Benedetta Montevecchi

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Orafi e oreficerie di Sant’Angelo in Vado tra XVI e XIX secolo*

DOI: 10.7431/RIV16082017

«Nascoso tra le più alte montagne degli Appennini, è un piccolo borgo che si chiama S. Angelo in Vado, dove si fabbricano gli ornamenti di oro e di argento di che si fan belle quelle montanine. Quivi par che si conservi almeno in parte l’antichissima tradizione dell’arte di lavorare in oro ed in argento; e quegli artefici, separati in tutto dal commercio de’ cittadini accolti nelle grandi capitali, ed anche nelle men vaste città di provincia; esclusi, per così dire, dal contatto delle cose moderne, fabbricano corone di filagrana, infilzate di margarite dorate, ed orecchini di quella forma speciale che si dice a navicella, con metodi quali forse furono gli antichi, poiché tali gioielli somigliano non poco a quelli rinvenuti ne’ sepolcri greci ed etruschi, tuttoché per la eleganza delle forme, e pel gusto sia ben lunge che li eguaglino»1. Così Augusto Castellani, esponente della celeberrima dinastia ottocentesca di orefici romani e figlio del capostipite Fortunato Pio, ricordava la particolare attività orafa fiorita nella cittadina dell’alto pesarese sorta lungo il fiume Metauro sulle rovine del municipio romano di Tifernum Metaurense dove riteneva che si conservasse il segreto delle antichissime tecniche di lavorazione della filigrana e della granulazione. Non si sa come si fosse tramandata tale tradizione, ma, in via del tutto ipotetica, si potrebbe supporre che proprio la posizione geografica della cittadina, non lontana dalla confluenza dei due rami sorgivi del fiume Metauro, il Meta e l’Auro che sgorgano dall’Alpe della Luna, avesse favorito, sin dall’antichità, la lavorazione dell’oro per il probabile reperimento di sabbie aurifere alle quali sembra alludere il nome ‘Auro’. Gli artefici vadesi, continua lo storico, «non conoscenti de’ mezzi meccanici usati generalmente dai moderni» erano «infinitamente più abili a copiare gli ori antichi» e per questo motivo i Castellani avevano chiamato a lavorare nel loro laboratorio romano «que’ laboriosi e pazienti Marchigiani» tra cui «un certo Benedetto Romanini, il quale fu maestro dei suoi metodi tradizionali ai primi nostri operai e discepoli romani in quest’arte»2.

Nell’Ottocento, dunque, si riteneva che nel piccolo centro di Sant’Angelo in Vado si mantenesse ancora viva la tradizionale lavorazione della filigrana e della granulazione per realizzare gioielli popolari con tecniche e leghe analoghe a quelle impiegate dai Greci e dagli Etruschi3. Gli studi recenti hanno ridimensionato il rapporto tra l’oreficeria popolare vadese e le raffinatissime creazioni di gusto archeologico dei Castellani4, ma è tuttavia innegabile la secolare rilevanza dell’industria orafa nella cittadina marchigiana che gli atti notarili documentano, fin dall’inizio del XVI secolo5, fornendo nomi e date come quello di Baldassarre Serena6, attivo nel 1535 con due lavoranti di Vicenza e il figlio Francesco. E orafo era Luigi, fratello di Taddeo e Federico Zuccari, i celebri pittori originari di Sant’Angelo in Vado e operosi a Roma dove, come ricorda Vasari7, intorno alla metà del Cinquecento Taddeo aveva sistemato il fratello “con alcuni amici suoi all’orefice”. Anche Luigi Zuccari era rientrato dunque nella schiera dei giovani apprendisti che, dopo un periodo di lavoro presso botteghe orafe romane, tornavano ad esercitare la propria arte in patria8. Antonino Bertolotti9 pubblica un nutrito elenco di garzoni e lavoranti vadesi che risultano nell’Urbe dalla seconda metà del Cinquecento fino ai primi decenni del secolo successivo. I documenti ricordano, per la verità, soprattutto vicende di carattere giudiziario, fornendo tuttavia nominativi e presenze di artefici provenienti dalla cittadina marchigiana dove l’oreficeria, eccellendo tra le diverse lavorazioni artigianali locali10, sarebbe stata regolamentata con l’istituzione di una Università. La Corporazione, la cui prima congregazione è ricordata nel 1623, aveva sede nella chiesa di Santa Maria dei Servi (o extra muros) dove era stato eretto un altare dedicato a sant’Eligio, protettore degli orafi, sul quale compare tuttora la bella pala attribuita al pittore urbinate Girolamo Cialdieri (1593-1680)11. Nel dipinto (Fig. 1), il santo vescovo si staglia contro una veduta della cittadina di Sant’Angelo in Vado, circondato da angioletti che presentano alcune suppellettili sacre (un calice, un turibolo e una navicella), e varie oreficerie: un fascio di collane, una scatola con anelli e diversi monili (orecchini, pendenti, croci) raccolti in una vetrinetta, quasi a mostrare una sorta di ‘catalogo’ di quanto veniva allora realizzato dagli artefici locali. In quegli anni, emerge la figura di Cesare Roberti, orefice e gioielliere, familiare del duca di Urbino Francesco Maria II, alla morte del quale, nel 1631, fu incaricato di redigere l’inventario delle oreficerie che il duca aveva portato con sé lasciando Urbino per Castel Durante (odierna Urbania), sua ultima residenza12.

