Gaia Salvatori

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Le arti applicate a Napoli dal Museo Artistico Industriale (1882) alla Mostra d’Oltremare (1940): tracce per una lettura integrata delle arti contemporanee

DOI: 10.7431/RIV07142013

Immaginando orizzonti storiografici di ricerca e didattica orientati ad una rinnovata lettura integrata fra le arti, con il presente contributo si propongono alcune tracce di una storia che ha attraversato, per certi versi superandola, la sofferta dicotomia ottocentesca tra “decorazione” e “industria”1.

Le vicende che riguardano le arti decorative in rapporto alle ‘belle arti’, così come si sono svolte a Napoli dagli anni ’70 dell’ ‘800 fino agli Trenta-Quaranta del ‘900, sono da ritenere fra le più emblematiche nella dialettica arte/industria per la trasformazione del ruolo, prima prettamente ‘pedagogico’ poi sempre più ‘propagandistico’, assunto dalle arti applicate e decorative nello sviluppo culturale ed economico in Italia.

In un contesto nazionale volto al recupero della fiducia nel ruolo dell’arte, insieme all’industria, per il progresso e la rinascita civile, il pittore e critico pugliese Francesco Netti nel 1885 – riconsiderando lo spazio avuto dalle arti decorative nelle epoche della storia – scriveva che «l’epiteto decorativo […] è dovuto, almeno indirettamente, a quelli stessi che inventarono il classicismo, e crearono le Accademie. Colla loro distinzione di pittura d’ordine superiore e pittura o scultura d’ordine inferiore, essi non solo fondarono una gerarchia, ma distrassero molti ingegni da certi studi speciali, creduti indegni dell’alta Arte, e quindi abbandonati a menti incapaci. Così si corruppe il gusto nelle Arti dette industriali. Ora per noi è chiaro che […] l’importanza in arte non sta nella cosa che si tratta, ma nel modo onde la cosa si tratta. Perciò è molto difficile applicare alcune denominazioni. Noi le accettiamo perché sono un mezzo per intendersi, ma chi può dire per esempio dove l’arte decorativa comincia e dove finisce? […] Che cosa è compresa nell’arte ornamentale? Tutto. Dove finisce l’Arte e comincia l’industria? Chi lo sa!»2.

Netti guardava, in anni centrali per la rinascita delle arti decorative in Italia, all’arte e alla formazione artistica come ad un bacino di ricchezza se sfruttato, fuori dai vincoli dell’educazione accademico-classicistica, proprio nelle diverse «specialità»  di cui è capace3, servendosi della storia per ribadire la «necessità» oltre che l’«utilità» dell’arte in tutte le sue forme sin dai tempi più remoti4.

Di «specialità» di ciascuna branca dell’arte Netti aveva cominciato a parlare sin dal 1871, dai banchi cioè del VII Congresso Pedagogico di Napoli, proponendo una riforma dell’insegnamento (dai corsi primari, alle scuole tecniche, all’Accademia) che unisse a livello nazionale le forze degli ingegni artistici nel «progresso delle arti industriali» in un progetto articolato ma coerente di «raccolta di modelli speciali» che sappia prendere esempio dal Museo Kensington di Londra nato nel 1857 «precisamente da un voto simile a quello che ora facciamo per Napoli»5.

Argomentazioni analoghe si ritroveranno, poi, negli appelli di Camillo Boito e di Demetrio Salazaro al III Congresso artistico tenutosi a Napoli nel 1877 a margine dell’Esposizione Nazionale di Belle Arti. Questi, guardando ancora all’Inghilterra come la nazione più sensibile al problema della «necessità delle scuole», riconobbero una specificità d’insegnamento per «quelli che vogliono applicare l’arte all’industria e alla decorazione»6, ma all’interno di una concezione unitaria dell’arte, dove le arti decorative, oltre ad essere riunite in una «retrospettiva dell’arte industriale napoletana da ben pochi conosciuta»7, venivano persino a costituire una sorta di trait d’union tra la sezione antica e quella moderna e fra i settori della mostra significativamente suddivisa in «Pittura, compresa quella decorativa», «Scultura, compresa la ornamentale», «Architettura in disegno o in rilievo […] o architettura decorativa», «Incisione in qualunque genere» e «Disegni in qualunque genere»8, in sintonia, evidentemente, con la proposta – nello stesso contesto avanzata – di trasformare le Accademie in Istituti artistici concepiti anche come « scuole di applicazione con musei industriali da cui si possano vantaggiare i commerci, l’arte e l’industria »9.

