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Lo sguardo ‘attento e curioso’ di Emilio Lavagnino per le arti decorative
DOI: 10.7431/RIV06102012
Emilio Lavagnino giunse a Palermo nel 1926 quale vincitore di un concorso per ispettore aggiunto presso la Soprintendenza all’Arte Medievale e Moderna1, dopo un’esperienza già maturata quale funzionario nell’ambito dell’amministrazione delle Belle Arti e un corso di studi svolto all’interno della scuola di Adolfo Venturi, nel corso del quale orientò i suoi interessi verso tematiche diverse in cui temi dell’architettura romana del Quattrocento si intrecciavano ad altri di pittura e di decorazione musiva e a marmi mischi. Lavagnino si inserisce con piena consapevolezza metodologica in un ambito di studi che nell’isola aveva trovato nuovi linguaggi e temi specifici negli ultimi due decenni del secolo XIX, ad opera di importanti figure di studiosi di formazione di chiaro stampo positivista, quali Gioacchino di Marzo, Antonino Salinas e Giuseppe Pitrè, la cui attività, nella storia della cultura palermitana di fine Ottocento, appare strettamente intrecciata con risultati significativi2, come attesta la loro collaborazione in occasione dell’Esposizione nazionale di Palermo del 18913.
Sia Salinas che Di Marzo si riferiscono nella loro produzione scientifica agli esiti della Kunstwissenschaft e della Kulturgeschichte, come attestano per lo storico dell’arte la revisione critica della più aggiornata bibliografia non solo italiana su Antonello da Messina4 e le note ne I Gagini e la scultura in Sicilia nei secoli XV e XVI del 1880, nelle quali è preciso rimando alla storiografia di ambito tedesco. Analogamente, Salinas aveva una formazione di matrice europea, in particolare tedesca, come si evince dai riferimenti nei suoi scritti alla cultura materiale la cui conoscenza gli derivava dalla tradizionale attenzione dell’antiquaria siciliana per i manufatti5. Anche Di Marzo mostra grande interesse per le tecniche, per i materiali e per i restauri relativi a pitture, sculture o oreficerie sin dalla nota affermazione della eguaglianza tra arti maggiori e arti minori, nell’importante capitolo dedicato all’oreficeria siciliana della ricordata monografia del 1880 che sarà punto di partenza e di confronto per gli studiosi che si sono occupati, ancora nei decenni successivi del Novecento del particolare aspetto delle arti applicate siciliane, quali Paolo Orsi, Salinas, Giuseppe Agnello, Enrico Mauceri6e, in anni di poco successivi, Maria Accascina.
Di Marzo e Salinas saranno ancora punto di riferimento per molti dei temi della nascente critica d’arte che a cavallo tra i due secoli perverrà a precise puntualizzazioni per opera di studiosi, spesso funzionari delle Soprintendenze, quali Orsi, Mauceri, Agati , Brunelli, Gabrici, Lavagnino .
L’attenzione ad una più ampia contestualizzazione all’interno dell’ambito europeo della pittura siciliana del ‘400 ne aveva incentivato gli studi sugli aspetti delle influenze nordiche, in particolare di matrice fiamminga, anche sulla scia dell’interesse degli scritti editi nel primo decennio del secolo da Cesare Matranga e Gioacchino Di Marzo, il primo con preciso riferimento a Van Dick7, il secondo con il Guglielmo Borremans pittore di Anversa pittore fiammingo nel secolo XVIII8. Il testimone di questi fu raccolto da Gabrici che nel 1924, su “Bollettino d’Arte”9, pubblica uno studio sul Trittico proveniente dalla Chiesa di S. Maria di di Gesù di Polizzi Generosa (Pa).
Analoga attenzione ai complessi problemi attributivi che investono la pittura siciliana del XV secolo si ha con Emilio Lavagnino che nell’intenso pur se breve incarico palermitano (1926-27) affrontò alcuni temi salienti della produzione artistica isolana del secondo Quattrocento, studiando in particolare l’influenza della produzione artistica di matrice spagnola sulla pittura e sull’oreficeria siciliana del periodo, nella convinzione che questo intreccio avesse contribuito a creare l’ambiente favorevole alla formazione Antonello da Messina.
Indubbiamente l’interesse di Lavagnino per questa tipologia di manufatti di matrice spagnola si doveva all’impatto che l’articolo di Leandro Ozzola incentrato sulle influenze della pittura spagnola su quella siciliana aveva avuto sugli studiosi non solamente locali10.
