Giovanni Boraccesi

g.boraccesi@libero.it

Le oreficerie della Cattedrale di Corfù tra Sette e Ottocento

DOI: 10.7431/RIV07092013

La presente indagine sugli argenti della cattedrale di Corfù, naturale proseguimento di quella già pubblicata su questa stessa rivista1, documenta lo sviluppo delle caratteristiche formali e decorative di tali produzioni, in particolare di quelle barocche e rococò – ancora una volta massicciamente rivenienti da Venezia – come pure di quelle neoclassiche.

Il XVIII secolo, stagione fervida per la commessa di argenti, si apre con un piccolo vaso per l’olio santo (Fig. 1), di forma cilindrica e privo di ornati, destinato a contenere l’olio per gli infermi, come denunciano le lettere O. I. (Oleum Infirmorum) incise sul metallo. Se non vi è dubbio alcuno sul riconoscimento del bollo veneziano con il leone di San Marco – impresso all’interno del contenitore – al contrario, illeggibile è il secondo marchio. Il manufatto andrebbe datato alla prima metà del Settecento. A questo stesso periodo appartiene un calice (Fig. 2) dalle linee molto semplici e privo di elementi decorativi, il che porta a considerarlo un oggetto di uso giornaliero. La base, a sezione circolare e con ampio orlo liscio, è bombata; il fusto è definito da un nodo piriforme, posto tra una serie di rocchetti. La coppa è priva del sottocoppa, andata probabilmente perduta. Il manufatto, non punzonato, è in buona misura opera di un maestro argentiere attivo a Venezia: propone, infatti, una tipologia piuttosto diffusa nell’area d’influenza della Serenissima. Un’altra pisside (Fig. 3) si caratterizza per il profilo sinuoso e per l’assenza di elementi decorativi,  tranne una croce gigliata saldata sulla sommità del coperchio. Questo reperto è il risultato dell’unione di due pezzi disomogenei per cronologia e manifattura. Sul bordo interno del coperchio è impresso il bollo del leone di San Marco e quello con le iniziali BC, spettanti a un argentiere veneziano documentato tra il 1660 e il 16872. La restante parte del vaso sacro andrebbe restituita a un probabile artefice corfiota del XVIII-XIX secolo, il cui punzone è connotato dalle lettere M·R poste in un rettangolo; quest’ultimo è seguito da un contrassegno territoriale che presumo essere della città di Corfù: un veliero con la sottostante lettera C. Il punzone M·R è stato rinvenuto su altre suppellettili della cattedrale (vedi più innanzi). La tipologia della pisside in esame ebbe ampia diffusione negli ateliers veneziani del Sei e del Settecento; a tal proposito, un confronto possibile è con l’esemplare della cattedrale di Concordia Sagittaria3. Al periodo barocco, e ancora una volta nella temperie culturale di Venezia, s’inserisce una stauroteca (Fig. 4), ridondante di ornamenti e di decorazioni simboliche rigorosamente attinenti alla reliquia ivi contenuta. Il manufatto, con il preciso scopo di custodire il Sacro Legno della Croce, presenta un piede circolare e gradinato, ornato da un fitto motivo a baccelli e dall’emblema di monsignor Augusto Zacco, che occupò il seggio episcopale di Corfù dal 1706 al 1723; ciò autorizza a circoscriverne l’esecuzione entro questi anni. Tale dono non sarà stato casuale, coincidendo con la nuova consacrazione della cattedrale, avvenuta nel 1709 per mano dello stesso presule. Il fusto è costituito da una colonna liscia, chiaro riferimento a quella della Flagellazione, affiancata dal gioco di due volute contrapposte. Sulla medesima colonna, inoltre, sono posizionati altri simboli cristologici: la lancia, l’asta con la spugna dell’aceto, il sudarium (il velo di Veronica) e, sulla parte sommitale, un capitello sovrastato dal gallo. La teca, dal contorno mistilineo con volute e raggi di diverse altezze, racchiude una crocetta in cristallo e filigrana, a sua volta contenitore della preziosa reliquia; alle estremità fanno capolino due testine angeliche mentre in alto è saldata una statuina di angelo alato che stringe la corona di spine e la palma. Il punzone, ripetuto più volte, è quello con il leone di San Marco e le sottostanti iniziali F·P che sappiamo appartenere all’ufficiale della Zecca, attivo tra il 1671 e il 17164. Un confronto piuttosto preciso, tanto da dichiarare un’assai probabile identità di mano, è con la stauroteca della cattedrale di Cattaro (Montenegro), datata tra il 1703 e il 1707 e marchiata con il medesimo punzone di controllo sopra descritto oltre a quello dell’argentiere con le iniziali AM5. Di estremo interesse è il rinvenimento di un calice (Fig. 5) in argento fuso e traforato, già