Enrico Colle

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Una tarsia di Francesco Ravaioli per celebrare Pio IX

DOI: 10.7431/RIV03112011

Il tavolo (Fig. 1) si compone di un piano intarsiato sorretto da quattro gambe arcuate in legno di noce e raccordate in basso da altrettante traverse  terminanti al centro in un intreccio di volute; la fascia sotto il piano presenta delle scanalature e contiene due cassetti internamente rivestiti in legno di ciliegio. Il piano rettangolare, impiallacciato lungo i bordi in radica di noce, reca al centro un pannello intarsiato racchiuso da una cornice, a sua volta intarsiata in acero, a motivo di una corona d’alloro legata da nastri che si staglia su un fondo nero in legno di pero ebanizzato1.

La composizione centrale (Fig. 2) raffigura al centro il papa Pio IX su un piedistallo che con le braccia aperte scrive, con la mano destra, su un cartiglio portato da un angelo la parola «AMNISTIA»,  mentre un altro angelo gli porge un rametto d’ulivo. In basso è rappresentata una folla che, portando vessilli inneggianti il nome del papa (a destra una bandiera porta la scritta «VIVA PIO IX»), si inginocchia davanti al pontefice alle cui spalle splende un arcobaleno sopra le fortezze di Civita Castellana, di Castel Sant’Angelo e del Forte di San Leo, i cui nomi sono scritti lungo la cornice in basso insieme alla firma dell’autore, il forlivese Francesco Ravaioli.  Sotto il basamento su cui siede il Santo Padre (con la scritta «PIO IX») si vede disteso un vessillo con lo stemma del Papa ripetuto, poco lontano, a destra, in parte nascosto da un drappo con il nome di Pio IX.

Si tratta di un intarsio che, come indica la scritta apposta lungo il margine inferiore del pannello, fu eseguito poco dopo il 17 luglio 1846 per commemorare l’amnistia concessa, a un mese esatto dalla sua elezione al soglio pontificio, da Pio IX a tutti coloro che si erano macchiati di reati politici. Giovanni Maria Battista Mastai Ferretti fu eletto papa  il 16 giugno di quell’anno con grande plauso dei liberali che avevano vissuto le persecuzioni del precedente pontefice, il bellunese Gregorio XVI, e per questo si trovavano in parte esiliati dagli Stati Pontifici e in parte rinchiusi nelle prigioni di Stato. Alcune delle carceri dove venivano mandati i sovversivi sono infatti raffigurate sullo sfondo della scena e i loro nomi appaiono scritti in corsivo sulla cornice: si tratta del Forte di Civita Castellana, costruito da Antonio Sangallo il Vecchio a partire dal 1499 per divenire, dopo essere stata dimora papale, una prigione; così come la Rocca di San Leo, che da fortezza dei Montefeltro fu trasformata in una delle più terribili galere del regno pontificio dove languirono centinaia di patrioti romagnoli. Alla stessa funzione fu adibito Castel Sant’Angelo a Roma, tristemente famoso per le sue anguste celle in cui furono rinchiusi parte degli insorti catturati durante i moti del 1831.

Considerato dai suoi contemporanei come un sostenitore delle nuove idee liberali, papa Mastai Ferretti fu sempre attento ai bisogni dei più deboli fin dalla giovinezza quando, studente a Roma, fece apostolato presso uno degli ospizi per giovani abbandonati con il compito di insegnare loro un lavoro, missione che continuò a portare avanti anche nel 1827 quando divenne arcivescovo di Spoleto e poi, nel 1832, di Imola. La sua elezione alla Cattedra di San Pietro fu dunque acclamata da tutti i sudditi dello Stato Pontificio che, proprio in occasione della promulgazione dell’amnistia, la celebrarono con varie feste.

Nel Ragguaglio storico di quanto è avvenuto in Roma e in tutte le provincie dello Stato Pontificio in seguito del perdono accordato dalla Santità di N. S. Papa Pio IX , dato alle stampe a Roma nel 1846, si legge infatti che, a partire dal 17 luglio di quell’anno, non si udivano «da un punto all’altro della città […] che un echeggiare continuo di voci di giubilo unite alle più tenere espressioni d’amore e di gratitudine verso il nostro augustissimo sovrano, papa Pio IX, pel perdono accordato a tutti coloro che si trovavano in luogo di punizione, o erano ancora sotto processo per titoli politici». La sera stessa che il Pontefice fece affiggere il decreto dell’amnistia, continua il citato Ragguaglio, una folla di romani si recò al Quirinale e al grido di Viva Pio IX acclamarono il nuovo papa scoprendosi il capo e innalzando lo sguardo verso la loggia del palazzo dove egli impartì la sua «apostolica benedizione» mentre «tutti mandavano voci tronche, interrotte, perché impedite da lagrime abbondanti di tenerezza».

Tale resoconto sembra aver in parte ispirato l’autore del nostro intarsio allorché dispose le figure dei fedeli raccolte in vari atteggiamenti di riconoscenza, di commozione (si veda l’uomo barbuto inginocchiato in basso a destra, intento ad asciugarsi gli occhi) o di allegrezza, come testimonia il drappo con la scritta «Viva Pio IX» posto sullo sfondo della scena.