Non si conoscono, finora, altre notizie relative agli artefici operosi nel Seicento, ma alcuni documentari ricordano l’orafo Giovanni Pietro Argoagni13 che non lavorava in patria, ma a Bologna, dove aveva raggiunto una notevole posizione. Nel lascito testamentario di Odoardo Argoagni (1 luglio 1690), anch’egli orefice e attivo nella città emiliana, il nipote Giovanni Pietro risulta tra i beneficiari14, e l’inventario della sua bottega (29 giugno 1696)15 è particolarmente interessante per il dettagliato elenco di gioielli d’oro, anche lavori di grandissimo pregio, e d’argento, alcuni in filigrana, consistenti in orecchini e pendenti, oltre a medaglie, bottoni e fibbie per scarpe, quindi accessori di abbigliamento di minor valore.

Anche a Sant’Angelo in Vado orafi e argentieri producevano soprattutto gioielli popolari, minuterie destinate al modesto pubblico locale e ai contadini: tale destinazione aveva motivato l’impiego di oro a bassa caratura secondo modalità che, assieme alle indicazioni che dovevano regolare la vita e le attività della Corporazione, sono esplicitate nei capitoli dello Statuto, approvati nel 1680 dal cardinal legato Carlo Barberini. Un manoscritto tardo-settecentesco16 riporta il documento con i vari capitoli dove, a proposito della qualità dell’oro, si precisa: «In quanto poi alla qualità dell’oro che si lavora dagli Orefici della Città di S. Angelo in Vado e da tutti gli Orefici della Legazione di Urbino, è questo di carati sedici rispetto a Bottoncini, Navicelle e Orecchini che servono per li Contadini, e gli Anelli di carati diecisette in diciotto per li contadini medesimi»; il documento prosegue elencando  sull’argomento altre normative che sarebbero state successivamente sottoscritte dai cardinali legati nel corso del XVIII secolo17.

All’inizio del ‘700 le botteghe in cui si lavoravano l’oro e l’argento erano una trentina18: nelle Riformanze Comunali, in data 8 marzo 1713, vengono elencati ben 17 orafi e 14 argentieri: tra questi compaiono Angelo e Paolo Piani, verosimilmente capostipiti della dinastia dei grandi argentieri operosi a Macerata tra la metà del Settecento e l’inizio del secolo successivo19. I legami con la cittadina d’origine si sarebbero tuttavia mantenuti nel tempo come attestano due bei disegni per un turibolo e una navicella d’argento (Figg. 23) che il 13 dicembre 1812 Antonio Piani invia da Macerata all’argentiere vadese Andrea Dini20, accompagnandoli con una breve lettera sulle caratteristiche tecniche degli oggetti che si impegnava a consegnare per la Pasqua dell’anno seguente21.

