seguito, nell’Alto Medioevo, dai Padri della Chiesa, quando se ne stabilì il numero (3) e la provenienza da Oriente. I Re Magi erano il simbolo delle genti pagane che accettavano la venuta del Messia e lo adoravano. Nel Medioevo la produzione letteraria e iconografica sui Magi crebbe in maniera imponente, grazie a vere e proprie saghe e ai vangeli apocrifi, creando storie fantasiose. Il cristianesimo orientale aveva tramandato la leggenda di Adamo che aveva lasciato in una caverna, per il figlio Set, oro, argento e mirra, da portare al Messia nel momento in cui fosse apparso un astro straordinario. Il veneziano Marco Polo nel XIII secolo, parlava della città di Sava (da lui chiamata Saba) dove sarebbero stati sepolti i Magi. Dai mosaici di Sant’Apollinare in Classe a Ravenna del VI secolo, dove i tre re erano vestiti in abiti persiani, si passerà nel X secolo a rappresentarli come sovrani con corone. Lo scritto delle pseudo-Beda del XII secolo, definendo Baldassarre “fuscus” (oscuro, fosco, nero), aprì la strada all’idea che uno dei Magi fosse africano. Il culto dei Magi in Occidente fu rafforzato dall’imperatore Federico I Barbarossa, che nell’ambito della sua lotta con il papato, fece traslare le loro reliquie (secondo le leggende arrivate con Sant’Elena a Costantinopoli dall’Oriente) dalla Milano conquistata nel 1164 nella Cattedrale di Colonia, creando scalpore fino in Islanda, rendendo la città tedesca la città dei Tre Re, visto che sia lo stemma che le monete furono ornate da tre corone. Colonia divenne così méta principale di pellegrinaggio, mentre Palermo fu uno dei centri minori legati a questo culto. Giovanni da Hildesheim scrisse la popolare Historia trium regum tra il 1364 e il 1375, dove i tre saggi orientali diventarono dei santi re12.
Un altro elemento tedesco, legato all’iconografia dell’uomo africano giunta a Venezia, era quello di San Maurizio. Si tratta di una tradizione iconografica diffusa in Germania, a Magdeburgo in particolare, tra il 1220 e il 1250. Il culto di questo martire, santo e soldato del III secolo, è stato particolarmente popolare dal Trecento al Cinquecento incluso, da nord a sud, dalla Scandinavia all’Italia. La leggenda vuole che quale capo della Legione Tebana d’Egitto avesse rifiutato di perseguitare e uccidere i cristiani in Gallia, andando così lui stesso incontro alla morte. È da rilevare come i tratti fisionomici di uomo africano siano apparsi per la prima volta proprio sulla sua statua all’interno della Cattedrale di Magdeburgo, dove non fu rappresentato quale servitore esotico, ma vero e proprio cavaliere della cristianità. Anche qui a quanto pare l’influenza dell’imperatore Federico II, delle sue idee sull’universalismo evangelico e del suo amore per la sua multiculturale corte siciliana (e anche alla Sicilia tra poco arriveremo), avevano giocato un ruolo cruciale13. Altri elementi che comprovano queste teorie sono: il primo, il ciambellano di corte di Federico II, Johannes Maurus era un africano e la sua immagine influenzò il culto di San Maurizio14; il secondo elemento si trova negli affreschi della chiesa di San Zeno a Verona, area veneta quindi, dove fu rappresentata una processione di ventinove uomini, simbolo di tutta l’umanità, molti con la pelle scura e i capelli ricci, dunque africani, i quali offrono una corona a Federico II che più volte aveva soggiornato nella città tra il 1236 e il 1239; il terzo riguarda Nicola da Bari che aveva paragonato nel 1235 Federico II al re magio Baldassarre15. A Venezia, quindi, permane forte questa visione dell’uomo africano quale guerriero e santo. Inoltre, non dobbiamo dimenticare i mosaici della Pentecoste nella Basilica di San Marco, eseguiti tra il 1100 e il 1150, dove i 12 Apostoli furono rappresentati sopra le 16 coppie di uomini che simboleggiano le nazioni di tutto il mondo, dagli Atti degli Apostoli; i due uomini chiamati “Egiziani” sono chiaramente degli africani abbigliati con tuniche bianche16.