La strada era insomma tracciata, sulla scia evidentemente delle già varate esperienze torinese (1865) e romana (1874), per la costituzione del Museo Artistico Industriale di Napoli sostenuta da alcuni intellettuali chiamati a raccolta dal Ministro della Pubblica Istruzione Francesco de Sanctis nell’anelito al rinnovamento, anche per il Meridione d’Italia, dell’industria artistica per una società moderna10.

Insieme, fra gli altri, all’Ispettore del Museo Nazionale, Demetrio Salazaro, e ai pittori Filippo Palizzi e Domenico Morelli, il principe collezionista Filangieri, in qualità di presidente dell’istituendo museo, elaborò uno statuto in cui, annettendo «scuole-officine» al Museo Artistico industriale , stabilì di fatto il principio che l’insegnamento dovesse essere duplice, cioè «artistico e tecnico»11, supportato da una raccolta di modelli d’arte applicata antica e moderna.

Le vicende che caratterizzarono dunque la vita del Museo Artistico Industriale e delle sue scuole-officine almeno per il suo primo decennio di vita, dopo la costituzione nel 1882, avrebbero ruotato proprio intorno a quel principio filangeriano. Il MAI (Museo Artistico Industriale) costituì in sostanza l’incarnazione del progetto di Filangieri che, di fatto, fu proseguito da Giovanni Tesorone, direttore dell’Officina di ceramica, una volta che, dopo la morte del Filangieri (1892), conquistò un ruolo rilevante per lo sviluppo delle industrie artistiche meridionali12. La figura di Tesorone si polarizzò subito, però, in polemica con Palizzi e gli artisti sostenitori della centralità dell’aspetto più prettamente pittorico e decorativo delle arti applicate13.

‘Decorazione’ e ‘industria’ in cui potevano applicarsi le arti, si allontanarono, in quegli anni Novanta – in seguito al nuovo statuto del Museo –  con la separazione ufficiale delle Scuole dalle Officine, con due rispettive direzioni: una vera e propria «negazione del Museo» – come commentarono a caldo Palizzi e Morelli – «qual’è stato finora e quale solo crediamo possa esistere»14. Tesorone, però, in carica come direttore di tutte le Officine del MAI fino al 1902, seppe di fatto interpretare, forse più di quanto Palizzi e Morelli potessero intendere, il dettato filangeriano dell’operosità delle Officine artistiche proprio incrementandole in rapporto con il mondo della produzione per andare incontro alle «esigenze della vita pratica»15.

Questi sono gli anni in cui, significativamente, Tesorone collabora assiduamente alla rivista di Boito «Arte Italiana Decorativa e Industriale», promuove la costituzione a Napoli del Comitato per l’Arte Pubblica16, fa parte della Commissione reale (insieme a Boito) per la selezione dei partecipanti all’Esposizione Universale di Parigi del 1900, «tiene a battesimo» una fabbrica di ceramica esterna al Museo ma in stretto rapporto con la scuola, che, tanto più in tempi capricciosi per le arti decorative, era ritenuta «mezzo di propaganda e arma di conquista»17.

