Margherita Nebbia

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«Dal maestoso Medio Evo… al vivace Archiacuto»: la ripresa di modelli celebri ed esempi locali nelle arti decorative alle esposizioni nazionali

DOI: 10.7431/RIV07132013

Come stile storico, il Neomedievalismo traeva spunto dalle testimonianze artistiche ascrivibili al Medioevo, o quantomeno all’estensione cronologica che si associava nell’Ottocento a tale epoca. Ciò implicava, in alcuni casi, la riproposta di oggetti e temi decorativi medievali, spesso opere di conclamata fama conservate nei principali musei italiani ed europei: un caso significativo è lo scrigno eseguito dalla Compagnia Venezia-Murano presentato all’esposizione milanese del 1881, che riprendeva puntualmente il cofano di san Luigi conservato al Louvre. Altro esempio sono le ceramiche di Pio Fabri esposte all’Esposizione Nazionale di Torino del 1898, rappresentanti dipinti del primo Rinascimento racchiusi entro cornici archiacute1.

A partire dagli anni Settanta del secolo accanto a questa tendenza si sviluppò un’attenzione particolare alle emergenze medievali locali, interesse favorito dalla proliferazione di numerosi cantieri di restauro in Europa e, con un po’ di ritardo, in Italia, volti al ripristino di edifici caduti in disuso: si pensi agli interventi di Viollet-le-Duc e all’opera di Edoardo Arborio Mella in Piemonte, senza dimenticare il D’Andrade per il Piemonte e la Valle d’Aosta e Luca Beltrami per la Lombardia2. Il restauro era legato a doppio filo a un’approfondita conoscenza del patrimonio artistico locale, oggetto di un rinnovato interesse da parte degli esperti i quali, in alcuni casi, destinavano l’edificio a scopi didattici: il Castello Sforzesco restaurato dal Beltrami rientra in questa categoria, così come il Borgo Medievale e la Rocca del Valentino, summa di riproduzioni di edifici piemontesi e valdostani ascritti dalla critica dell’epoca al XV secolo3. In ambito europeo non mancano casi simili a quello torinese: Zucconi ha rilevato «straordinarie analogie» tra il complesso del Valentino e il castello di Vajdahunyad, situato nel parco cittadino di Budapest4. Ascrivibile agli anni Novanta dell’Ottocento, l’edificio costituisce la replica parziale dell’omonimo castello transilvano, eseguita in occasione dell’Esposizione del Millenium del 1895; la riproduzione, in cartone e legno, riscosse un tale successo da essere ricostruita in muratura, divenendo, come la Rocca Medievale, un arredo definitivo del parco5. In ambito francese si ricorda l’Esposizione Universale di Parigi del 1900, dove la rievocazione del colore locale raggiunse il suo apogeo con la realizzazione della Vieux Paris e della Corte dei Miracoli, rappresentanti scorci della facies medievale della città6. Le ricostruzioni, come nel caso torinese, erano animate da figuranti in costume, e ospitavano concerti e opere teatrali legati all’epoca7.

Un aspetto finora scarsamente indagato della produzione in stile è l’inganno della materia, tema che trascende le caratterizzazioni stilistiche e sembra proprio di buona parte delle arti decorative del secondo Ottocento. Per stupire il pubblico delle esposizioni, nazionali e universali, alcuni artigiani realizzavano per questi eventi oggetti il cui aspetto simulasse un materiale differente da quello realmente utilizzato: il vetro poteva dunque richiamare il legno, la ceramica riprodurre il bronzo, e così via. Tale tecnica era sfruttata con particolare successo per eseguire copie di oggetti famosi, la cui unica differenza era costituita proprio dalla materia usata.

«È da rimpiangere tanto sfoggio di intelligenza e di tempo per giungere a ingannare gli occhi»: la riproduzione di modelli storici con tecniche diverse.

