Michela Giuntoli

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L’inedita committenza Strozzi nel monastero di Sant’Apollonia a Firenze

DOI: 10.7431/RIV16022017

L’oggetto di questo studio è il dossale intarsiato proveniente dal monastero benedettino di Sant’Apollonia di Firenze e conservato nel Museo del Cenacolo di Sant’Apollonia (Fig. 1), ad oggi rimasto esente da ogni precisazione riguardante l’attribuzione e la periodizzazione1. L’inventario del 1890 cita infatti: «Dossale di coro lavorato a tarsia in legno chiaro rappresentante due fiori colle radici, dentro un cerchio con una parola indecifrabile. Nel fregio vi sono due stemmi Strozzi e lo stesso disegno del pannello. Secolo XV-XVI= tarsia in legno, opera del sec. XV-XVI»2. Ad una prima osservazione si rileva tuttavia che il motto dell’anello centrale intagliato sullo schienale è tutt’altro che illeggibile ma riporta in maniera evidente la parola «lealtà» (Fig. 2). È rilevante inoltre precisare che i racemi rappresentati non appaiono come semplici fiori, ma risultano invece appartenere ad una particolare specie di rosa centifolia, la tipologia floreale impiegata ricorrentemente nelle effigi Strozzi, che si trova nel sottarco della cappella di Nofri Strozzi nella chiesa di Santa Trinita e nella corona di alloro e rose che incornicia lo stemma sul cassone Bruschi, contrassegnata da un cartiglio recante il motto famigliare (Fig. 3)3.

Esaminando ulteriormente l’opera, si osserva poi che il dossale è intarsiato sul fregio a decorazione continua caratterizzata dal susseguirsi di arbusti di rose centifolie dotati di radici (Fig. 4). Gli arbusti sono uniti da un anello e congiunti con due nastri allo stemma della famiglia Strozzi, facilmente riconoscibile dalle tre crescenti rivolte su una fascia al centro dell’arma4. Nello schienale, circondato da due linee di decorazione geometrica continua, appare lo stesso motivo dei tre arbusti di rosa: una pianta più grande in mezzo a due pianticelle, uniti da un anello contrassegnato dal motto «lealtà».

È certo che la mancata attenzione di storici e di storici dell’arte sia dovuta allo stato di conservazione in cui l’opera versa: il legno di noce è fortemente scurito, rovinato, minato da tarlature e presenta evidenti  mancanze di alcuni pezzi di tarsia, specialmente nella parte centrale dello schienale. Sebbene dunque la tarsia sia il prodotto di un lavoro rudimentale, non elaborato come gli esempi di eccellente manifattura fiorentina che caratterizzano la produzione artigianale ed artistica dalla seconda metà del Quattrocento fino al primo Cinquecento, è rilevante inserire l’opera nel proprio quadro di riferimento, individuandone la committenza, le funzioni e le specificità. È inoltre una testimonianza significativa del motto inciso che risulta essere l’unica, in quanto formalmente non appartiene alla famiglia Strozzi e non è usato altrove per nessuna committenza della famiglia5.

Da un indagine svolta presso l’Archivio di Stato di Firenze emerge che nella prima metà del Quattrocento nel monastero di Sant’Apollonia era presente una Strozzi; più volte infatti la Strozzi è menzionata negli elenchi delle presenze delle religiose e del personale, nei quali oltre alle monache e le novizie sono registrate le terziarie e le serventi: si tratta di «Catherina di messer Palla Strozzi», annotata nell’elenco delle monache del 28 maggio 1444 e parimenti menzionata nell’elenco del 1452, ad oggi inedito6. Tuttavia è nell’elenco delle presenze datato 1438, che si rivela il patronimico completo del padre della Strozzi. Vi si legge: «Chaterina di messer Palla di messer Palla Strozzi». Tale nomina risulta preziosa poiché elimina ogni dubbio sull’identità del committente Palla Strozzi, in quanto ben tre individui riconducibili al nome sono annoverati nel Catasto del 1427 e in quello del 1451: il suddetto Palla di Palla, Palla di Francesco e il celebre Palla di Nofri7.