Il futuro delle arti utili viene visto dunque, ancora a cavallo fra i due secoli, nell’applicazione pratica delle arti nella vita quotidiana, nell’istituzione scolastica, nella formazione e nella ricerca, anche con l’ausilio dei modelli della storia. Come fu per il Padiglione della Campania, Calabria e Basilicata all’Esposizione di Roma del 1911, ideato da Tesorone: un’impresa decorativa per la quale lavorarono molti giovani che in quegli anni si stavano facendo conoscere in mostre autogestite e dallo spirito ‘secessionistico’, come le ‘mostre giovanili’ organizzate a Napoli dal 1909 al 1913, che, coinvolgendo tutte le arti, comprese l’architettura, le arti plastiche, decorative e applicate, erano ispirate per lo più al criterio della progettazione globale secondo i dettami modernisti18. Si trattava di maestri e allievi insieme, artisti e architetti, accomunati peraltro da una formazione per molti versi comune. Va considerato, infatti, che anche la formazione degli architetti, ancora nel primo e secondo decennio del ‘900, oscillava tra Accademia e Scuola di applicazione per Ingegneri, dunque fra curricula formativi fondati sugli aspetti artistici, con impegni decorativi – coltivati nelle aule dell’Accademia – e corsi dalle caratteristiche prettamente tecnico-scientifiche. Troviamo così, a Napoli, impegnati più come docenti che nei cantieri pubblici, personalità artistiche di rilievo internazionale come l’udinese Raimondo D’Aronco o il siciliano Leonardo Paterna Baldizzi, maestri del Liberty che, sollecitati dall’«anelito all’opera d’arte totale», riservavano particolare attenzione, nei loro programmi di studio, proprio alla «Decorazione pittorica applicata»19. Dalle aule di scuola questa poteva trasferirsi a qualche decoro di interni (seguendo il programma del direttore Lionello Balestrieri del nuovo Real Istituto Artistico Industriale – ex MAI – che privilegiava gli oggetti «semplici, utili, d’uso comune»20), anche se, tra anni Dieci e Venti, più che nella casa e i suoi arredi, nuovi fermenti delle arti applicate erano nei canali della pubblicità e della stampa con una seria e impegnata partecipazione degli artisti napoletani all’illustrazione grafica e al manifesto pubblicitario ben oltre i confini regionali, proprio mentre ci si serviva di rivendicazioni di tipo regionalistico per conquistare qualche spazio ai grandi appuntamenti espositivi internazionali come la Mostra d’Arte Decorativa di Monza del 192521 . Rivendicare le risorse del localismo diventò, dunque, negli anni Venti e Trenta, un modo per difendere storia e tradizioni, anche e proprio per le arti decorative, dichiaratamente ‘popolari’, che richiamavano in causa l’artigianato, la sapienza di mestiere tramandata di generazione in generazione, che si cominciò a propagandare come valenza indispensabile allo sviluppo, risorsa economica e culturale 22.

All’interno ormai di un nuovo connubio arte/industria, fondato sui saperi di mestiere opportunamente aggiornati sul piano del linguaggio figurativo, si mossero, dunque, in quel periodo, sia esperienze napoletane, come la Bottega di decorazione di Cocchia e Parisio che salernitane, come le interessanti e numerose ‘fabbriche’ di ceramica a Vietri23.

Nell’uno come nell’altro caso risorgeva il marchio della personalità dell’’artefice’ pur all’interno di un nucleo produttivo che spostava il terreno della formazione e della produzione nell’ambito delle ‘botteghe d’arte’ come laboratori, di antica origine, ma ancora culle di innovazione e sviluppo. Con le ‘botteghe d’arte’ si poteva contribuire a sviluppare ed esaltare il lavoro artistico, interessato a competere, nella logica corporativa, per la conquista di un ruolo attivo nella società. Così il fotografo Giulio Parisio e l’architetto-pittore Carlo Cocchia costituirono nel 1928 una Bottega di Decorazione nel genere della Casa d’arte futurista in cui si produceva e si esponeva arte decorativa insieme a pittura e scultura, in un’amalgama vitale di contaminazione fra le arti24.

