Salvatore Mercadante

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Lo Spasimo di Sicilia di Raffaello e la sua fortuna nelle arti decorative

DOI: 10.7431/RIV11052015

È notorio che lo schema compositivo del celebre dipinto comunemente noto come Lo Spasimo di Sicilia di Raffaello Sanzio da Urbino godette, soprattutto nel vasto panorama artistico isolano, di una fortuna assai diffusa. Testimonianza tangibile di tale tendenza ne sono certamente le numerose repliche, spesso di mediocre fattura, che si moltiplicarono a macchia d’olio per tutta la regione. Un modello iconografico che, va detto, sebbene visse una maggiore fortuna in ambito pittorico, ottenne una notevole diffusione anche in seno alle arti plastiche e a quelle decorative.
Procedendo con una breve notazione di carattere storico, va ricordato che la realizzazione della tavola raffaellesca, alla quale attesero ampiamente gli allievi di bottega Giovan Francesco Penni e Giulio Romano, si fa generalmente risalire intorno al 1517; anno fissato come termine ante quem dalla più antica delle due incisioni a bulino realizzate da Agostino dei Musi (meglio noto come Agostino Veneziano), raffiguranti proprio l’opera dell’Urbinate1. A commissionare la pala alla bottega romana del Sanzio fu il munifico doctor utriusque iuris Giacomo Basilicò che, a partire dal 1508, assecondando le disposizioni testamentarie dettate dalla defunta moglie Eulalia Rosolmini, promosse l’elevazione del tempio olivetano dedicato a Santa Maria dello Spasimo (cui l’opera era destinata) nell’antico quartiere della Kalsa a Palermo2. Nel 1573, a seguito della nuova sistemazione difensiva della città e della costruzione del cosiddetto Bastione dello Spasimo a ridosso della chiesa, i monaci olivetani furono costretti ad abbandonare la loro primigenia casa per trasferirsi nella nuova sede individuata nella chiesa normanna di Santo Spirito, dove, nell’abside maggiore, venne collocato il dipinto raffaellesco assieme alla monumentale macchina marmorea che lo incorniciava realizzata da Antonello Gagini3. Come è noto, a Santo Spirito l’opera rimase fino al 1661, anno in cui, per dirla con Agostino Gallo, «il quadro famoso […] fu rapito indi con male arti da Filippo IV di Spagna alla Sicilia»4. Infine, trasferita a Parigi dalle truppe napoleoniche, nel 1816 l’opera subì un pesante intervento di restauro che si concretizzò nella sostituzione del supporto materico; la pellicola pittorica, infatti, venne trasportata dalla tavola alla tela ad opera di François-Toussaint Hacquin e di Feréol de Bonnemaison. Da Parigi il dipinto di Raffaello tornò a Madrid nel 18225.
Come si è già accennato in precedenza, la grande eco che generò il dettato raffaellesco nel solco della locale produzione artistica, non mancò di investire anche le cosiddette arti decorative, complice certamente quel carattere di tipo devozionale che si originò da tale raffigurazione, il più delle volte inserita, è bene sottolinearlo, in seno a programmi iconografici incentrati sullo specifico tema della Passio Christi.
Un primo interessante esempio di Ascesa al Calvario, riconducibile al modello raffaellesco, è possibile ravvisarlo nella vivace decorazione della patena facente parte del tesoro del duomo di Siracusa. L’opera, di ignoto argentiere siciliano, si fa risalire approssimativamente alla fine del XVI secolo. La ricca decorazione dell’oggetto liturgico si articola su due registri concentrici, separati tra essi da una cornice ornata da tradizionali testine alate di cherubini. Al centro della composizione campeggia la monumentale figura del Risorto recante il vessillo, secondo la consueta postura eretta con ai piedi alcuni soldati che, inermi, assistono all’evento miracoloso. Sul bordo esterno della patena ricorre invece una teoria di otto scene della Passione, di cui quattro (l’Ultima Cena, il tradimento di Giuda, l’Ecce Homo e il Cristo inchiodato alla croce) allocate all’interno di cornici curvilinee a guisa di cammei, inframmezzate, a loro volta, da quattro ulteriori momenti legati al martirio di Cristo, tra i quali (congiuntamente a Orazione nell’Orto degli Ulivi, Flagellazione e Crocifissione) l’Ascesa al Calvario. Come osserva correttamente V. Di Piazza, tutte le scene raffigurate sono riconducibili a un repertorio figurativo espressamente legato alla tradizione iconografica della maniera, notoriamente veicolata da una assai diffusa circolazione di incisioni6. Rispetto al celebre modello raffaellesco la resa icnografica della piccola Salita al Calvario risulta abbastanza fedele, sebbene la composizione si sviluppi in controparte. Nucleo centrale della raffigurazione è, infatti, il Cristo che, piegato sotto il peso del tremendo patibolo, volge lo sguardo in direzione della Beata Vergine, mentre il Cireneo accorre in suo ausilio facendosi carico della croce. Iconografia quest’ultima già desunta dallo stesso Raffaello dalla tradizione incisoria di matrice nordica, principalmente di ascendenza düreriana.