Prima di passare all’analisi di altri monili e fare raffronti con la cultura classica, si vuole ancora aggiungere un elemento alla discussione sulla questione che può essere interpretata con una connotazione razziale, legata alla schiavitù. Bisogna porre l’accento su come nell’Italia della Prima età moderna i cristiani fossero persone libere e come nessun cristiano potesse essere legalmente messo in schiavitù. La schiavitù, quindi, non aveva niente a che fare con la razza, ma con la religione e la provenienza. Gli schiavi non furono mai una forte percentuale della popolazione, neanche a Genova centro del commercio italiano di schiavi17.
La schiavitù non era solo quella delle popolazioni nere sub sahariane, come fu successivamente nelle Americhe, ma nell’Europa della Prima età moderna era quindi una forma di rivincita verso gli infedeli non cristiani. Se si pensa ai “Quattro Mori” di Pietro Tacca (1577-1640), grandi sculture bronzee alla base del monumento dedicato a Ferdinando I a Livorno, eseguite tra il 1623 e il 1626, si può intuire quale fosse in Italia il concetto di schiavitù. Il piedistallo fu fatto erigere per commemorare le vittorie del Granduca, abbigliato con l’uniforme dell’Ordine dei Cavalieri di Santo Stefano, sugli Ottomani e i pirati del Mediterraneo. Questo un monumento ha quindi un chiaro intento politico, legato alle vittorie sugli infedeli, dove però i quattro schiavi di diverse etnie, un greco, un turco, un nordafricano e un nero di origine sub sahariana, vengono rappresentati in tutta la loro bellezza e umanità e sono simbolo delle quattro età della vita. Pietro Tacca stesso aveva studiato gli schiavi turchi e africani nelle galere livornesi per farne dei modelli a cera18.
Come rilevato già da Kate Lowe, vi era ovviamente un fenomeno di discriminazione verso le persone nere in Europa, come verso tutte le altre minoranze religiose e etniche all’epoca presenti sul continente. La schiavitù era istituzionalizzata legalmente, quindi sarebbe sbagliato creare un immaginario idilliaco19. Va però tenuta sempre presente l’ambiguità e complessità del fenomeno.
Ritornando alla rappresentazione dell’uomo nero sul gioiello veneziano, si vuole fare a questo punto una distinzione tra i moretti veneziani, veri e propri busti di africani, che con il tempo, dal Settecento in particolare, diventeranno busti di principi orientali, e i cammei rappresentanti uomini o donne africani, popolari sia a Venezia che in seguito nel resto d’Europa. Chiaramente ambedue le forme di monile sono un retaggio del gioiello classico.
A questo punto va aperta una parentesi sul cosiddetto moretto istriano o fiumano (Fig. 5), popolare monile venduto tuttora nella città di Rjeka in Croazia (già nota come Fiume in Istria) e su tutto il litorale dalmata, area sotto forte influenza culturale veneziana. Il moretto istriano si distingue dal moretto veneziano eseguito solitamente in pietra, per l’abbondante smaltatura dai vivaci colori su tutta la superficie, turbante in particolare. La leggenda vuole che fosse un monile nato nel vicino Oriente dove veniva indossato dalle donne come orecchino e che fu portato a Fiume dai mercanti attivi nelle terre dell’est; sempre secondo questa leggenda pare sia arrivato prima che vi si insediasse la Repubblica di Venezia, cioè il 27 maggio 1508; tuttavia la questione relativa all’origine del moretto fiumano o veneziano, è un po’ più complessa. Infatti, i primi monili di questo genere, cioè gli orecchini con il busto di giovane ragazzo africano, sono già presenti nell’oreficeria di epoca imperiale romana numerosi sul mercato antiquario20 (Fig. 6) e sono praticamente identici a quelli eseguiti in smalto a Fiume. Inoltre, conosciamo gioielli con teste di moro anche nella tradizione del gioiello fenicio ed ellenistico (Fig. 7)21. Se quindi non si può dare una univoca origine a questo tipo di gioiello, sicuramente è da rilevare come si tratti di un retaggio culturale del mondo classico del Mediterraneo orientale. Elemento tipico di Fiume fu l’applicazione sul turbante smaltato della mezzaluna e della stella come simbolo della dominazione turca. A partire dal 1470, infatti, le zone attorno a Fiume furono invase diverse volte dai Turchi, mai la città stessa; si trattava di vere e proprie scorrerie che proseguirono per tutto il XVI secolo. Secondo le cronache di Giovanni Kobler Memorie per la storia della liburnica città di Fiume, quando i Turchi furono sconfitti a Grobnico nel 1601, fu tutto un tagliare teste di questi feroci guerrieri22. I locali si chiedono tutt’oggi se qualcuno abbia creato il gioiello a memoria23. È più probabile, invece, che gli orafi fiumani siano stati influenzati dalla cultura classica e da quella veneziana, giacché le teste di Moro nella Serenissima erano talmente popolari già nel Trecento, da essere inserite su un capitello del Palazzo dei Dogi24.