Lavagnino ne riscontra infatti aspetti nelle già ai suoi tempi deboli tracce di affreschi della cappella La Grua-Talamanca in Santa Maria di Gesù presso Palermo11, cui dedica una disamina nell’articolo pubblicato sul “Bollettino d’arte”12 . Dal confronto con alcuni dipinti di derivazione gotico – catalana presenti a Palermo, in particolare con il Trionfo della Morte, oggi a Palazzo Abatellis13, avanza una proposta di datazione degli affreschi al decennio 1450-1460 sia sulla base dell’attento esame dei dati stilistici, formali e della tecnica dei due cicli di affreschi sia anche sulla base della revisione critica della più attendibile letteratura artistica relativa all’opera, in primis Di Marzo14, ma anche Giovan Battista Cavalcaselle, Leandro Ozzola, Enrico Mauceri, Sebastiano Agati, Enrico Brunelli15.
Si deve sottolineare che Lavagnino non offre un contributo esaustivo all’annosa questione attributiva relativa al Trionfo che già nel corso del secolo XIX era stata oggetto di un appassionante anche se per lo più fuorviante anelito attributivo da parte di numerosi connosseurs locali e in parte corretto dagli studiosi prima ricordati. Tuttavia il Nostro, partendo dall’assunto che i riferimenti già compiuti dalla critica fra la produzione pittorica locale e il noto affresco fossero stati precisati più sulla base di «affinità generiche che da vere e proprie identità stilistiche»16, in parte anticipa le motivate argomentazioni con le quali Ferdinando Bologna individua negli affreschi della cappella Talamanca le premesse alla cultura figurativa del Trionfo della Morte di Palazzo Sclafani17.
Indubbiamente più significativo è l’interesse che lo studioso manifesta anche in Sicilia alla rivalutazione delle arti applicate – che si era manifestato sin dal suo primo articolo Rinascimento prima del Rinascimento pubblicato ne le “Le cronache d’Italia” nel 1922 e dedicato all’opera dei marmorari romani del ‘200 -e che trova riscontro nell’attenzione della critica d’arte siciliana per le arti applicate. Ricordo il fondamentale articolo per gli studi sugli avori di derivazione araba del Di Marzo dedicato al cofanetto eburneo della Cappella Palatina del 188718 e la nascita di una rivista singolare anche per il particolare corredo iconografico, ma purtroppo dalla brevissima vita (1888-89), quale fu “Arte decorativa Illustrata”19. Questa nuova attenzione , come nota Sciolla, va messa in relazione al filone tardo ottocentesco delle grandi Esposizioni Universali, delle Esposizioni di arte sacra antica e moderna e di quelle d’arte decorativa, tra cui la più importante quella a Torino nel 1902 e allo spazio ad esse dedicato per lo più dai quotidiani20. In Sicilia la stampa periodica non manca di fornire ai lettori notizie sulle numerose esposizioni di arti applicate che si succedono per oltre un decennio in Europa e in Italia. Furono però soprattutto le riviste specialistiche edite per lo più sullo scorcio del secolo a contribuire alla particolare attenzione delle critica per le arti decorative, ricordando fra le numerose “Arte italiana decorativa e industriale”, “L’Arte decorativa moderna”, ma anche “Emporium”21 e “L’Arte” di Adolfo Venturi che ospitava una rubrica apposita, intitolata “Arte Decorativa”, sulla quale Enrico Mauceri, sulla scia della lezione di Di Marzo e di Venturi22, tra il 1902 e il 1915, edita i suoi studi su le arti applicate siciliane23.
Probabile interesse dovette suscitare in Lavagnino l’articolo Oreficeria siciliana del secolo XV del 191124 nel quale lo studioso siracusano affrontava il tema degli apporti di artisti genovesi, senesi, pisani, iberici, francesi attivi in Sicilia già dai secoli XIV-XV determinando una significativa koinè culturale in cui si mescolano con pari rilevanza forme gotico – catalane e forme rinascimentali .
Lavagnino che già aveva indagato le influenze dei manufatti spagnoli su quelli siciliani, in Oreficeria del Quattrocento in Sicilia pubblicato nel 1920 su “Dedalo” di Ugo Ojetti25, si muove nel complesso mondo della produzione artistica siciliana delle arti applicate26, con interessanti intuizioni, che di lì a breve saranno sviluppate, pur senza sottolineare il contributo di Lavagnino, da Maria Accascina27.