Con queste parole Giuseppe Corona critica la presenza all’Esposizione Generale del 1884 di opere che fingono materiali e tecniche diversi dal modello originario, o simulano una materia differente da quella con cui è stata realmente eseguita l’opera8. Come rilevato da Picone Petrusa, tale scelta poteva avere motivazioni di vario tipo, dal desiderio di impreziosire un oggetto già nobilitato dalla storia utilizzando un materiale pregiato a quello di sfidare il passato confrontando le tecniche di lavorazione utilizzate per il modello antico e quelle più recenti, anche meccaniche, oltre a una semplice motivazione economica9.

Questa tendenza sembra caratterizzare soprattutto la produzione vetraria di area veneziana, almeno per le traduzioni di opere di gusto medievale. La maggior parte dei casi è riferibile alla Compagnia Venezia-Murano e alla ditta Andrea Salviati, che utilizzano due differenti approcci all’antico.

Gli oggetti esposti dalla prima ricalcano fedelmente il modello di riferimento: l’unica differenza è costituita dal materiale e dalla tecnica di esecuzione, che imita o reinterpreta il modello medievale a seconda dei casi10.

La ditta Salviati utilizza invece le fonti pittoriche in modo più disinvolto: nel caso del polittico a mosaico pubblicato ne L’Esposizione Italiana del 1881 in Milano illustrata oltre a riprodurre i dipinti con la tecnica musiva a rilievo ne estrapola delle parti e le ricompone a suo piacimento11. I pannelli ricalcano altrettanti scomparti di pale d’altare veneziane, di diverse epoche e stili: si va dalla trecentesca Vergine in trono di Stefano Veneziano al san Giovanni Battista del trittico di san Lorenzo del Bellini, componendo un pastiche medievaleggiante, raccordato nei vari elementi da una cornice neogotica che contribuisce a connotare stilisticamente il tutto, accentuandone gli aspetti medievali (Fig. 1)12. Nonostante la commistione, il polittico riproduce puntualmente i singoli pannelli delle pale, che risultano riconoscibili e, a conferma della tendenza di Andrea Salviati a replicare in modo oggettivo i modelli originali, si ricorda che all’esposizione Vaticana del 1870 presentò, oltre a una serie di opere basate su disegni originali, le riproduzioni di alcuni mosaici tratti da chiese veneziane.

In realtà la ditta Salviati esponeva principalmente opere eseguite con la tecnica musiva, che si prestava a un campo di applicazioni piuttosto limitato: al di là dei mosaici stessi, era possibile riprodurre solo opere di tipo pittorico, poiché bidimensionali. Pur essendo una ditta produttrice di oggetti in vetro soffiato, non sono invece note repliche di oggetti medievali realizzate con tale tecnica.

L’approccio cambia nel caso dei lavori della Compagnia Venezia-Murano, i cui modelli facevano riferimento a opere eseguite con una vasta gamma di tecniche, come l’oreficeria: l’arte vetraria veniva utilizzata per fini illusionistici, simulando materiali diversi e ingannando l’occhio dello spettatore13. È il caso della riproduzione in vetro dello scrigno di san Luigi conservato al Louvre14, che la ditta presenta all’Esposizione Generale di Milano del 1881: «lo si può guardare quanto si vuole, e il metallo è metallo, non c’è che dire!» sosteneva un commentatore su L’Esposizione Italiana del 1881 in Milano illustrata, ma «il metallo qui non è che un ingannatore dalle false apparenze» (Fig. 2)15. L’imitazione dei materiali originali era tale che gli spettatori erano «volere o non volere, obbligati a piegarvi e a credere, quand’anche uno dei vostri migliori sensi, la vista, continui a protestare, evidentemente senza ragione»16.

Un altro esempio è costituito dal «bicchiere della Regina», esposto dalla Compagnia Venezia-Murano alla medesima rassegna e qui acquistato da Margherita di Savoia17. Si tratta della copia, «per la forma e per la montatura», di un calice proveniente dal tesoro di San Marco a Venezia: l’originale era in agata spezzata, mentre è probabile che la versione ottocentesca sia stata eseguita in vetro18. Tuttavia l’imitazione di calici in calcedonio o agata era abbastanza diffusa presso le imprese vetrarie veneziane e faceva parte della produzione di Antonio Salviati già nel 1860, dunque il risultato fu meno eclatante della riuscita traduzione in vetro di materiali come il legno e il ferro dello scrigno di san Luigi19.