nella cattedrale di San Marco a Zante. Il piede leggermente bombato presenta un orlo liscio e mistilineo, ravvivato da sferette. L’intera superficie è definita da ornamenti di volute contrapposte e da un groviglio di elementi vegetali; negli scomparti, evidenziati da testine angeliche in rilievo, trovano posto i simboli della Passione. Il nodo piriforme è contenuto entro due collarini con motivi vegetali. Si tratta di un tipico e originalissimo modello di argenteria napoletana, il cosiddetto stile “traforo partenopeo”, prodotto tra l’ultimo Seicento e il terzo decennio del Settecento, spesso arricchito da microsculture di forte richiamo devozionale6. Sull’orlo del piede, corre un’iscrizione che consente di collegarne la commissione a una devota, dal tipico cognome veneziano, e di conoscerne la data e il luogo di produzione: <<FRANCISCA MARIA CANAL A. D. 1718 NEAPOLI>>; il calice, come attesta il punzone di garanzia, fu però realizzato nel 1717. L’esemplare in esame è bollato con il sistema napoletano della triplice punzonatura, ossia il marchio territoriale di garanzia (NAP/717), quello dell’argentiere Andrea De Blasio (A·D·B) e quello consolare di Aniello Simioli (A·S/·C·)7. Andrea De Blasio, di cui si hanno notizie dal 1694 al 1765, fu un argentiere professionale di gran fama, versatile e prolifico, oltre che capostipite di una ben nota famiglia di argentieri che dominò la scena artistica napoletana per tutto l’arco del XVIII secolo8. La finezza tecnica del traforo e la leggiadria dei decori, oltre naturalmente al prestigio del suo interprete, fanno del calice di Corfù un vera preziosità barocca in Grecia. Nonostante il più che comprensibile e netto monopolio di argenti veneziani nei territori d’oltremare assoggettati alla Serenissima, non meno incisivo fu l’invio di preziosi da altre zone d’Europa9. In questo quadro, vorrei richiamare l’attenzione su un ulteriore e prezioso reperto napoletano rinvenuto in Grecia: si tratta di un piatto (Fig. 6) di uso civile (circa 1400-1420), punzonato NAPL a lettere gotiche, proveniente dall’isola di Eubea e da qui, prima dell’invasione turca, trasferito a Londra e successivamente confluito nel British Museum10. Degno di nota è una graziosa ed elegante conchiglia battesimale (Fig. 7), utilizzata per versare l’acqua sul neofita cristiano; questa particolare forma pare abbia avuto il sopravvento dal XVII secolo11. Sul manico, ad andamento sinuoso, sono saldate due altre e minuscole conchiglie. Il ripetuto richiamo a questo motivo naturalistico, non è casuale, dato che si lega al titolo della cattedrale: l’apostolo San Giacomo, infatti, ha come attributo di riconoscimento una conchiglia. L’esecuzione del pezzo, di manifattura veneziana, dovrebbe risalire ai primi decenni del XVIII secolo, in virtù del contrassegno della Zecca, ovvero le lettere Z e C interposte a una torre12. La ricchezza e la varietà dei reperti del XVIII secolo depositati nella cattedrale di Corfù è ancora una volta testimoniata da una croce processionale (Fig. 8) in argento fuso, che mostra però evidenti segni di manipolazione: in origine, forse, doveva trattarsi di una croce d’altare. L’intervento di modificazione del manufatto è evidente nella zona di congiunzione tra la parte inferiore della croce e il nodo dell’asta processionale, peraltro non coevo. Le traverse hanno il profilo definito da una cornicetta modanata, mentre le terminazioni sono decorate da cartouches di natura vegetale. La figura del Cristo, del tipo patiens, è particolarmente curata. Nel punto d’intersezione dei bracci della croce si dipartono fasci di raggi mentre sulla traversa principale sono applicati, in alto, uno svolazzante cartiglio con l’iscrizione INRI e, in basso, il tradizionale teschio di Adamo. Stando alla lettura dell’unico punzone impresso, la croce va assegnata all’argentiere romano Enrico Pistelli il cui contrassegno è rappresentato da una P circondata da perline13. Conseguita la patente il 30 marzo 1739, morì dopo appena due anni, ossia il 3 marzo 1741, anche se il suo punzone continuò a essere utilizzato dagli eredi fino al 1755. In ragione della breve durata di attività di Enrico Pistelli e della conseguente rarità dei suoi reperti, si capisce che la croce di Corfù, tipologicamente accostabile ad altre presenti nelle chiese di Roma14, assuma un valore documentario importante. Il secchiello per l’acqua benedetta (Fig. 9), provvisto dell’immancabile aspersorio, presenta un corpo espanso interamente decorato da baccelli bombati. Il manico, a ferro di cavallo, è ingentilito