Un’ulteriore Salita al Calvario è ravvisabile nella lavorazione della parte basamentale della croce reliquiaria in cristallo di rocca, rame dorato e smalti, conservata nei locali espositivi della chiesa del Gesù di Casa Professa a Palermo (Fig. 1). La stauroteca è attribuita da M. C. Di Natale (almeno in riferimento alle decorazioni) all’argentiere trapanese Andrea De Oliveri e all’orefice palermitano Marzio Cazzola ed è riferita dalla studiosa agli inizi del XVII secolo, ponendo il 1624 come termine ante quem in riferimento al testamento di Caterina Papè Vignola che commissionò l’altra croce in cristallo di rocca, rame dorato e coralli, contenente una reliquia di San Francesco Saverio. Croce reliquiaria, quest’ultima, dalle analoghe linee compositive della stauroteca7. Il tema dell’Ascesa al Calvario trova posto alla base della croce ed è scandito da un andamento lineare che asseconda la forma stessa della custodia. La composizione è organizzata per gruppi di figure: il Nazareno che avanza trascinando la croce assistito dalla Madre, due aguzzini che lo precedono, il soldato a cavallo che guida il corteo. A inframmezzare la narrazione figurativa è l’inserimento di un albero che funge da asse della composizione. Inoltre, rimanendo sempre a Casa Professa, M. A. Spadaro segnala, come liberamente desunto dall’iconografia raffaellesca, il rilievo recante la Salita al Calvario intagliato da Giovanni Paolo Taurino per l’apparato ligneo della sagrestia, eseguito tra il 1621 e il 16348 (Fig. 2). Anche quest’ultima composizione, dal tono piuttosto affastellato, si sviluppa seguendo un andamento lineare con, in posizione centrale, la figura eretta del Cristo Portacroce. Rimandano con maggiore evidenza al dettato raffaellesco la resa figurativa degli aguzzini (soprattutto quello descritto di schiena) e il dialogo di sguardi tra il Nazareno e l’Addolorata.
Presso il Museo Diocesano di Palermo si conserva un pannello ligneo all’interno del quale sono stati allocati dodici piccoli tondi in rame dorato, recanti taluni misteri del Rosario dipinti ad olio (Fig. 3). Come ci informa P. Palazzotto le placchette, con ogni probabilità, appartenevano ad un paliotto d’altare del palermitano oratorio del SS. Rosario in San Domenico, successivamente scomposto9. Tra i misteri riprodotti è presente anche quello della Salita al Calvario che ripropone, fedelmente ma in una versione assai semplificata, lo Spasimo di Sicilia di Raffaello. Tutti e dodici i piccoli tondi dipinti, va comunque osservato, ripropongono modelli abbondantemente codificati dalla tradizione devozionale risalente al tardo XVI secolo.
Un’altra interessante placchetta in oro e smalti recante il tema della caduta di Cristo sotto la croce è custodita presso la Galleria Regionale della Sicilia di Palazzo Abatellis (Fig. 4). Sebbene il frammento sia tradizionalmente riferito alla celebre sfera d’oro, ostensorio realizzato nel 1641 da Leonardo Montalbano per la chiesa di Sant’Ignazio all’Olivella dei PP. Filippini di Palermo10, (orafo peraltro già precedentemente individuato dall’Accascina)11, V. Abbate osserva che in sede di restauro del manufatto12, che prima dell’intervento si presentava totalmente smembrato nelle sue parti, «[…] vana si è rivelata […] ogni possibilità di inserimento fisso sull’ostensorio»13 avanzando, altresì, l’ipotesi che lo stesso fosse applicato alla preziosa custodia solo durante determinate occasioni liturgiche14. In riferimento alla composizione della piccola placchetta, il raffronto iconografico con lo Spasimo di Raffaello è facilmente ravvisabile. Come nell’opera dell’Urbinate, infatti, il Cristo, incalzato dai suoi aguzzini, poggia una mano su uno sperone di roccia. Di chiaro rimando all’opera raffaellesca sono ancora la figura dolente a mani giunte e capo reclino (in questo caso identificabile con san Giovanni) e il manigoldo descritto di tergo che, con una fune, trascina il Nazareno.
