Valentina Filice

valentinafilice.dj@hotmail.it

Casa Vita

DOI: 10.7431/RIV03132011

Vissuto tra Ottocento e Novecento, al confine tra mondo cattolico ed ebraico, urbano e rurale, quella di Guglielmo Vita rappresenta la particolare vicenda di un artista inserito nel contesto storico e sociale di un Paese, l’Italia, ancora ai suoi albori eppure irrimediabilmente segnato da profondi contrasti culturali e religiosi. Nonostante i ruoli di prestigio da lui rivestiti in vita, i numerosi riconoscimenti ottenuti come artista, architetto, poeta ed editore non bastarono a scongiurare la dissoluzione di una memoria che, attraverso questi studi, torna a riaffiorare a distanza di oltre cinquant’anni dalla sua scomparsa. Lo studio dell’abitazione fiorentina di Guglielmo Vita (Fig. 1), in una prospettiva di recupero e valorizzazione della sua opera, rappresenta, quindi, un fondamentale punto di partenza per la ricostruzione della vicenda artistica e personale dell’uomo e dell’intellettuale. Essa ne rappresenta contemporaneamente il testamento spirituale e il manifesto d’intenti, trasmessi materialmente dagli oggetti che ne compongono l’arredo, disposti secondo un ordine narrativo dal valore autobiografico, a fini autoassertivi e autocelebrativi. “La casa è l’uomo”, come dice Praz, “è una proiezione dell’io”, un’espansione della propria anima e del proprio corpo, dove l’arredamento non è che l’estensione del culto di se stessi1. Nel periodo che va dalla fine dell’Ottocento alla prima metà del Novecento, infatti, la casa traduce in termini intimisti la wagneriana Gesamtkunstwerk, facendosi specchio e teatro della vita e rivestendo il quotidiano dell’arte2. Se consideriamo, inoltre, la casa come un sistema di oggetti dal valore documentale storico e antropologico3, “Casa Vita” costituisce una straordinaria testimonianza dell’ambiente socioculturale di inizio ‘900 a Firenze, nonché un singolare anello di congiunzione tra il recupero dello stile neorinascimentale di fin de siécle,4 operato dalle dannunziane ville “La Capponcina” e “Vittoriale”, e il ritorno alla sobrietà proposto successivamente dall’Art and Crafts Movement e dalla Bauhaus5. Tra la fine del XIX e l’inizio del XX secolo, come già era accaduto in Inghilterra per William Morris e John Ruskin, la figura di Gabriele D’Annunzio si presentava come nuovo aedo ispiratore e moderatore delle arti in Italia. La “Carta del Carnaro” poneva, in un certo senso, le basi programmatiche per l’instaurazione del sistema corporativo fascista sostenendo il recupero di una dimensione artigianale della bottega e auspicando, per le arti performative così come per quelle decorative, un ideale ritorno a un’età rinascimentale caratterizzata dalla fusione di tutte le arti6. Recuperando il mito dell’artista artigiano e alchimista di stampo rinascimentale e manierista, D’Annunzio opponeva alle Avanguardie un modello di modernità che fosse retaggio di una vie antérieure7. Fino all’inizio del secondo conflitto mondiale, la “Capponcina” avrebbe rappresentato uno degli esempi indiscussi per l’abitazione medio borghese toscana8 che, nel Novecento, recuperava lo “stile fiorentino” come prodotto del Medioevo letterario e del Rinascimento burckardtiano. L’insieme degli oggetti, delle tappezzerie e delle iscrizioni che componevano gli arredi della villa trecentesca non erano che le parti di un racconto autobiografico in cui l’artista era il  protagonista e in cui ad essere celebrate erano la bellezza, la purezza, l’erotismo e la virilità9. L’arredo, usato come linguaggio simbolico e allegorico, sviluppandosi secondo un criterio di associazioni e giustapposizioni, seguiva il percorso filologico dell’introspezione e dell’ispirazione poetica similmente alla stesura di un romanzo, dove colori, oggetti e motivi decorativi, strettamente correlati tra loro, contribuivano allo svolgimento dell’azione10. La casa è così associata alla vita dell’uomo che vi abita, che la anima e le dà forma.

Se il “Vittoriale” rappresentava un epitaffio, quindi un monumento commemorativo, Villa “La Capponcina” costituiva un diario segreto scritto in contemporaneità col vissuto11. L’iscrizione campeggiante sulle vetrate, i fregi, le maioliche e i legni era, infatti, “Per non dormire”, che parafrasava quella di Palazzo Bartolini Salimbeni in piazza Santa Trinita, “Per non morire”12 cui fa eco il motto “Da vita a vita”, coniato dall’artista e intellettuale Guglielmo Vita per l’ingresso del proprio villino (Fig. 2), efficace sintesi del pensiero e delle arti della Firenze anni Venti oltre che di tutta l’attività artistica e intellettuale del suo autore.