Caratterizzate da un diverso spirito imprenditoriale furono invece, in quegli stessi anni, le fabbriche vietresi che, su un’antica tradizione artigiana locale, conobbero un periodo di rigoglio fino a definire un vero e proprio ‘stile vietrese’. Dalla metà degli anni Venti l’antica tradizione della lavorazione ceramica nel salernitano si avviò a vivere una stagione felice anche in seguito all’innesto su di essa di un filone di cultura mitteleuropea che ne rinnovò nel profondo il repertorio decorativo. Il tentativo di rinascita qualificata dell’artigianato che in questo periodo fu intrapreso si giovò della cultura di cui gli artisti, soprattutto tedeschi, approdati a Vietri erano portatori (rivalutazione delle arti applicate, riscoperta dell’arte popolare e primitiva, lezione espressionista) ma sembrò fare anche propri i suggerimenti emersi dalle prime mostre di arti decorative di Monza. Interprete principale di questo connubio fu l’imprenditore Max Melamerson che fondò tra il 1926 e il ’27 un proprio marchio, l’ICS (Industria Ceramica Salernitana) per il quale volle come direttore artistico il pittore già a Vietri, Richard Dölker.

Molti studi recenti hanno rilevato la ricchezza e lo spessore culturale del repertorio decorativo propri di questa produzione in bilico tra ceramica d’autore e delineazione di uno stile ‘riproducibile’25 : un accordo difficile, però, visto che proprio quando il ‘gergo vietrese’ si avviava ad un livello di qualificata diffusione – attraverso, per esempio, l’attenzione riservatagli da Gio Ponti sulle pagine di «Domus» – Dölker scioglieva l’accordo con l’ICS per rivendicare la paternità creativa dei suoi propri pezzi ceramici26. Nella ceramica vietrese degli anni Trenta stava prevalendo, evidentemente, la formula – incoraggiata dalle Triennali – del cosiddetto ‘protodesign’ e dell’arte applicata all’architettura, dove se alle arti decorative veniva riconosciuto un nuovo ruolo progettuale, alla sola architettura spettava il dominio dell’‘unità delle arti’ in sintonia con le ragioni dell’industria come della vigente logica corporativa27.

Per trovare qualche traccia di questa storia bisogna rivolgersi a quel che è sopravvissuto dell’architettura del tempo, oltre naturalmente ai musei, come lo stesso Museo Artistico Industriale di Napoli che tentò, negli anni Trenta, di aggiornare le sue collezioni con esemplari delle principali manifatture italiane28, o ancor più il Museo della ceramica di Raito, dal 1981 aperto a conservare la  storica ceramica vietrese29.

Di quei vivaci artisti decorativi, insieme ai principali architetti chiamati a insegnare a Napoli alla nuova Scuola Superiore di Architettura (dal 1930), poi Facoltà, si avvalse, sul finire degli anni Trenta, il complesso architettonico monumentale della Mostra d’Oltremare, sede nel 1940 della Prima mostra Triennale delle terre italiane d’Oltremare, ultima della serie delle mostre coloniali. Esso finì, in sostanza, per veder convogliate al suo interno le diverse energie e competenze che, negli anni Trenta erano maturate proprio nell’alveo delle contraddizioni della formazione artistica fra modello laboratoriale artistico e artigiano e modello tecnicistico e ingegneristico, convissute in vari modi nei corsi dell’Accademia di Belle Arti fino all’istituzione nel 1935 della Facoltà di Architettura.