Le celebrazioni di gaudio per la decisione papale di concedere l’amnistia non si limitarono alla sola capitale, ma si estesero anche alle altre città degli Stati Pontifici. A Forlì, ad esempio – narra un anonimo cronista dell’epoca nel resoconto pubblicato nella menzionato Ragguaglio -, il 30 agosto le feste «furono solennizzate con ordine mirabile, con allegrezza quanto moderata altrettanto bella» grazie al concorso del numeroso «popolo accorso dalle vicine Città e Castella, nonché dal contado» e dalle molte carrozze che «percorrevano il Corso» fra le quali molte con le bandiere spiegate. «Alla Barriera Pia erasi innalzato – continua il memoriale – un’arco trionfale, di cui principali contorni, oggetti, e linee erano rappresentati da oltre settemila lumini a olio: sopra l’arco co’ medesimi lumi erasi composta un’Iride, ne’ sodi dell’arco erano i simulacri della Pace, e della Giustizia, nel fregio e nei vari pieni dello scompartimento iscrizioni, o motti in onore del Pontefice». Un’eco dell’effimero allestimento si può scorgere ancora oggi in alcuni particolari dell’opera qui presa in esame e cioè nelle stelle di madreperla incastonate intorno all’angelo recante il cartiglio con la scritta «Amnistia», i cui riflessi parrebbero ricordare i bagliori dei lumini che contornavano l’arco innalzato dai forlivesi; come anche  nell’“Iride” a forma di arcobaleno intarsiata sullo sfondo sopra la figura del Pontefice raffigurato come il giusto sovrano portatore della pace e della giustizia.

Il mobile, che documenta con precisione uno dei fatti salienti del nostro Risorgimento, oltre ad essere  una importantissima testimonianza storica, rappresenta anche l’evoluzione del gusto nell’area romagnola durante la Restaurazione quando, accanto al persistere degli stilemi neoclassici, qui evidenti nella forma delle gambe del nostro arredo, iniziava a farsi strada la nuova moda per la mobilia decorata con episodi ispirati ai principali avvenimenti politici italiani. Una caratteristica, questa, che è in analogia con gli intenti di molta pittura storica, che porterà, durante la seconda metà del secolo, alla creazione degli elaborati arredi del faentino Giovan Battista Gatti Gatti, del suo allievo Raffaele Bucci o del perugino Alessandro Monteneri autore del monumentale stipo per la corona del Re d’Italia conservato a Palazzo Pitti2. L’opera qui esaminata si pone infatti all’origine di quei mobili “parlanti” – come venivano definiti elle esposizioni nazionali questo genere d’arredi decorati con scene storiche -, capaci cioè  di coinvolgere l’intelletto e il sentimento dello spettatore e che quasi annullavano il destino funzionale dell’arredo per porlo sullo stesso piano di un quadro o di una scultura.

Se dunque, alla luce di quanto esposto,  molto conosciamo circa il soggetto rappresentato a tarsia, nulla si sa circa il suo esecutore, il forlivese Francesco Ravaioli, probabilmente attivo intorno al 1840 quando nella cittadina svolgevano la propria attività, all’insegna di una continuità con la tradizione accademica bolognese, gli architetti Giacomo Santarelli (1786 – 1859), autore nel 1847 della facciata di palazzo Pettini Giovannetti in corso Mazzini, e Giulio Zambianchi (1817 – 1886) cui spettò il compito di erigere, a partire dal 1840, il monumentale Duomo cittadino, seguito, nel 1842, dalla villa Guarini a Bertinoro, entrambi esempi di quel protratto neoclassicismo di ascendenza palladiana assai apprezzato anche nella creazione degli arredi commissionati dalla nobiltà romagnola, come documentano gli esemplari pubblicati da Ennio Golfieri3.

Di sicuro Ravaioli, come egli stesso scrisse in margine all’intarsio, era nativo di Forlì  e nella città erano vissuti durante il XIX secolo anche altri personaggi con lo stesso cognome quali il tenente Giacomo Ravaioli, uno fra i carbonari che, durante la Restaurazione, organizzarono le prime manifestazioni antipapali; l’ispettore di polizia Vincenzo Ravaioli, ucciso da anonimi sicari il primo gennaio del 1846 perché particolarmente inviso al popolo; e  l’assessore alle finanze del Comune Egisto Ravaioli, documentato, al pari del commerciante Garibaldo Ravaioli, tra la fine dell’Ottocento e gli inizi del secolo successivo4. Non è dato neppure sapere dove egli apprese l’arte dell’intarsio, ma sicuramente si formò all’interno di una delle botteghe d’ebanisteria romagnole che ebbero negli artigiani imolesi e ravennati alcuni tra i più importanti esecutori: da Giuseppe Bagnara di Imola o da Pietro Dradi di Ravenna5. Francesco Ravaioli derivò infatti il gusto per le variegate superfici impiallacciate in radica di noce e per la particolare forma delle gambe e della balza scannellata sotto il piano, quest’ultima vagamente ispirata ai prototipi veneti assai diffusi in area ferrarese ed emiliana anche attraverso le incisioni di Giuseppe Borsato.

  1. Il tavolo fu realizzato in legno di noce intagliato, in parte impiallacciato di radica di noce e intarsiato in legni di vario colore e madreperla e misura centimetri 80 x 117 x 110. Lungo la cornice, sotto la scena intarsiata, da sinistra verso destra  sono state intarsiate le seguenti scritte: “Forte Civita Castellana”, “Castelo S. Angelo”, “IL 16. LUGLIO 1846.”, “Forte S. Leo” e “Forlì Ravaioli Francesco fece”. []
  2. Si veda sull’argomento E. COLLE, Il mobile dell’Ottocento in Italia. Arredi e decorazioni d’interni dal 1815 al 1900, Milano 2007. []
  3. Cfr. E. GOLFIERI, La casa faentina dell’Ottocento, parte seconda, arredamenti interni, Faenza 1970. []
  4. Cfr. A. VARNI, Storia di Forlì. L’età contemporanea, Forlì 1992. []
  5. Cfr. E. COLLE, Il mobile Impero in Italia. Arredi e decorazioni d’interni dal 1800 al 1843, Milano 1998, pp. 108 -109. []