Benedetta Montevecchi

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La Madonna di Curzio Compagni per la Cattedrale di Ascoli Piceno. Il modello in cartapesta, la forma lignea, la statua d’argento

DOI: 10.7431/RIV01062010

Presso il Museo Diocesano di Ascoli Piceno è conservata la Madonna di Loreto d’argento realizzata dall’argentiere e fonditore fiorentino Curzio Compagni tra il 1614 e il 1618 (Fig. 1). La Madonna, di grandezza poco inferiore al naturale (h.135), è raffigurata in piedi, vestita di un lungo abito stretto in vita da una cintura, con un ampio manto che le copre la testa e avvolge parzialmente la figura; col braccio sinistro sorregge il piccolo Gesù di cui stringe un piedino con la mano destra. Il Bambino, dal volto paffuto e sorridente incorniciato da lunghi boccoli, in atteggiamento benedicente e col globo crocifero in mano, indossa una tunichetta con un drappo che gli copre le gambe. Entrambi i personaggi recano sul capo una corona d’argento, sbalzata e cesellata, con gemme colorate1. La scultura è realizzata a sbalzo, con le lucenti superfici finemente incise e cesellate per definire i tratti fisionomici, le ciocche dei capelli (che nella parte posteriore della testa del Bambino presentano una lavorazione incompleta), i motivi rabescati del tessuto che risaltano lisci contro il fondo sabbiato, mentre una meticolosa e minutissima punzonatura opacizza il manto profilato da un bordo a decori vegetali stilizzati.

L’iconografia è propriamente quella della Madonna di Loreto – la Vergine stante col capo coperto da un ampio manto e sorreggente il Figlio col globo crucifero, entrambi coronati –  un’iconografia che si era andata definendo sulla base di un’antica immagine lignea, conservata nella Santa Casa di Loreto, distrutta da un incendio nel 1921. Quel modello iconografico si era diffuso ed era già stato ripreso ed elaborato negli anni 1582-1583 da Girolamo Lombardi nella statua in bronzo destinata alla nicchia centrale del primo ordine della facciata della Basilica lauretana2. In un breve giro di anni, il modello avrebbe conosciuto una notevole diffusione in tutte le Marche, come prova, appunto, la statua ascolana di Curzio Compagni, realizzata nel primo ventennio del ‘600.

Dell’opera si conosce con precisione tutto l’iter creativo. Del 12 dicembre 1614 è la decisione del Capitolo della Cattedrale di realizzare la statua, auspicata dalle istanze del celebre predicatore cappuccino, padre Bonifacio Stabili. Peraltro, dopo la vittoria dei cristiani nella battaglia di Lepanto, si era diffusa una particolare devozione per la Madonna di Loreto, ulteriormente sostenuta, alla fine del Cinquecento, dal papa ascolano Sisto V.

Il Capitolo avviò pertanto una raccolta di fondi che comportò il reperimento e la fusione di argenterie sacre, vecchie e inutilizzabili, e il coinvolgimento del Consiglio dei Cento (o degli Anziani), che governava la città, e quindi delle famiglie più in vista di Ascoli.

Nel marzo 1615 giungeva agli Anziani una lettera da parte del cardinale Felice Centini,  originario di Polesio (Ascoli), allora vescovo di Macerata, nella quale si raccomandava, per la realizzazione della statua, l’orefice fiorentino Curzio Compagni3. Il Consiglio dei Cento teneva il Centini in grande considerazione nella speranza di una sua elezione al papato ed era particolarmente sensibile ai suoi suggerimenti e alle sue non poche raccomandazioni.

Curzio Compagni era un orafo e fonditore di origine fiorentina: potrebbe sembrare strana la sua convocazione per un’opera destinata ad  Ascoli  che, in passato, era stata un importante centro di produzione orafa e aveva dato i natali a Pietro Vannini, il grande artista autore della statua d’argento di sant’Emidio del locale Museo Diocesano (1487). Ma nel corso del ‘500, dopo l’esaurimento della scuola orafa (parenti e seguaci) del Vannini, si era verificata una lenta, ma inarrestabile involuzione che determinava, all’inizio del XVII secolo, la necessità di ricorrere ad artefici forestieri.

