Daniele Galleni

daniele.galleni@sns.it

L’apparato decorativo del teatro della Nuova Borsa di Genova: aria di secessione tra Firenze, la Liguria e il Messico*

DOI: 10.7431/RIV24092021

Al pari di molte altre città italiane ed europee, anche Genova nei decenni a cavallo tra Otto e Novecento conosce febbrili lavori di trasformazione urbanistica, che portano allo smantellamento di interi quartieri del vecchio tessuto cittadino e alla costruzione di un nuovo apparato viario, con strade ampie e adeguate, nonché alla creazione di tutta una serie di edifici: dalle signorili residenze dei protagonisti della scena sociale a palazzi pubblici che possano rispecchiare il raggiunto status della città e dotarla di luoghi adeguati agli stimoli e alle possibilità della vita moderna. Un simile, brulicante ambiente diviene il contesto ideale per l’ascesa di figure emergenti, sia in ambito finanziario e speculativo che in quello artistico: architetti, pittori, decoratori possono trovare l’occasione per farsi conoscere e ampliare la loro sfera di contatti, proponendosi come celebratori dei fasti del progresso che avanza.

Tra le aree più interessate dai lavori che cambiano l’immagine della città ligure alla fine dell’Ottocento, un posto di rilievo è senza dubbio occupato dalla zona dell’antica via Giulia che arriva fino in piazza De’ Ferrari1. Al pari di quanto successo a Firenze per le antiche mura e, successivamente, per il “risanamento” del quartiere del Mercato Vecchio, storici edifici vengono demoliti per lasciare spazio a nuove e spaziose vie di transito, mentre i palazzi costruiti ex novo cambiano il volto della città. Il progetto di trasformazione dell’area viene approvato nel 1890: nasce così, sulle vestigia di antiche case e monumenti storici, la nuova monumentale via XX Settembre, lunga quasi 800 metri. Una simile operazione è un palcoscenico di prestigio per figure in cerca di un’ascesa sociale ed economica; fra queste figura l’architetto Dario Carbone (1857-1934), originario di Livorno, che, a partire dalla sua impresa Carbone e Repetto già attiva negli sventramenti del quartiere, riesce a ritagliarsi una posizione di rilievo nel nuovo panorama architettonico genovese.

Tra i progetti legati alla costruzione di via XX Settembre figura anche l’ampliamento di piazza De’Ferrari, nella cui area all’imbocco della nuova strada principale viene individuata la sede per la costruzione ex novo della borsa commerciale della città. L’antica sede della Loggia dei Banchi risulta, infatti, troppo piccola per le esigenze di un mercato finanziario in continua evoluzione, all’interno di una città che è ormai diventata uno dei principali poli industriali dell’ancora giovane Regno d’Italia. Nel 1907 l’appalto per l’edificazione della nuova sede viene conferito alla società Aedes, dove è conferita la Carbone e Repetto, e i lavori sono portati avanti con diversi ritardi e problemi finanziari tra il 1909 e il 1912, riuscendo a inaugurare definitivamente l’edificio il 21 luglio 1912.

Ma la stampa dell’epoca, anche più che dalla struttura architettonica opera di Carbone, sembra rimanere affascinata dalla sontuosità degli interni, affidati a un altro giovane architetto non ligure in cerca di un proprio posto nella scena artistica nazionale, ossia Adolfo Coppedè2. Questi era nato a Firenze nel 1871 in una famiglia dalla forte vocazione artistica: il padre Mariano (1839-1920) aveva aperto negli anni Settanta dell’Ottocento un proprio atelier di intaglio e decorazione di interni che più tardi prenderà il nome La Casa Artistica, capace di trovare un immediato successo a livello nazionale e internazionale. Qui si svolge la formazione di tutti i figli di Mariano: Gino (1866-1927), Carlo (1868-1952) e il minore Adolfo. È, infatti, proprio nell’atelier paterno che i tre hanno il loro primo impatto con la ripresa e la reinvenzione degli stili storici, studiati, smontati e riassemblati a seconda delle esigenze di una committenza o della destinazione del luogo, formando le necessarie fondamenta estetiche e culturali, prive tuttavia di sovrastrutture teoriche o volontà intellettuali, su cui si baserà il futuro “Stile Coppedè”, che proprio nel contesto genovese vede la luce3.