Palla di Palla Strozzi. Profilo biografico del committente

Sebbene Palla di Palla Strozzi abbia ricoperto incarichi rilevanti per la politica di Firenze, essendosi recato spesso negli stati d’Italia come oratore e ambasciatore per tutto il primo quarto del Quattrocento, le notizie a riguardo, pur essendo numerose, risultano frammentarie e disperse. La difficoltà nella ricostruzione del profilo biografico del committente non è stata determinata dal reperimento del materiale documentario, quanto dall’attendibilità delle due fonti principali, che tramandano informazioni e testimonianze non attestate altrove negli atti d’archivio. In ordine cronologico il primo lacerto biografico riguardante Palla di Palla Strozzi è quello cinquecentesco contenuto nella rassegna degli uomini illustri della famiglia Strozzi scritto da Lorenzo di Filippo Strozzi, oggi conservato nelle Carte Strozziane presso l’Archivio di Stato fiorentino ed edito nel 18928. Edito nel 1830 è invece lo stralcio biografico che Pompeo Litta dedica all’ambasciatore fiorentino nella disamina e ricostruzione genealogica dei rami delle famiglie italiane nella ben nota ed enciclopedica opera delle Famiglie celebri italiane9.

In assenza di un profilo biografico complessivo, ricco e ragguardevole, l’unico materiale omogeneo sul ruolo politico dello Strozzi ad oggi edito è la trascrizione delle missive da lui inviate dalla Savoia tra il 1426 e il 1431 ad alcuni esponenti della politica fiorentina, come ai Dieci di Balia e a Giuliano Davanzati, in uno studio di Clemente Lupi del 186310. Oltre a questo, il contributo di Francesco Cognasso chiarisce il suo ruolo nelle dinamiche politiche e diplomatiche degli stati italiani, in particolare riguardo ai territori della Savoia e del Monferrato al 1431, dove lo Strozzi era ambasciatore per conto della lega italica insieme al veneziano Niccolò Contarini presso Amedeo VIII, duca di Savoia, per convincerlo ad aderire al progetto anti-visconteo11. Tuttavia è ben altra ambasceria ad oggi mai esaminata a consacrare Palla di Palla come uno degli uomini più importanti di Firenze: quella nei primi anni Venti nel regno di Napoli, governato dalla regina Giovanna II d’Angiò, ma conteso tra Luigi III d’Angiò – la cui nomina ad erede del regno di Giovanna era stata posta come clausola da Martino V nella bolla di investitura della regina nel 1418 – e Alfonso d’Aragona, adottato nel 1420 da Giovanna poiché unico sovrano in grado di arrestare l’avanzata del fronte angioino-papale12. Palla è incaricato dalla Signoria fiorentina di essere garante dei rapporti con lo stato di Napoli, specificamente con la casata Aragonese, un rapporto ad oggi poco studiato nelle sue implicazioni storiche e anche storico-artistiche: nel marzo 1420 Palla si trova ambasciatore presso la regina Giovanna d’Angiò13, incoronata appena quattro mesi prima, solo dopo aver adempiuto alle condizioni poste da Martino V nella bolla di investitura del 28 novembre 1418. Tre anni dopo, nel 1423, Palla è di  nuovo in viaggio, prima a Roma presso papa Martino V per informarlo dell’occupazione dei territori di Forlì da parte del Duca di Milano, poi, come ordinato dalla Signoria fiorentina, dopo una breve sosta a Capua, arriva a Napoli dove è nominato cavaliere «per le mani de re di Raona» nel 142314. Di certo la nomina a cavaliere avviene nella prima metà dell’anno, se si considera che il 1 luglio 1423 Giovanna revoca l’atto di adozione di Alfonso, che salpa per la Spagna nel mese di ottobre mentre la predilezione della regina passa a Luigi d’Angiò15. É significativo che anche dopo la fuga del re Alfonso, Palla rimanga garante del rapporto tra la Signoria e la casata aragonese: infatti è nominato dalla Signoria commissario generale presso l’esercito del re d’Aragona il 28 aprile 142516. Nello stesso anno tuttavia è registrato il fallimento del suo banco a Firenze tra novembre e dicembre17.

Solo a seguito della già menzionata spedizione nel Monferrato tra il 1426 e il 1431, Palla torna a stabilirsi a Firenze, dove rimane fino alla morte18. Dal Catasto del 1427 si rileva che l’ambasciatore ha residenza nel quartiere di Santa Croce, ed ha a carico 7 bocche: la moglie, affettuosamente detta «Papina» o «Pippa» in alcuni ricordi scritti da Palla medesimo, Filippa di Giovanni di Cristofano Petriboni, madre del primogenito Pazzino, di 25 anni al 1427, Simone di 23 anni, poi Agnolo vent’enne, Carlo di 16, Francesco di 7 e infine Caterina, futura monaca in Sant’Apollonia, di appena 6 anni19. Pur non essendo facoltoso come il cugino Palla di Nofri20, possiede un discreto numero di proprietà a Firenze: appezamenti terreni21, immobili, una casa adiacente alla bottega del pittore Giuliano d’Arrigo detto Pesello, come lo stesso pittore denuncia in un atto catastale del medesimo anno22.