Artista poliedrico, nato a Milano nel 1876, da un ricco industriale di origine ebraica e una fervente cattolica di origini contadine, una volta conseguita la laurea in ingegneria presso il Regio Istituto Tecnico Superiore di Milano, dopo un soggiorno in Svizzera, a partire dal 1905 Guglielmo Vita si stabilisce definitivamente in Toscana. La frequentazione dell’Accademia di Belle Arti, i contatti con l’ambiente culturale fiorentino e l’adesione alla scuola versiliese13 lo avrebbero successivamente avvicinato a quell’idea di “arte rustica”, sinonimo di genuina espressione d’italianità, che con la costituzione della “Corporazione nazionale delle arti decorative”, proposta nel 1922 da Mario Tinti, iniziava a prendere forma nell’unione tra arte e artigianato14, promossa poi dall’“Ente per le Attività Toscane” e dall’“Ente Nazionale per l’Artigianato e le Piccole Industrie”. Con la pubblicazione nel 1919 su “Le vie d’Italia”, la rivista mensile del Touring Club italiano, di “Un viaggio di dispiacere: divagazioni sul brutto”, Guglielmo Vita diviene parte attiva del dibattito sullo sviluppo delle arti decorative in Toscana e il relativo evolversi del concetto di bellezza, individuando nei caratteri di chiarezza, passione e fede (mezzi per “esprimere l’animo di un uomo così da illuminare e consolare l’animo degli altri”) assieme ad armonia, finitezza, originalità e profondità gli aspetti fondamentali dell’“arte per la casa”15. A questi temi si aggiungono poi alcune costanti iconografiche, riscontrabili nel villino di via Giambologna e riassumibili nei motivi dell’ulivo, simbolo di pace, l’alloro, simbolo di gloria, e le rondini, simbolo di rinascita, come “ornamento di una speranza che è l’ultima a morire: quella di essere ancora degni di amore e di gloria”16. In linea di continuità con gli ideali di bellezza, libertà e giustizia propugnati dalla “Costituzione di Fiume”, “Casa Vita” sembra abbracciare quel sogno di una nuova religione umana in cui tutte le fedi sono integrate e l’uomo finalmente riconciliato con sé stesso conduce una vita all’insegna della dignità e del decoro, reinventando le proprie virtù nel quotidiano e valorizzando ogni genere di lavoro nella continua ricerca di una bellezza che orna il mondo17. Aldo Sorani, nel 1926, descrive quella del Vita come un’opera pedagogica, un centro vitale in cui essere educati al bello18. Ma se il concetto del bello dannunziano si traduceva nel gusto per il prezioso e il raffinato19, il Vita, sebbene idealmente ispirato a D’Annunzio20, costantemente interessato alle continue trasformazioni sociali e tecnologiche, compie un’operazione di carattere estetico e funzionale risolvendo tutti i suoi interventi in termini di sobrietà, comodità e igiene. “Casa bella linda e fiorita” è il motto dell’artista che, convinto dell’intima corrispondenza di sentimenti tra l’uomo e il suo ambiente, indaga sulle ripercussioni psicofisiche nell’uomo derivate dalla disposizione e dalla salubrità degli spazi in relazione al loro arredo21. Nonostante gli inevitabili e talora espliciti riferimenti letterari al “Vate d’Italia”, dal punto di vista estetico e funzionale, il Vita muove un’aspra critica nei confronti del modello ottocentesco che faceva della casa “un cupo insieme di tappezzerie fastose e di copie ringiovanite di mobili in stile”22, così come racconterà ironicamente attraverso le memorie di un giovane amante indotto al suicidio dal cattivo gusto della sua dama23. A partire dalla seconda metà del XIX secolo l’industrializzazione aveva sollevato la questione sul rapporto tra arti decorative e prodotto di serie, ridefinendo i criteri di bellezza dell’oggetto in relazione al concetto di unicità e preziosità24. Partendo dal principio che sono “gli atti quotidiani” a fare la storia e “non solo le imprese eccezionali”, la querelle scatenatasi in merito all’equiparazione tra “arti maggiori” e “minori”, si fondava sull’idea di una bellezza, intesa come arte diffusa su tutti i livelli e in tutti i tipi di produzione. Sulla base del recupero dell’artigianato, quindi della tradizione, l’arte decorativa modernista avrebbe poi assunto i relativi caratteri nazionali sulla base delle diverse scuole e aree di interesse25. In Italia, la necessità di trasferire i caratteri qualitativi del prodotto artigianale in quello seriale trova un’importante spinta propulsiva con la restaurazione del corporativismo fascista che andava a conciliare le esigenze del capitalismo con le tradizioni artigianali locali26. In