Non sappiamo nulla dell’attività toscana del Compagni, né quando e perché era arrivato nelle Marche. Forse vi era giunto assieme ad altri artisti toscani presenti nelle Marche dalla fine del ‘500, come il pittore Andrea Boscoli o l’orafo e fonditore Fabio Cafaggi4.

Le fonti documentarie ricordano molte opere dell’artista, tutte perdute, alcune realizzate da solo, altre col Cafaggi o con il fonditore Pier Paolo Iacometti5. Nel 1615 Curzio Compagni viene pagato per il modello in creta dello stemma del cardinale Felice Centini, vescovo di Macerata: forse a seguito di questo lavoro, il cardinale invia al Consiglio degli Anziani di Ascoli la lettera di raccomandazione sopra citata. Vi era allegato un ‘memoriale’, a firma dello stesso Compagni, che dichiarava la propria maestria, assicurando “di fare statove [sic] in qualsivoglia modo, ò sia di getto [fusione], ò di piastra cesellata [sbalzo e cesello], senza cedere à qualsivoglia di detta professione”.

L’artefice fiorentino ottiene dunque il lavoro, che gli viene affidato con un atto del 21 aprile 16176. Nel meticoloso capitolato si legge che il lavoro sarebbe stato fatto in una fucina messa a disposizione dai committenti, mentre il Compagni avrebbe provveduto alle attrezzature (mantici, martelli e altro). Si accenna anche alla pigione di una casa in cui l’artefice avrebbe abitato nei nove mesi di permanenza ad Ascoli, comprendente il nolo per due materassi. Ulteriori accordi erano presi con tre artefici ascolani, Mercurio e Tommaso Cacilli e Guerriero Trasi, oltre che con un altro orafo fiorentino, Giovanni Francesco Rondini, per estrarre l’oro da vari rottami di proprietà della chiesa, da potere reimpiegare. La realizzazione della statua richiese un tempo maggiore del previsto e durò più di un anno, dal 9 luglio 1617 al 9 ottobre 1618.

Nel corso di recenti lavori di restauro e riordino nell’Episcopio di Ascoli, e a seguito delle ricerche per una pubblicazione sulla Cattedrale7, sono stati esaminati due manufatti, una statua lignea con testa in bronzo e una statua in cartapesta argentata, riconoscibili come  impiegati durante la realizzazione della Madonna d’argento ed esplicitamente citati nel documento di allogazione. Nel contratto si precisa, infatti, che il Compagni si impegnava a lavorare la statua “tutta d’argento tirato tutto a martello, conforme al modello fatto da lui quale oggi si ritrova in Ascoli”. Inoltre, allo scultore venivano consegnati vari materiali da impiegarsi nel lavoro che dovevano essere restituiti, se in eccesso; alla fine dell’elenco si precisa che si tratta delle “robbe” (pece, carbone, ferri, cera, rame, eccetera) “…che sin’a quest’hora sono state date a Messer Curtio per gettare la testa della statua”. I committenti, poi, avrebbero pagato il falegname che doveva ‘abbozzare’ il legno sul quale si sarebbero battute le lamine d’argento.

A quella data, quindi, cioè alla stipula del contratto, il 21 aprile 1617, il Compagni aveva già fuso una testa, proposta verosimilmente dallo scultore come ‘prova d’artista’ da sottoporre ai committenti, a conferma della sua perizia anche come ‘scultore in bronzo’.

Inoltre, aveva già proposto un ‘modello’ che, alla firma del contratto, già si trovava in Ascoli. Il modello era qualcosa di affine al bozzetto che presentavano i pittori, ma doveva essere realizzato in modo tridimensionale, offrendo una specie di facsimile che rendesse effettivamente l’idea di come sarebbe stata la statua d’argento.