All’epoca della realizzazione della Nuova Borsa, mentre Carlo conduce soprattutto una carriera di pittore e decoratore all’interno dell’atelier fiorentino, Gino è invece un architetto affermato che può vantare numerosi progetti per castelli e ville “in carattere quattrocentesco”4 soprattutto nell’area genovese, a partire dal monumentale Castello Mackenzie in cui coinvolge anche l’atelier paterno e il fratello Carlo per la realizzazione degli arredi in stile5. Dei tre fratelli, Adolfo è quello che impiega più tempo a trovare una propria dimensione: inizia come pittore, solo in un secondo tempo si dedica all’architettura realizzando i suoi primi progetti tra l’Isola d’Elba e Firenze. Nel capoluogo toscano, in particolare, si fa notare per realizzazioni come l’eclettica Villa Pagani Nefetti o la Palazzina Antonini, dove si riscontrano anche cadenze liberty. La decorazione della Nuova Borsa di Genova è, per Adolfo, l’occasione decisiva per uscire dai limiti regionali e ampliare la sua sfera di influenza, come già avvenuto per il fratello maggiore Gino.

Se l’analisi del Salone delle Contrattazioni e della sua decorazione è oggetto di un’approfondita monografia6, alcuni documenti permettono di conoscere e comprendere meglio il ricco apparato decorativo del sottostante teatro, chiamando in causa anche nuovi protagonisti e significative collaborazioni.

Infatti, scendendo di un livello sotto il piano stradale, proprio in corrispondenza del Salone delle Contrattazioni, si trovava all’epoca un teatro, oggi smantellato, che riprendeva l’ambiente superiore per pianta e dimensioni e doveva essere circondato da altri locali pensati per contenere «birrerie, pattinaggio, bigliardi e ristorante»7. A questa sala teatrale si accedeva attraverso un elegante atrio decorato, anch’esso smantellato ma di cui sopravvivono diverse foto d’epoca che permettono di ricostruirne l’aspetto8 (Figg. 1234). L’impostazione generale risulta differente rispetto agli spazi del piano superiore, guardando molto di più alle composizioni geometrizzanti di derivazione viennese anziché al più imponente e massiccio “Stile Coppedè”. In basso corre un lambris a piastrelle quadrate, probabilmente in maiolica a lustri metallici, disposte in modo da creare pattern decorativi a losanghe e quadrati, giocando su una semplice ma efficace bicromia. Più sopra, nella incorniciatura a stucco sono presenti dei rilievi che scandiscono regolarmente lo spazio e mettono in risalto delle piastrelle circolari con figure geometriche.

L’elemento principale che caratterizza l’atrio del teatro è la fascia dipinta circa a due terzi dell’altezza: si tratta di un fregio con putti recanti festoni vegetali, maschere e strumenti musicali, tra un intreccio di nastri svolazzanti. In completa sintonia con l’atmosfera secessionista dell’ambiente si pone anche lo sfondo, caratterizzato da teorie di figure geometriche in alto e in basso. Motivo che viene ripreso anche nei riquadri a stucco posti immediatamente sotto il fregio, decorati a scacchiera. Gli stessi riquadri sono presenti sulla parte alta, questa volta occupati da copie della celebre Medusa Rondanini, l’antico bassorilievo marmoreo conservato presso la gliptoteca di Monaco di Baviera.