L’ultima testimonianza della sua attività a Firenze risale al 23 giugno 1434, quando è stendardiere del corteo che accompagna l’entrata di Eugenio IV a Firenze da porta san Frediano alla chiesa di Santa Maria Novella23. Anche i suoi figli partecipano all’organizzazione dell’evento: Agnolo fa parte della commissione che si occupa dei festeggiamenti, mentre Pazzino è Priore, in carica fino al 1 luglio 1434. A Firenze rimane stabilmente fino alla morte: il 14 aprile 1455, all’età di 84 anni si spegne accanto ai propri figli nell’abitazione famigliare come ricorda il figlio Agnolo nel suo Quadernuccio di Ricordi24.

Si rileva che il dossale per la figlia Caterina non è l’unica committenza della famiglia di Palla Strozzi, legata a due committenze architettoniche: Palazzo Strozzi e la cappella maggiore di Santa Maria degli Ughi. Palazzo Strozzi detto Strozzino, eretto dal 1460 su una zona acquistata con strategica meditazione e con mirate acquisizioni degli immobili e dei terreni adiacenti al palazzo dal 1435 fino al 144525.  Agnolo è capitano di Todi nel 1436 e nel 1438 capitano di Ascoli Piceno sposato con Maddalena, detta Lena, di Giovanni Guicciardini, è un uomo raffinato, almeno così appare dall’elenco delle vesti che menziona nel suo Libro di Ricordi26: «un elmetto fornito d’ariento con l’arme», «uno stendardo di taffetà di grana fornito con un liocorno per cimiere in un prato e pieno di fiori», «Un cappello di cremisi di perle ricamato di diamanti», «uno stendardo bianco di taffeta con una dama a’ fioralisi»27. Sebbene non sia esplicitato negli atti e nei ricordi conservati nell’archivio fiorentino, la committenza dello Strozzino è da considerare un’iniziativa di Palla di Palla, che al 1435 risiede a Firenze e a quasi cinquant’anni si adopra per realizzare il progetto di un palazzo famigliare, grandioso, benché il soprannome di “Strozzino” – per distinguerlo dal palazzo Strozzi di Filippo eretto dal 1489 – abbia tramandato un’aspirazione famigliare come smorzata, ma non veritiera, in quanto il palazzo di Palla nella seconda metà del Quattrocento risulta essere la residenza famigliare di proporzioni più ingenti della città28.

Si nota inoltre una seconda committenza rilevante ancora per volontà di Agnolo, e ad oggi passata inosservata: quella della cappella maggiore di Santa Maria degli Ughi, all’angolo tra piazza Strozzi e via degli Anselmi, distrutta nelgli anni Novanta dell’Ottocento per l’ampliamento di via degli Anselmi e di cui oggi non rimane altro che una targa che ne ricorda la locazione. Alla morte di Agnolo la moglie Lena ordina l’inizio dei lavori nella cappella «magistrale» e nel marzo 1481 commette ad «Amerigo legnaiuolo» le spalliere e «le panchette che sono interno alla cappella»29. La committenza è confermata dal Richa, che testimonia il possesso della cappella maggiore agli Strozzi e ricorda sull’altare una tavola di Neri di Bicci con la Madonna della Cintola e Santi, all’epoca del Richa coperta da una tela di Andrea del Sarto. Il Richa afferma pure di aver visto sul pavimento ai piedi dell’altare la lastra sepolcrale proprio di Agnolo Strozzi oltre ad un altro sepolcro Strozzi in mezzo alla Chiesa30.

Nel trattare della committenza del dossale inoltre non è da sottovalutare la vicinanza con il cugino Palla di Nofri Strozzi: infatti è proprio in una delle proprietà di Palla di Palla che Gentile da Fabriano risiede dall’agosto 1420 al 1422, al tempo dell’esecuzione dell’Adorazione dei Magi per la sagrestia di Santa Trinita31, ed è nel medesimo lasso di tempo che Palla di Nofri richiede alcune committenze ai magistri intagli legnaminis ancora per Santa Trinita, sotto la supervisione di Lorenzo Ghiberti32.