A Monreale, presso il locale museo diocesano, si conserva un calice in argento sbalzato, filigrana d’argento, rame dorato e corallo che presenta alla base quattro cammei recanti altrettante scene della Passione tra le quali una Ascesa al Calvario (Fig. 5) (congiuntamente a Orazione nell’Orto degli Ulivi, Flagellazione e Cristo davanti a Pilato). Il pregiato oggetto liturgico, giunto a Monreale per volontà del cardinale Alvaro Cienfuegos che ne fece dono alla diocesi (della quale fu arcivescovo dal 1725 al 1739)15, reca il punzone di Trapani (falce coronata accompagnata dalla sigla DVI) nonché il marchio del console Giuseppe Pirao (1695) e le iniziali FI da ricondurre verosimilmente all’argentiere Francesco Lo Iacono16. La piccole scene riprodotte all’interno dei cammei risultano ulteriormente impreziosite dal vivace gioco di volute in filigrana d’argento che le racchiudono.
Assai simile a quello di Monreale è il calice in rame dorato, filigrana d’argento e coralli, conservato nei depositi della Galleria Regionale di Palazzo Abatellis e probabilmente, come scrive V. Abbate, da identificarsi con quello originariamente custodito nella sagrestia della chiesa di Santa Maria della Sanità a Napoli e transitato solo nel 1883 nelle collezioni del Museo Nazionale di Palermo17 (Fig. 6). Anche in quest’ultimo caso è presente sulla coppa il punzone di Trapani, accompagnato dal marchio del console Giuseppe Purrata (GPC99) e dalle iniziali dell’argentiere Giuseppe Cipollina18. Ornano la base ottagonale del prezioso manufatto, ancora una volta secondo attardati modelli iconografici tardo-cinquecenteschi, quattro piccoli cammei in corallo raffiguranti alcuni momenti della Passione di Cristo, tra i quali: l’Orazione nell’Orto degli Ulivi, la Flagellazione, la Coronazione di Spine e l’immancabile Ascesa al Calvario, quest’ultima caratterizzata dalla figura isolata di Cristo che, rappresentato nel momento stesso della caduta, riecheggia il prototipo raffaellesco. I quattro piccoli rilievi in corallo alla base del calice sono inoltre incorniciati da eleganti decorazione in filigrana d’argento e inframmezzati tra essi da quattro figure muliebri recanti ciascuna una palmetta.
A Bagheria, in collezione privata, si conserva una coppia di piccole raffigurazioni in avorio del XVIII secolo di scuola trapanese che, inserite entro cornici ottagonali in ebano e tartaruga, raffigurano una Elevazione della Croce e una Salita al Calvario. Come osserva G. Travagliato, le due opere dovevano, con ogni probabilità, rappresentare due stazioni della Via Crucis per uso cultuale privato e la loro iconografia derivare dalla diffusione di stampe a carattere devozionale19. La processione della piccola Andata al Calvario si sviluppa in senso orizzontale, tuttavia, il Cristo, al quale si fa incontro la Veronica, mantiene la tipica postura riconducibile all’iconografia dettata dal dipinto dell’Urbinate.