da una serie di rocchetti. Sotto il piede è incisa l’iscrizione: SACRESTIA A.D. MDCCCXXI, da ritenersi un’aggiunta come vedremo. Sul secchiello è impresso il punzone raffigurante un veliero: probabilmente riconducibile a quello di una bottega veneziana15, piuttosto che al contrassegno territoriale di Corfù (vedi sopra). A rendere più verosimile quanto finora espresso, si tenga conto che questo punzone è accompagnato da quello adottato dal sazador Zuan Piero Grappiglia (ZPG)16, documentato dal 1758 al 1802. È quindi probabile che il secchiello sia stato acquistato nell’ultimo quarto del XVIII secolo. In questo periodo di particolare fervore culturale per la cattedrale di Corfù, si inseriscono alcuni argenti liturgici – un calice, un servizio da lavabo e un secchiello per l’acqua benedetta – che come da stemma inciso, furono richiesti dal vescovo Francesco Maria Fenzi (1779-1799), originario della città dalmata di Zara17. Il calice (Fig. 10) ha un piede a sezione mistilinea e un orlo gradinato con campiture opacizzate; sotto il piede è inciso lo stemma del vescovo. La decorazione, a rilievo e con un efficace gioco chiaroscurale, è costituita da volute, da foglie d’acanto e da tre testine di angeli che spuntano da un fondo opacizzato. Mosso e ugualmente ricco di decori è il fusto, con nodo piriforme. La partizione della base e i motivi decorativi sono riproposti anche sul sottocoppa. La presenza dei punzoni della Repubblica di Venezia, il leone di San Marco, e il contrassegno della Zecca contraddistinto dalle lettere BC intervallate dal giglio18, ne attesta l’origine lagunare. Questo calice è un valido esempio della più tipica produzione veneziana tardo settecentesca, perfettamente aderente ai dettami dello stile rococò. Lo stesso Francesco Maria Fenzi dotò la cattedrale di un servizio da lavabo (Figg. 11a e 11b), composto da un bacile e da una brocca. Il bacile, di forma ovale, presenta un profilo movimentato con cornice cordonata e quattro nervature che suddividono la superficie in altrettante campiture lisce. Al centro è inciso lo stemma del committente. Elegante è pure la foggia della brocca, il cui piede circolare è impostato su un gradino modanato. Il corpo inferiore, rigonfio, è attraversato da baccellature e quello superiore da modanature verticali. Il labbro, alquanto mosso, si restringe in prossimità del becco; il manico è a doppia voluta. I punzoni riscontrati su entrambi i pezzi sono riferiti al leone di San Marco e al sazador della Zecca, quest’ultimo caratterizzato dalle lettere GP interposte a un animale rampante19. La tipologia e lo stile di questo servizio per le abluzioni liturgiche sono comuni in Italia; un confronto possibile è con l’esemplare della parrocchia di Ostiano (Cremona)20. Il terzo dono offerto dal vescovo Francesco Maria Fenzi è questo secchiello per l’acqua benedetta (Fig. 12), accompagnato dall’aspersorio. Il corpo, poggiante su un minutissimo orlo circolare, è percorso da modanature verticali che salgono fino al labbro, a conferire un effetto di leggiadria ed eleganza. Sul bordo sono saldate due foglie con occhielli che agganciano il movimentato manico. Come si evince dalla lettura dei tre punzoni il secchiello fu realizzato a Venezia: oltre al bollo del leone di San Marco, qui è incusso quello della Zecca, contraddistinto dalle lettere MG tra due stelle sovrapposte21, e quello dell’ignoto argentiere, contrassegnato dalle lettere NP sovrastate dal giglio22. Nella vasta produzione veneziana di simili oggetti, il nostro secchiello si apparenta, per fare due soli esempi, con l’esemplare della chiesa veneziana di Sant’Eufemia della Giudecca23 e con l’altro del Museo Civico di Pordenone, ma proveniente dalla cattedrale24. Pressappoco coeva è una minuscola pisside (Fig. 13), oggi sprovvista di coperchio, proveniente dalla distrutta cattedrale di Zante. Alla semplicità della coppa si contrappone l’esuberanza formale e decorativa del piede e del fusto, entrambi a fusione e scompartiti in tre sezioni con motivi fogliacei, conchiglie e volute accartocciate; anche la piastrina del sottocoppa, per quanto sottilissima, è animata da nervature e da ricchi decori vegetali. Non è leggibile il punzone, tuttavia sul piano tipologico e stilistico la pisside in esame è da assegnare a un ignoto maestro veneziano della seconda metà del Settecento; ne forniscono conferma, peraltro, i numerosi esemplari analoghi sparsi nei territori dominati dalla Serenissima. Sebbene non sia punzonato, anche quest’ostensorio (Fig. 14), di raffinata esecuzione, va restituito a