È difficile non associare la decorazione dell’atrio al nome di Galileo Chini (1873-1956)9. Oltretutto, proprio in quegli anni Chini aveva visitato la personale di Klimt alla Biennale di Venezia del 1910 e che da subito aveva cominciato a riprendere temi decorativi derivati dalla Secessione viennese nelle sue opere (basti vedere gli arabeschi dorati che compaiono sullo sfondo del suo manifesto per il Nuovo Politeama Fiorentino dell’anno successivo), poi culminanti nel ciclo dei diciotto pannelli della Primavera per la Biennale del 1914. Il motivo ornamentale dei putti recanti festoni è un elemento ricorrente del lessico decorativo dell’artista fiorentino e già intorno a questa data si possono contare numerosi esempi che possono essere messi in relazione con quanto visibile a Genova: dalle pitture murali della Casa di Risparmio di Pistoia ai pannelli per la celebre Sala del Sogno alla Biennale del 1907.

Anche l’uso della piastrellatura a lustri metallici rimanda a esempi coevi che coinvolgono la manifattura mugellana di Chini, le Fornaci San Lorenzo, come la sala mescita dello stabilimento Tamerici a Montecatini Terme, altro luogo della modernità e dello svago al pari del teatro. La piastrella circolare con decorazione geometrica, inoltre, si ritrova pressoché identica nella vasta produzione proveniente dalla fabbrica di Borgo San Lorenzo10.

Un bozzetto autografo conservato presso la Fondazione Wolfson di Genova (Fig. 5) permette di constatare come la partizione dello spazio parietale in due fasce, ossia fregio con putti e lambris, sia un’idea proveniente da Adolfo Coppedè, tuttavia le differenze con quanto compiuto si rivelano non trascurabili: scompaiono le figure femminili con arpe al di sopra della porta d’accesso, mentre vengono aggiunte le meduse di gusto tardo simbolista e in generale è accentuato tutto l’aspetto secessionista, a partire dal ricorso a elementi geometrizzanti. Il fregio con i putti era una soluzione già prevista da Adolfo, seppure nel bozzetto risulti più statica e meno ricca di dettagli, nel complesso maggiormente vicina alle invenzioni robbiane neoquattrocentesche del fratello Gino per il Castello Mackenzie11 anziché al secessionismo di un Chini sedotto da Klimt. Che Chini abbia preso parte alla decorazione pittorica dell’atrio del Teatro della Nuova Borsa di Genova è suggerito anche da un secondo bozzetto di Adolfo12 (Fig. 6) relativo alla «Decorazione a stucco e pittura della scala di accesso al teatro», come spiegato in basso a sinistra in un elegante riquadro ornato. Le parti modellate a stucco riguardano il lambris e il fregio sotto al soffitto, mentre sono realizzati a pittura i due pannelli con putti e arpe nella parte alta della scala. Un pannello molto simile si trova riprodotto diversi anni dopo, nel 1974, nel catalogo della grande asta della collezione di arredi e opere d’arte di proprietà degli eredi Coppedè (Fig. 7)13, messa insieme in particolar modo da Adolfo e Carlo e conservata nella cosiddetta Villa del Barone a Montemurlo, una delle ultime dimore della famiglia. L’opera riprodotta riprende le impostazioni di quanto delineato nel bozzetto con soltanto lievi modifiche nelle figure: si tratta di un pannello verticale in cui domina al centro la figura di un’arpa, le cui corde sono accarezzate da due putti posti ai lati, dalla forma innaturalmente allungata e affusolata e accompagnati da nastri. In alto è dipinto un piccolo fregio a volute, anch’esso analogo a quanto previsto nel bozzetto. Nel catalogo dell’asta il pannello riprodotto è indicato come parte di una «coppia di pannelli raffiguranti allegoria della musica, dipinti a tempera su tela, cm. 170x 100».