In entrambi i casi è comunque presente una componente virtuosistica: traducendo dei modelli celebri in vetro, e cercando di rendere l’effetto di altri materiali, la Compagnia Venezia-Murano esibiva il virtuosismo tecnico di cui i suoi collaboratori erano capaci. Sembra quasi che l’arte del passato fosse percepita come un modello con cui confrontarsi su un piano paritario, mantenendo gli elementi che si preferivano – l’aspetto dello scrigno – e stravolgendone altri – la materia –, pur realizzando un oggetto simile all’originale.

Un ragionamento simile si può fare per alcuni oggetti presenti alle esposizioni Vaticane del 1870 e del 1888, come il Calvario di Stanislao Dorelli, che trasse il Cristo crocifisso da un «modello originale del celebre Canova» (Fig. 3)20. È possibile riconoscere la figura nell’unica opera nota di Canova con tale soggetto: una terracotta giovanile, attualmente conservata presso i Musei Civici di Udine, tra i lavori meno noti dello scultore di Possagno21. Dal confronto della statuetta con il Calvario si può notare come l’orefice abbia ribaltato la figura di Cristo di 180 gradi, portando a supporre la derivazione della figura da una riproduzione a stampa della stessa.

In questo caso il riferimento a un moderno assume un significato diverso: per l’orefice romano parrebbe più un pretesto per dimostrazioni virtuosistiche di tecnica, quasi che l’artista abbia voluto porre a confronto l’opera canoviana, di fama certa, con quella esposta, per stupire il pubblico grazie alla propria abilità tecnica. Ciò sembra confermare la teoria di Picone Petrusa, secondo la quale la traduzione di opere famose da un materiale all’altro o la replica tramite tecniche virtuosistiche in alcuni casi fosse finalizzata alla nobilitazione interiore del modello, oltre che al confronto tra l’opera antica – anche se in questo caso risaliva a pochi decenni prima – e l’artigiano contemporaneo22.

Nonostante la diffusione di questo tipo di opere, e l’ammirazione che suscitavano nel pubblico, non tutta la critica ottocentesca era favorevole alla loro produzione. Le pubblicazioni contemporanee alle esposizioni riportano numerosi apprezzamenti circa le capacità mimetiche delle opere presentate dalle ditte espositrici, lodandone il risultato – il commentatore che si cela dietro la sigla Ω parla del metodo utilizzato per la riproduzione dello scrigno di san Luigi come di una «nuova e maravigliosa applicazione degli studj della Compagnia»23– ma, ampliando lo spettro d’indagine a figure come Camillo Boito e Giuseppe Corona, si ha un quadro leggermente diverso.

Entrambi gli autori collaborarono alle esposizioni italiane, specialmente a quelle svoltesi negli anni Ottanta: il primo ad esempio tenne una conferenza all’interno del Borgo Medievale del Valentino nel 1884, mentre Corona partecipò alla rassegna di Milano del 1881 in veste di giurato per la sezione ceramica e per quella vetraria24. Pubblicarono inoltre alcuni articoli relativi alle esposizioni, sia su periodici legati agli stessi eventi che – nel caso di Boito – su altre riviste.

Particolarmente significativo è il contributo redatto da questi per La Nuova Antologia, in occasione della mostra milanese: passando in rassegna le “industrie artistiche” – questo il titolo dell’articolo –, egli rileva come «codesta smania del volersi allargare oltre i confini» dati dalla materia e dalle «condizioni particolari del lavoro» si sia estesa in numerosi ambiti delle arti decorative, al punto che «un’industria, un’arte ristretta, per quanto sia difficile, non basta più»25. Naturalmente compie alcuni distinguo, poiché alcune tecniche devono, secondo il suo giudizio, «essere bugiarde»: le carte da parati, che simulano tessuti, cuoi e arazzi, o l’industria dei fiori finti26. A parte queste e altre poche eccezioni, tutti gli altri casi di uso improprio delle arti decorative sono aspramente criticati dal Boito, dai merletti incollati sulla stoffa a imitazione dei ricami alla ceramica trattata in modo da somigliare al bronzo.