una bottega di Venezia. Il piede mistilineo è costituito da un ampio orlo decorato da volute e motivi vegetali che si stagliano da un fondo ruvido. La sovrastante superficie, alquanto vaporosa, è suddivisa da costolature ed è ornata da gonfie volute e foglie d’acanto che circondano i simboli eucaristici dell’uva e del grano. Spumeggiante di ornati è anche il fusto con nodo piriforme, contenuto tra dischetti schiacciati. Ampia è la raggiera, intervallata da quattordici fasci di raggi (ne manca uno) sia dorati, sia argentati, che circondano la teca, a sua volta arricchita da una fascia di nuvole popolata da testine angeliche e, più in basso, ancora una volta i simboli dell’uva e del grano. A coronamento della teca è post una croce gigliata. Evidente è l’analogia tra l’ostensorio di Corfù e quello conservato nel Museo Gaffoglio di Rapallo25; tale confronto permette di dedurre una data di realizzazione del nostro esemplare che si aggira intorno agli anni Settanta-Ottanta del Settecento. L’altare del Santissimo Sacramento, innalzato in un’apposita cappella della cattedrale, è provvisto di un tabernacolo marmoreo sovrastato da una statuina in argento fuso del Redentore (Fig. 15), eseguita secondo la consueta iconografia: il Cristo, posato su un globo terraqueo, è benedicente e stringe nella mano sinistra il vessillo crocesignato. I punzoni rilevati sono quelli del leone marciano e del contrassegno della Zecca, ovvero le lettere Z e C divise dalla torre26. Il Redentore qui considerato – una figura che sovente ritroviamo sulla sommità degli ostensori raggiati di tipo veneziano – s’inserisce nella produzione del XVIII secolo; un confronto immediato è con il Redentore del duomo di Caorle27. L’icona della Madonna della Salute – chiaramente legata alla più celebre immagine conservata nell’omonima chiesa di Venezia, consacrata il 9 novembre 1687 per adempiere un voto fatto quando nel 1630 imperversava la peste – è rivestita da una coperta di immagine sacra (Fig. 16) eseguita in argento e punzonata con le iniziali M·R e con quello che ho ritenuto essere il contrassegno dell’arte orafa della città di Corfù, ossia il veliero con la C sottostante (vedi sopra). Dietro le iniziali M·R, dunque, si nasconderebbe il nome di un argentiere del posto, verosimilmente attivo tra il XVIII e il XIX secolo; questo marchio è stato anche rilevato su alcuni argenti sacri di Corfù e Zante, come la pisside precedentemente descritta (Fig. 3) e l’ostensorio che tra poco esamineremo. Al di sopra dell’icona mariana – arricchita da una serie di ex-voto in lamina d’argento di natura antropomorfa, da gioielli e da due corone votive – è applicato un frontone ricurvo decorato da fiori e foglie, che in qualche maniera richiama il più appariscente e noto “diadema” in argento, in realtà un festone pendulo, sovrastante il trono di San Spiridione custodito nell’omonima chiesa di Corfù28. Il frontone in argomento, di gusto neoclassico mischiato a motivi ornamentali tardosettecenteschi, è punzonato con il bollo NB entro rettangolo, anch’esso probabilmente da assegnare a un maestro dell’isola, poiché è accompagnato dal bollo territoriale di Corfù, ossia il veliero con la sottostante lettera C. Restando in tema, vorrei richiamare l’attenzione su alcuni esemplari di pregio che ho avuto modo di visionare nel Museo Bizantino di Corfù. Due coperte d’argento di icone del XVIII secolo, quella del Pantocratore e l’altra della Madonna col Bambino (del tipo Platytera), sono punzonate sia con il bollo marciano di Venezia, sia con quello dell’argentiere SC29. Anche la legatura del Vangelo della chiesa di San Basilio, pubblicata da Tsitsas come opera corfiota30, va invece assegnata a un argentiere veneziano del XVII-XVIII secolo, il cui monogramma ZM è posto ai lati del bollo marciano31; questi dati li ho potuti ricavare dall’esame della foto: i punzoni sono evidenti nella parte sommitale del tronco dell’albero. Nel corpus degli argenti liturgici di età barocca in dotazione alla cattedrale di Corfù va inserito questo modesto ostensorio (Fig. 17), proveniente dalla cattedrale di Zante. Il piede è caratterizzato da un sottilissimo orlo, mentre la superficie è decorata da un motivo a baccelli che invade anche il fusto dal profilo irregolare. La raggiera, non originale, parrebbe di recupero e andrebbe probabilmente inserita nello stile dello storicismo, tanto di moda a fine Ottocento, caratterizzato dal recupero di forme e decori del passato. La teca, di forma circolare, è contornata da nuvole e da coppie di testine angeliche; più in