La preparazione di questi oggetti ‘intermedi’ era necessaria per la realizzazione dell’opera finale. Quei manufatti potevano poi essere reimpiegati in bottega, fino ad essere consumati e rovinati (come succedeva prevalentemente ai cartoni per gli affreschi, spesso riutilizzati) e, comunque, venivano generalmente dispersi e/o distrutti al termine della loro funzione pratica.

Da qui l’ interesse dei due manufatti ascolani che non solo confermano l’iter del lavoro, ma ne offrono anche una rarissima testimonianza superstite. Il ‘modello’ richiesto dai committenti è una statua in cartapesta modellata e argentata (Fig. 2) che, al momento del ritrovamento8, era in pessime condizioni, priva della testa e mancante della figura del Bambino. Mentre quest’ultima risulta tuttora dispersa, la testa è stata rinvenuta in un secondo momento ed è una specie di ‘maschera’ comprendente il viso e il velo della Madonna. Assieme al modello, il Compagni aveva presentato una testa della Madonna fusa in bronzo (Fig. 3 ) : è in forma di ‘maschera’, come quella del modello in cartapesta, e anch’essa si conserva tuttora, montata su una scultura lignea collocata in una nicchia nella parete di fondo della sacrestia del Duomo di Ascoli. Tale collocazione faceva sì che la scultura si vedesse malissimo: forse per questo nessuno si era mai soffermato su quest’opera, tradizionalmente ritenuta una statua moderna (seicentesca?) su cui era stata innestata la testa in bronzo, probabile reperto classico: l’astratta classicità dell’immagine, infatti, poteva giustificare l’ipotesi del reimpiego di un pezzo di epoca romana.

In occasione del citato studio sulle opere della Cattedrale9, è stato possibile  esaminare la statua (Fig. 4) e notarne le affinità formali con la Madonna di Curzio Compagni, nonché la particolare struttura ‘schiacciata’, simile a quella della scultura d’argento. Anche la testa in bronzo si è rivelata non a tutto tondo, ma una specie di maschera ad altorilievo dalla fisionomia uguale alla testa della Madonna argentea, innestata sul corpo di legno, alla base del collo, mediante due perni. E’ stato così possibile riconoscere in questa testa quella ‘fusa’ prima della realizzazione della statua d’argento che viene citata nel contratto. Sotto il profilo stilistico, è probabile che il Compagni si sia ispirato alle classicheggianti figure realizzate in anni di poco precedenti da altri scultori e bronzisti attivi nelle Marche, in particolare nel grande cantiere della Basilica di Loreto, vicinissima a Macerata, dove l’artista lavorava e che certamente conosceva. Si possono citare, per esempio, le preziose testine di gusto tardo-antico con cui fratelli Lombardi ornano gli stipiti della porta centrale della Basilica di Loreto (1599- 1605): piccole figure dal solido collo tornito, col volto morbido e regolare, i capelli fluenti acconciati in modo elaborato, qui, invece, semplicemente sciolti e coperti dal velo.

La statua lignea sui cui è innestata la testa, invece, dovrebbe essere il legno ‘abbozzato’ dal falegname di cui si parla nel contratto, utilizzato per battere le lamine d’argento. Questa ipotesi sembra confermata dal fatto che la scultura presenta un modellato piuttosto  sommario, ancorché presumibilmente fatto sulla base di un disegno o di un bozzetto progettuale del Compagni, ed è realizzata con un tronco pieno (adatto a ricevere colpi), forse in legno di noce, dipinto di scuro. Sono intagliati a parte il braccio destro e il Bambino, di altro legno, più leggero.

Come evidenziato al momento del restauro10, la statua d’argento è fatta in lamina piuttosto sottile ed è costituita da due grandi valve, assemblate tra loro con ribattini d’argento e saldature in lega tenera. La scultura lignea è la ‘forma’ impiegata per lo sbalzo della lamina, dunque un raro esempio di ‘strumento di lavoro’, non distrutto o reimpiegato, ma rimasto in dotazione alla Cattedrale e conservato forse perché completato con la più preziosa e accurata testa fusa in bronzo. Era forse questa la statua in legno che alla fine del ‘700, per motivi di sicurezza, veniva comunemente esposta in Cattedrale al posto di quella d’argento.