Anche l’arte vetraria e quella musiva sono giudicate severamente, l’una «quando intende a contraffare vasi d’oro niellati», e l’altra «quando si travaglia nell’emulare le sfumature delle tinte e le velature della pittura ad olio»: è evidente il riferimento alle opere esposte alla rassegna milanese, presentate dalla ditta Salviati e dalla Compagnia Venezia-Murano27. E proprio su queste due tecniche, tornate alla ribalta grazie all’impresa di Andrea Salviati, il Boito sofferma la propria attenzione: la versatilità dei materiali favoriva numerose applicazioni pratiche, alcune delle quali – si veda lo scrigno di san Luigi – erano percepite dal critico come aliene al loro carattere. «Quando vedo il musaico rammollirsi per figurare un quadro in cornice» – scrive il Boito – «tanto che conviene ficcarci il naso sopra per non crederlo un vero dipinto, quando vedo il vetro invidiare il marmo od il bronzo per comporre una alta fontana, mi par d’intravedere qualcosa contro natura»28. Alla stessa esposizione la ditta Salviati attirò l’attenzione del pubblico presentando una fontana monumentale, alta 1,75 metri, realizzata interamente in «musaico e vetri soffiati», perfettamente funzionante (Fig. 4): definita dalla critica «il più elegante e più splendido ornamento che si potesse immaginare», coincide con la tipologia di oggetti criticati dal Boito, così come le riproduzioni in mosaico di dipinti famosi, sempre opera della stessa ditta29.

Questo tipo di opere snaturerebbe le tecniche utilizzate, facendo perdere loro la propria fisionomia: «il musaico deve sinceramente apparire musaico, come l’intarsio intarsio e l’arazzo arazzo», senza cercare di imporsi a tutti i costi all’attenzione del pubblico delle esposizioni, sempre alla ricerca di nuove attrazioni30.

Le ragioni che spingono il Boito a criticare l’abitudine a dissimulare la specificità tecnica e materiale sono pienamente condivise dal Corona, che a sua volta non lesina giudizi severi sugli oggetti di arte decorativa presenti alle esposizioni; dai suoi scritti emergono addirittura posizioni più intransigenti di quelle del critico padovano, il quale riconosceva comunque che alcune arti industriali «hanno bisogno di essere bugiarde», e dunque camuffare in parte la materia.

Si consideri, a titolo esemplificativo, un articolo del Corona, pubblicato sul periodico L’Esposizione Italiana del 1884 in Torino, dove sono presi in esame i mobili e gli intagli in legno di Valentino Panciera Besarel: pur apprezzando l’artista per l’indubbia maestria, e lodando l’abilità tecnica con cui sono eseguite le opere, il critico lamenta la scelta di dipingere a imitazione del bronzo due giganteschi gruppi scultorei, rappresentanti rispettivamente un tritone e una sirena, non comprendendone il motivo31. «Questa smania del far parere una cosa per un’altra mi pare davvero biasimevole»; eppure, rileva nell’articolo, quest’abitudine era diffusa in più sezioni dell’esposizione, in particolar modo tra gli arredi e le ceramiche32. Corona si rammaricava che le ditte e gli artigiani sprecassero tempo e abilità «per giungere a ingannare gli occhi», domandandosene la ragione: «credono forse questi industriali di avere con tal mezzo raggiunto il colmo, l’ultimo gradino della ingegnosità33.