questo quadro storico, nella sua casa d’artista, Guglielmo sceglie di recuperare uno stile italiano in linea con la corrente di pensiero imperante che faceva dell’architettura l’“arte fascista per eccellenza”27, inducendolo a mantenere un atteggiamento di equilibrio tra tradizione e innovazione, pur nel continuo rispetto dei principi di benessere e abitabilità, in un rapporto di dialogo costante tra la casa e il suo inquilino quindi con la vita che si svolgeva in essa28. Se la categoria abitativa per fenomenologia architettonica consentiva digressioni di diverso genere, a seconda dei fattori prettamente economici e sociali29, Guglielmo Vita si confronta criticamente con le nuove tendenze urbanistiche che, col concorso milanese del dicembre 1910 e gennaio 1911 e la ricostruzione del lungomare viareggino30, individuavano nel villino lo standard abitativo di intere periferie urbane ad appannaggio della nuova classe borghese dominante31, rispondendo alle nuove esigenze di igiene, bellezza e comodità32 e contribuendo a rimodellare l’immagine della città33. Nonostante i primi riferimenti allo storicismo e all’architettura del fantastico, derivati da un eclettismo di ascendenza boitiana, riscontrabili nelle prime ville di Civita Castellana, Paolelli e Val Sia Rosa, e Malnate, Poggio Mirasole, per la propria abitazione il Vita adotta una tipologia costruttiva di stampo neomanierista ponendosi in discussione con quella “battaglia degli stili” per cui ogni soluzione formale era motivata dalla destinazione d’uso34. La scelta dei lessici impiegati era legata sia al valore di rappresentanza che a quello di appartenenza al patrimonio storico e culturale locale, in omaggio al “tema della riconoscibilità nazionale” caro fin dall’età giolittiana35. La costruzione del villino di via Giambologna, avviene contemporaneamente a quella delle grandi ricostruzioni post-belliche promosse dal fascismo, il cui obiettivo ideale era quello di ricostruire per “rinnovare il volto spirituale della Patria” al fine di donarle vita nuova36. “Casa Vita” si inserisce all’interno di quell’area urbana che a partire dall’inizio del secolo fino alle soglie della seconda guerra mondiale andava sviluppandosi tra Piazza Savonarola e via degli Artisti. Qui, entro ampi giardini privati sorgevano architetture, in gran parte di rappresentanza, caratterizzate da combinazioni architettoniche innovative ricche di elementi decorativi37, recanti le firme di maestri quali Michelazzi e Chini, che andavano a interrompere l’uniformità di un assetto urbano dominato da un eclettismo ispirato ai tradizionali valori di sobrietà, eleganza e chiarezza38. Se da una parte la presenza di numerosi artisti, quali Vittorio Corcos, Egisto Sarri, Edoardo Gelli, i fratelli Gioli, Antony De Witt e Italo Nunes-Vais39 aveva trasformato la zona nel “quartiere degli artisti”, dall’altra, la distruzione del Ghetto alla fine dell’Ottocento e la costruzione della nuova Sinagoga nella vicina piazza d’Azeglio40, avevano contribuito a farne il nuovo “quartiere ebraico”, accogliendo rispettivamente in via Della Robbia e in via Farini la sede del Collegio rabbinico e la casa editrice “Israel”. Terminata di costruire nel 1925, Casa Vita assume così questa duplice identità, ponendosi al centro della vita di artisti, ebrei e intellettuali concentrata attorno a piazzale Donatello. Se in generale l’Italia postunitaria aveva accentuato la separazione tra vita pubblica e privata, facendo dell’ambiente domestico il luogo deputato alla trasmissione dei valori civici e morali del cittadino, le comunità ebraiche, prima  e dopo il proprio riconoscimento giuridico, continuavano a fare riferimento all’ambiente intimo familiare come unico mezzo di trasmissione degli antichi valori della tradizione41.  In questo senso, il Vita avrebbe fatto della propria abitazione un mausoleo dedicato alla famiglia in cui ai simboli profani si sovrapponevano altri di tipo mistico e religioso, coerentemente con l’insegnamento dell’Esodo che spiega nei termini di glorificazione dell’Eterno l’aspirazione alla bellezza terrena42. La menorah in ferro battuto progettata dall’artista (Fig. 3) ne costituisce la summa simbolica: tre bracci snodati e sovrapposti davano luogo contemporaneamente al candelabro rituale ebraico, la cui forma sembra derivare dalla grande lampada di Chanukkah in bronzo del XVIII secolo di manifattura polacca, oggi conservata in una collezione privata a Milano43, e ad un’originale candelabro in stile floreale. E’ da tutte queste scelte estetiche e stilistiche che si evince la personalità di un artista che documenta attraverso i più diversi mezzi delle arti e della letteratura le condizioni di un popolo diviso tra fede politica e religiosa, vita pubblica e privata, nazionalismo e universalismo. Gli anni Venti chiudono definitivamente quel lungo periodo di grande osmosi culturale che era stato l’Ottocento e di cui il Vita era erede, avviando una nuova epoca segnata dal ritorno alla tradizione nel tentativo di recupero di una nuova identità nazionale. Tra il 1920 e il 1922, dall’estro di Marcello Piacentini, tra Palazzo Strozzi e Palazzo Davanzati, sorge il “Cinema Teatro Savoia” vera e propria vetrina delle arti italiane e amalgama di stili e modelli costruttivi ripresi a partire dal Cinquecento che darà vita al cosiddetto “Stile 1925”44. Il cantiere di Casa Vita, avviato a partire dal 1923, si inserisce inevitabilmente all’interno di questo nuovo dibattito architettonico avvalendosi in aggiunta delle diverse scelte formali operate dal suo progettista. A inaugurare ufficialmente la nuova abitazione, nel Luglio del 1926, sarebbe stato il Duca di Pistoia, giunto a Firenze a “presiedere il Convegno delle Attività Toscane”45 e del I Convegno nazionale Etrusco46. Fin dalla sua fondazione, infatti, Guglielmo Vita era divenuto membro attivo dell’EAT, l’ente per la promozione dell’arte e dell’artigianato toscano diretto da Italo Capanni, Giovanni Papini, dal sovrintendente alle arti Giovanni Poggi e dall’editore Enrico Bemporad47, partecipando come artista e intellettuale a numerose iniziative. Ma, nonostante l’adesione ai nuovi orientamenti artistici, il Vita resta comunque un uomo del suo tempo la cui attività, seppure inserita all’interno di un contesto storico e sociale circoscrivibile ai territori della Toscana, del Lazio e della Lombardia,  risente delle più svariate esperienze maturate entro e oltre i confini nazionali. Il suo lavoro riflette contemporaneamente sul liberty e il simbolismo nabis in Toscana, l’arte ebraica proveniente dall’Est Europa48 e la Deutscher Werkbund in Germania49. Guglielmo Vita si confronta con queste nuove tendenze mescolandole alla propria matrice eclettica e scegliendo come principio ordinatore di spazi e arredi la varietas, volta a scandire ritmi e motivi decorativi in un armonico rapporto di corrispondenze e alternanze. Attraverso la raccolta dei pezzi sopravvissuti alla guerra, dei disegni50, delle fonti orali degli ultimi discendenti, delle testimonianze fotografiche51 e scritte52 si è resa possibile una ricostruzione sommaria dell’intero contesto abitativo oltre che una lettura generale del programma iconografico esplicitato in una sintesi tra Casa, Studio, Rimessa e Giardino che fanno dell’intero complesso residenziale un organismo unico e indissolubile. Qui, i temi della vita e dell’amore erano coniugati da principio nella cimasa del cancello principale d’ingresso in cui era riprodotta l’immagine di una coppia di uccelli tra le fronde cariche delle primizie dell’albero della vita. Superata la soglia ed entrati nel portico, una lampada in ferro battuto, raffigurante un piccolo nido di tralci e riccioli, indicava l’ingresso dell’abitazione privata dell’artista simboleggiandone il suo carattere intimo e privato. In alto, le formelle del massiccio portone ligneo riportavano ancora una volta il simbolo del nido circondato da figure di uccelli disposte ai quattro angoli mentre altre, di tipo più convenzionale, richiamavano i motivi dei tralci intrecciati e delle lumache, simboli ctoni, in una discesa dal cielo al ventre terreno. Oltre il portone, una grande maniglia in ferro battuto chiudeva la bussola d’ingresso e ci rammentava ancora una volta il motivo dell’albero della vita con i suoi tralci stilizzati, ripetuti e sintetizzati sulle altre maniglie delle porte interne. Varcata la soglia si era introdotti in un ingresso adorno ai quattro lati da pitture murali inserite entro cornici in stucco e raffiguranti i mesi dell’anno in una sequenza chiusa da un medaglione centrale contenente la raffigurazione del nido con gli uccelli e il motto “Da vita a vita”, allusivo della ciclicità del tempo e delle stagioni e del rigenerarsi della vita attraverso l’amore. Ad ogni mese corrispondeva un’iscrizione ornata da una cornice di fiori e frutta abbinata, ad eccezione del mese di Giugno, ad una raffigurazione allegorica. Partendo da destra verso sinistra, alcune iscrizioni illustravano il trascorrere