Nel Monastero Benedettino del Rosario di Palma di Montechiaro è custodito un paliotto con l’Incoronazione della Vergine ascrivibile al primo quarto del XVIII secolo. L’opera, ricamata con fili di seta policroma, reca al centro la figura di Maria incoronata dalla SS. Trinità e attorniata da un vivace nugolo di figure angeliche (principalmente musicanti) e da tradizionali testine alate di cherubini. Lungo il bordo del paliotto corre una vivace teoria di Misteri del Rosario, inquadrati entro cornici a volute. Di palmare richiamo al dipinto dell’Urbinate è la raffigurazione della Salita al Calvario collocata in alto a sinistra20. Sebbene la composizione sia riassunta nelle sue linee essenziali e si sviluppi in controparte rispetto al testo raffaellesco, dello Spasimo di Sicilia permane, infatti, l’impianto nodale, ravvisabile principalmente nella caratteristica postura del Cristo rivolto verso la Madre, nella resa figurativa del manigoldo che, di tergo, tende la fune alla quale è legato il Redentore e nell’incalzante violenza degli aguzzini. Va ancora opportunamente ricordato che sempre nella chiesa del Monastero Benedettino di Palma di Montechiaro si conserva una delle innumerevoli copie dello Spasimo di Sicilia disseminate per tutta l’Isola. Nel caso specifico si tratta di una tela della fine del XVII secolo, opera di ignoto pittore siciliano, di piccolo formato e dal tono fortemente dialettale, che ripropone pressoché fedelmente la composizione della Salita al Calvario dell’Urbinate21.
A proporre il tema del Cristo Portacroce secondo il modello sin qui analizzato, è ancora il paliotto architettonico d’argento che orna l’altare maggiore del Santuario del SS. Crocifisso di Papardura ad Enna (Fig. 7). L’opera, la cui paternità è assegnata a Placido Donia, risale al 1739, come peraltro certificato dai marchi consolari (D.G.39). Inoltre sappiamo che la realizzazione del prezioso arredo sacro avvenne a Messina, non solo perché presenti i punzoni della zecca della città Peloritana ma, come ci informa G. Musolino, anche poiché riferito espressamente da un atto notarile del 1742. Documento quest’ultimo che indica, tra l’altro, il 1737 come anno in cui venne commissionata la realizzazione dell’opera22. La struttura barocca del paliotto è scandita da cinque aperture convergenti ad arco a pieno centro che, poggianti su colonne salomoniche e sormontate da una imponente modanatura, aprono profonde quinte all’interno delle quali sono allocate scene appartenenti al ciclo della Passione di Cristo, culminanti nella Crocifissione disposta al centro dell’intera composizione. Alla destra di quest’ultima è l’Ascesa al Calvario. Sebbene la scena sia ridotta ai minimi termini, ritraendo esclusivamente il Cristo incalzato da uno sgherro nel momento della caduta, anche in questo caso, il rimando al prototipo raffaellesco, ormai ampiamente assimilato dalla cultura figurativa locale, è palmare. Le altre scene riprodotte riguardano il Cristo deriso, l’Orazione nel Getsemani e il Cristo alla colonna. Come precedentemente osservato per il Monastero Benedettino di Palma di Montechiaro, anche nel santuario di Papardura si conserva una grossolana copia pittorica della famosa Salita al Calvario dell’Urbinate, inserita all’interno di un programma iconografico incentrato sul ciclo della Passione. Secondo quanto riferisce R. Lombardo, l’opera, una tela centinata, reca, vergata in basso, la firma del pittore locale tale Benedetto Candrilli nonché l’anno di realizzazione 168123.
Anche il celeberrimo stuccatore palermitano Giacomo Serpotta (Palermo, 1656 – 1732), certamente memore della lezione dei Gagini, sviluppò il tema iconografico della caduta di Cristo sotto la croce secondo le note linee compositive sancite dall’illustre dipinto dell’Urbinate.
Un primo esempio di Andata al Calvario modellata dal Serpotta assecondando il dettato raffaellesco, è possibile osservarlo nella chiesa del Carmine Maggiore di Palermo e, precisamente, nell’altare del SS. Crocifisso, collocato nel transetto in cornu epistolae (Fig. 8). Il giovane Giacomo, infatti, tra il 1683 e il 1684, lavorò, assieme al fratello maggiore Giuseppe e su committenza del frate carmelitano Angelo La Rosa24, alla realizzazione degli stucchi che impreziosiscono i due superbi altari del transetto della suddetta chiesa. La raffigurazione del Cristo che cade sotto la croce si inserisce all’interno del ricco programma iconografico che, nell’altare del SS. Crocifisso, si articola in una serie di scene della Passione (e di altri ornati) che si dipanano lungo le spire delle grandi colonne salomoniche, colonne che costituiscono la cifra distintiva dell’impianto architettonico di entrambi gli altari. Nel rilievo serpottiano in oggetto, sviluppato seguendo l’andamento spiraliforme della colonna tortile, evidente è il riferimento alla composizione dello Spasimo di Sicilia (opera che comunque l’artista non ebbe modo di osservare direttamente per ovvie ragioni cronologiche) sebbene va ricordato che il plasticatore palermitano, per la decorazione degli altari del Carmine Maggiore, si richiamò esplicitamente a noti modelli iconografici assai diffusi sia in pittura che in scultura, guardando con particolare attenzione alla ricca produzione della bottega dei Gagini25. Talune figurine in stucco che si inerpicano sulle colonne, infatti, costituiscono delle autentiche citazioni gaginiane, tanto che il Meli scrisse in merito agli stucchi del Carmine Maggiore: «più che l’arte contemporanea guarda e studia l’arte d’un secolo innanzi: l’arte della Rinascenza, impersonata maggiormente in Antonello Gagini»26.