Un altro elemento si deve dare per certo: la cultura classica aveva un forte ascendente sulla Serenissima, che così sovente amava rimarcare la propria origine romana, eccessivamente idealizzata, visto che in realtà l’unico insediamento di epoca romana in Laguna era stato quello di Torcello. Tuttavia, come già detto, a Venezia si producevano cammei dal gusto classico con raffigurati profili di uomini africani. Bellissimo esempio è l’anello oggi conservato presso il Metropolitan Museum di New York, oppure l’anello conservato presso il British Museum di Londra25.
Il cammeo, che rappresenta una donna o un uomo africani, diventa popolare in tutta Europa, ad un certo momento in poi più diffuso che in Italia. Si vedano a questo proposito il famoso Drake Jewel, sontuoso gioiello in smalti con cameo testa di moro che si sovrappone al profilo di un uomo bianco. Donato a Sir Francis Drake probabilmente dopo la vittoria sulla Armada Spagnola nel 1588 e oggi conservato presso la stessa famiglia Drake, viene percepito quale simbolo del dominio su tutti mondi – bianco e nero – e in alcuni casi addirittura come oggetto del “black pride” (orgoglio nero)26. Altro esempio europeo il pendente matrimoniale, il Gresley Jewel, da diversi studiosi percepito come esempio di interesse per l’esotismo. Questo soggetto probabilmente doveva la sua popolarità alla facilità nel trattare un ritratto di persona nera con i vari strati di onice. Fu eseguito per il matrimonio di sir Thomas Gresley e Catherine Walsingham, e anche questo fu un regalo di Elisabetta I, visto che Francis Walsingham era il fratello del suo fidato segretario27.
I ben noti cammei in onice e agata, montati in oro e smalti, mostrano degli africani preziosamente vestiti, poiché persisteva il mito dell’Africa opulenta, basato su racconti di tesori in oro, argento e avorio in particolare sulla costa africana occidentale. Anche per questo motivo vengono ornati dall’orecchino in perla, che spicca sulla pelle scura28.
Gli esempi sarebbero davvero molteplici, come ancora il cammeo con donna africana della Collezione Imperiale di Rodolfo II, che, in base alla presente ricerca, forse di probabile origine veneziana, dove si sviluppò questa moda. Oltretutto, come già rilevato da altri studiosi, gran parte dei camei erano prodotti in Italia e in seguito si aggiungevano le montature in loco29.
Ricapitolando, un monile sicuramente nato a Venezia era il busto di uomo africano, retaggio della cultura classica; si vedano gli svariati busti in marmo del Museo di Capodimonte, che rappresentano splendidi guerrieri africani, in tutta la loro gloria e dignità. Poiché la civiltà classica non conosceva il concetto di razzismo legato ai tratti fisionomici, piuttosto si trattava di una forma di sciovinismo legata al contesto sociale e politico, gli esseri umani potevano diventare disprezzabili solo se nemici di guerra, ma restava sempre il rispetto per il coraggio e il successo30. I moretti veneziani ricordano anche, in linea di massima, i busti reliquiario di santi, così popolari in tutta Europa in epoca medievale, e anche qui quindi non si può parlare di rappresentazione negativa del soggetto, tanto più che abbiamo un Re Magio nero, il San Maurizio e le Madonne Nere. Inoltre, elemento da non sottovalutare, a Venezia con molta probabilità arrivavano pezzi di arte africana, poiché se ne conoscono nelle Wunderkammern di tutta Europa31. Non è quindi da escludere che gli artefici di uno dei porti più importanti del mondo trovassero ispirazione in alcuni di questi oggetti. Il Moretto Veneziano è in conclusione un busto di uomo africano. I primi a noi pervenuti sono dei semplici busti in pietra dura come quelli della Collezione Correr, in seguito arricchiti da sontuosi ornamenti in oro, smalto e pietre preziose (Fig. 8).