Nel corso del secolo l’attività degli orefici vadesi è sempre più fiorente e la ricca Corporazione ha un ruolo preminente nella vita della cittadina, ruolo attestato, tra l’altro, dall’iniziativa presa nel 1769, in occasione dell’elezione di papa Clemente XIV Ganganelli – nato a Sant’Arcangelo di Romagna, ma da famiglia vadese –  di celebrare un solenne triduo davanti all’altare di sant’Eligio, quando venne letta un’Orazione composta dall’abate pesarese Sebastiano Caprini in cui si ricordava “il Corpo di Concittadini divotamente adunato, il quale coll’arte sua nobilissima tanto lustro dona ad avvantaggio della Patria”22.

Rimangono oggi pochissime testimonianze dei manufatti prodotti a Sant’Angelo in Vado e richiesti non solo nelle Marche, ma anche in una vasta area comprendente la Romagna, la Toscana e Roma. Assume pertanto un notevole interesse l’inventario dei pegni del Monte di Pietà del 1762 che riporta un nutrito elenco di monili23. Sono citate centinaia di gioielli più o meno preziosi, che illuminano sulla varietà e consistenza dell’oreficeria settecentesca locale: tra le voci ricorrenti, oltre ad anelli, medaglie, fili di perle e bottoncini d’oro, troviamo croci con perle o smeraldi, rosette d’oro con perle o diamanti, corone o collane di granati e vaghi d’oro, collane di coralli e i tipici orecchini detti ‘navicelle’ che riprendevano, sia pure molto semplificata, la tipologia di analoghi gioielli archeologici: ne sono un esempio la coppia di orecchini in sottile lamina d’oro con applicazioni in filigrana, appartenuti alla collezione personale di Alessandro Castellani, entrati a far parte, nel 1868, delle raccolte del Victoria and Albert Museum di Londra24 (Fig. 4). Altri gioielli ascrivibili alle maestranze di Sant’Angelo in Vado si sono conservati tra gli ex voto offerti alla ‘Madonna del Pianto’, una immagine mariana tardo-gotica venerata nel Duomo della cittadina, nascosta da una coperta d’argento sbalzato realizzata nel 1684 da Sebastiano Perugini25. Alcuni di questi gioielli sono ora esposti nel bel museo recentemente ordinato nell’ex convento adiacente la chiesa di Santa Maria extra muros. In particolare, sono interessanti le collane di granati intervallati da tipici vaghi d’oro con decorazione filigranata (Fig. 5), due delle quali ornate da pendenti: uno, consta di una grande perla scaramazza racchiusa entro una montatura a fiocco in filigrana d’argento (Fig. 6), l’altro, in oro con piccole perle, propone un elegante disegno barocco (Fig. 7).

Alla relativamente scarsa sopravvivenza di esempi reali, sopperiscono alcuni interessanti acquerelli che documentano l’abbigliamento popolare femminile locale dell’inizio dell’Ottocento e i gioielli più diffusi. Si tratta di alcuni dei 112 tra ‘figurini’ e ‘ornamenti donneschi’, disegnati e acquerellati dal pittore urbinate Angelo Pistocchi, che corredavano una delle inchieste promosse dall’Impero napoleonico, al fine di raccogliere i dati necessari a stabilire assetti territoriali e criteri di politica economica e amministrativa da convogliare a Parigi e nelle capitali dei singoli regni26. L’inchiesta promossa nel 1808 dall’Académie Celtique di Parigi fu una sorta di indagine sulle tradizioni popolari che doveva documentare vari aspetti della vita ‘dei villici’, ivi compresi l’abbigliamento quotidiano e festivo. Uno dei ‘figurini’ realizzati per il Dipartimento del Metauro presenta una contadina abbigliata col «vestito de’ giorni festivi» (Fig. 8), impreziosito da orecchini e collana d’oro con un vistoso pendente. Altre cinque tavole illustrano i gioielli tipici del luogo, la cui tipologia e il cui impiego sono specificati da dettagliate didascalie come quella che si legge nella tavola n. 1 (Fig. 9) che presenta «Varie sorta di spilloni da testa d’argento, per mezzo dei quali si fanno prendere delle curiose disposizioni alle trecce dei capelli: vi è annessa la figura di un pendente d’oro dei più moderati e di una croce parimenti d’oro con ornati di perle, che si attacca alle perle o ai coralli». Va sottolineato come gli ‘spilloni da testa’ fossero un indispensabile elemento per realizzare le acconciature del tempo, tanto che a Urbino, non lontano da Sant’Angelo in Vado, era stata avviata, sotto gli auspici del cardinale Annibale Albani, una ‘spillara’, cioè una fabbrica specializzata esclusivamente «nell’arte industriosa delle spille», ereditata dalla moda francese27. Ritornando agli acquerelli, la tavola 3 (Fig. 10) raffigura un tipico orecchino ‘a navicella’ definito «Gran pendente d’oro usato dalle donne più eleganti» che è riproposto, simile, nella tavola 2 (Fig. 11), assieme ad una collana, con la didascalia «Perle d’oro delle più piccole e pendenti mezzani parimenti d’oro». Una collana d’oro composta da grani decorati con filigrana è illustrata nella tavola 4 (Fig. 12) con la didascalia «Perle d’oro delle più grandi usate dalle donne più eleganti» e nella tavola 5 (Fig. 13), infine, è raffigurata una «Croce d’oro ornata di perle, che suole attaccarsi ad una fettuccia di velluto nero per ornamento del petto».