Lo stucco con l’Andata al Calvario rispetta in larga parte lo schema compositivo di riferimento, sebbene si discosti da quest’ultimo per talune differenze riscontrabili principalmente nell’assenza del consueto cavaliere reggistendardo e nell’elevato numero di personaggi che affollano e vivacizzano la composizione.
Nell’oratorio del SS. Rosario in Santa Cita a Palermo, Giacomo Serpotta realizza, in uno dei suoi celebri teatrini, il mistero doloroso dell’Andata al Calvario, utilizzando, ancora una volta, lo schema compositivo dello Spasimo di Sicilia (Fig. 9). Come osserva correttamente D. Garstang, il noto artista palermitano, nell’allestire la ricca decorazione plastica dell’aula oratoriale (alla quale lavorò tra il 1685 e il 1690 circa)27, si richiamò certamente a stilemi di impronta gaginiana, guardando con particolare attenzione al capolavoro assoluto di Antonello e della sua bottega: la perduta tribuna marmorea della Cattedrale di Palermo, verso la quale l’impianto decorativo dell’oratorio denuncia evidenti debiti formali28. Tuttavia, lo studioso statunitense, sia in riferimento alla presente Andata al Calvario, che in merito al citato stucco del Carmine Maggiore recante il medesimo soggetto, non fa alcun cenno al dipinto raffaellesco, sebbene, come si è detto, l’iconografia dello Spasimo di Sicilia sia indiscutibilmente alla base dei rilievi gaginiani.
Pur mantenendo le linee compositive sancite dal modello raffaellesco, Giacomo Serpotta, nel suo teatrino, seppe sciogliere la massa compatta dell’originaria composizione, aumentandone, di fatto, la spazialità. Maggiore è, infatti, il raggio d’azione dei personaggi e la narrazione appare come edulcorata da una tenue resa atmosferica, caratterizzata dall’inserimento di un cielo carico di soffici nuvole e, sullo sfondo, dalla presenza di un diradante paesaggio collinare. Inoltre, in seno alla composizione, il tipico elemento architettonico non è più preminente, ma risulta notevolmente semplificato e arretrato in secondo piano. Infine, degne ancora di nota sono le piccole figure di israeliti che, radunati dietro un muro, assistono quasi di nascosto alla scena.
Un altro evidente esempio di impiego del modello raffaellesco nelle arti decorative è possibile ravvisarlo nel fercolo del Crocifisso della Catena, conservato nella chiesa di S. Rosalia a Corleone (Fig. 10). La ricca macchina lignea realizzata nel 1688 dall’intagliatore Francesco Riina e aiuti, per ospitare appunto il Crocifisso della Catena oggetto di forte devozione da parte dei fedeli corleonesi, presenta alla base quattro bassorilievi raffiguranti talune scene legate al ciclo della Passione e precisamente: l’orazione nell’orto degli ulivi, la flagellazione, la coronazione di spine e la salita al calvario29. Quest’ultima, collocata nella zona frontale del basamento in evidente posizione di preminenza, cita esattamente la composizione del dipinto dell’Urbinate sebbene, assecondando la sagomatura del pannello, il suo sviluppo avvenga in senso orizzontale.
Come si è detto, il fortunato schema iconografico dello Spasimo di Sicilia esercitò una grande influenza anche in seno alla produzione artistica a carattere devozionale, andando non di rado a costituire il modello di riferimento per la diffusa produzione di gruppi processionali (solitamente realizzati per riti legati alla Settimana Santa) o, generalmente, per la realizzazione della settima stazione della Via Crucis, raffigurante la seconda caduta di Cristo lungo la Via Dolorosa.