Per l’importante scadenza del 1940 fu articolato un impegnativo programma decorativo per il quale architetti, artisti e artigiani di tutti i settori, costruirono padiglioni coperti, teatri, verde attrezzato con fontane e servizi di svago e di ristoro. Lavorarono dunque, in un grande cantiere all’insegna dell’unità delle arti, architetti come Calza Bini, Piccinato, Cocchia, insieme ad artisti come Prampolini, Barillà, Brancaccio, Notte, Ricci, solo per citare alcuni singoli protagonisti di quest’immensa impresa, in cui un ruolo significativo – di recente finalmente riconosciuto30 – ebbero molti decoratori: dalle scuole di mestiere (come la Scuola d’Arte per la Tarsìa e l’Ebanisteria di Sorrento) alle industrie vietresi (come la MACS di Melamerson per il Caffè Arabo) fino anche alle piccole ma fertili botteghe artigiane (come la Ceramica di Posillipo) più libere nello stile e nelle iconografie rispetto alla retorica della plastica monumentale dominante.  Accettando volumi e superfici, questi artisti lavorarono ad ‘incastrare’ nell’architettura stucchi e piastrelle in funzione dell’insieme finendo per coronare il destino ‘decorativo’  delle arti d’applicazione.  Prese forma, in definitiva, un’idea di architettura dibattuta a livello nazionale anche e proprio relativamente alle prospettive formative dell’architetto31. La Mostra finì per essere, così, nello specifico, una sorta di emanazione delle proposte del romano Alberto Calza Bini (Segretario nazionale del Sindacato fascista architetti) incentrate sull’idea dell’«architetto integrale» capace cioè di un’indispensabile combinazione di arte e scienza che permettesse però una nuova riscoperta del senso stesso dell’architettura e di tutto quanto potesse rendere l’architetto ‘altro’ sia rispetto al decoratore che all’ingegnere32. Calza Bini aveva definito l’architettura «l’arte di edificare», ovvero «un’attività spirituale che si serve però della scienza per tradursi in opere»33. In tal senso il ruolo della scuola, ritenuto  oramai secondario rispetto alla creatività artistica, doveva essere solo ed esclusivamente quello di insegnare all’artista l’uso dello strumento di cui deve servirsi, di perfezionarlo nella sua tecnica34. Ciononostante la Mostra d’Oltremare  si trasformò in una sorta di immenso cantiere-scuola  in cui si riversarono i talenti dei giovani architetti-artisti, così come i saperi tecnico-artigianali delle ‘botteghe’ d’arte, quali furono in effetti le stesse ‘fabbriche’ vietresi: un grande laboratorio dove – sulla scorta della tradizione che si è cercato per grandi linee di delineare – fu dato ampio spazio alla riposta vocazione applicativa delle arti in un virtuoso intreccio fra decorazione e industria. Una vocazione che si è rivelata in Campania, nell’arco di tempo analizzato, strumento vitale di cultura e comunicazione, tra museo e territorio, pedagogia e propaganda, strettamente connesso alle vicende delle altre arti e alle dinamiche della storia politico-istituzionale, ma anche, soprattutto, una cerniera metodologica per un’analisi globale e integrata delle arti utile anche come una prospettiva possibile della storia dell’arte contemporanea.