Era dunque una produzione varia, preziosa e connotata da un vivace gusto popolaresco non dissimile da quella di altre manifatture italiane coeve, contraddistinta tuttavia, da lavorazioni particolari, come quella della filigrana, che nella prima metà dell’Ottocento, come sopra accennato, non avevano mancato di interessare orafi raffinati come i Castellani.

Per buona parte del XIX secolo l’attività degli orafi vadesi è fiorente e vitale, come attestano i molti documenti d’archivio relativi ai rapporti tra gli orefici quali l’atto di vendita di una bottega (1816)28 e una scrittura tra gli orafi Domenico Brizzi e Giovanni Ferri per una collaborazione triennale (1802)29 per la quale sono specificati l’organizzazione del lavoro, la gestione dei lavoranti, il capitale in metallo prezioso disponibile e la dettagliata Nota de’ ferri, ovvero le attrezzature di bottega, comprendenti stampi, bottoniere, mazzole, martelli, bilance, mantici, cinque  banchi da lavoro, nove tavole per stendere i lavori finiti e un «banco lungo per tirare il filo con sua tenaglia».

Alla fine dell’Ottocento, la felice stagione dell’oreficeria vadese va lentamente declinando per l’abbandono delle lavorazioni e delle tipologie orafe tradizionali, in favore di una produzione seriale e adeguata alle mode che pone fine alla preziosa attività che per secoli era stato motivo di vanto della cittadina marchigiana.

* Questa ricerca è iniziata vari anni fa, dietro suggerimento dello storico vadese prof. Franco Fini alla cui generosità devo le indicazioni e le citazioni d’archivio, nonché una serie di appunti che ho utilizzato nel testo. Per avermi facilitato le verifiche in archivio e per utili suggerimenti, ringrazio mons. Davide Tonti, Vicario episcopale per la cultura e la tutela dei beni culturali dell’Arcidiocesi di Urbino, Urbania, Sant’Angelo in Vado; ringrazio inoltre: Ada Antonietti, Livia Carloni, Laura Damasi, Lorella Libori.