dell’anno: “Gennaio ingenera, Febbraio intenera, Marzo imboccia, Aprile apre, Maggio infiora, Giugno colora, Luglio indura, Agosto matura, Settembre dona, Ottobre incorona, Novembre rammenta, Dicembre sementa”. Tutti i fiori e i frutti erano propri del periodo dell’anno a cui facevano riferimento, mentre le figure allegoriche erano rappresentative del ciclo della vita e dell’età dell’uomo e della donna, quest’ultima vista ora come madre terra ora come vergine col bambino. Il lampadario, che ripeteva la doratura e i fiori delle cornici in stucco, riprendeva il tema dell’albero della vita mentre tutti i mosaici pavimentali ricordavano quello del giardino fiorito. L’ingresso affacciava su tre lati della casa: a destra la Sala dei giochi, a sinistra lo Studio e al centro la Hall. Seguendo un percorso filologico si passava dal tema della vita al tema dell’amore cui era dedicato lo Studio, qui, i controvetri delle finestre, ispirati agli stucchi del cortile di Palazzo Bartolini Salimbeni, erano animati dalle tenere schermaglie amorose tra giovani amanti racchiusi in ovali (Fig. 4), mentre il lampadario riprendeva nuovamente il tema del nido proprio della Sala dei giochi (Fig. 5), il cui motivo decorativo si ripeteva nei controvetri così come nei mosaici parietali dove, in una sorta di riproduzione edenica, erano raffigurate decine di diverse specie di uccelli (Fig. 6) e farfalle svolazzanti tra le escrescenze arboree generate da una variopinta pavimentazione fiorita. In queste prime tre sale è translitterato l’assioma secondo il quale dalla vita attraverso l’amore risorge la vita. Al centro di questo ciclo perpetuo era il tempo, che si configura come motore universale attraverso l’alternarsi delle stagioni, riproposte nel Passaggio a Sud Ovest in una serie di undici pitture murali raffiguranti i fiori e i frutti dei mesi dell’anno. Qui, l’ultimo mese era sostituito da un orologio a parete in vetro dipinto e ferro battuto entro il quale spiccava il motto “L’ora vola” (Fig. 7). Dal Passaggio si accedeva alla Cabina telefonica dove una vetrata istoriata illustrava la destinazione dell’ambiente attraverso la raffigurazione di una coppia contrapposta di suonatori (Fig. 8) e all’inscrizione “Lontan dagli occhi vicino al cuore”, campeggiante sull’architrave della porta adiacente la Hall. Quest’ultimo costituiva un vero e proprio commento didascalico cui faceva eco quello del cartiglio “Chiamo chi amo”, raffigurato tra le mani dei fanciulli di Casa Vita ritratti nella lunetta del Salone. All’ombra di un gazebo circolare, inserito nella zona Est del giardino, una fontana di acqua viva invitava gli ospiti a riunirsi in nome dell’amore fraterno così come indicava l’insegna in ferro battuto con la scritta “Alla pergola dell’amicizia”. Infine, seppur avulsa dal programma originario, ma ugualmente in continuità con esso, alla morte di Guglielmo Vita veniva posta all’ingresso dello Studio una lapide con inciso “La natura ci dona l’amore/L’anima rinnova la vita/Lo spirito va oltre la morte”53, a imperitura memoria dell’uomo che lì visse e operò. Ciò che emerge da questa analisi è la perfetta integrazione negli ambiente di ogni singola componente d’arredo che non esclude le scelte cromatiche, variabili a seconda delle destinazioni d’uso e dell’esposizione delle sale disposte sull’asse Nord-Sud dove i tre colori fondamentali venivano esaltati dalla quantità di luce esterna assorbita. Nella Sala dei Giochi il giallo dell’oro si estendeva dai mosaici parietali all’ottone dei controvetri, al tavolo, alle sedie, alla cassapanca fino alla libreria, realizzati in uno stile sobrio tendente al modernismo, fatta eccezione per alcuni particolari di retaggio neorinascimentale quali le sedie con seduta in cuoio e la libreria. All’atmosfera ariosa e solare della Sala dei giochi si contrapponeva quella angusta e notturna della Cabina telefonica dai toni caldi del rosso. Oltrepassando il corridoio tinteggiato di un bianco brillante, simbolo dell’unione tra di luci e colori, si giungeva alla Sala da Pranzo. Qui, particolari d’arredo quali la credenza da parata decorata e la dantesca rispondevano ad un più canonico gusto neorinascimentale tipico dell’epoca mentre, proseguendo lungo l’area perimetrale, il Salone contiguo alla sala da pranzo riprendeva i caratteri fantastici e immaginifici della Sala dei giochi, della Cabina telefonica e del Passaggio, con gli affreschi a volute modulati sui toni freddi dell’azzurro, forse in corrispondenza all’orientamento