  1. Sul piano storiografico i numerosi contributi dati alle stampe nell’ultimo decennio fanno rilevare un crescente interesse nel ripensare a un settore di studi lungi dall’essere esaurito e propulsore di dibattiti teorici ancora aperti. Penso, per ciò che riguarda l’impatto dei musei di arti decorative sulla storia dell’arte, al saggio di M. Conforti, Les musées des arts appliqués et l’histoire de l’art, in Histoire de l’histoire de l’art, XVIIIe et XIXe siècles, t. II, Paris 1997, pp. 329-347 e ancora, per una rilettura di momenti di storia dell’architettura italiana fra Ottocento e Novecento, ad Architettura e arti applicate fra teoria e progetto. La storia, gli stili, il quotidiano 1850 – 1914, a cura di F. Mangone, Napoli 2005 nonché, per uno sguardo privilegiato alla situazione napoletana in prospettiva storico-artistica, ad A. Di Benedetto, Artisti della decorazione. Pittura e scultura dell’eclettismo nei palazzi napoletani fin de siècle, Napoli 2006. Segnalo, infine, l’iniziativa (non però decollata) di proporre, con una pubblicazione corredata di CD-Rom, Il sistema museale regionale del design e delle arti applicate. Un progetto per lo sviluppo locale in Campania, a cura di C. Gambardella, Firenze 2005. []
  2. F. Netti, Per l’arte italiana, Trani 1885, pp. 70 -71. []
  3. Parlando, in riferimento all’insegnamento artistico, del “frazionamento” dell’arte che può essere convertita in  “ornato”, come in “industrie”, Netti scrive che «lo scopo di una scuola governativa, seriamente fondata, sarebbe giustamente quello di rispettare i limiti di queste specialità, ma d’insegnarle come uno dei rami dell’arte vera, non mai come un’arte inferiore» (Netti, Per l’arte …,1885, pp.70-71). []
  4. Idem, p. 29. []
  5. Idem, p. 86. []
  6. Relazione ed Atti del III Congresso Artistico e dell’Esposizione Nazionale di Belle Arti in Napoli 1877, Napoli 1880, p. 40. Su questi temi ho avuto modo di soffermarmi più diffusamente in: G. Salvatori, L’Esposizione Nazionale di Belle Arti a Napoli nel 1877: echi di critica nella stampa periodica intorno alle arti applicate, in, Gioacchino Di Marzo e la critica d’arte nell’Ottocento in Italia, a cura di S. La Barbera, Palermo 2004, pp. 142-156. []
  7. G. Filangieri, Il Museo Artistico Industriale e le Scuole officine in Napoli, Relazione a S.E. il Ministro della Pubblica Istruzione, Napoli 1881, pp. 5-6. []
  8. Regolamento per la Esposizione Nazionale di belle Arti in Napoli (21 settembre, 1874), in Filangieri, Il Museo Artistico Industriale …,1881, p. 3. []
  9. Relazione ed Atti del III Congresso…, 1880, pp. 41-42. []
  10. D. Salazaro, Sulla necessità d’istituire in Italia dei Musei industriali artistici con le scuole di applicazione, Napoli 1878 e Filangieri, Il Museo Artistico Industriale …,1881. De Sanctis indirizzò l’ansia di rinnovamento verso l’apertura alla sperimentazione, nel Meridione, di nuove “idee artistico-industriali”, con la nomina di una commissione (con decreto del 25 novembre 1878) per l’istituzione di un museo artistico-industriale da affiancare al Real Istituto di Belle Arti, come riportato nella relazione del 1878 di Filangieri al Ministro. Sulla storia della fondazione del Museo, si vedano principalmente: E. Alamaro, Il sogno del Principe. Il Museo Artistico-Industriale di Napoli: la ceramica tra Ottocento e Novecento, Firenze 1984 e di N. Barrella, Il Museo Filangieri, Napoli 1988 nonché La forma delle idee. Fermenti europei e memoria familiare nel Museo Filangieri di Napoli, Napoli 2010. []
  11. G. Filangieri, Il Museo Artistico Industriale …,1881, p. 113. []