basso, sono applicati due grappoli d’uva. Sulla base, dalla tipologia abbastanza diffusa nella Venezia del Settecento, sono impressi sia il punzone dell’argentiere M·R prima citato, sia quello corfiota. Manifesta una chiara adesione verso i qualificati laboratori orafi di Venezia, la tipologia della successiva lampada pensile (Fig. 18a), in principio destinata a un luogo privilegiato della cattedrale quale l’altare del Santissimo, quello maggiore o l’altare delle reliquie. Depone a favore di questa manifattura, oltre alla già menzionata struttura, anche la varietà dei decori, entrambi ampiamente adottati dai maestri veneziani di età barocca. Sulla superficie movimentata del manufatto si sviluppa un repertorio essenzialmente naturalistico, costituito da foglie di acanto e fiori recisi – resi con l’accuratezza minuziosa di un botanico – sbalzati all’interno di gonfie forme ovali. La lampada, databile al tardo Settecento, è provvista di un’iscrizione tanto consunta da risultare illeggibile. I punzoni qui riscontrati (Fig. 18b) però non sono quelli in uso a Venezia, ma a Corfù: al simbolo del veliero con la lettera C si affianca quello di un ignoto argentiere che utilizza le iniziali NA entro sagoma rettangolare; è noto un altro manufatto col medesimo bollo a Venezia32. Un particolare argento liturgico va riconosciuto come coppa battesimale (Fig. 19) o più verosimilmente come coppa per l’olio santo, utilizzata la sera del Giovedì Santo per la preparazione, in cattedrale, degli olii per l’intero anno liturgico. La coppa, forse, veniva utilizzata per quello del crisma: a un aroma naturale, di solito il balsamo del Perù, si aggiungeva l’olio di oliva; tale composto, veniva in seguito emulsionato e riversato in una più grande anfora contenente olio puro. La foggia della coppa in esame è estremamente semplice, presentando un leggero orlo cordonato provvisto di piccolo beccuccio. Pur privo di punzoni, il manufatto andrebbe datato alla seconda metà del XVIII secolo e assegnato a un argentiere di Venezia. Degno di considerazione è un calice (Fig. 20) di età barocca realizzato in bronzo fuso. La base dal profilo mistilineo è ravvivata dalla raffigurazione della Trinità, incisa sulla superficie del piede. Quest’ultimo, come il fusto e il sottocoppa, è suddiviso da robuste costolature; decori vegetali impreziosiscono il bordo superiore. L’esemplare andrebbe restituito a un maestro veneziano della seconda metà del XVIII secolo. La presenza del punzone di San Marco con le iniziali R·P del pubblico ufficiale della Zecca33, consegna indiscutibilmente questa successiva pisside (Fig. 21) a un argentiere della Serenissima. Le caratteristiche strutturali della base e della coppa sono quelle proprie di un artigianato veneziano della seconda metà del Settecento. Sempre la cappella del Santissimo custodisce due lampade pensili (Fig. 22) che valgono come testimonianza di molte altre prodotte tra Sette e Ottocento e diffusissime a Corfù. La morfologia e i decori floreali non si distaccano di molto da quella in precedenza analizzata, tanto da indurmi a datare questi due esemplari tra la fine del XVIII e l’inizio del XIX secolo e ad assegnarli con cautela a un argentiere veneziano. Su di essi ho rilevato un punzone che non compare nel repertorio pubblicato dal Pazzi: di forma ovale, racchiude la figura stante di un uomo (santo?) e, in basso, le lettere PC. Questo marchio potrebbe accostarsi a quello individuato da Sambonet sull’oliera di una collezione privata di Milano34. Fin qui l’analisi dei reperti del XVIII secolo. Per quanto riguarda invece l’argenteria di età neoclassica, improntata a un’estrema sobrietà delle forme e al recupero dei decori classici, sempre nella cattedrale di Corfù sono presenti alcuni pezzi che danno ugualmente lustro e prestigio alla raccolta. Nel 1806 si realizzò un piattino (Fig. 23) da servire per la comunione. Di forma ovale, poggia su quattro piedini decorati da palmette; il bordo è percorso da una fila di perline. Sul rovescio è incisa la sigla C.o G.e B.o/1806, da sciogliere, come mi suggerisce Spiros Gaoutis, in Canonico Giuseppe Bonifacio: un prete della cattedrale, nato nel 1755. Lo stesso commissionò nel 1810 una lampada pensile, oggi nella locale chiesa di San Francesco d’Assisi. Il piattino è punzonato con il contrassegno del Pubblico Sazador Zuan Pietro Grappiglia (ZPG), fino a ieri documentato dal 1738 al 180235. Segue il probabile punzone di bottega: di forma mistilinea, raffigura una nave con i remi e la sottostante lettera V; a quanto ne so, inedito36. È