a Nord Ovest, ripresi nel mobilio in stile neorococò. La luce interna era filtrata in una magica atmosfera serale da una serie di appliques in alabastro a forma di loto e di giglio, i primi disposti in ellisse sul soffitto e i secondi alternati sulle pareti. Più avanti, il Salotto mescolava lo stile neorococò delle luci con lo stile secessionista dei legni curvati del sofà e delle poltroncine e lo stile neorinascimentale delle savonarole, dello scrittoio e della libreria. Il centro della casa, costituito dalla Hall che fungeva da collegamento per tutte le sale del pianterreno e del piano superiore, che affacciavano su di essa attraverso il ballatoio, trovava il suo cuore pulsante nel camino inteso come focolare domestico reso nella sua idea di calore dal rivestimento parietale in legno e velluto cremisi della sala. Qui, l’elemento decorativo dominante era la colonna. Da quelle poste a sostegno dell’alta cappa si dipartivano sui due lati una serie di colonnine binate sovrastanti la zoccolatura lignea e poste a incorniciare i pannelli di velluto retrostanti. Il motivo della colonna era poi ripreso nelle balaustre della scala ed era indicativo dell’attenzione riposta nella cura dei particolari da parte dell’artista e dell’artigiano, esecutore dell’opera, nell’assoluta differenziazione dei singoli capitelli e dei fusti. Salendo al piano superiore, nello Studiolo era ripetuto lo stesso motivo tradotto in piccole paraste anch’esse differenziate tra loro nel totale rispetto della varietas che dominava l’intera opera. La Hall e lo Studiolo costituivano il risultato di quello studio dell’antico riproposto, in quel periodo, dalla rivista «Architettura ed arti decorative»54. Il ritorno, all’ordine, al rigore, alla simmetria e all’eleganza formale imponeva il recupero del neoclassicismo nelle arti maggiori così come in quelle minori, facendo dell’analisi morfologica del tempio greco la base per il disegno del mobile che da questo mutuava membrature architettoniche, lesene, colonne, capitelli, timpani e cariatidi55. Se la zona giorno era espressione della discussione estetica e formale operata dall’artista nei confronti dell’“arte della casa”, nei servizi e nella zona notte spazi e arredi corrispondevano a scelte di carattere principalmente funzionale e tendente a una corrente di stampo modernista. Per ciò che riguarda le camere da letto, di particolare interesse era la toeletta completa di lavandino con acqua corrente nascosta da un armadio a muro, mentre, in risposta ai nuovi criteri di igiene e comodità, formulati successivamente dal Vita nel suo studio sulla Weißenhofsiedlung56, la cucina risultava arredata da grandi credenze con zone a giorno e sportelli in legno laccato, per favorire l’ordine dei piani e la pulizia delle superfici. All’interno, inoltre, onde evitare la dispersione di odori e al fine di favorire il trasporto delle pietanze era stato inserito un passavivande comunicante col tinello adiacente. Sulle pareti Nord Est e Nord Ovest si trovavano, poi, il terrazzino e la finestra utili per la raccolta dell’immondizia e la conservazione dei cibi al fresco. Un’altro intelligente accorgimento per l’ordine e il risparmio degli spazi era stato poi adottato all’ingresso dove nei due corpi laterali arretrati della bussola erano stati inseriti gli attaccapanni e le cappelliere. Nonostante gli accostamenti apparentemente contrastanti e le scelte stilistiche ridondanti, l’arredamento di Casa Vita rispondeva esattamente a un clima culturale proprio di un’epoca, quella tra il 1920 e ’25, segnata da incertezze e fermenti e che fungerà da ponte tra l’Art Déco degli anni Dieci e il modernismo degli anni Trenta superando le rotture futuriste, il cui stile, detto appunto “1925”, si contraddistingue per il recupero di un’arte rustica quindi pura perché incontaminata dall’industrializzazione57. Gli antichi modelli del passato costituivano un rifugio sicuro dal disorientamento epocale per tutti quegli artigiani che, nonostante l’avanzata età industriale, continuavano il proprio iter formativo nelle scuole di ebanisteria di Cantù, Cascina, Sorrento, o presso gli Istituti d’arte di Bologna, Firenze, Venezia, Rovigo e Perugia58. Secondo Paolini, nonostante il Ventennio fascista continuasse a riproporre lo stesso stile italiano neorinascimentale, assieme alla Casa artistica di Mariano Coppedè e al Cinema-Teatro Savoia di Marcello Piacentini, gli esperimenti di rinnovamento tentati nelle private abitazioni degli intellettuali