Interessante è il punto di partenza dell’articolo che si incentra su un manufatto poco noto, non ricordato nemmeno da Di Marzo nell’excursus sull’argenteria: si tratta di un piatto di rame dorato e sbalzato di 53 cm di diametro, al centro del quale è il capo mozzo del Battista lavorato a rilievo a grandezza naturale e «ricavati entrambi da un’unica lastra di rame», che faceva parte del patrimonio della trecentesca confraternita di San Giovanni Decollato, nella chiesa di San Giovanni alla Galka di Palermo, ora al Museo Diocesano (Fig. 1).
Lo studioso coglie il «senso tutto medaglistico [che] ha guidato l’artista nel disporre intorno al capo del Battista la chioma ondulata a raggiera, fiammeggiante come testa di Medusa: le linee delicate ma nettamente incise ed acute dei peli della barba e dei baffi sono a ondulazioni molli e simmetriche; le grevi ciocche dei capelli, segnate con file parallele di picchiettature minute , sì che la luce frastagliata toglie monotonia alle masse simmetriche della chioma , fan trasparire l’abitudine al bulino», sottolineando ancora che «nel volto emaciato, negli occhi velati dalle palpebre pesanti, nella bocca socchiusa con una piega amara di dolore, nel il naso sottile affilato dalla morte, è stata trasfusa tale intensità di emozione e con tale potenza realizzatrice, che verrebbe fatto quasi di pensare questa testa come opera di scultore, anziché di orefice»28.
Lavagnino non ha alcun dubbio nell’affermare che il piatto «opera di orafo, rientra nel gruppo dei numerosi lavori che gli spagnoli, espertissimi nell’arte dello sbalzo e del cesello, lasciarono nell’isola durante il XV secolo», notando che «nelle collezioni e nelle chiese di Spagna si conservano lavori simili, benché come epoca un po’ posteriori», acutamente osservando: «io almeno di altre opere a questa contemporanee non ho conoscenza»29.
Lo studioso pone a confronto l’immagine presente nel piatto con alcuni volti raffigurati in opere spagnole presenti a Palermo – tra le quali inserisce anche il Trionfo della Morte – caratteristici per gli zigomi rilevati, i capelli a ciocche fiammeggianti, gli occhi sporgenti dalle palpebre sottilmente incise e, sulla base di questo nesso, data il piatto al decennio 1475-1485, lo stesso già da lui individuato per il noto affresco nell’articolo del 1926 su “Bollettino d’Arte”. Nell’affermare che la potenza espressiva sia un tratto proprio dell’affresco ma anche della produzione artistica spagnola, Lavagnino ha una felice intuizione in quanto coglie nella poco studiata produzione artistica palermitana coeva al Trionfo i medesimi caratteri di forte espressività, riscontrabili, per esempio, nelle pressoché coeve sculture del portico meridionale del duomo palermitano30.
Sembra dunque che Lavagnino trascuri la presenza nel piatto di quegli elementi già rinascimentali che vi coglie invece l’Accascina31, ma, per ribadire la complessità dei raffronti stilistici e della datazione del piatto basta pensare che Monsignor Pottino nella sua guida del museo Diocesano di Palermo espone l’opera nell’allestimento della Sala Barocca datandola al secolo XVIII32.
L’articolo, pur nella semplicità discorsiva, presenta alcune felici osservazioni in relazione ad alcuni argenti del periodo che saranno riprese, pur con dei distinguo, dalla critica successiva33. Lo studioso infatti allarga l’ambito del suo studio, andando oltre la semplice disamina dei pezzi individuati. Egli osserva la necessità di individuare, pur nella forte valenza degli influssi spagnoli, le diversità presenti nella produzione orafa siciliana del secolo XV riconducibili anche a due diverse aree geografiche dell’isola. Nella Sicilia orientale ricorda il persistere di una radicata tradizione dell’arte ellenistica, in quella occidentale del decorativismo di matrice musulmana34. Presenta dunque due esempi di argenti siciliani ascrivibili alle due correnti individuate, sicuramente realizzati da artisti locali sullo scorcio del XV secolo, che lui, errando, assicura essere inediti. Il primo è quello dell’urna reliquaria di San Paolino (Fig. 2), datata 1496 e conservata nell’omonima chiesa a Sutera in provincia di Caltanissetta; l’opera già presentata da Di Marzo35 e da Salinas36, è considerata da Lavagnino esempio della prima corrente, frutto della permanente vitalità della tradizione ellenistica, in quanto classica nella struttura e nella decorazione pittorica. Questa asserzione si discosta da quanto affermato da Mauceri che l’aveva anche riprodotta in fotografia nell’articolo sopra citato, Oreficeria in Sicilia del XV secolo del 1911, osservando che nonostante l’oreficeria siciliana fosse «proceduta lentamente e con un conservatorismo tutto particolare», oltre alle «influenze ora italiane ora catalane », «risente dell’influsso di un’arte nuova che si accosta agli esemplari italiani»37.