Sembra lecito pensare che si tratti dei due pannelli voluti da Adolfo per la scala di accesso da teatro, dipinti da Galileo seguendo le indicazioni fornite dal collega e sodale, a ulteriore prova di una partecipazione diretta di Chini all’impresa. Partecipazione che non si deve essere limitata a questi bensì si estende anche al fregio decorativo, il quale, a un’analisi attenta delle fotografie superstiti, risulta anch’esso consistere in una tela dipinta. Evidentemente, in seguito allo smantellamento delle decorazioni del teatro in data ancora non chiara verso gli anni Trenta14, Adolfo Coppedè deve essere riuscito a salvare almeno i due pannelli chiniani e a portarli nella propria residenza di Montemurlo; poi, diversi anni dopo la sua morte, sono passati all’asta del 1974 (con una datazione retrodatata al XIX secolo) e attualmente risultano dispersi. Nello stesso catalogo è presente, inoltre, un’altra coppia di opere di Galileo Chini, dalle dimensioni leggermente più piccole e di cui non è specificata la tecnica, indicate come generiche «figure allegoriche»15: la mancanza di ulteriori informazioni non permette di ipotizzare se anche queste provenissero dal teatro genovese.

Tornando a un ipotetico percorso all’interno del piano sotterraneo nel palazzo tra via XX Settembre e piazza De’Ferrari, dall’atrio o vestibolo si accede al vero e proprio spazio del teatro16. Anche in questo ambiente tornava l’immagine dei putti e dei festoni, questa volta in un bassorilievo; a darci un’impressione dell’antico aspetto della sala, oltre alla superstite documentazione fotografica (Figg. 8910), accorre in aiuto la sempre vivace penna di Luigi Bertelli in arte Vamba, fiorentino anch’esso, che descrive i fasti della Nuova Borsa e del suo teatro sulle pagine dell’”Illustrazione Italiana”:

«Una ridda di puttini con movenze svariate taglia la sala ai due buoni terzi d’altezza e forma coronamento a ciascuno dei portali che immettono nei grandi locali attigui.

Il tema che s’era imposto il Coppedè per la parte intima erano i gioielli, e infatti nel fregio che misura una novantina di metri, i puttini si movono lietamente in vaghi atteggiamenti, sostenendo festoni di pietre preziose e di perle.

Il soffitto è sostenuto da una serie di mensoloni, con teste di caproni e di femmine, i quali si raccordano felicemente e originalmente con le arcate della parete e lo spartito alla serie di lunette nel soffitto.

Lo sfarzo della luce, dell’oro, della policromia in generale delle colonne sormontate dagli originalissimi capitelli, danno all’insieme un senso di quell’arte squisita che perfettamente si conviene a un salone per concerti di pubblico ritrovo»17.

Il bassorilievo con i putti è l’elemento che caratterizza maggiormente la sala del teatro e dimostra come lo stesso tema possa essere giocato su una quantità di variazioni: dal quattrocentismo del bozzetto per l’atrio, al secessionismo di Chini fino a una simile rilettura che gioca sul modellato, il movimento e il dettaglio prezioso a partire dalle dorature dei gioielli, come sottolineato da Vamba, in un aspetto complessivo più vicino alla monumentalità opulenta tipica della concezione ornamentale di Adolfo Coppedè.

Nella sala del teatro è testimoniato, inoltre, l’intervento di un altro decoratore fiorentino: d’altronde, anche la stampa dell’epoca sottolinea come Adolfo abbia coinvolto e diretto una rete di collaboratori accomunati dall’origine toscana. Il soffitto è infatti arricchito da una serie di pannelli dipinti da Salvino Tofanari (1879-1946), firmati e datati 1909, rappresentanti scene di danza, estremamente varie per ispirazione e soggetto: in un’atmosfera antologica da “invito alla danza” che spazia tra epoche e luoghi, si possono ritrovare ambientazioni spagnole e arabe (Figg. 1112), indicate dalla stampa come le danze di Carmen e Salomè, così da avvicinarle alla cultura musicale più in voga sebbene non ci sia nessun riferimento preciso a scene dalle rispettive opere di Bizet e Richard Strauss), una celebrazione delle maschere italiane con allusioni carnevalesche per giungere ai più recenti divertimenti da music-hall, rappresentati da un can-can di eleganti viveur e ballerine, su eleganti sfondi astratti che sembrano fare il verso alle carte da parati più alla moda (Fig. 13).