ascrivibile al primo Ottocento un elegante calice (Fig. 24) di manifattura romana. Il pezzo, dalle linee molto semplici e dai tipici decori del repertorio neoclassico, è in bronzo fuso e dorato; la coppa è in argento. Gli ornati sono prevalentemente di natura vegetale: foglie di acanto sul gradino della base e foglie lanceolate sul nodo e sul sottocoppa. Il manufatto trova un puntuale riscontro con un esemplare gemello, purtroppo privo di coppa, conservato nella chiesa corfiota di San Francesco d’Assisi. L’oggetto è marchiato con il punzone dello Stato Pontificio in uso dal 1815 al 1870, ossia la tiara con le due chiavi incrociate37, e con quello dell’argentiere siglato N133B spettante a Nicola Bartolini, patentato il 29 maggio 1817 e morto il 29 settembre 184238. Questi dati consentono di circoscrivere l’esecuzione del calice tra il 1817 e il 1842. Il nostro manufatto trova analogie con altri esemplari diffusi a Roma e negli ex territori dello Stato Pontificio: per esempio, il calice del duomo di Tuscania39 e della chiesa di Sant’Antonio a Roma40. Di tutt’altra temperie è una ragguardevole stauroteca (Figg. 25a e b), oggi priva della sacra reliquia, caratterizzata da una composizione elaborata e dall’uso di materiali diversi. L’oggetto è stato offerto all’attuale arcivescovo di Corfù Giovanni Spiteris da una famiglia di Roma; la mancanza di altre notizie non permette di conoscere il nome del committente e neppure la destinazione originale. La croce poggia su una base raffinatissima nello sviluppo formale e nella resa decorativa della superficie: suddivisa da costoloni in tre sezioni triangolari, è decorata da un repertorio naturalistico di girali e foglie d’acanto su fondo ruvido. Qui pure sono inserite delle gemme preziose e semipreziose che parrebbero di riutilizzo: granati, opaline, lapislazzuli, turchesi e due steatiti con iscrizioni arabe, la prima con il nome Allah, la seconda illeggibile (forse il committente della croce è un cristiano arabofono?)41. Alla sommità della base siedono tre angioletti a tutta fusione con il libro del Vangelo (uno ne è privo); qui pure è posta una piastra in argento a filigrana. Anche la croce vera e propria, con i terminali trilobati e lo spessore connotato da rigature, presenta una fitta decorazione di motivi naturalistici e pietre preziose e semipreziose; grappoli d’uva e spighe di grano sono incisi nella traversa orizzontale, rispettivamente a destra e a sinistra. Il Christus patiens, eseguito a fusione, ha il capo reclinato a sinistra, anziché a destra come d’abitudine; in asse sono applicati il cartiglio e il teschio di Adamo. Una raggiera dorata è posta all’incrocio dei bracci. Il verso della croce ripete il ricco repertorio vegetale del recto ed è inoltre contraddistinto dalla raffigurazione dell’occhio di Dio, in alto, e del trigramma IHS, in basso. Il punzone rilevato è quello di Vienna, in uso dal 1806 al 1866 durante l’impero Austro-Ungarico42, ovvero la lettera A delimitata dalla cifra 1/8/(3?)/2; al centro è anche presente il numero 13: titolo dell’argento di 13 lothinge (812 millesimi). Un altro piattino (Fig. 26), di forma pressoché rettangolare, presenta un profilo irregolare decorato da un cordone avvolto qua e là da un nastrino e guarnito, in ogni lato, da una foglia ritorta. Il reperto, forse, va considerato un piattino da comunione. L’unico punzone impresso è di forma quadrata e include, in alto, una testa di cavallo e, in basso, le iniziali LS; fra i contrassegni veneziani del primo Ottocento individuati da Piero Pazzi, due sono quelli che riproducono una testa di cavallo, ma in campo triangolare43. Il manufatto, sebbene influenzato da uno stile settecentesco, andrebbe datato ai primi decenni del XIX secolo. La cattedrale di Corfù conserva altresì una coppia di candelieri (Fig. 27) di manifattura italiana, segnatamente di Milano. La base circolare è interessata da una fascia con motivi a baccelli; il fusto tubolare è scanalato. Altri decori di natura prettamente vegetale abbelliscono sia il piattello spandicera, sia la sfera di raccordo tra la base e il fusto. I punzoni rilevati sono quelli emanati nel periodo napoleonico e validi dal 1812 al 187244: il Globo con lo zodiaco e i sette trioni in ettagono; l’aratro in contorno libero, in altre parole il contrassegno dell’Ufficio di Garanzia del Dipartimento di Milano; quello di bottega è purtroppo consunto, ma dovrebbe raffigurare, racchiuso in un clipeo, un quadrupede andante (capra?). Si propende a datare i due candelieri, di chiaro gusto eclettico, tra il 