  12. G. Salvatori, Il “Museo –Scuola-Officina” nel dibattito tra arte e industria nelle testimonianze di Giovanni Tesorone ed Enrico Taverna (1877-1912), in L’arte nella storia. Contributi di critica e storia dell’arte per Gianni Carlo Sciolla, a cura di V. Terraroli, F. Varallo e L. De Fanti, Milano 2000, pp. 95-112. []
  13. E. Alamaro, Note introduttive alla ‘querelle’ Palizzi-Tesorone, in “Faenza”, a. LXX, fasc. I-II, 1984 e A. Di Benedetto, Artisti della decorazione…, 2006, pp. 63-65. Sulla prospettiva prevalentemente ‘artistica’ tenuta da Palizzi nei confronti delle arti applicate, si veda anche: M. Picone Petrusa, Filippo Palizzi e le arti applicate, in “’800 italiano”, a.I, n.5, 1992, pp. 23-33. []
  14. Considerazioni sopra alcune riforme proposte allo Statuto del Museo Artistico Industriale (26 aprile 1895): documento riportato in E. Alamaro, Il sogno del principe. Note introduttive alla ‘querelle’ Palizzi-Tesorone, estratto dalla rivista “Faenza”, a. LXXI, n. 1-3, parte terza, 1985, pp. 194-198. []
  15. C. Tropea, Il Museo Artistico Industriale e il Regio Istituto d’Arte di Napoli, Firenze 1941, p. 97. []
  16. Sul Comitato napoletano in relazione alla Società Italiana per l’Arte Pubblica (istituita a Firenze nel 1899): G.Salvatori, La Storia dell’arte alla prova della modernità. Ruolo e riverberi critici della Società e dei Comitati per l’Arte Pubblica in Italia dal 1898, in «Annali di Critica d’Arte», fasc.IX, 2013 (in corso di stampa) e Idem, Intorno alla rivista “L’Art Public”: convergenze internazionali fra ‘800 e 900, in Scritti in onore di Franco Bernabei, a cura di M. Nezzo e G. Tomasella, Treviso 2013 (in corso di stampa). []
  17. G. Tesorone, Le Scuole d’arte applicata all’industria nella Mostra didattica di Roma chiusa il dicembre 1907, in “Arte Italiana Decorativa e Industriale”, vol. XVII,  n. 7, luglio, 1908, p. 58. []
  18. Sulle mostre giovanili napoletane e i loro protagonisti, si veda In margine. Artisti napoletani fra tradizione e opposizione 1909-1923, catalogo della mostra, a cura di M. Picone Petrusa, Milano 1986 (in particolare pp. 13- 44). []
  19. Cfr. F. Mangone e R. Telese, Dall’Accademia alla Facoltà. L’insegnamento dell’architettura a Napoli 1802-1941, Benevento 2001, p. 55. []
  20. Uno stralcio del suo programma, firmato il 19 dicembre 1918, è riportato in: A. Caròla-Perrotti e C. Ruju, 1920-1950. Ceramiche del Museo Artistico Industriale di Napoli, Firenze 1985, p. 10. Lo stesso Balestrieri riespone, in uno scritto successivo, le sue riflessioni in merito all’impostazione da dare all’istituto: L. Balestrieri, La Verità sul Museo Artistico Industriale di Napoli, Napoli 1927, pp. 7-8. []
  21. La Commissione napoletana per la II Mostra d’arte decorativa a Monza, in “Cimento. Rivista illustrata di Belle Arti”, II, 12, 1924, p. 250. Per quanto riguarda la storia degli illustratori e dei grafici pubblicitari a Napoli, in contatto con editori e agenzie in ambito internazionale, si vedano: G. Salvatori, Appunti per una storia dell’illustrazione a Napoli tra Ottocento e Novecento, in In margine, 1986, pp. 171-178 (con affiancate schede critico-biografiche sui singoli protagonisti: Carlo Farneti, Francesco Galante, Vincenzo La Bella, Eduardo Macchia, Fortunino e Ugo Matania, Enrico Rossi,  Ennio Tomai e Pietro Scoppetta) ed inoltre M. Cuozzo, Illustrazione e grafica nella stampa periodica napoletana dalla bella époque al fascismo, Napoli 2005. []
  22. A. Macchia, Verso la rinascita dell’arte applicata, in “Tavola Rotonda e Cronaca Bizantina”, a.XXXV, n. 9-10, Napoli, 23 agosto 1925, pp. 35-36. L’articolo fa riferimento, in particolare, al clima internazionale mutato  in seguito all’ Esposizione di Parigi del 1925. []