Analisi del dossale intarsiato. Datazione e motivazioni della commissione

Dall’esame dei dati estrapolati dagli atti d’archivio è possibile dedurre alcune informazioni più dettagliate sul profilo stesso di Caterina e di ricavare la datazione del dossale, legato certamente alla presenza della Strozzi nel monastero. Il primo dato certo è che nel 1427 Caterina si trova ancora sotto le dipendenze del padre ed ha sei anni, ma undici anni dopo nel 1438 Caterina ha già professato i voti finali poiché il suo nome appare nell’elenco delle monache, non tra le novizie elencate in una colonna a parte del registro33. Si deduce quindi che l’entrata della giovane nel monastero sia avvenuta con ogni probabilità nella prima metà degli anni Trenta, quando aveva tra i dieci e i quindici anni: negli stessi anni dunque in cui Palla di Palla è tornato a Firenze dall’ambasceria nel Monferrato, Pazzino viene eletto senatore di Roma e Agnolo e Carlo iniziano l’impresa di acquisizione della zona nella quale concretizzare il progetto del palazzo famigliare. È dunque il periodo in cui i figli di Palla tentano un’azione di ascesa sociale, politica nel caso di Pazzino e sociale e simbolica nel caso della committenza della Strozzino. Anche il dossale intarsiato è da ricondurre dunque a tale clima, e specificamente è legato all’occasione della monacazione di Caterina di Palla Strozzi tra il 1435 circa e il 143834, arco temporale a cui è riferibile la committenza del dossale stesso.

Riguardo al motto intagliato sullo schienale «lealtà», non è stato possibile ricondurlo ad una volontà, ad un’intenzione politica o sociale sciogliendone il significato in un’interpretazione attendibile, né è possibile fare un confronto con le altre committenze della famiglia Strozzi: come ho già accennato, quella sullo schienale è infatti l’unica attestazione. A riguardo sono da considerare quei fenomeni di appropriazione di parte o della totalità del motto o dell’arme. Era consueta ad esempio la pratica di assimilazione del motto o dell’arme del sovrano da parte dei cavalieri, che lo aggiungevano al proprio o ne acquisivano il motto per intero.Un paradigmatico esempio studiato da Roger Jones è l’adozione da parte di Palla di Nofri Strozzi e degli altri tre ambasciatori fiorentini appartenenti alle famiglie Acciaiuoli, Ridolfi e Castellani, delle corone di martire e del motto «le bel et le bon» nelle imprese personali in virtù della nomina cavalleresca il 18 gennaio 1416 da parte dei sovrani di Napoli, Giovanna II d’Angiò e Giacomo II di Borbone conte della Marche, re di Napoli nel biennio 1415-141635. Lo stemma personale di Palla di Nofri dunque esibisce ancora le tre crescenti ma in virtù della nomina a cavaliere viene ad essere personalizzato «da uno scudino che inquarta gli stemmi del re e della regina di Napoli e da due corone di martire»36. Tale stemma ricorre nel tondo sopra l’arco di entrata della sagrestia minore di Santa Trinita, nella seconda cappella e sulla facciata di via del Parione. È proprio dell’araldica «rappresentare uno status giuridico, storico, politico, religioso, o d’altro genere»37 e come tale dunque era pratica soggetta ad aggiunte, assimilazioni, variazioni, che rendano manifesta l’appartenenza politica o religiosa e i traguardi sociali raggiunti38.

In conclusione, sebbene si possieda un’eccezionale quantità di materiale e di testimonianze relative alla famiglia Strozzi, tra cui gli spogli di libri di ricordanze, gli appunti di lettere e le rendicontazioni di viaggi, nei quali emerge la volontà da parte di Palla di Palla di ancorarsi alla storia nel registrare puntualmente la carriera diplomatica e quella prettamente politica di Pazzino si nota comunque la mancanza della registrazione del dossale di Sant’Apollonia negli atti d’archivio. Suppongo tuttavia che tale mancanza sia dovuta alla natura della committenza stessa: il dossale proveniente dal coro della chiesa del complesso monastico godeva dell’esclusiva visibilità riservata per lo più alla comunità monastica. Proprio per tali spettatrici dunque il dossale è stato commesso: infatti la comunità monastica di Sant’Apollonia si distingueva nella città di Firenze per l’estrazione sociale delle monache, tutte di famiglia alto borghese39. È su questo piano quindi che va letta la committenza del dossale intarsiato, passato inosservato alla storia com’è passata inosservata la vita di Caterina Strozzi, ultima di una famiglia borghese che aveva tentato un’azione di ascesa sociale. Alla luce dello studio sulle committenze di Palla di Palla Strozzi proposto in questo contributo si può infine affermare che la committenza del dossale è caratterizzata dalla precisa funzione di distinguere Caterina nella comunità monastica, nel suo ambiente di riferimento, nel periodo di ascesa sociale della famiglia.