costituivano alcuni dei maggiori sforzi per l’evoluzione dell’artigianato locale59. Tra tutte le manifatture toscane quella che per prima avrebbe risentito di questi mutamenti sarebbe stata quella vetraria che si sarebbe presto estesa alle abitazioni borghesi e ai palazzi pubblici60. Già i restauri delle vetrate di Santa Maria del Fiore alla fine dell’Ottocento, avevano creato i presupposti per avviare nuove forme di collaborazione tra artisti e artigiani61, così come avrebbe teorizzato più tardi Mario Tinti. Dalle vetrate decorate della “Capponcina”, della ditta De Matteis per l’Hotel Porta Rossa, nonché della Felice Quentin per lo “Strozzino”, il Vita avrebbe tratto ispirazione per la realizzazione della finestra in vetro decorato della Sala dei giochi commissionata ai Fratelli Polloni62, mentre sempre dal “Cinema-Teatro Savoia”63, dal “Palazzo delle Poste e Telegrafi” e dal villino “Ventilari” avrebbe derivato il motivo dell’ampio lucernaio centrale delle country houses inglesi e di Horta64, facendo della propria abitazione una sorta di esposizione campionaria della produzione vetraria dell’epoca65. Dal vetro al tessuto, lo “Stile 25” proponeva tipologie uniche che si risolvevano nella sincrasi di più stili ed elementi, così come emergeva anche dai lavori di Thayaht66 a cui il Vita farà  riferimento per l’elaborazione dei suoi modelli per tappezzerie. In aggiunta, motivi analoghi a quelli impiegati nei tessuti si possono riscontrare nei mosaici parietali della Sala dei giochi che riprendevano schemi compositivi simili a quelli utilizzati per il ricamo. Proprio in quegli anni, accanto alla lavorazione del mosaico alla veneziana che continuava a mantenere i tradizionali motivi secenteschi67, di cui troviamo interessanti saggi in Casa Vita, la decorazione musiva veniva recuperata dai movimenti avanguardisti del XX secolo per trovare nuove evoluzioni e sviluppi grazie alle scuole di Spilimbergo e Ravenna, nonché da artisti quali Massimo Campigli, Felice Casorati, Mario Sironi e Gustave Klimt, il cui stile inconfondibile era introdotto a Firenze da Galileo Chini68.  All’interno di questa vasta discussione sulle arti decorative e la loro storia vanno inseriti, infine, i lavori in ferro battuto, presenti in moltissimi particolari di arredo interno ed esterno al villino. Nel 1923 alla “Prima Mostra Internazionale delle Arti Decorative” a Monza, i ferri italiani avevano riscosso i più ampi consensi della critica decretandone la superiorità indiscussa su tutte le produzioni straniere69 mentre, a Firenze, la “Prima Esposizione Nazionale delle Piccole industrie e dell’Artigianato” assegnava il posto d’onore alla produzione locale. Sebbene il catalogo dell’esposizione fiorentina criticasse le nuove costruzioni definendole “casette di bambola” e l’uso della luce elettrica per aver contribuito a estraniare dalle abitazioni moderne l’uso del ferro battuto per i suoi toni bruni e la lavorazione rudimentale70, nei suoi progetti per l’illuminazione, il Vita era riuscito a trovare un valido compromesso tra lampadari moderni e torcere medievali in un’armonia assoluta di stili e modelli che spaziavano dal Quattrocento71 al Novecento72, dai modelli senesi delle officine Franci e Zalaffi73 a quelli milanesi della Ditta Lisio74 fino agli esempi di Alessandro Mazzucotelli75, in uno straordinario dialogo con le arti della ceramica che, nelle silhouettes realizzate per i controvetri dello Studio, sembrano assimilare l’insegnamento del repertorio classico di Gio Ponti76. In generale, all’interno della discussione sulle arti decorative in Toscana, l’arte del ferro costituiva un importante terreno di confronto per il recupero di uno stile italiano e, in questo caso, andava a concludere un progetto più vasto messo a punto dal Vita che era quello, per dirla con le parole di Aldo Sorani, di “applicare tutte le belle arti alla costruzione e all’arredamento della casa”, adattando i più recenti ritrovati del confort moderno sulla base dei principi di bellezza e armonia. Già in “Un viaggio di dispiacere” il Vita aveva espresso la necessità di dedicarsi all’”arte della casa” al fine di liberarla dal passatismo e dalle volgarità77 facendone il luogo privilegiato per l’apprendimento del bello e quindi del bene. Con Casa Vita, quindi, si concretizzava finalmente il sogno di Guglielmo Vita di ricongiungere l’Arte alla Vita, riunendo nell’organismo unico della casa tutte le pratiche artistiche e facendo dell’“arte la sostanza stessa della vita quotidiana”78.