I modelli celebri replicati dagli artigiani con altre materie sono ascrivibili a diverse arti: si va dalla pittura all’oreficeria, o alla scultura. Una categoria a parte è costituita dalle riproduzioni di architetture medievali, presenti soprattutto alla IV Esposizione Nazionale di Belle Arti di Torino, svoltasi nel 1880: a questo evento difatti furono presentate copie di edifici veneziani e toscani eseguite in filigrana d’argento. Più precisamente, gli orefici romani Beretta e Fransone realizzarono la replica del campanile di Giotto, mentre il torinese Pivetti scelse il Palazzo Ducale di Venezia e la basilica marciana34. È possibile che questa scelta fosse legata a un certo interesse commerciale, poiché le riproduzioni di edifici celebri o parti di essi erano molto apprezzate come complementi d’arredo sia dai viaggiatori stranieri che dalla borghesia italiana. Come già illustrato da Malquori a proposito degli orefici Accarisi, «la scelta operata dagli artigiani nel prendere a modello opere importanti e significative» permette di comprendere «quelli che in realtà furono i fermenti culturali, sociali e civili del momento»35. Gli edifici scelti da Beretta, Fransone e Pivetti denotano attenzione per la realtà medievale nella sua accezione nazionale: seguendo il ragionamento della studiosa si può supporre che le loro scelte mirassero a celebrare la raggiunta unità. Bisogna anche considerare la possibilità di diffusione commerciale delle filigrane: i monumenti riprodotti erano tra le architetture più note al vasto pubblico, e questo elemento giocava a favore di una loro maggior fortuna. Tali repliche erano più o meno direttamente riferibili alla categoria dei souvenirs, delle riproduzioni cioè di opere celebri destinate alla diffusione commerciale. Pinelli si è recentemente interessato a quest’aspetto della produzione artistica, per un arco cronologico compreso tra la seconda metà del Diciottesimo secolo e i primi anni dell’Ottocento, ascrivendo a quel periodo la nascita e diffusione in Italia di repliche di opere celebri di area italiana, preferibilmente di età classica e rinascimentale, destinate agli stranieri che visitavano la penisola nel corso del Grand Tour36. Tra gli oggetti elencati non mancano riproduzioni in miniatura di edifici di età romana – si annoverano diverse copie del Pantheon in sughero – o traduzioni in scala minore in biscuit di statuaria classica, come il Galata morente, realizzato dalla manifattura Volpato37.

Sebbene gli studi di Pinelli si riferiscano a una fase antecedente a quella delle esposizioni esaminate, è evidente la presenza di una tendenza, all’interno della produzione artistica seriale, a riprodurre in scala ridotta monumenti e opere d’arte famose a fini commerciali. Tale orientamento sopravvivrà nel corso degli anni, adattandosi alla rivalutazione del Medioevo e proponendo di conseguenza riproduzioni di edifici ascrivibili a tale stile.

Nonostante parte dei critici ottocenteschi condannasse la manipolazione della materia per fini illusionistici, vale la pena indagare il reale significato di questa scelta. Picone Petrusa, l’unica a essersi occupata dell’argomento, ipotizza due possibili motivazioni: una generale sfiducia nel progresso, che secondo Rosario Assunto sottende in realtà tutti i revivals, e che comportava il desiderio di rifugiarsi nel passato, o al contrario «una sorta di protervia progressista», che poteva modificare la storia a proprio piacimento, costringendola «alle più incredibili manipolazioni»38. La studiosa sostiene che la maggior parte dei casi sia solitamente ascrivibile alla seconda ipotesi, anche se a mio giudizio la teoria di Assunto è in parte condivisibile: entrambe le interpretazioni sono valide, ma la loro applicazione varia a seconda dell’espositore che si prende in considerazione. La ditta Salviati, ad esempio, particolarmente legata alle pratiche di restauro musivo, si mostra più incline a una visione nostalgica del passato, mentre la Compagnia Venezia-Murano, che si distingueva per le innovazioni tecniche – come la «nuova e maravigliosa applicazione degli studj della Compagnia» che permetteva di imitare il legno con il vetro – sembra quasi sfidare il passato riproducendo fedelmente oggetti di gusto medievale39.