Qui si vuole aggiungere ancora un elemento a questa analisi: Venezia era una città fortemente connessa alle isole maggiori italiane, lo era tramite le rotte mercantili alla Sicilia, dove molti gioiellieri si recavano per i loro commerci e per scambi culturali, e alla Sardegna tramite la rotta di Pisa32. E proprio nelle due isole, l’iconografia del moro – anche qui uomo africano – gioca un ruolo simbolico fondamentale.
La famosa “Testa di Moro” in Sicilia è un vaso di ceramica che orna quasi tutti i balconi dell’Isola. Non si hanno studi approfonditi sull’argomento, ma la leggenda vuole che ricordi un generale saraceno del X secolo protagonista di una intensa storia d’amore con una bella giovane del luogo. Al momento del suo ritorno a casa, dalla moglie e dalla sua famiglia, la fanciulla presa da un raptus di gelosia gli tagliò la testa piantandoci del basilico ed esponendola sul balcone. La pianta crebbe così rigogliosa che tutti i vicini vollero avere un contenitore per le piante simile33. Da allora i ceramisti dell’Isola producono questi vasi in coppia, una testa di giovane ragazza e una testa di moro (solitamente nero, ma anche dai tratti saraceni) ornata da un turbante o una corona. Nel caso siciliano l’argomento schiavitù non ha niente in comune con questo elemento decorativo, anzi, nonostante che la Sicilia sia stata conquistata dall’aristocrazia araba supportata da soldati di origine berbera, il generale protagonista di questa storia d’amore multiculturale, elemento simbolico fondamentale dell’arte decorativa siciliana, diventa un uomo nero. Si può ipotizzare come anche questo sia in fondo un retaggio dell’arte classica, in particolare delle coppe con teste di africani, per certo è un altro elemento a supporto di una teoria sulla cultura classica che continua ad influenzare l’area mediterranea, ma non va esclusa anche in questo caso la sempre riconoscibile impronta di Federico II, che come già detto arriva fino in area veneta34.
Nel caso della Sardegna e della sua bandiera con i quattro mori, l’argomento è più complesso. Sullo sfondo bianco, le teste di quattro mori africani sono divise dalla croce rossa di San Giorgio, santo simbolo delle crociate e della conquista cristiana. Secondo alcuni dunque si tratterebbe delle quattro teste mozzate dei re Saraceni a seguito della vittoria dei re spagnoli di Aragona del 1096 di Alcoraz e la riconquista di Saragozza, Valencia, Mursia e Baleari; non una visione “dell’altro” particolarmente positiva, dunque. Altri invece vedono ancora una volta il San Maurizio già citato, visto che la sua testa bendata, come nel caso sardo, è rappresentata in molti stemmi di area franco-germanica35. Ancora una volta ritorna Federico II, e forse non si dovrebbe parlare del caso a questo punto.
In conclusione: il moretto veneziano è un ornamento dai molteplici significati. Il retaggio ellenistico e classico che persiste nelle arti minori, l’amore per l’esoticismo di Venezia, la multiculturalità della città, il forte influsso della cultura federiciana proveniente dall’area germanica, ma anche gli scambi con la Sicilia e la Sardegna, senza tuttavia dimenticare l’incontro-scontro tra Venezia e gli Ottomani a Oriente, sono tutti elementi che compongono la nascita di questo gioiello, tuttora così popolare a Venezia e simbolo oramai della città.
L’iconografia dell’uomo nero nell’arte europea è una storia lunga e complessa, poiché da un lato svariati sono gli esempi pittorici nei quali gli uomini neri sono simbolo degli oppressori di Cristo, brutali assassini di Giovanni il Battista oppure veri e propri grotteschi diavoli e stregoni (basti vedere la connessione con la parola negromanzia)36. Dall’altro la cultura tedesca, che influenzò anche Venezia, impone due uomini neri come stimati personaggi, San Maurizio e il Magio Baldassarre. Per non parlare del mito della Venere Nera, simbolo di bellezza, e elemento cruciale della poesia manierista italiana, come del Giambattista Marino, ma qui si allargherebbe eccessivamente il discorso.