  1. M. PRAZ, La filosofia dell’arredamento. I mutamenti nel gusto della decorazione interna attraverso i secoli dall’antica Roma ai nostri tempi, Milano 1993, p. 20. []
  2. S. SETTIS, in Case d’artista dal Rinascimento ad oggi, a cura di E. Huttinger, Torino 1992, pp. XIV, XX. []
  3. C. CACCHIONE, Il segno del tempo, in Argenti italiani del XX secolo dalle arti decorative al design, a cura di T.Favelli Giacobone, Milano 1993, p. 67. []
  4. M. PRAZ, La filosofia…, 1993, p. 8. []
  5. M. PRAZ, La filosofia…, 1993,  pp. 20, 22. []
  6. A. PICA, Presenza dell’artigianato creativo nell’Italia, in Storia dell’artigianato italiano, Milano 1979, p. 64. []
  7. G. FOSSI, Il giglio e la palma. Retoriche della tradizione nel Novecento fiorentino, in La grande storia dell’Artigianato, Vol. VI, Il Novecento, a cura di G. Fossi, Firenze 2003, pp. 9-10. []
  8. M. PRATESI, G. UZZANI, L’arte italiana del Novecento. La Toscana, Venezia 1991, p.196. []
  9. U. DI CRISTINA, La dimora di D’Annunzio. Il Vittoriale, Palermo 1980, pp. 38-39. []
  10. U. DI CRISTINA, La dimora…, 1980, pp. 39-44. []
  11. U. DI CRISTINA, La dimora…, 1980, p. 47. []
  12. B. PALMERIO, Con D’Annunzio alla Capponcina (1898-1910), Firenze 1938, pp. 36-37. []
  13. G. VITA, Dolce Versilia, Firenze 1989, p. 179. []
  14. A. CALCAGNI ABRAMI, L. CHIMIRRI, Arte Moderna a Firenze. Cataloghi di Esposizioni 1900-1933, Firenze 1988, p.16. []
  15. G. VITA, Nostalgie di Bellezza, con 99 disegni e documenti, Firenze 1928, pp. 194-195. []
  16. Ibidem. []
  17. A. DE AMBRIS, La costituzione di Fiume: commento illustrativo di A. De Ambris (1920), in R. De Felice, La Carta del Carnaro nei testi di Alceste De Ambris e di Gabriele D’Annunzio, Bologna 1973, p. 112. []
  18. A. SORANI, L’artefice di una casa, in «Illustrazione Toscana», Firenze, a. IV, n.7, Luglio 1926, p.10. []
  19. B. TAMASSIA MAZZAROTTO, Le arti figurative nell’arte di Gabriele D’Annunzio, Milano 1949, p. 519. []
  20. B. TAMASSIA MAZZAROTTO, ibidem, p. 567. []
  21. G. VITA, Un viaggio di dispiacere. (Divagazioni sul brutto), Milano, Estratto da «Le vie d’Italia», rivista mensile del Touring Club Italiano, 1919, pp. 45-48. []
  22. I. DE GUTTRY, M. P. MAINO, Il mobile déco italiano, 1920-1940, Bari 1988, p. 9. []
  23. G. VITA, Nostalgie…, 1928, pp. 64-68. []
  24. A. COLONETTI, Argento e design, in ‘900 Arti decorative e applicate del XX secolo, a cura di T. Favelli Giacobone,  Milano 1993, p. 52. []
  25. R. BOSSAGLIA, In forma d’arte, in ‘900 Arti decorative…, 1993, p.11. []
  26. M. NEGRI, La formazione artigiana tra bottega e scuola, in ‘900 Arti decorative…,1993, pp. 210, 212. []
  27. M. TINTI, L’estetica del Fascismo, in «Il Resto del Carlino», Bologna, 18 Gennaio 1924, p. 3. []
  28. A. SORANI, L’artefice di una casa, in «Illustrazione Toscana», Firenze, a. IV, n. 7, Luglio 1926, p. 10. []
  29. E. HÜTTINGER, La casa d’artista e il culto dell’artista, in Case d’artista…, 1992, p. 5. []
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  32. M. CERAGIOLI, Lido di Camaiore…, in G. BORELLA, A. SERAFINI, La costruzione…, 2000, p. 56. []
  33. G. VITA, Nostalgie…, 1928, pp. 20-21. []
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  37. Ibidem. []
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  39. Case d’Artista. Repertorio di studi e abitazioni di artisti nella Firenze dell’800, a cura di M. D’Amato, Ferrara 1997, pp. 38, 45, 59, 60, 77, 88. []
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  43. Ibidem. []
  44. M. COZZI, G. CARAPELLI, Edilizia…, 1993, pp.159-160. []
  45. A. SORANI, L’artefice…, in «Illustrazione Toscana», Firenze, a. IV, n. 7, Luglio 1926, p. 9. []
  46. Emanuele Filiberto Duca di Pistoia patrono dell’E.A.T, in «Illustrazione Toscana», Firenze, a. IV, n. 4, 15 Aprile 1926, p. 2. []
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  50. AGVFI/Disegni e Foto/Disegni. []
  51. AGVFI/Disegni e Foto/Foto/Casa Mia. []
  52. A. SORANI, L’artefice di una casa, in «Illustrazione Toscana», Firenze, a. IV, n. 7, Luglio 1926. []
  53. AGVFI/Disegni e Foto/Foto/Casa/Esterni. []
  54. I. DE GUTTRY, M. P. Maino, Il mobile…, 1988, p. 17. []
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  56. G. VITA, Il problema della casa, in «Illustrazione Toscana», a. VI, n. 11, Firenze, Novembre 1928, p. 23. []
  57. G. VITA, Nostalgie…, 1928, p. 129. []
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  77. A. SORANI, L’artefice…, in «Illustrazione Toscana», Firenze, a. IV, n. 7, Luglio 1926, p. 7. []
  78. Ibidem. []