  1. Per Pio Fabri e la sua produzione ceramica si rimanda a E. Aitelli, Porcellane, maioliche e terrecotte, in L’Esposizione Nazionale del 1898, Torino 1898, p. 297; F. Musso, La ceramica all’Esposizione di Torino, in “Natura ed Arte”, 1898, p. 489; M. Nebbia, «Tutto analogo allo stile del secolo XIII, se non che purgato»: un’idea di Medioevo nelle arti applicate dell’Italia Unita. Emergenze dalle grandi esposizioni nazionali del secondo Ottocento e sul territorio piemontese, tesi di dottorato, tutor A. Capitanio, Università di Pisa 2012, pp. 318-320. []
  2. Porciani pone come anno di cesura tra le due differenti visioni del Medioevo il 1870, «data periodizzante su scala europea»: in quel giro d’anni si collocano difatti la presa di Roma e la fondazione del Recih tedesco. I. Porciani, L’invenzione del Medioevo, in Arti e storia nel Medioevo, vol. 4 – Il Medioevo al passato e al presente, a cura di E. Castelnuovo, G. Sergi Torino 2004, p. 274. []
  3. Per il Castello Sforzesco Luca Beltrami architetto. Milano tra Ottocento e Novecento, catalogo della mostra a cura di L. Baldrighi, Milano 1997; G. Zucconi, Tra Torino e Milano, l’attualizzazione del castello medievale nell’ultimo scorcio dell’Ottocento, in Dal Castrum al “castello” residenziale. Il Medioevo del reintegro o dell’invenzione, atti delle giornate di studio a cura di M. Viglino Davico, E. Dellapiana, Torino 2000, pp. 79-94; O. Selvafolta, Orientamenti del gusto e figure di artefici nell’architettura Lombarda tra ‘800 e ‘900: il neosforzesco e il caso del decoratore Ernesto Rusca, in Architettura e arti applicate fra teoria e progetto – la storia, gli stili, il quotidiano 1850-1914, a cura di F. Mangone, Napoli 2005, pp. 83-98; per il Borgo e la Rocca Esposizione Generale italiana, Torino 1884: catalogo ufficiale della sezione Storia dell’Arte: guida illustrata al castello feudale del secolo XV, Torino 1884 [rist. anast. 1997]; C. Bartolozzi, C. Daprá, La Rocca e il Borgo Medievale di Torino (1882-1884). Dibattito di idee e metodo di lavoro, in  Alfredo D’Andrade: tutela e restauro, catalogo della mostra a cura di M. G. Cerri, D. Biancolini Fea, L. Pittarello, Firenze 1981, pp. 189-214; R. Maggio Serra, Uomini e fatti della cultura piemontese nel secondo Ottocento intorno al Borgo Medievale del Valentino, ivi, pp. 19-44; Eadem, Alfredo D’Andrade pittore e archeologo. Documenti per la Rocca Medioevale del Valentino, catalogo della mostra, Torino 1996; E. Pagella, Le culture del Borgo Medievale di Torino, in Gaetano Bonoris (1861-1923) e il castello di Montichiari. Architettura neogotica tra Lombardia e Piemonte, atti delle giornate di studio a cura di A. Bani, P. Boifava, S. Lusardi, Brescia 2006, pp. 201-210. []
  4. G. Zucconi, L’invenzione del passato: Camillo Boito e l’architettura neomedievale, 1855-1890, Venezia 1997, p. 211. []
  5. Ibidem. []
  6. M. S. De Marinis, 1900. Esposizione Universale di Parigi (15 aprile-5 novembre), in A. Baculo, S. Gallo, M. Mangone, Le grandi esposizioni nel mondo 1851-1900. Dall’edificio città alla città di edifici, dal Crystal Palace alla White City, Napoli 1988, pp. 160-165; E. Emery, L. Morowitz, From the living room to the museum and back again. The collection and display of medieval art in the fin de siècle, in “Journal of History of Collections”, vol. 16, n. 2, 2004, pp. 285-309. []
  7. Cfr. Emery, Morowitz, 2004, p. 289. []
  8. G. Corona, I mobili. Valentino Panciera Besarel, in L’Esposizione Italiana del 1884 in Torino, Milano 1884, p. 110. []
  9. M. Picone Petrusa, Il Neorinascimento italiano nelle esposizioni del secondo Ottocento, in Architettura e arti applicate…, 2005, pp. 24-28. []
  10. Cfr. Ω, Vetraria. La Compagnia Venezia-Murano, in L’Esposizione Italiana del 1881 in Milano illustrata, Milano 1881, pp. 154-156. []
  11. Le parti in oro erano in rilievo, «con un meraviglioso effetto di verità». Romussi, 1881, p. 227. []
  12. Nelle fonti dell’epoca si fa riferimento ad alcune opere d’arte di «stile nordico» presenti a Venezia, che sarebbero state riprese dalla ditta Salviati, ma non sempre la fonte era indicata correttamente. Bolaffio, 1881, pp. 183-187; Romussi, 1881, pp. 225-227. Per i modelli del polittico S. Moschini Marconi, Gallerie dell’Accademia di Venezia, vol. I – opere dei secoli XIV e XV, Roma 1955; A. Tempestini, Giovanni Bellini, Firenze 1992; E. Concina, Venezia, le chiese e le arti, Udine 1995, p. 245; Gallerie dell’Accademia di Venezia, a cura di G. Nepi Scirè, F. Valcanover, Milano 1985; Gallerie dell’Accademia di Venezia, a cura di Eadem Milano 1998; M. Lucco, «La primavera del Mondo tuto, in ato de Pitura», in Giovanni Bellini, catalogo della mostra a cura di Idem, G. C. F. Villa, Roma 2008, pp. 19-38. []
  13. Nel 1872 i soci dell’impresa fondata da Andrea Salviati – all’epoca “Società Anonima per azioni Salviati & C.” – fecero cambiare il nome in “The Venice and Murano Glass and Mosaics Limited (Salviati & C.)”. A causa di dissapori con il direttore della società nel 1877 Antonio Salviati abbandonò la ditta, fondandone altre due: la “Salviati & C.”, specializzata in decorazioni musive, e la “Salviati Dott. Antonio”, produttrice di vetri artistici, mentre la Compagnia Venezia-Murano proseguì la sua attività. R. Barovier Mentasti, Vetri di Murano dell’Ottocento, catalogo della mostra, Murano 1978; Marachier, 1982, pp. 11-14; R. Leifkes, Antonio Salviati and the nineteenth-century renaissance of Venetian glass, in “The Burlington Magazine”, n. 136, 1994, p. 287; A. Bova, Alcune notizie sui protagonisti e le ditte muranesi dell’800, in Draghi serpenti e mostri nel vetro di Murano dell’800, catalogo della mostra a cura di Idem, C. Gianolla, P. Junck, Venezia 1997, pp. 26-34; Idem, Antonio Salviati e la rinascita del vetro muranese tra il 1859 e il 1877, in Vetri artistici: Antonio Salviati 1866-1878, a cura di Idem, A. Dorigato, P. Migliaccio Venezia 2008, p. 150. []
  14. Di manifattura limosina e databile agli anni Trenta del XIII secolo, era stato scoperto nel 1853 presso la chiesa di Dammarie-les-Lys, e acquisito dal museo pochi anni più tardi, nel 1858: si trattava quindi di un’opera nota, probabilmente al centro del dibattito critico francese per datazione e provenienza. B. Drake Boehm, M. Pastoureau, 124. Coffret de saint Louis, in L’Œuvre de Limoges. Emaux limousins du Moyen Age, catalogo della mostra, Paris 1995, pp. 360-363. []
  15. Ω, 1881, p. 155. []
  16. Ibidem. []
  17. Cfr. Ω, 1881, p. 155. Purtroppo gli elenchi degli acquisti dei sovrani non riportano alcuna informazione in merito, al momento si  ignora l’ubicazione dell’opera. []
  18. L’opera è la copia di un calice in agata del tesoro di San Marco, databile al X-XI secolo. I due pezzi presentano numerose analogie: la forma del piede e la sua decorazione, il nodo schiacciato e liscio, la montatura in argento che percorre in verticale la coppa e la forma di questa. A. Grabar, Opere bizantine, in H. R. Hahnloser, Il tesoro di San Marco, vol. 2 – Il tesoro e il Museo, Firenze 1965-1971, p. 61. []
  19. Cfr. Leifkes, 1994, p. 284-285; Bova, 2008, p. 134. []
  20. Catalogo degli oggetti ammessi alla Esposizione romana del 1870 relativa all’arte cristiana e al culto cattolico nel chiostro di Santa Maria degli Angeli alle Terme di Diocleziano, Roma 1870, pp. 119-120; L’Esposizione Romana delle opere di ogni arte eseguite pel culto cattolico: giornale illustrato, s.l. 1870, pp. 29-30; F. Scarpellini, Colpo d’occhio sulla esposizione romana del 1870 relativa all’arte cristiana e al culto cattolico vista nei giorni 22 e 29 maggio dal direttore della Corrispondenza scientifica, Roma 1870, pp. 12-13.