A Venezia osserviamo anche, a partire dal Cinquecento, un interessante fenomeno di sedimentazione cronologica; cioè con il tempo e per quanto riguarda il gioiello, gli africani non sono più gli schiavi rappresentati dal Brustolon, degli infedeli o dei famelici pirati dai quali bisogna difendersi anche con simboli apotropaici, ma diventano invece dei veri e propri principi orientali simbolo della multiculturalità della Serenissima. Non solo, in questo studio si vuole credere che la famiglia imperiale Hohenstaufen, con la sua corte multiculturale, abbia giocato di nuovo un ruolo importante nella creazione di un immaginario esotico in Italia quindi, creando una connessione culturale nei secoli a venire tra Germania e Italia e che la cultura classica sia stata ancora una volta retaggio importante per gli artisti della Prima età moderna.
Certo non è un caso se una delle tragedie di Shakespeare parli di un generale nero della flotta veneziana, Otello. La Serenissima sceglie quale ornamento-emblema della città il busto di un uomo africano.

* A mio zio Nino, che il suo ricordo sia di benedizione.

  1. Questo articolo è parte della mia ricerca di dottorato “Venetian Jewellery: Art and Society (1400-1600)” presentata presso la Ben-Gurion University of the Negev a giugno 2018, supervisor prof. Nirit Ben-Aryeh Debby, co-supervisor prof. Dora Liscia Bemporad. Per una storia della produzione di Andrea Brustolon, vedi: G. Biasuz, M.G. Buttignon, Andrea Brustolon, Venezia 1969; Andrea Brustolon. Il Michelangelo del Legno, a cura di A.M. Spiazzi, M. De Grassi, G. Galasso, Milano 2009; Andrea Brustolon at the Ca’ Rezzonico, in “Bollettino dei Musei Civici Veneziani”, n.4, annata VIII, 1963, pp. 18-25. []
  2. Ringrazio l’amico e collega Andrea Donati e il direttore del Museo Correr di Venezia, Andrea Bellieni, per avermi aiutata in questa ricerca “di magazzino”. []
  3. K. Lowe, Visible Lives: Black Gondoliers and Other Black Africans in Renaissance Venice, in “Renaissance Quarterly”, 66, No. 2, pp. 412-452. []
  4. K. Lowe, Visible Lives…, pp. 412-452. []
  5. Ibidem. []
  6. N.H. Minnich, The Catholic Church and the pastoral care of black Africans in Renaissance Italy, in Black Africans in Renaissance Europe, Cambridge 2005, pp. 280-300. []
  7. P.H.D. Kaplan, Isabella d’Este and black African women, in Black Africans…, 2005, pp. 134-135. []
  8. P.H.D. Kaplan, Isabella d’Este…, in Black Africans…, 2005, p. 131. []
  9. Ibidem. []
  10. P.H.D. Kaplan, The rise of the Black Magus in Western Art, Ann Arbor 1985, p. 161. []
  11. Ringrazio Catherine Kovesi e Ariel David per avermi fatto notare questo ulteriore elemento legato al Moretto Veneziano. []
  12. E. Curzel, Il Medioevo – Dai Magi ai tre santi re, in I Magi, a cura di S. Zucal, Pancheri, Trento 2000, pp. 19-26. Cfr. pure M.C. Di Natale, L’Adorazione dei Magi nelle arti decorative tra manualità, simbolo e materia, in In Epiphania Domini. L’Adorazione dei Magi nell’arte siciliana, catalogo della Mostra a cura di M.C. Di Natale e V. Abbate, Palermo 1992, pp. 135-151. []
  13. G. Heng, An African Saint in Medieval Europe – The Black Saint Maurice and the Enigma of Racial Sanctity, in Sainthood and Race: Marked flesh, Holy flesh, a cura di V.W.Lloyd, M.H. Bassett, Londra 2014, pp. 18-44. []
  14. P.H.D. Kaplan, Black Africans in Hohenstaufen Iconography, in “Gesta”, Vol. 26, No. 1 (1987), pp. 29-36. []
  15. P.H.D. Kaplan, Introduction to New Edition, in The Image of the Black in Western Art, a cura di D. Bindman, H.L. Gates, Harvard 2010. []