Si è prima osservato che Lavagnino sembri non cogliere nel piatto di rame influenze rinascimentali, ma nell’urna di S. Paolino- che egli aveva messo appunto in rapporto con il piatto- con occhio acuto, accanto ai motivi “di chiara ispirazione classica” presenti nel coperchio, ne individua nella cassa anche altri ascrivibili ai modi di scultura lombarda, ponendo il manufatto in rapporto anche con la coeva croce astile della chiesa del Carmine di Sutera (Fig. 3) che presenta le stesse caratteristiche, cogliendovi un preciso nesso stilistico tra i tre diversi manufatti, per alcuni aspetti riproposto anche da Maria Accascina38.
L’opera presa in considerazione come exemplum di scultura della Sicilia occidentale della metà del secolo XV è la Croce di Monte San Giuliano (Erice) (Fig.4). In essa riscontra oltre alla persistenza dello spirito decorativo arabo nei “contorni ondulati e sinuosi” , motivi che si riallacciano alla scultura rinascimentale lombarda nelle figure della Vergine e dei Santi, osservando anche alcune affinità stilistiche con la cassa reliquaria di S. Paolino39, quali le “linguette contorte e arricciate agli estremi”, che pur essendo di chiaro gusto arabo sono in piena armonia con le decorazioni di attardata matrice bizantina.
Indipendentemente dalle differenti conclusioni critiche, il contributo del Lavagnino nonostante i limiti e l’asistematicità della trattazione, offre un primo esempio di contestualizzazione della produzione orafa siciliana in un più ampio contesto artistico – culturale che sarà oggetto di approfondimenti critici successivi. L’interesse dello studioso per le arti applicate attraversa la sua intera produzione critica come attesta, per esempio, il breve articolo Il restauro dei tappeti e degli arazzi pubblicato nel 1931 su “Arte sacra”, in cui ricorda la presenza nelle chiese italiane di un ingente, e spesso di inestimabile pregio, patrimonio artistico di stoffe antiche, tappeti e arazzi, denunciando l’incuria e l’incompetenza di quanti preposti alla tutela coloro, individuando anche i necessari e urgenti lavori di restauro40.
L’interesse per le arti applicate si manifesta ancora in età avanzata quando, in occasione della mostra parigina “Tresor d’art du Moyen Age en Italie”, realizzata nel 1952 a Parigi nei locali del Petit-Palais, cura anche la prefazione del catalogo; analogamente a quella romana intitolata “Mostra di arazzi francesi dal Medioevo ad oggi” del 1953 allestita nel Palazzo delle Esposizioni e nelle Sale del museo del Palazzo Venezia: (1953), a cui dedicò anche un articolo su “Arte e Fede”41.
E’ un interesse che egli attesta sempre con forza, pur nelle gravi difficoltà cui andò incontro nel ruolo di uomo delle istituzioni. Nel 1938 era subentrato a Federico Hermanin presso la Soprintendenza alle Gallerie e alle opere d’arte Medievali e Moderne del Lazio, ma di lì a poco, caduto nel mirino della rete investigativa della polizia42, con decreto del ministro dell’Educazione Nazionale Bottai, fu allontanato dall’amministrazione delle Belle Arti, declassato al ruolo di ispettore centrale di seconda classe per l’insegnamento medio e assegnato per ben cinque anni come ispettore centrale alla Direzione Generale dell’Istruzione Media Tecnica. In questo ruolo curò l’insegnamento artistico in alcune scuole di avviamento professionale, tra cui quella per la ceramica di Caltagirone e quella per il disegno di tessuti dell’Istituto Tecnico di Como.