    Il Calvario fu presentato all’“Esposizione romana delle opere di ogni arte eseguite pel culto cattolico” del 1870: l’opera, alta quasi 2 metri, era realizzata interamente con materiali preziosi. Secondo le fonti dell’epoca il Cristo crocifisso deriva da un modello di Canova, mentre le figure della Madonna e san Giovanni furono «egregiamente modellate dallo scultore romano Guglielmo Trocel», e quindi fuse in argento. Se è stato possibile riconoscere il modello canoviano, non si può dire lo stesso della Vergine e di san Giovanni, riconducibili a Wilhelm Troschel, figlio del più noto Julius Troschel, a sua volta scultore e attivo tra Germania e Italia nella prima metà dell’Ottocento. Per i Troschel Thieme, Becker, 1939, vol. XXXIII, pp. 430-431; F. Noack, Das Deutschtum in Rom, Berlin-Leipzig 1927, vol. 2, p. 603, mentre per Dorelli T. Monaci, Guida commerciale di Roma per l’anno 1879, s. l. 1879, p. 364; Idem, Guida commerciale di Roma per l’anno 1881, s. l. 1881, p. 259; Idem, Guida commerciale di Roma per l’anno 1886, s. l. 1886, p. 611; Idem, Guida commerciale di Roma per l’anno 1891, s. l. 1891, p. 803. []