1855 e il 1872; un confronto stringente è con il candelabro a tre braccia del Museo Diocesano di Milano, realizzato da Francesco Ceppi (attivo tra il 1855 e il 1880)45. A una manifattura francese vanno restituite due pissidi, di chiaro gusto revivalistico ed entrambe databili alla seconda metà dell’Ottocento. L’esistenza di tali reperti in Grecia non è una novità per le chiese cattoliche, anche in ragione della massiccia presenza di comunità religiose provenienti da oltreconfine: un nutrito corpus di argenti liturgici francesi, per esempio, è custodito nella cattedrale di Naxos46 e altri, in attesa di pubblicazione, si sono finora rinvenuti a Volos e a Tinos. La prima pisside (Fig. 28), connotata da decori vegetali, è punzonata con il bollo di garanzia raffigurante la testa di Minerva, quello dell’argentiere, pur se consunto, dovrebbe riferirsi al noto atelier dei Fratelli Favier di Lione: una losanga con le lettere FF intervallate da un sole47. La seconda pisside (Fig. 29) è caratterizzata da una struttura e da decori neogotici. Sia base che il coperchio presentano i simboli della Passione; il fusto ha un nodo a sfera schiacciata ingentilito da losanghe. Di effetto gradevole è il sottocoppa, decorato da archi gotici intrecciati e traforati. Al 1885 risale la realizzazione di un modesto calice (Fig. 30). Il vaso sacro, dalla linea slanciata, presenta un piede circolare decorato da incisioni con teste di angeli intervallate a motivi fitomorfi; un decoro a baccelli si sviluppa sul collo del piede. Il fusto ha un nodo a balaustro liscio mentre il sottocoppa è ornato da angeli intervallati a cesti di frutta, il tutto rappresentato in un’ottica semplice e ingenua, quasi naïf. Sulla base del piede un’iscrizione in greco ci informa che il manufatto fu donato il 3 dicembre 1885 da Spitropos Dementrios Cristos: <<3 ΔEΚΕΜΒΡIΟΥ 1885 ΣΠΗΤΡΟΠΟΣ ΔΗΜΗΤΡΗΟΣ ΧΡΗΣΤ(ΟΣ)>>. Tale iscrizione è affiancata da un’altra con il nome dell’ultimo donatore: <<ΑΠΟ Κ. ΖΟΥΦΡΕ ΣΤΟΝ Π. ΑΓΙΟΥΣ 1995>> (da Giuffrè a padre Agius 1995). Sul calice è incusso un punzone ovale di difficile interpretazione; sul piano stilistico, tuttavia, si può supporre che sia opera di un artista greco. Data la vicinanza geografica con l’isola di Corfù, non escluderei che possa trattarsi di una bottega di Kalarites, cittadina dell’Epiro nota per la lavorazione dell’argento e per aver dato i natali a Sotirio Bulgari, fondatore a Roma nel 1884 della famosa casa orafa. Conclude la nostra rassegna una ennesima lampada pensile (Fig. 31), morfologicamente affine agli esemplari aulici di produzione veneziana. Sul piattello è presente il bollo 900, ossia il titolo di garanzia di bontà. Nella parte inferiore pende una croce greca, aggiunta in un secondo momento, sulla quale è incisa la seguente iscrizione: <<ΕΙC ΜΝΗΜΗΝ/ΜΙΧΑΗΧ ΖΑΜΙΤ 1960>> (In memoria di Michele Zamit 1960).

A conclusione di questa nostra indagine, possiamo sicuramente affermare che gli argenti liturgici della Cattedrale di Corfù, nel lungo periodo compreso tra il Quattrocento e l’Ottocento, rappresentino una delle testimonianze più indicative tra le chiese di Grecia. Essi costituiranno riferimento imprescindibile per gli studi successivi, anche perché esemplificative di quella fitta trama di rapporti culturali tra Venezia e i possedimenti d’Oltremare.

  1. G. Boraccesi, Le oreficerie della Cattedrale di Corfù tra Quattro e Seicento, in “OADI. Rivista dell’Osservatorio per le Arti Decorative in Italia”, a. 3, n. 6, dicembre 2012 (www.unipa.it/oadi/rivista). In questo articolo analizzavo una croce astile (Fig. 4a/b) datandola all’ultimo quarto del XV secolo; oggi invece sono del parere che possa circoscriversi tra la fine del XV secolo e la prima metà del XVI secolo. []
  2. P. Pazzi, I punzoni dell’argenteria veneta, Pola 1992, numero 77, p. 72. []
  3. Idem, Il tesoro della cattedrale di Concordia Sagittaria, Portogruaro 1992, pp. 54-55. []
  4. Idem, I punzoni dell’argenteria veneta, cit., numero 574, p. 170. []
  5. R. Tomić, scheda 17, in Blago Kotorske biskupije. Zagovori svetom Tripunu povodom 1200. Oblijetnice prijenosa moći svetoga Tribuna u Kotor, catalogo mostra a cura di R. Tomić, Zagreb 2009, pp. 196-198. []
  6. Per un’analisi più approfondita di questa tipologia di calice, cfr. G. Boraccesi, L’episcopato, la cattedrale e l’argento di Nardò, in corso di stampa. []
  7. E. e C. Catello, I marchi dell’argenteria napoletana, Sorrento-Napoli 1996, p. 30. []
  8. Sulla figura di Andrea De Blasio, cfr. G. Boraccesi, L’episcopato… []