  16. Ibidem. []
  17. S. MacKee, Domestic Slavery in Renaissance Italy, in Slavery&Abolition, Vol.29, No.3, September 2008, Routledge, pp. 305-326. []
  18. S.F. Ostrow, Pietro Tacca and his Quattro Mori: the beauty and identity of the slaves, in “Artibus et Historiae”, n.71 (XXXVI), 2015, pp. 145-180. []
  19. K. Lowe, The black African presence in Renaissance Europe, in Black Africans in Renaissance Europe, Cambridge 2005, p. 7. []
  20. Si vedano i numerosi cataloghi di Christie’s e Sotheby’s. []
  21. The Image of the Black…, 2010, pp. 1-39 e 141-250. []
  22. L. Chiozzi Calci, Il moretto fiumano, in “Pagine istriane”, 1-2, 1986, pp. 52-55. []
  23. Elemento da inserire a mo’ di curiosità, solo oggi i neri africani di nazionalità turca, cercano di riaffermare e narrare il proprio passato. Vennero infatti portati in Turchia come schiavi durante l’impero ottomano, e venivano impiegati come soldati e pirati. Si veda articolo in Haaretz di Davide Lerner e Esra Whitehouse del 26 ottobre 2017 (https://www.haaretz.com/middle-east-news/turkey/.premium-the-afro-turks-turkeys-little-known-black-minority-reclaims-its-past-1.5460354). Da qui forse la confusione tra pirati turchi e africani, questi diventano simbolo del Moretto. Non esistendo il termine musulmano, ma Turco o maomettano. []
  24. W. Wolters, Wolfgang. La scultura veneziana gotica (1300–1460), Venezia, 1976, 2 vol., 1:174, 2: fig. 220. []
  25. Anche se in quest’ultimo si potrebbe mettere in discussione la montatura dallo smalto eccessivamente sgargiante e abbondante, con altri due mori sui due lati, forse eseguita successivamente nel XVII o XVIII secolo. []
  26. Scheda nr. 40, in Princely Magnificence – Court Jewels of the Renaissance, catalogo della Mostra (Victoria and Albert Museum, Londra, 15 ottobre 1980- 1 febbraio 1981), London 1981, p.61. []
  27. Princely Magnificence…, 1981, scheda nr. 46, p. 62. []
  28. L. Seelig, Christof Jamnitzer Moor’s Head, in Black Africans…, 2005, pp. 181-210. []
  29. L. Seelig, Christof Jamnitzer Moor’s Head…, in Black Africans…, 2005, scheda nr. 70, p.70. []
  30. F. M. Snowden, Iconographical evidence on the black populations in Greco-Roman Antiquity, in The Image of the Black…, pp. 141-250. []
  31. Exotica: Portugals Entdeckungen im Spiegel fürstlicher Kunst- und Wunderkammern der Renaissance, catalogo della mostra, Kunsthistorisches Museum Wien, 2000. []
  32. M. Firpo, Artisti, gioiellieri, eretici. Il mondo di Lorenzo Lotto tra Riforma e Controriforma, Bari 2001. []
  33. Tradizione orale. []
  34. Le teste di Moro come calici, per esempio quella eseguita dall’orafo tedesco attivo alla corte di Praga, Christoph Jamnitzer nel 1600 circa, probabile regalo degli Strozzi ai Pucci che avevano appunto un moro nel loro stemma. Queste teste di moro a forma di calice venivano già prodotte dagli etruschi e romani e poi riprodotte a Padova, in area veneta quindi, nella bottega di Andrea Riccio (1470-1532), per esempio, all’inizio del Cinquecento. Vedi L. Seelig, Christoph Jamnitzer’s Moor’s Head: a late Renaissance drinking vessel, in Black Africans in Renaissance Europe, …, 2005, pp. 181-210. []
  35. B. Fois, Lo stemma dei 4 mori – Breve storia dell’emblema dei sardi, Carlo Delfino Editore, Sassari, 1990; F.Sedda, La vera storia della bandiera dei Sardi, Cagliari, Edizioni Condaghes, 2007. []
  36. G. Heng, An African Saint…, in Sainthood and Race…, 2014; ma anche l’interessante studio di A. Melamed, The Image of the Black in Jewish Art, Londra 2003. []