La stretta correlazione tra le tre sculture (il modello in cartapesta, la forma in legno, l’opera finita in lamina d’argento), oltre che dall’identità iconografica, è confermata dalle misure quasi esattamente corrispondenti, con uno scarto di pochi centimetri: quella in argento è alta cm 138 (153 con corona); la statua in legno è alta cm 144 (24 x 34 la maschera); quella in cartapesta è alta cm 135. Va notato che quest’ultima, a differenza della statua in argento e del modello ligneo che presentano la Madonna calzata con scarpe, è invece realizzata a piedi nudi11. Il riconoscimento delle relazioni tra queste tre opere, al di là della diversa qualità artistica e del diverso stato di conservazione, è dunque  interessante perché costituisce uno dei rarissimi casi in cui si è conservato il ‘materiale di lavoro’, oltre all’opera finita. Si tratta, inoltre, di un’ulteriore conferma di quello che le fonti documentarie e lo studio delle tecniche artistiche ci dicono essere stato il procedimento (disegni, bozzetti, modelli) che precedeva la fattura dell’opera definitiva. È anche da notare come la committenza (o forse fu lo stesso Compagni a proporlo) richieda l’esecuzione di un lavoro a fusione (la testa), ancorché la Madonna dovesse essere realizzata a sbalzo: ciò a conferma della perizia del maestro fiorentino in entrambe le tecniche e a riprova della capacità degli artisti del tempo di passare indifferentemente da un tipo di produzione ad un altro, dove l’operato dello scultore e fonditore si fondeva con quello dell’orafo, senza soluzione di continuità.

La lavorazione – forse anche per questa dettagliata preparazione – si protrasse molto più del previsto, non senza contrasti tra i Canonici e il Compagni che fu accusato perfino di essersi impossessato di parte dell’argento, finendo in carcere. Tutto venne poi superato e l’opera fu accolta dai committenti con grande plauso. Il 15 luglio 1621, nel corso di una fastosa e complessa cerimonia religiosa e civile, la statua veniva fatta entrare in Ascoli per prenderne simbolicamente possesso. Un raro opuscolo del tempo12 descrive con dovizia di particolari la consegna delle chiavi alla Vergine, la teatrale e affollata processione, gli ampollosi discorsi fino all’incoronazione tra squilli di trombe, rulli di tamburi, rombi di artiglierie e suono di campane: “Nihil umquam maius sol vidisse videtur” commenta il cronista contemporaneo. Curzio Compagni veniva definito “in aurificio ed aere rite fundendo eleganterque disponendo artifex minime ignobilis“, cioè  ‘grande orafo ed elegante scultore in bronzo’. La statua, poi, avrebbe ispirato i poeti locali come Marcello Giovanetti13, che così conclude un suo sonetto : ”Ascoli or tu, ch’in puro argento impressa / hai gran Diva del Ciel, vivi sicura / ch’esser non puoi dal crudo Averno oppressa. / Questo scudo immortal, ch’armi non cura, / fia tua difesa, e questa imago stessa / sarà fatal custodia alle tue mura”.