  9. G. Boraccesi, Rapporti tra la Grecia e l’Occidente europeo negli argenti della Cattedrale di Naxos, in “Arte Cristiana”, n. 863, marzo-aprile 2011, pp. 131-144; Idem, A Levante di Palermo. Argenti con l’aquila a volo alto nell’isola greca di Tinos, in “OADI. Rivista dell’Osservatorio per le Arti Decorative in Italia”, a. 2, n. 4, dicembre 2011, pp. 60-67 (www.unipa.it/oadi/rivista). Questi due articoli sono stati poi tradotti in greco e pubblicati su una rivista di questa nazione, cfr. G. Boraccesi, Ανατολικά του Παλέρμο. Αργυρά σκεύη με τον «υψηλά ιπτάμενο αετό» στο νησί της Τήνου; Τα αργυρά ιερά σκεύη του Καθολικού Μητροπολιτικού Ναού της Νάξου, in «Anno Domini», III, MMXIII, Tinos 2013, pp. 338-356. []
  10. E. e C. Catello, L’oreficeria a Napoli nel XV secolo, Cava dei Tirreni 1975, p. 37 []
  11. B. Montevecchi-S.Vasco Rocca, Suppellettile ecclesiastica, Firenze 1988, p. 294. []
  12. P. Pazzi, I punzoni… 1992, numero 452, p. 145 []
  13. A. Bulgari Calissoni, Maestri argentieri gemmari e orafi di Roma, Roma 1987, p. 346. []
  14. A. M. Pedrocchi, Argenti sacri nelle chiese di Roma dal XV al XIX secolo, Roma 2010, pp. 89, 92-95, 98, 102-104, 108. []
  15. P. Pazzi, I punzoni …, 1992, numero 503, p. 155. []
  16. Ibidem, numero 481, p. 151. []
  17. Sulla figura del vescovo, cfr. Σ. Γαούτσης, Άγνωστα οικόσημα των Λατινεπισκόπων Augustus Antonius Zacco και Franciscus Maria Fenzi από τον Καθολικό Καθεδρικό Ναό Κέρκυρας, Δελτίο της Εραλδικής και Γενεαλογικής Εταιρείας της Ελλάδος, τ. 12ος, Αθήνα υπό έκδοση, in corso di stampa. []
  18. P. Pazzi, I punzoni …, 1992, numero 81, p. 73. []
  19. Ibidem, numero 230, p. 102. []
  20. G. Merlo, I tesori di Ostiano, Brescia 2002,  p. 102. []
  21. P. Pazzi, I punzoni …, 1992, numero 286, p. 114. Per i punzoni veneti si veda anche F. Gambarin, Bolli e punzoni sugli argenti A Venezia e in Terraferma nel ‘600 e ‘700. Testimonianze archivistiche, in Ori e Tesori d’Europa, atti del convegno, a cura di G. Bergamini e P. Goi, Udine 1992, pp. 299-308. []
  22. P. Pazzi, I punzoni …,1992, numero 320, p. 120. []
  23. F. Basaldella, Alla riscoperta di un tesoro sacro. Le oreficerie della chiesa di S. Eufemia della Giudecca, S. Maria di Sala 1996, p. 76.  []
  24. Il Museo Civico di Pordenone, a cura di G. Ganzer, scheda n. 145, Vicenza 2001, p. 200. []
  25. R. Cecconi, Ostensorio raggiato, in Museo Attilio e Cleofe Gaffoglio. La collezione di argenti e oreficerie, Milano 2006, p. 107. []
  26. P. Pazzi, I punzoni …, 1992, numero 439, p. 142. []
  27. L. Crusvar, Il Tesoro del Duomo di Caorle: dal basso Medioevo al XIX secolo, in «Antichità Alto Adriatiche, Studi caorlesi», XXXIII, 1988, pp. 144, 161. []
  28. A. Tsitsas, Ori e argenti, in Arte bizantina e post-bizantina a Corfù. Monumenti, icone, cimeli, civiltà (edizione italiana), Corfù 1994, pp. 175, 177. []
  29. P. Pazzi, I punzoni …, 1992, numero 401, p. 135. []
  30. A. Tsitsas, Ori e argenti, cit., p. 191 []
  31. P. Pazzi, I punzoni …, 1992, numero 469, p. 148. []
  32. P. Pazzi, I punzoni…, 1992, numero 313, p. 119. []
  33. P. Pazzi, I punzoni …, 1992, numero 590, p. 173. []
  34. G. Sambonet, Gli argenti milanesi. Maestri, botteghe e punzoni dal XIV al XIX secolo, Milano 1987, p. 314. []
  35. P. Pazzi, I punzoni …, 1992, numero 481, p. 151. []
  36. Più volte è riportato il simbolo del veliero, ma senza la sottostante lettera V, cfr. P. …, 1992, p. 155, 180.  []
  37. A. Bulgari Calissoni, Maestri argentieri, cit., pp. 56-57; il bollo è quello contrassegnato dal numero 168. []
  38. Ibidem, p. 84. []
  39. Argenti romani restauro di arredi sacri del Duomo di Tuscanica, catalogo della mostra (Roma 15 giugno -15 settembre 1983), a cura di A.M. Pedrocchi, Roma 1983, pp. 52-53. []
  40. A.M. Pedrocchi, Argenti sacri nelle chiese di Roma dal XV al XIX secolo, cit., p. 131. []
  41. Per la traduzione, ringrazio il prof. Carlo Alberto Anzuini. []
  42. J. Diviš, I marchi negli oggetti d’argento, La Spezia 1989, p. 226; il contrassegno è quello indicato dal numero 1901. []
  43. P. Pazzi, I punzoni …, 1992, pp. 179, 181. []
  44. G. Sambonet, Gli argenti milanesi, cit., pp. 37-47. []
  45. Museo Diocesano di Milano a cura di P. Biscottini, Milano 2005, p. 106. []
  46. G. Boraccesi, Rapporti …, 2011, pp. 138-143. []
  47. C. Aliquot, Un point de généalogie sur deux orfèvres parisiens du XIXe siècle : les « Favier » orfèvres parisiens de grosserie, in https://insitu.revues.org/6616; M. Chalabi-M. R. Jaze-Charvolin, Poinçons des fabricants d’ouvrages d’or et d’argent-Lyon-1798-1940, Paris 1993, p. 146. []