Un chiaro esempio di quanto affermato è possibile riscontrarlo nel gruppo polimaterico raffigurante l’Ascesa al Calvario (volgarmente noto come U Signuri ca cruci ‘n coddu) realizzato per la nota processione dei Misteri di Trapani del Venerdì Santo (Fig. 11). L’opera, eseguita da ignoto scultore trapanese del XVII secolo, fa parte del gruppo di venti simulacri (Misteri), ricoverati durante tutto l’anno presso la chiesa trapanese delle Anime Sante del Purgatorio e portati solennemente in processione in occasione del Venerdì Santo. Assegnato dapprima, con atto notarile, alla confraternita del Sangue Preziosissimo di Cristo, la cura del Mistero passò nel 1620 al ceto dei bottai, transitando nel 1772 al ceto dei fruttivendoli e, finalmente, a quello del Popolo, cui attualmente appartiene30. Secondo quanto riporta L. Novara, l’originaria opera dell’ignoto scultore trapanese non prevedeva l’inserimento della Veronica e dell’aguzzino posto in primo piano, figure presumibilmente aggiunte in un secondo momento. L’attuale raffigurazione del Salvatore è opera di Antonio Giuffrida che, nel 1903, sostituì il Cristo realizzato intorno alla seconda metà del XIX secolo dallo scultore ericino Pietro Croce31. Quest’ultimo, infatti, aveva curato il restauro del fercolo a seguito dei danni causati da un incendio dovuto alle fiaccole devozionali, incendio che distrusse irreparabilmente la primigenia figura del Salvatore sostituita, come si è detto, ex novo dal Croce. Tuttavia, come riporta P. Messana, la nuova opera dello scultore ericino, che nella postura si richiamava ancora una volta al Cristo dello Spasimo di Sicilia, non venne accettata di buon grado dai fedeli che la ritennero subito di tono oltremodo umanizzato. A seguito dell’avvicendamento del Cristo eseguito dal Croce con l’attuale scultura realizzata dal Giuffrida, l’opera dello scultore di Erice venne collocata nella chiesa trapanese di Santa Maria di Gesù32.
Il cosiddetto gruppo del Popolo si articola attorno alla figura di Cristo caduto sotto il peso del tremendo strumento del supplizio. Di chiara derivazione raffaellesca è la figura dell’aguzzino che trascina il Redentore. Ad alleviare le sofferenze del Cristo è Simone di Cirene, rappresentato nell’atto di farsi carico della croce. Completano la narrazione figurativa la Veronica che porge il panno al Salvatore e lo sgherro che, con pervicace violenza, incalza il Condannato. Degno ancora di nota è il forte realismo che permea l’opera, atto a suscitare la partecipazione emotiva della folla dei fedeli.
Nella chiesa di San Giuliano ad Erice si conservano quattro gruppi processionali raffiguranti altrettanti distinti momenti della Passione di Cristo, già collocati nella locale chiesa di Sant’Orsola. Tra questi è anche il mistero con l’Ascesa al Calvario (Fig. 12), attribuito alla bottega dei Nolfo e realizzato intorno al sesto o settimo decennio del XVIII secolo, accomunabile peraltro al medesimo mistero di Trapani e riconducibile anch’esso all’iconografia dello Spasimo di Sicilia33. Nel gruppo processionale ericino, tuttavia, il Cristo non è raffigurato nel momento della caduta, ma nell’atto di percorrere la Via Dolorosa in direzione del Golgota, mentre alle sue spalle giunge il Cireneo raffigurato come un popolano, in una sorta di attualizzazione del passo evangelico in cui viene descritto come «un tale […] che veniva dalla campagna» (Marco 15, 21-22). Attorno alla figura del Nazareno insistono gli aguzzini, uno dei quali reca lo stendardo con la sigla di Roma.
Anche nella Sicilia Orientale il tema dell’Ascesa al Calvario trova una sua diffusione in ambito pietistico-devozionale. È questo il caso del gruppo processionale conservato nella chiesa di Santa Maria della Consolazione a Scicli. L’opera, di autore ignoto, si fa risalire al 1574 e rappresenta la caduta di Cristo sulla via del Calvario34. Il richiamo allo schema iconografico dello Spasimo di Sicilia è assolutamente palmare. Al centro della composizione, infatti, è collocata la figura di Cristo caduto sotto il peso della croce. Questi è trascinato dal solito manigoldo posto di schiena. Alla destra del Redentore è la Vergine con la Maddalena inginocchiata. Come nell’opera dell’Urbinate il Cristo volge lo sguardo in direzione della Madre che, dolente e pietosamente protesa in suo materno soccorso, viene fermata dal perentorio gesto di uno sgherro.