Abbreviazioni

ASF Archivio di Stato di Firenze

  1. Il dossale del monastero benedettino non è mai stato studiato, sebbene la trattazione dei caratteri e della fortuna dell’arte della tarsia di ambiente fiorentino nella seconda metà del Quattrocento sia cospicua ed esaustiva. È ormai ben nota l’affermazione di Benedetto Dei che nella sua Cronaca al 1472 contava a Firenze ben 84 botteghe di «lignaiolo di tarsia». Da questa osservazione è stato possibile supporre da parte di storici e storici dell’arte la straordinaria fortuna che specialmente dopo la metà del Quattrocento ha goduto l’arte dell’intaglio e dell’intarsio nella città. Per nominare alcuni dei maestri legnaminis fiorentini, si ricorda, oltre alla bottega dei Da Maiano, la straordinaria produzione di Antonio Manetti e Andrea di Lazzaro d’Arezzo, che realizzarono i rivestimenti lignei della sacrestia in Santa Maria del Fiore, rispettivamente della parete nord e di quella  sud, in collaborazione con Lo Scheggia, Bernardo di Tommaso di Ghigo, Francesco di Giovanni di Guccio Orlandini e Francesco del Lucchese, quest’ultimo impegnato anche nella sagrestia di San Zeno a Pistoia. Erano inoltre attivi a Firenze: Giovanni di Michele, autore dei banconi della sagrestia vecchia di San Lorenzo e quelli della sagrestia di Santa Croce, Domenico del Tasso, Manno de’ Cori, Francesco di Domenico detto Monciatto, Ventura Vitoni,  Francesco di Giovanni detto il Francione e la sua “scuola” di cui facevano parte: Francesco d’Angiolo detto La Cecca, Baccio e Piero Pontelli, Giuliano da Sangallo. Sulla produzione a Firenze rimando a: Forme del legno: intagli e tarsie fra gotico e Rinascimento, a cura di G. Donati-V. Genovese, Pisa, 2013; A. Cecchi, Maestri d’intaglio e di tarsia, in Arti fiorentine, la grande storia dell’artigianato: Il Quattrocento, Firenze 1999, pp. 215-249. Per una breve bibliografia dei contributi sulla prolifica bottega di Giuliano e Benedetto Da Maiano rimando a: Giuliano e la bottega dei da Maiano, a cura di D. Lamberini-M. Lotti-R. Lunardi, Firenze 1994; La bottega di Giuliano e Benedetto da Maiano nel Rinascimento fiorentino, a cura di M. G. Ciardi Dupré Dal Poggetto, Firenze 1994; M. Haines, La Sacrestia delle Messe del Duomo di Firenze, Firenze 1983. []
  2. Inventario Cenacoli, Museo di Sant’Apollonia, n. 185. []
  3. Il cassone Bruschi è stato ricondotto a Filippo Strozzi, committente dell’omonima cappella affrescata da Filippino Lippi in Santa Maria Novella. Il cassone faceva parte di una coppia di forzieri nuziali il cui pendant è perduto. Nello scompartimento centrale lo stemma Strozzi è racchiuso in una ghirlanda di alloro e di rose centifolie, mentre nei due scomparti laterali due falconi posati sui bronconi tengono tra gli artigli frammenti del motto: Sic et virtus expecto, «aspetto e così fa la virtù», che si riferirebbe al rientro dall’esilio di Filippo Strozzi. Sul cassone Bruschi si vedano: C. Paolini, Artista del XV secolo: Forziere nuziale con arme della famiglia Strozzi, in L’uomo del Rinascimento: Leon Battista Alberti e le arti a Firenze tra ragione e bellezza, catalogo della mostra Firenze, a cura di C. Acidini-G. Morolli, Firenze 2006, p. 90; A. Bruschi, Il contributo dell’araldica e de antichi forzieri nuziali, in Virtù d’amore: Pittura nuziale nel Quattrocento fiorentino, catalogo della mostra, a cura di C. Paolini-D. Parenti-L. Sebregondi, Firenze 2010, pp. 89-95; Doni d’amore: donne e rituali nel Rinascimento, a cura di P. Lurati, Cinisello Balsamo 2014, p. 126. []
  4. Sull’arme Strozzi si vedano: G. B. Di Crollalanza, Dizionario storico-blasonico delle famiglie nobili e notabili italiane estinte e fiorenti, Pisa 1886; P. Guelfi-Camajani, Vocabolario araldico ad uso degli italiani, Bologna 1897; IDEM, Dizionario araldico, Milano 1992; C. Padiglione, I motti delle famiglie italiane, Bologna 1972. [↩</