  1. A. Castellani, Dell’oreficeria antica, Firenze 1862, pp. 22-23. []
  2. Cfr. nota precedente; su Benedetto Romanini, cfr. G. C. Bulgari, Argentieri, gemmari e orafi d’Italia, III, Marche-Romagna, Roma 1969, p.209; A. Bulgari Calissoni, Maestri argentieri gemmari e orafi degli Stati della Chiesa, Roma 2003, p.346. []
  3. I. Caruso, La Collezione Castellani e la rielaborazione dall’antico, in L’oro nei secoli dalla Collezione Castellani, catalogo della mostra (Arezzo, 2014) a cura di A. Russo Tagliente, Roma 2014, p. 14. []
  4. J. Ogden, La riscoperta dell’arte perduta: Alessandro Castellani e la ricerca della precisione classica, in I Castellani e l’oreficeria archeologica italiana, catalogo della mostra (Roma, novembre 2005-febbraio 2006) a cura di A.M. Moretti Sgubini, F. Boitani, Roma 2005, pp.159-175; cfr., in particolare, il capitolo: Il procedimento “Sant’Angelo in Vado”, pp.164-167. []
  5. Dagli atti dell’Archivio notarile di Sant’Angelo in Vado (oggi presso l’Archivio di Stato di Pesaro), risultano: Lodovico orefice (19 settembre 1513), Bartolomeo di Cristoforo orefice (10 marzo 1517), Antonio orefice (15 aprile 1523). Sull’argomento, cfr. C. Leonardi, L’oreficeria vadese, in Ancona e le Marche nel Cinquecento, catalogo della mostra (Ancona, gennaio-marzo 1982), Recanati 1982, p.382; Idem, Gli orafi di Sant’Angelo in Vado, in Contadini vadesi e manufatti preziosi del primo Ottocento, edizione fuori commercio distribuita dal Comune di Sant’Angelo in Vado, 1985. []
  6. G.C. Bulgari, Marche-Romagna, 1969, p.209. []
  7. G. Vasari, Le vite…, 1568, ed. Milanesi, VII, 1881, p.80. []
  8. Sull’attività di orefice di Luigi Zuccari, cfr. B. Cleri, ‘Officina familiare’, in Per Taddeo e Federico Zuccari nelle Marche, catalogo della mostra (Sant’Angelo in Vado, 1993), a cura di B. Cleri, Sant’Angelo in Vado 1993, pp.95-108, in particolare pp.107-108. []
  9. A. Bertolotti, Artisti Urbinati in Roma prima del secolo XVIII, Urbino 1881, pp.44-49. []
  10. Sul tradizionale esercizio delle arti decorative a Sant’Angelo in Vado, cfr. B. Cleri, La Reale Scuola “Zuccari” per l’arte applicata all’industria in Sant’Angelo in Vado (1882-1923), Sant’Angelo in Vado 1987, pp.23-31. []
  11. B. Cleri, La Reale Scuola…, 1987, p.148. []
  12. V. Lanciarini, Dei fratelli Nardini, Castelplanio 1894, p.39; G.C. Bulgari, Marche – Romagna…, 1969p.209; T. Biganti, L’eredità del duca: l’inventario della corte durantina del 1631, in I Della Rovere nell’Italia delle Corti, I, a cura di B. Cleri, S. Eiche, J. E. Law, F. Paoli, Urbino 2002, pp.111-121. []
  13. G.C. Bulgari (Marche-Romagna…, 1969, p. 201), cita un Giuseppe Argoagni, orefice a Sant’Angelo in Vado nel 1680. []
  14. Sant’Angelo in Vado, Archivio Diocesano (poi S.A.V.A.D), Archivio Confraternita Madonna del Pianto, Casa Argoagni. Scritture spettanti agli interessi dell’eredità presa dalla Venerabile Compagnia della SS.ma Vergine del Pianto. Un documento relativo ai beni dell’orafo Odoardo Argoagni (o Arcovagni), che muore nel 1688, in merito all’eredità delle figlie, tra cui Diamante, moglie dell’orefice bolognese Antonio Maria Tadolini, è ricordato anche da G.C. Bulgari, Argentieri, gemmari e orafi d’Italia, IV, Emilia, Roma 1974, p.273. []
  15. S.A.V.A.D, Nota del Capitale o Stato della Bottega d’Orefice del Sig. Gio. Pietro Argoagni per lavori d’oro fatta a di 29 giugno dell’anno 1696. []