La necessità di salvare il ricco patrimonio delle arti applicate superstite ai danni della guerra, vide Lavagnino impegnato in un ruolo di primo piano nell’elaborazione delle linee programmatiche della ricostruzione. Egli prese parte ad ogni attività indirizzata a questo fine, appoggiando l’impegno di associazioni non direttamente legate al mondo delle Soprintendenze, anche con interventi pubblicati su riviste tutti miranti a sottolineare la necessità di un urgente piano di restauro che doveva ugualmente riguardare edifici, dipinti, sculture, arredi sacri colpiti dagli eventi bellici. In quest’ottica insieme all’archeologo Umberto Zanotti Bianco fu fondatore nel 1944 dell’Associazione Nazionale per il restauro dei monumenti danneggiati dalla guerra, sostenuta da Croce e Bianchi Bandinelli, che si proponeva di raccogliere fondi per eseguire i restauri di edifici monumentali, attraverso esposizioni, conferenze, pubblicazioni.
- A. LAVAGNINO, La figura e l’opera di colleghi scomparsi. Emilio Lavagnino, in “Antichità e belle arti”, 1963,nn. 13-14, pp. 51-53. S. RINALDI, L’attività della Direzione Generale delle Arti nella città aperta di Roma, in “ Rivista dell’Istituto Nazionale d’Archeologia e Storia dell’arte”, 2005, 60, III serie, XXVIII, pp. 95 – 126. [↩]
- S. LA BARBERA, Percorsi di critica a Palermo dal 1890 al 1920 , in Identità nazionale e memoria storica. Le ricerche sulle arti visive nella nuova Italia (1870-1915)” , in “Arte Lombarda”, c.d.s. [↩]
- Di Marzo, affiancato da Salinas, fu presidente della Commissione Ordinatrice della Sezione Monumentale e Pittoresca dell’Esposizione. Cfr. I. BRUNO, Gioacchino di Marzo e il clima culturale artistico palermitano nella seconda metà dell’Ottocento, in Gioacchino Di Marzo e la critica d’Arte nell’Ottocento in Italia, Atti del Convegno a cura di S. La Barbera, Palermo 2003, p. 263. [↩]
- G. DI MARZO, I Gagini e la scultura in Sicilia nei secoli XV e XVI , 2 voll., Palermo 1880-1883; ; ID., La Pittura in Palermo nel Rinascimento, Palermo 1899 ; ID., Di Antonello da Messina e dei suoi congiunti. Documenti per servire alla storia di Sicilia, a cura della Società Siciliana di Storia Patria Studi e documenti, Palermo 1903, pp, 32 e ss. [↩]
- S. DE VIDO, Mostrare la storia. Palermo e il suo Museo, in Mélanges de l’Ecole française de Rome: Italie et Méditerranée, 2002, Vol. 113, 2, p. 739-758. [↩]
- Su Agnello cfr. I. DI NATALE, Giuseppe Agnello: contributi sulla stampa periodica allo studio della storia dell’arte siciliana dal tardo antico al Barocco, in “teCLa-Rivista, www.unipa.it/tecla/rivista/3_rivista.php, 31 maggio 2011, pp. 106-143, codice ISSN:2038-6133; codice DOI:10.4413/RIVISTA. Su Mauceri cfr. Enrico Mauceri (1869-1966) storico dell’arte tra “connoisseurship” e conservazione, atti del convegno internazionale di studi (Palermo, 27-29 settembre 2007), a cura di S. La Barbera, Palermo 2009. [↩]
- C. MATRANGA, Dipinti di Antonio Van Dijck e della sua scuola nel Museo Nazionale di Palermo, in “Bollettino d’Arte”, anno 1908, fasc.1, pp. 11-18. [↩]
- G. DI MARZO, Guglielmo Borremans pittore di Anversa pittore fiammingo nel secolo XVIII, Palermo 1912: Cfr. N. DI BELLA, Guglielmo Borremans pittore di Anversa pittore fiammingo nel secolo XVIII (1912) di Gioacchino Di Marzo. Aggiornamento critico bibliografico, all’indirizzo www.unipa.it/tecla/borremans.htm. [↩]