  23. Per un quadro più ampio su questi temi specifici, rimando a  miei studi precedenti. In particolare: G. Salvatori, Nelle maglie della storia. Produzione artistico-industriale, illustrazione e fotografia a Napoli nel XX secolo, Napoli 2003, pp. 51-69  e Idem, Forme dell’utile e del superfluo: episodi di storia delle arti applicate in Campania dal 1920 al 1945, in Arte a Napoli dal 1920 al 1945. Gli anni difficili, catalogo della mostra a cura di M. Picone Petrusa, Napoli 2000, pp.77-83. []
  24. Un’analisi più dettagliata delle “fotografie decorative” del Parisio e delle decorazioni “di tendenza deperiana” del Cocchia ho avuto modo di svolgerla in G. Salvatori, Forme dell’utile e del superfluo…, 2000, p. 82 dove si rimanda a più riferimenti bibliografici, tra cui si segnalano il contributo di M. D’Ambrosio, Emilio Buccafusca e il Futurismo a Napoli negli anni Trenta, Napoli 1991 (in particolare p. 610) e quello di E. Godoli, Occasioni meridionali per l’architettura futurista, in Futurismo e Meridione, catalogo della mostra a cura di E. Crispolti, Napoli 1996 (in particolare p. 84). []
  25. Nell’ambito della vasta bibliografia sull’agomento si segnalano: La ceramica in Campania (I Quaderni), a cura di M. de Rubertis, M. Romito e F. D’Episcopo, Salerno 1996; La ceramica vietrese nel periodo ‘tedesco’, a cura di M. Romito, Salerno 1999; P. Amos, S. Zuliani, S. Currier, M. Hannasch, Riccardo Doelker. Soggiorno italiano, catalogo della mostra, Salerno 1996, nonchè G. Salvatori, Nelle maglie della storia…, 2003. Fra i contributi più recenti: La ceramica del Novecento a Napoli. Architettura e Decorazione, a cura di M.G. Gargiulo, atti del convegno (Palazzo reale di Napoli, 18 marzo 2011), Napoli 2011. []
  26. P. Viscusi, Lo stile Vietri tra Dölker e Gambone. Cronaca e storia della ceramica vietrese nel contesto nazionale e internazionale, Salerno 1996. []
  27. Sulle partecipazioni della ceramica vietrese alle diverse edizioni delle Triennali degli anni Trenta, mi sono precedentemente soffermata in: G. Salvatori, Nelle maglie della storia…, 2003 pp. 57- 60 e G. Salvatori, Forme dell’utile e del superfluo …, 2000, p. 82. []
  28. A. Caròla-Perrotti e C. Ruju, 1920-1950. Ceramiche del Museo…, 1985, p. 29. []
  29. Il Museo della Ceramica. Raito di Vietri sul mare,  a cura di M. Romito, Salerno 1994. []
  30. Un’importante ricerca, dedicata agli allestimenti e all’apparato decorativo del complesso Mostra d’Oltremare, è stata condotta nell’ambito del dottorato della SUN in Metodologie conoscitive per la conservazione e la valorizzazione dei beni culturali, XVII ciclo, da G. Arena: Percorsi di conoscenza, valorizzazione e fruizione nella Mostra d’Oltremare di Napoli, Tesi di Dottorato, Dipartimento di Studio delle Componenti culturali del territorio, Seconda Università degli Studi di Napoli, a.a. 2006-07 (tutor Gaia Salvatori). Per gli sviluppi più recenti di queste ricerche: G. Arena, Visioni d’Oltremare. Allestimenti e politica dell’immagine nelle esposizioni coloniali del XX secolo,  Napoli 2011 e G. Arena, Napoli 1940-1952, dalla prima mostra triennale delle terre italiane d’oltremare alla prima mostra triennale del lavoro italiano nel mondo, Napoli 2012. []
  31. F. Mangone e R. Telese Dall’Accademia alla Facoltà…., 2001, p. 77. []
  32. Idem, p. 79. []
  33. Idem, p. 90. []
  34. Idem, pp. 90 – 91 dove viene specificato quanto l’architetto sia  per Calza Bini innanzitutto un artista, alla stregua del pittore e dello scultore, e come tale non può essere formato dalla scuola: «come il poeta o il musicista anche l’architetto nasce tale per dono divino e le scuole non possono certo dare le ali a chi per struttura congenita ne sia privo» (dichiarazione estrapolata da: L’insegnamento artistico in Italia. Relazione al congresso artistico internazionale di Venezia, Venezia, 1932, dattiloscritto conservato presso l’Archivio Calza Bini, cart.4). []