  16. S.A.V.A.D., Legati Pontifici 1742-1767, Notizie de’ Capitoli dell’Università degli Orefici della Città di Sant’Angelo in Vado. Sull’antico privilegio che concedeva agli orafi vadesi di lavorare oro a bassa caratura, cfr. A. Bulgari Calissoni, Maestri argentieri…, 2003, p.334; L. Vanni, Le arti a Sant’Angelo in Vado nel Settecento, in Borgo Pace, Sant’Angelo in Vado, Urbania al tempo di Clemente XIV, a cura di M. Moretti, Urbania 2007, pp. 127-138. []
  17. Nell’Archivio Diocesano di Sant’Angelo in Vado si conserva una cospicua documentazione relativa agli ordinamenti di carattere amministrativo; le normative succedutesi dal XVII secolo in poi, sono riassunte in Bulgari, Marche-Romagna, cit., pp. 199-201 e A. Bulgari Calissoni, Maestri argentieri…, 2003, pp. 334-335. []
  18. E. Reposati, Della Zecca di Gubbio, Bologna 1777, p.405; C. Orlandi, Delle città d’Italia, II, Perugia 1772, p. 103; per un commento a quest’ultimo testo, cfr. B. Dini, Sant’Angelo in Vado nelle città d’Italia di Cesare Orlandi, in Borgo Pace…, 2007, pp. 87-124. []
  19. Sui Piani a Macerata, cfr. G.C. Bulgari, Marche-Romagna…, 1969, pp.152-156; A. Bulgari Calissoni, Maestri argentieri…, 2003, pp. 228-230; G. Barucca, Orafi del Piceno e della Marca fra Sette e Ottocento, in G. Barucca, B. Montevecchi, Atlante dei Beni Culturali dei territori di Ascoli Piceno e di Fermo. Beni Artistici. Oreficeria, Milano 2006, pp.235-250, in part. pp.242-247. []
  20. G.C. Bulgari, Marche-Romagna…, 1969, p.203; A. Bulgari Calissoni, Maestri argentieri…, 2003, p. 339. []
  21. S.A.V.A.D, Memorie Capitolari, vol. IV, ff.131-132. []
  22. S. Caprini, Orazione brevissima…, Pesaro 1769, S.A.V.A.D, Memorie Capitolari, vol. VIII. []
  23. S.A.V.A.D, Inventario de’ Pegni che esistono in questo sagro Monte di Pietà di St. Angiolo in Vado l’Anno 1762, cartella rossa. []
  24. Cfr. J. Ogden, La riscoperta…, 2006, p.165, fig.7-11; si citano, inoltre, la coppia di ‘navicelle’ del Museo Piersanti di Matelica (B. Cleri, La Reale Scuola…, 1987, p.152) o quella del Museo delle Arti e Tradizioni Popolari di Roma, inv.3034. []
  25. Sull’argentiere maceratese Sebastiano Perugini, cfr. G.C. Bulgari, Marche-Romagna…, 1969, p.151 e A. Bulgari Calissoni, Maestri argentieri…, 2006, p.228. Il tesoro raccolto intorno alla ‘Madonna del Pianto’ è giunto a noi impoverito da vicende diverse, tra cui un furto subito una ventina di anni fa; ma della ricchezza dell’insieme testimonia la documentazione di alcuni lasciti come la preziosa croce dell’Ordine di Santo Stefano, appartenuta a Giacomo Liborio Ganganelli, morto nel 1765, e offerta nel 1768 dal padre Petro Paolo, cugino di papa Clemente XIV, o gli orecchini di diamanti offerti nel 1851 dai coniugi Clemente e Marianna Mengacci (S.A.V.A.D, Archivio Confraternita Madonna del Pianto, cartella Valbonesi, Baldassarri, Maioli). []
  26. S. Anselmi, Gli acquarelli vadesi per l’inchiesta demologica del 1811-1812, in Contadini vadesi e manufatti preziosi…, 1985; gli originali degli acquerelli che illustrano il testo sono conservati presso la Civica Raccolta Bertarelli di Milano. []
  27. S. Pretelli, La spillara di Urbino, in “Proposte e ricerche. Rivista di storia dell’agricoltura e della società marchigiana”, 23, 1989, pp. 146-159. []
  28. S.A.V.A.D, fascicolo n. 144, vol. I, ‘Cose varie’. []
  29. S.A.V.A.D, cartella ‘Diverse’. []