- E. GABRICI, Il Trittico di Polizzi Generosa, in “Bollettino dell’Arte”, s. II, t. IV, 1924-1925, pp. 145-161 ripubblicato in “Giglio di Roccia”, Giugno-Luglio 1934, pp. 3-10. L’autore individua nell’opera una chiara derivazione fiamminga e, grazie al ricco corredo iconografico di riferimento, non si limita alla comparazione con altri manufatti coevi ma ne valuta anche il contesto storico e sociale, con preciso riferimento, pur senza alcuna soggezione, alla più significativa letteratura artistica precedente. [↩]
- L. OZZOLA, L’arte spagnola nella pittura siciliana del XV secolo, in “Rassegna Nazionale”, gennaio- febbraio 1909, v, 165, pp. 46-66. [↩]
- G. DI MARZO, La Pittura in Palermo nel Rinascimento, Palermo 1899, pp. 185 e ss, ricorda che la cappella presentava notevoli lacune nella parte inferiore riferendo che «un anteriore disegno, appunto di quella parte, ignoro da chi rilevato e che l’egregio professor Salinas donò al Museo di Palermo, la completa quasi del tutto». I disegni, di cui si servirà Lavagnino, erano stati eseguiti negli anni sessanta del secolo XIX dal marchese Pensabene e conservati presso l’allora Museo Nazionale. [↩]
- E. LAVAGNINO, Le pitture di Santa Maria di Gesù presso Palermo, in “Bollettino d’arte”, 1926-1927, n.9, pp. 404 -20. [↩]
- F. BOLOGNA, Napoli e le rotte del Mediterraneo da Alfonso il Magnanimo a Ferdinando il Cattolico, Napoli 1978, nonostante alcune riserve sull’assunto di Lavagnino, ritiene gli affreschi della cappella la Grua- Talamanca punto di partenza per la comprensione della koinè artistica del Trionfo della Morte. [↩]
- G. DI MARZO, La Pittura in Palermo…, pp. 185-190. [↩]
- G. B. CAVALCASELLE, J.A. CROWE, New History of painting in Italy, Monaco 1866; L. Ozzola, L’arte spagnola nella pittura siciliana …. Sul viaggio siciliano Cfr. D. MALIGNAGGI, L’arte del Medioevo e del Rinascimento studiata in Sicilia da Giovan Battista Cavalcaselle, in Gioacchino Di Marzo e la critica d’arte nell’Ottocento in Italia, a cura di S. La Barbera, Bagheria 2004, pp. 205-16. ; E. MAUCERI – S. AGATI, Il Cicerone per la Sicilia. Guida per la visita dei monumenti e dei luoghi pittoreschi della Sicilia, a cura dell’Associazione Italiana per il bene economico, Palermo 1910; E. BRUNELLI, Il trittico di Petralia Sottana, in “Giornale di Sicilia”, 6-7 Ottobre 1926. [↩]
- E. LAVAGNINO, Le Pitture di Santa Maria…, pp. 411 e ss. [↩]
- F. BOLOGNA, Napoli e le rotte del Mediterraneo da Alfonso il Magnanimo a Ferdinando il Cattolico, Napoli 1978, pp. 20-22. [↩]
- G. DI MARZO, Di una cassetta d’avorio nella Real Cappella Palatina di Palermo, Palermo, 1887; Cfr. G. TRAVAGLIATO, Bene de ebore factum, Avori ‘arabo-siculi’ nelle collezioni dei Musei Vaticani e a Palermo, in Sicilia ritrovata. Arti decorative dai Musei Vaticani e dalla Casa di Loreto, a cura di M. C. Di Natale, G. Cornini, U. Utro, Palermo 2012, pp. 41-50. [↩]
- R. CINÀ, Arte e gusto sulle pagine de “L’Arte decorativa illustrata” , in teCLa Effemeride, 2010, codice DOI: 10.4413/EFFEMERIDE. [↩]
- Cfr. G.C. SCIOLLA, La riscoperta delle arti decorative in Italia nella prima metà del Novecento. Brevi considerazioni, in Storia, critica e tutela dell’arte nel Novecento. Un’esperienza siciliana a confronto con il dibattito nazionale. Atti del convegno internazionale di studi in onore di Maria Accascina, a cura di M. C. Di Natale, Salvatore Sciascia Editore, Caltanissetta 2007, pp. 51-58. [↩]
- Emporium. Parole e figure tra il 1895 e il 1964, a cura di G. Bacci, M. Ferretti, M.Fileti Mazza, Pisa 2009. [↩]
- Cfr. Sul rapporto di Mauceri con le arti decorative cfr. M.C. DI NATALE, Enrico Mauceri e il tesoro di S. Agata di Catania in Enrico Mauceri ( 1869-1966) Storico dell’arte, tra connoisseurship e conservazione, Atti del convegno internazionale di studi, a cura di S. La Barbera, Palermo 2009, pp. 141-156 e di M. VITELLA, Enrico Mauceri e il Tesoro della Chiesa Madre di Enna, Ididem, pp. 201-208. Per il rapporto Di Marzo- Mauceri cfr. R. VADALÀ, Contributi alla conoscenza dell’oreficeria siciliana del XV secolo, Ibidem, pp. 289-96. [↩]