Infine ad Ispica, sempre in territorio ragusano, si conserva nella chiesa della Santissima Annunziata un ulteriore gruppo processionale del Venerdì Santo raffigurante l’Ascesa al Calvario. Il simulacro, opera di Francesco Guarino, artista di Noto, fu realizzato nella prima metà del XVIII secolo dopo che il terremoto del 1693 causò la perdita del precedente35. Sebbene la figura di Cristo non sia descritta nel momento della caduta, l’impianto compositivo è comunque riconducibile alla tradizione figurativa fin qui analizzata. Il Nazareno, infatti, anche in questo caso è legato ad una fune trainata da un manigoldo. Quest’ultimo, raffigurato con le sembianze di un moro, suggerisce, come nota S. Rapisarda, l’idea del tradizionale nemico della cristianità36, figura solitamente descritta secondo un sembiante caprino atto a rimarcare ulteriormente quest’ultimo aspetto.
Come è stato possibile rilevare a conclusione di questa breve rassegna di opere, anche le cosiddette arti decorative rimasero tutt’altro che indifferenti alla dilagante fortuna iconografica del celebre dipinto dell’Urbinate, eleggendolo, di fatto, a modello di riferimento per la realizzazione del generico tema dell’Ascesa al Calvario.

  1. C. Gardner von Teuffel, scheda n. 103, in Raffaello in Vaticano, catalogo della mostra, Milano 1984, pp. 276, 277 []
  2. M. A. Spadaro, Il complesso dello Spasimo e l’altare di Antonello Gagini, in Vincenzo degli Azani da Pavia e la cultura figurativa in Sicilia nell’età di Carlo V, catalogo della a cura di T. Viscuso, Siracusa 1999, pp. 40, 41 []
  3. M. A. Spadaro, Il complesso…, 1999, p. 45 []
  4. A. Gallo, Sopra un famoso quadro di Raffaello Sanzio esposto nel tempio dell‟Olivella degli ex PP. Filippini in Palermo. Storia, Prove ed Illustrazioni, Palermo 1871, p. 26 []
  5. R. A. González Mozo, R. Alonso Alonso, Reflexión ante la restauración del “Pasmo de Sicilia”, in “Boletín del Museo del Prado”, Vol. 29, N. 47, 2011, p. 109 []
  6. V. Di Piazza, scheda n. 38, in Splendori di Sicilia. Arti decorative dal Rinascimento al Barocco, catalogo della mostra a cura di M. C. Di Natale, Milano 2001, p.380 []
  7. M. C. Di Natale, scheda II, n. 44, in Ori e argenti di Sicilia dal Quattrocento al Settecento, catalogo della mostra a cura di M. C. Di Natale, Milano 1989, pp. 219, 220; cfr. pure Eadem, scheda 57, in Splendori…, 2001, pp. 393-395 []
  8. M. A. Spadaro, Raffaello e Lo Spasimo di Sicilia, Palermo 1991, p. 24 []
  9. P. Palazzotto, I “ricchi arredi” e le “preziose dipinture” dell’oratorio del Rosario in San Domenico della Compagnia dei Sacchi, in P. Palazzotto – C. Scordato, L’Oratorio del Rosario in San Domenico, Palermo 2002, p. 32 []
  10. M. C. Di Natale, Gioielli di Sicilia. Gemme e ori, smalti e argenti, coralli e perle, uno scrigno preziosissimo ricolmo di monili, Palermo 2008, pp. 132, 133; cfr. pure Eadem, Oro, argento e corallo tra committenza ecclesiastica e laica, in Splendori…, 2001, pp. 46, 47 []
  11. M. Accascina, Oreficeria Siciliana. Il tesoro di Enna, in “Dedalo”, agosto 1930, pp. 164, 165 []
  12. Intervento di restauro eseguito dall’Opificio delle Pietre Dure di Firenze. []
  13. V. Abbate, La sfera d’oro, in La sfera d’oro. Il recupero di un capolavoro dell’oreficeria palermitana, catalogo della mostra a cura di V. Abbate – C. Innocenti, Napoli 2003, p 33 []