Adolfo Coppedè, Galileo Chini, Salvino Tofanari: si tratta di tre concittadini che negli anni della realizzazione della Borsa stanno portando avanti un progetto comune nella natia Firenze, dedicato alla diffusione di un gusto più moderno per la decorazione e l’arredo. Proprio nel 1910 i tre artisti, infatti, insieme a Chino Chini (cugino di Galileo e direttore tecnico della manifattura ceramica di famiglia, le Fornaci San Lorenzo), Sirio Tofanari (fratello di Salvino e apprezzato scultore animalier) e il pittore e decoratore Ugo Fioravanti costituiscono una società denominata L’Arte, il cui obiettivo è indicato nel relativo atto costitutivo:

“La Società si prefigge lo scopo di promuovere le migliori e più moderne manifestazioni dell’Arte […] coll’assumere imprese di decorazioni per arredamento di ambienti di qualsiasi specie, ed in genere coll’eseguire lavori di arte pura e applicata per conto di terzi, curando anche la applicazione di loro criteri d’arte in lavori di edilizia”18.

La società apre un locale di esposizione e vendita in via Martelli a Firenze (Fig. 14), con cinque ambienti arredati in maniera coerente e dove sono presentati mobili, vasi, disegni, dipinti e sculture di artisti italiani e stranieri19.

La decorazione del teatro sembra riflettere, quindi, le intenzioni con cui nasce un simile progetto, procedendo agli sforzi che gli stessi artisti facevano a Firenze per modernizzare il gusto locale, rendendo ancora più plausibile l’ipotesi di una partecipazione attiva di Chini al progetto. Viene tuttavia da chiedersi perché il suo nome, all’epoca più celebre sia di Coppedè che di Tofanari, non venga menzionato con chiarezza sulla stampa in occasione dell’inaugurazione. In primo luogo, quando si tiene la solenne cerimonia di apertura del Salone delle Contrattazioni, il teatro era già stato inaugurato in precedenza, non risultando così l’elemento di novità su cui concentrare l’attenzione. Ma, soprattutto, Chini sembra essere in questo caso vittima del suo stesso successo: nel 1912, anno di conclusione dei lavori, l’artista si trova infatti ancora a Bangkok dove si era recato l’anno precedente su espresso invito del sovrano Rama V per la decorazione della sala del trono20. All’inaugurazione del 22 luglio, dove non risulta presente nemmeno Tofanari, è il solo Adolfo Coppedè a essere celebrato.

Del bassorilievo con putti pensato da Adolfo, seppure smantellato, sopravvivono non soltanto un bozzetto21 ma anche alcuni frammenti a dimensioni naturali (Figg. 1516) provenienti da una delle ultime proprietà della famiglia Coppedè, la tenuta agricola di Villa Pazzi al Parugiano, e oggi in collezione privata. Queste parti del bassorilievo in stucco, per un totale di dieci pezzi, devono essere materiali di lavoro provenienti dall’atelier, necessario alla replica dello stesso elemento per due progetti differenti: oltre che a Genova, infatti, un identico fregio con putti ingioiellati viene proposto negli stessi anni in tutt’altro contesto, all’interno di una delle più importanti imprese legate all’atelier Coppedè: la decorazione del Palacio de la Secretaría de Comunicaciones y Obras Públicas a Città del Messico, portata avanti dall’ormai anziano Mariano e dal fratello pittore Carlo, i quali si recano nel 1911 in Messico insieme a diversi operai specializzati per il montaggio in loco del complesso apparato decorativo fatto di arredi, boiserie, tele e pannelli decorativi22. Il fregio (Fig. 17) è posto in posizione d’onore, all’ingresso del Salone dei ricevimenti a cui si accede tramite lo scalone monumentale. L’unica differenza consiste che mentre a Genova è frammentato in più scene di minori dimensioni, in Messico è riformulato come un unico bassorilievo continuo, inserendo due ghirlande con figure allegoriche come raccordo fra le varie parti.