  21. C. Someda De Marco, Il Museo Civico e le Gallerie d’arte antica e moderna di Udine, Udine 1956, p. 165; G. Pavanello, L’opera completa del Canova, Milano 1976, p. 104. []
  22. Picone Petrusa, 2005, pp. 27-28. []
  23. Ω, 1881, p. 155. []
  24. G. Corona, L’Italia ceramica, in Esposizione Industriale Italiana del 1881 in Milano. Relazioni dei giurati, Milano 1885, pp. 51-560; Idem, Sezione XII – Classi 27.ª e 28.ª, ivi, pp. 3-42. []
  25. C. Boito, Le industrie artistiche all’Esposizione di Milano, in “La Nuova Antologia”, vol. XXIX, ottobre 1881, p. 501. []
  26. Ivi, pp. 501-502. []
  27. Ibidem. []
  28. Ibidem. []
  29. La fontana si articolava in tre piani, esclusa la base, al cui interno era posto il macchinario che permetteva il funzionamento dell’opera. Romussi, 1881, pp. 226-227. []
  30. Boito, 1881, p. 502. []
  31. Corona, 1884, p. 110. Per Valentino Panciera Besarel G. Angelini, E. Cason Angelini, Gli scultori Panciera Besarel di Zoldo, Belluno 2002; G. Sossass, Panciera Besarel Valentino (junior), in Colle, 2007, pp. 451-452. []
  32. Corona,1884, p. 110. []
  33. Ibidem. []
  34. IV Esposizione Nazionale di Belle Arti – Catalogo ufficiale generale, Torino 1880, pp. 137-154. []
  35. A. Malquori, Paradisi a confronto: la Porta del Paradiso degli orafi Accarisi, in “OPD restauro”, n. 21, 2009, pp. 311-330. []
  36. A. Pinelli, Souvenir. L’industria dell’antico e il Grand Tour a Roma, Roma-Bari 2010. []
  37. Pinelli, 2010, pp. 114-116; ivi, pp. 120-122. []
  38. Picone Petrusa, 2005, p. 28; R. Assunto, Revival e problematica del tempo, in Il Revival, a cura di G. C. Argan Milano 1974, pp. 35-56. []
  39. Ω, 1881, p. 155. []