  14. Ibidem []
  15. L. Sciortino, Monreale: il Sacro e l’Arte. La committenza degli arcivescovi, Palermo 2011, p. 118. Si ringrazia la direzione del Museo Diocesano di Monreale, nella persona della dott.ssa Lisa Sciortino, per aver consentito la ripresa fotografica dell’oggetto. []
  16. A. Precopi Lombardo, Marchi di argentieri e consoli della maestranza di Trapani, in Argenti e ori trapanesi nel museo e nel territorio, a cura di A. Precopi Lombardo e L. Novara, Trapani 2010, pp. 85-86. []
  17. V. Abbate, scheda n. 46, in Splendori…, 2001, pp. 503, 504 []
  18. M. C. Di Natale, scheda n. 7.38, in Gesù. Il Corpo, il volto nell’arte, catalogo della mostra a cura di T. Verdon, Cinisello Balsamo 2010, pp. 320-321. []
  19. G. Travagliato, scheda n. IV.6, in Materiali Preziosi dalla Terra e dal Mare nell’arte trapanese e della Sicilia Occidentale tra il XVIII e il XIX secolo, catalogo della mostra a cura di M. C. Di Natale, Palermo 2003, pp. 183, 184 []
  20. M. Vitella, Tradizione manuale e continuità iconografica. La collezione tessile del Monastero di Palma di Montechiaro, in Arte e Spiritualità nella Terra di Tomasi di Lampedusa. Il Monastero Benedettino del Rosario di Palma di Montechiaro, catalogo della mostra a cura di M. C. Di Natale – F. Messina Cicchetti, San Martino delle Scale 1999, p. 185 []
  21. M. Guttilla, Le collezioni dei dipinti. Ambiti culturali e stato conservativo, in Arte e Spiritualità…, 1999, p. 130 []
  22. G. Musolino, scheda n. 23, in Architetture Barocche in Argento e Corallo, catalogo della mostra a cura di S. Rizzo, pp. 200, 201 []
  23. R. Lombardo, Il Santuario del SS. Crocifisso di Papardura. Fra leggenda e storia, arte e devozione, Campobello di Licata 2001, p. 85 []
  24. F. Meli, Secondo centenario Serpottiano 1732-1932. Giacomo Serpotta: La Vita e le Opere, Palermo 1934, pp. 138, 139 []
  25. D. Garstang, Giacomo Serpotta e i Serpottiani. Stuccatori a Palermo 1656-1790, Palermo 2006, p. 52 []
  26. F. Meli, Secondo centenario… La Vita e le Opere, 1934, p. 140 []
  27. P. Palazzotto, Palermo. Guida agli Oratori, Palermo 2004, p. 238; cfr. pure Idem, L’Oratorio del SS. Rosario in S. Cita. Storia e Arte, in G. Pecoraro – P. Palazzotto – C. Scordato, Oratorio del Rosario in Santa Cita, Palermo 1999, pp. 23, 25; cfr. S. Grasso – G. Mendola – C. Scordato – V. Viola, L’Oratorio del Rosario in Santa Cita a Palermo, Palermo 2015, p. 53 []
  28. D. Garstang, Giacomo Serpotta…, 2006, pp. 79-85 []
  29. L. Pasqua, Su alcuni fercoli processionali della Sicilia occidentale, in Splendori…, 2001, pp. 716, 717 []
  30. L. Novara, I gruppi processionali di Trapani, in Legno, tela &… La scultura polimaterica trapanese tra Seicento e Novecento catalogo della mostra a cura di A. Precopi Lombardo – P. Messana , Erice, 2011, p. 143 []
  31. Ibidem []
  32. P. Messana, I misteri rifiutati, in Legno, tela &…, 2011, p. 157 []
  33. M. Vitella, Erice: i gruppi processionali per il Venerdì Santo, in Legno, tela &…, 2011, p. 155 []
  34. S. Rapisarda, Scultura lignea del Valdinoto: dalla Piana di Catania al comprensorio ibleo, in Manufacere et scolpire in lignamine. Scultura e intaglio in legno in Sicilia tra Rinascimento e Barocco, a cura di T. Pugliatti – S. Rizzo – P. Russo, Catania 2012, p. 511 []
  35. Ibidem []
  36. Ibidem []