Si trova quindi a un oceano di distanza dalla Liguria un riferimento diretto alle decorazioni del Teatro della Nuova Borsa, che si configura dunque come un importante episodio per lo sviluppo di un linguaggio ornamentale moderno, bel panorama di una città desiderosa di darsi un nuovo aspetto in cui antico e contemporaneo possano convivere e valorizzarsi a vicenda.

* Il presente contributo intende pubblicare i primi risultati di una ricerca ancora da completare derivata da alcune questioni aperte durante il mio dottorato (in cotutela tra la Scuola Normale Superiore di Pisa e Aix/Marseille Université) dedicato alla ricostruzione della storia dell’atelier di intaglio e decorazione della famiglia Coppedè, che spero di riuscire a pubblicare a breve. Sono doverosi alcuni ringraziamenti verso chi mi ha aiutato a meglio gestire la materia, ossia Massimo Ferretti e Matteo Fochessati. Un sentito ringraziamento va inoltre a Enrico Colle per l’invito a presentare una prima ricognizione sull’argomento e ai proprietari delle opere e delle foto d’epoca per avermi permesso la consultazione e la riproduzione fotografica. Riproduzione che è stata condotta grazie a Monia Manescalchi e Giandonato Tartarelli della Scuola Normale Superiore. È inoltre sempre incoraggiante sapere di poter contare sull’interesse e l’aiuto di Paola e Vieri Chini.