- Per gli studi sulla ceramica siciliana condotti da Mauceri in particolare su “Faenza”, ma anche da Ettore Gabrici (E. GABRICI, Collesano nella storia della maiolica siciliana, in “Giglio di Roccia”, Ottobre- Novembre 1939, pp. 6-7) cfr. R. MARGIOTTA, Maioliche e maiolicari siciliani nell’entroterra palermitano dal XVI al XIX secolo, in Enrico Mauceri (1869-1966)…, pp.383-387. [↩]
- E. MAUCERI, Oreficeria siciliana del secolo XV, in “Vita d’arte”, a. 4, v. VIII, 1911, n. 44, pp. 41-51. [↩]
- La rivista ospita contributi e studi su oreficerie, smalti, vetri, mobili, tappeti, cristalli provenienti da raccolte pubbliche e private delle diverse regioni italiane; nel suo programma, pubblicato da M. FILETI MAZZA, La fototeca di Dedalo, in “Quaderni” Scuola Normale Superiore di Pisa, Centro di ricerche informatiche per i Beni Culturali, V, 1995, p. 7, si legge: «Ci occuperemo […] delle arti decorative quanto delle arti dette pure; d’una bella sedia con lo stesso amore e rispetto d’un’insigne architettura; del modo di inventare e tessere una stoffa». [↩]
- E. LAVAGNINO, Oreficeria del Quattrocento in Sicilia, in “Dedalo”, 1927-1928, n. 5, pp. 314-20. [↩]
- M. ACCASCINA , Oreficeria di Sicilia dal XII al XIX secolo, Palermo 1974. Sulla studiosa cfr. M. C. DI NATALE, Maria Accascina storica dell’arte; il metodo, i risultati, in Storia, critica e tutela dell’arte nel ‘900. Un’esperienza siciliana a confronto con il dibattito nazionale. Atti del Convegno Internazionale di Studi in onore di Maria Accascina, a cura di M.C. Di Natale, Palermo 2006, pp. 27-50. [↩]
- E. LAVAGNINO, Oreficeria del…, p. 314. [↩]
- Ibidem, pp. 314 e ss. [↩]
- S. LA BARBERA, Il portico meridionale della cattedrale di Palermo:immagini e simboli, in Studi in onore di M. Calvesi, in “Storia dell’Arte”, nn. 93 / 94, 1998, pp. 158 – 168. [↩]
- M. ACCASCINA, Oreficeria di Sicilia…, p.148. [↩]
- F. POTTINO,Il Museo Diocesano di Palermo, Palermo 1969, p. 32 e p. 48. Lo studioso probabilmente fu fuorviato in questa sua errata datazione in quanto la tipologia del piatto in rame in questione si era ben diffusa ed era perdurata a lungo, anche in Sicilia, come attesta il piatto, sempre con la raffigurazione della testa del Battista, riferito Paolo e Cesare Aversa del 1641 della Cattedrale di Ragusa. Cfr. C. VELLA, scheda n. 192 in Il tesoro dell’isola. Capolavori siciliani di argento e corallo dal XV al XVIII secolo, a cura di S. Rizzo, 2 voll., Caltanissetta 2008, p. 972. [↩]
- M. ACCASCINA, Oreficeria di Sicilia…; M.C. Di Natale,Ori e argenti di Sicilia dal Quattrocento al Settecento, Milano 1989. [↩]
- M. ACCASCINA, Oreficeria di Sicilia…, pp. 139-140, è perfettamente consapevole di questo panorama culturale di respiro mediterraneo ed europeo avvalorando la distinzione tra le correnti stilistiche della Sicilia occidentale e quelle della Sicilia orientale, pur riconoscendo che a Palermo la circolazione dei repertori stilistici catalani fu molto intensa, in particolare per l’oreficeria. [↩]
- G. DI MARZO, I Gagini…, v. I, 1880, p. 610 nel ricordare le poche argenterie del sec. XV superstiti cita la cassa di S, Paolino di Sutera« …bellissima cassa di reliquie, segnata dell’anno MCCCCLXXXXVI…» osservando:«Ma non è noto da chi mai venne eseguita, giacchè non vi ricorre il nome dell’artista, che la produsse…». [↩]