  1. Le due corone oggi sul capo della Madonna e del Bambino sono quelle realizzate nel 1675 dagli argentieri ascolani Annibale Borri e Francesco Salvi, mentre quelle originarie, perdute, vennero fatte dal Compagni che tornò appositamente in Ascoli nel 1621, al momento dell’inaugurazione della statua. Tutte le notizie documentarie relative alla realizzazione della statua, conservate presso l’Archivio Capitolare di Ascoli Piceno, sono state pubblicate da G. FABIANI, Artisti del Sei-Settecento in Ascoli, Ascoli Piceno 1961, pp. 227-236 (II ed. Acquaviva Picena 2009, pp. 235-243). []
  2. Girolamo Lombardi (1505/6-1584/89), collaboratore a Venezia del Sansovino dal quale deriva il gusto per l’antico, con fratelli e figli lavora alle opere in bronzo della Basilica di Loreto realizzando, oltre alla Madonna col Bambino, i battenti della porta centrale e vari arredi. []
  3. Felice Centini, cardinale dal 1611, noto predicatore appartenente all’Ordine dei Minori Conventuali, era stato esponente dell’Inquisizione e aveva partecipato ai processi contro Galileo. La lettera è pubblicata da G. FABIANI, Artisti…., 1961, p.310. []
  4. Sull’attività di Fabio Cafaggi, collaboratore di Giambologna e autore del Busto di san Romualdo (1601) per l’omonima chiesa di Fabriano, cfr. B. MONTEVECCHI, Oreficeria toscana nelle Marche, in Marche e Toscana. Terre di grandi maestri tra Quattro e Seicento, a cura di S.Blasio, Ospedaletto 2007, pp. 261-276. []
  5. Con Fabio Cafaggi, il Compagni realizza un lampadario in bronzo con figure in alto e bassorilievo per la chiesa di San Francesco, a Macerata, un ciborio d’oro con base d’argento, numerosi calici e altro. Nel 1594 l’artefice è citato per la stima di un boccale, nel 1596 è impegnato a realizzare una croce processionale in oro, argento e pietre preziose per la confraternita del SS.mo Sacramento; nel 1614 esegue un’altra croce d’argento per la Confraternita di San Carlo. Nel 1623 collabora con il recanatese Pier Paolo Iacometti (uno dei bronzisti attivi a Loreto) per il modello in creta della statua in bronzo del cardinale legato Carlo Emanuele Pio di Savoia da porre nella piazza maggiore, sempre a Macerata (la statua venne poi ridotta ad un busto in bronzo completato da una doratura per la quale è stato ipotizzato un ulteriore intervento del Compagni). Nel 1625 gli vengono consegnate dieci piastre d’argento per una croce «da farsi per andare a Roma» e nel 1626, infine, è ricordato in un atto in cui l’orafo Angelo Torneri gli restituisce dell’argento. []
  6. Cfr. FABIANI, Artisti…, 1961, pp.311-312. []
  7. La Cattedrale di Ascoli Piceno, a cura di A.A. Amadio – L.Morganti – M.Picciolo, Ascoli Piceno 2008. []
  8. La statua è stata ritrovata nei depositi dell’Episcopio ascolano dall’architetto Michele Picciolo durante i lavori di restauro e riordino da lui diretti. []
  9. B. MONTEVECCHI, Gli arredi lignei, in La Cattedrale, 2008, pp.154-163. []
  10. Il restauro è stato eseguito nel 2000 da Tuccio Sante Guido (Roma). []
  11. Sia la statua in cartapesta che quella lignea sono state restaurate nel 2009, a cura della Soprintendenza BSAE delle Marche-Urbino, sotto la direzione della scrivente, da Rossana Allegri (Montefiore Conca), che ringrazio anche per la cortese collaborazione alla stesura di questa nota. La scultura lignea, dipinta con un pigmento nero con un componente ad effetto ‘metallizzato’, forse reso con grafite, per accompagnare il corpo alla testa in bronzo, non ha posto gravi problemi: è stata disinfestata e consolidata, e sono state ricollocate le parti pericolanti o staccate e quelle ricostruite perché mancanti (dita).Più complesso l’intervento sulla statua in cartapesta che, al momento del ritrovamento, mancava del viso, dei piedi, di un braccio e di parte del panneggio, oltre a presentare una lunga fenditura che interessava la parte posteriore.Tutti i frammenti recuperati sono stati riapplicati al corpo che è stato sostenuto inserendo al suo interno una struttura portante in legno ed è stata ricostruita la parte del braccio che sosteneva il Bambino sulla base di una documentazione fotografica. E’ stata infine accuratamente fermata e pulita la superficie argentata e leggermente meccata, stesa su un bolo rosso o giallo. []
  12. G.LENTI, Publica supplicatio argenteae Virginis Asculi celebrata, Macerata 1621, p.14. []
  13. M. GIOVANETTI, Poesie, Roma 1626, pp.219-220. []