  1. Per una panoramica ampia sul contesto genovese tra Otto e Novecento vedi Il mito del moderno. La cultura liberty in Liguria, a cura di F. Sborgi, Genova 2003; come testimonianza diretta dell’epoca anche Genova nuova, Genova 1902. []
  2. Sulla famiglia Coppedè resta fondamentale I Coppedè, a cura di R. Bossaglia-M. Cozzi, Genova 1982. Su Adolfo vedi anche Adolfo Coppedè agli esordi dell’Elba contemporanea, catalogo della mostra a cura di L. Brancaccio, Livorno 2011; Adolfo Coppedè. Un architetto nel secolo d’oro della borghesia, catalogo della mostra a cura di T. Strinati-V. Rossi, Milano 2014. []
  3. La definizione “Stile Coppedè” nasce nel 1908 dalla descrizione di Luigi Becherucci di Palazzo Pastorino, progettato da Gino Coppedè a Genova, sulle pagine del “Corriere di Genova”. Vedi I Coppedè…, 1982, p. 80, n. 40. []
  4. Il riferimento è alla antologia della produzione architettonica di Gino Coppedè Castelli e ville in carattere quattrocentesco, Milano 1914. []
  5. Sul Castello Mackenzie vedi Il Castello Mackenzie a Genova. L’esordio di Gino Coppedè, a cura di G. Bozzo-M. Cambi, Cinisello Balsamo 2008, e il capitolo relativo in Genova nuova…, 1902, pp. 171-195. []
  6. Vedi A.M. Nicoletti, E. Manara, G. Bozzo, Genova. Il Palazzo della Nuova Borsa, Genova 1999. []
  7. Il nuovo grandioso edificio della Borsa di Genova, «La Nazione», 21 luglio 1912. []
  8. Una raccolta di foto relative alla decorazione del Salone delle Contrattazioni e al teatro è conservata sia ASFi (Fondo Adolfo Coppedè, Cartelle 15 e 16) sia in collezione privata. Una tale antologia di immagini, stampate in grandi dimensioni su carta di pregio, potrebbe derivare dagli album fotografici donati dallo stesso Adolfo Coppedè ai ministri, al prefetto e al presidente Camera di Commercio in occasione della cerimonia di inaugurazione, vedi ibidem. []
  9. Per i rapporti tra Chini e l’ambiente genovese è inoltre da sottolineare che le vetrate della Nuova Borsa sono realizzate presso la manifattura delle Fornaci San Lorenzo di cui è direttore artistico, e che nel 1907 risulta coinvolto per la decorazione del nuovo palazzo comunale di Sampierdarena insieme a Gino Coppedè: su questo episodio vedi M. F. Giubilei, “Arte del sogno” in Palazzo Centurione. Plinio Nomellini, Galileo Chini, Gino Coppedè e Antonio Quinzio per la nuova sede comunale di Sampierdarena (1907-1909), in “Superba ognor di belle imprese andrai”. Scritti per Farida Simonetti, a cura di A. Guerrini-G. Zanelli, Genova 2020, pp. 264-271. []
  10. Vedi come riferimento il campionario pubblicato in Galileo Chini e la Toscana, catalogo della mostra a cura di Belluomini Pucci A.-Borella G., Cinisello Balsamo 2010, in particolare l’esemplare in alto a destra a pag. 271. []
  11. Si veda ad esempio il fregio con putti, nastri e festoni nel tamburo della cupola nell’atrio del Castello Mackenzie che riprende il modello rinascimentale dei Della Robbia; vedi Il Castello Mackenzie…, 2008, p. 176. []
  12. ASFi, Fondo Adolfo Coppedè, Cartella 15, n. 16. Un terzo bozzetto di Adolfo per la decorazione dell’ingresso al teatro è inoltre pubblicato in I Coppedè…, 1982, p. 98. []
  13. Vedi Asta della Raccolta Carlo Coppedè e degli arredi ancora esistenti nella Villa del Barone a Montemurlo presso Prato di proprietà Loni-Coppedè, Galleria Vangelisti, Lucca 1974, lotto 111, p. 29, riproduzione in bianco e nero a tav. 8. []
  14. A.M. Nicoletti, E. Manara, G. Bozzo, Genova. Il Palazzo…, 1999, pp. 98-99. []
  15. Vedi Asta della Raccolta…, 1974, lotto n. 115, p. 29, «Galileo Chini Sec. XIX. Coppia di pannelli raffiguranti figure allegoriche, cm. 140×145». []
  16. La vera e propria sala teatrale, resa indipendente dalla Borsa, sarà poi nota con il nome di Teatro Olimpia. []
  17. L. Bertelli (Vamba), Le decorazioni architettoniche nel Palazzo della Nuova Borsa di Genova dell’arch. Adolfo Coppedè, in “L’Illustrazione Italiana”, n. 31, 4 agosto 1912, p. 120. []
  18. Citato in La manifattura Chini, a cura di R. Monti, Roma-Milano 1989, pp. 115-116. []
  19. Alcune foto degli interni del negozio di via Martelli, chiamato La casa dell’Arte, sono pubblicate in La Manifattura Chini…, 1989, p. 141. Il progetto non riesce tuttavia a decollare, anche a causa della partenza di Chini per il Siam nel 1911, e già nell’aprile del 1913 la società viene sciolta. []
  20. Chini rientra per un breve periodo a Firenze proprio nel 1912, prima del rimpatrio definitivo nell’anno successivo, ma si tratta di un viaggio dovuto a motivazioni familiari a causa della malattia del cugino Chino. []
  21. Conservato in ASFi e pubblicato in T. Strinati, V. Rossi, Adolfo Coppedè…, 2014, pp. 42-43. []
  22. Sul Palacio de Comunicaciones, dal 1892 sede del Museo Nacional de Arte (MUNAL), vedi J. Gutierrez Haces, El Palacio de Comunicaciones, Mexico D.F. 1991. []