- A. SALINAS, Studj storici e archeologici sulla Sicilia, v. I, Palermo 1894, pp. 116-117. Alla p. 115 nel trattare della Chiesa rurale di San Paolino egli scrive:«…gli scrittori di memorie storiche siciliane hanno notato di che generi di frati o di coadiutori fosse amministrata la chiesa di S, Paolino; taluno ha detto perfino che i corpi dei santi Onofrio e Paolino si custodissero in arche d’argento», sottolineando come il ricordo dell’opera fosse «certo in grazia del valore e del metallo» ma «niuno ha notato l’epoca o il valore artistico di queste arche ignorate pure da’ nostri compilatori di guide o illustratori di memorie artistiche. E pure sono due capi veramente notevoli». [↩]
- E. MAUCERI, Oreficeria in Sicilia del XV secolo, “Vita d’arte”, 1911, pp. 41-51[49]. [↩]
- M. ACCASCINA, Oreficeria di Sicilia dal XII al XIX., ritrova nell’opera echi del linguaggio rinascimentale ritenendo ipotizzando che il disegno dell’urna sia da riferire a Domenico Gagini o alla bottega; M. C. Di Natale, Oreficeria siciliana dal Rinascimento al Barocco,…, vol. I, p. 35, ricorda che« lo stemma della famiglia Pujades si riscontra sull’urna di San Paolino custodita nel santuario omonimo di Sutera [chiesa di Santa Maria Assunta],….. L’autore dell’urna di San Paolino , che risente dunque di innovazioni rinascimentali italiane, dovette essere verosimilmente anche l’autore della coeva croce astile in argento della stessa chiesa»; EAD, Croce astile di Sutera, scheda n. 4,in Oreficeria siciliana v. II, pp.772-773, fine sec. XV; M. C. DI NATALE, Il tesoro della Matrice di Sutera, in M. C. DI NATALE, M. VITELLA, Il tesoro della Chiesa Madre di Sutera, Caltanissetta 2010, pp. 13-34 sull’urna di S. Paolino a p. 22 scrive: «L’opera, infatti, pur dovuta a committenza iberica, presentando lo stemma della famiglia Pudjades, di origine barcellonese, non è stata ispirata a modelli spagnoli, ma a modi spiccatamente italiani. L’urna di San Paolino presenta elementi decorativi affini alla Croce astile della Chiesa Madre di Sutera, proveniente dalla Chiesa del Carmine, … e motivi di derivazione toscana». [↩]
- M. VITELLA, Il Tesoro della Chiesa Madre di Erice, Trapani 2004, pp. 27-28;M. C. Di Natale, Oreficeria siciliana…., vol. I, p. 47:«E’ stata recentemente attribuita a Paolo Gili la croce astile d’argento del tesoro della chiesa madre di Erice, grazie ad un pertinente raffronto stilistico con le sue opere certe… La croce di Erice presenta tuttavia una maggiore forza plastica tradendo, come sottolinea Maurizio Vitella “il rinnovamento in chiave rinascimentale”»;M. VITELLA, croce astile di Erice, Ibidem, scheda n. 5, pp.773-774, data l’opera alla seconda metà sec. inizi sec. XVI e la raffronta a quella della chiesa madre di Sutera ritenendola affine per «sintassi stilistica, impianto iconografico e andamento tipologico». [↩]
- E. LAVAGNINO, Il restauro dei tappeti e degli arazzi, in “Arte Sacra”, 1931, n. 1, pp. 159- 62. [↩]
- E. LAVAGNINO, Mostra di arazzi francesi dal Medioevo ad oggi, Museo di Palazzo Venezia, 15 aprile-15 maggio 1953, Roma 1953, pp. 13-14; Id, La mostra degli arazzi francesi, in “Arte e fede”, 1953, n. 5,pp.139-146. [↩]
- Lettera 31 del 10 dicembre 1942 del capo della polizia Senise diretta al ministro Giuseppe Bottai (conservata nell’Archivio Centrale dello Stato, nel “Casellario politico centrale”), con la quale informa che il funzionario Emilio Lavagnino continuava a mantenere rapporti epistolari con lo storico dell’arte Giuseppe Delogu, esponente del gruppo repubblicano e animatore del gruppo di antifascisti fuoriusciti di Zurigo. [↩]