Anita Paolicchi

anita.paolicchi@cfs.unipi.it

Tracce veneziane nelle collezioni romene: note per una nuova lettura di alcune oreficerie marchiate

DOI: 10.7431/RIV24062021

Le collezioni del Museo Nazionale di Arte della Romania conservano un variegato nucleo di oreficerie di provenienza veneziana: quattro patene1, due artofori, un calice, una lampada. Ad eccezione di una delle patene, si tratta di opere prodotte presso botteghe veneziane nel periodo 1685-1710 – con una netta predominanza nell’ultimo biennio (Fig. 1) – che rappresentano un tassello importante nello studio delle relazioni economiche e degli scambi culturali fra Venezia e i voivodati romeni alla fine del Seicento.

I contatti fra la Repubblica Veneta e il voivodato valacco, costruiti dallo stolnic Constantin Cantacuzino (1639-1716) e rafforzati dal fratello Șerban (1640-1688, regnante dal 1678), resistono anche dopo la scomparsa di quest’ultimo, grazie all’avvento del nipote Constantin Brâncoveanu (1654-1714), forse il più noto dei voivozi valacchi, figlio della loro sorella Stanca. Le relazioni della famiglia Cantacuzino-Brâncoveanu e della corte voivodale con l’area veneta sono state in passato attentamente delineate da eminenti sudiosi, fra i quali si ricordano, per l’ambito italiano, il filologo Ramiro Ortiz e lo storico Mario Ruffini2, e in tempi più recenti da studiosi sia romeni che italiani, soprattutto per quanto riguarda aspetti di storia economica3.

Le iscrizioni permettono, per la quasi totalità degli oggetti, di definire in modo piuttosto chiaro l’identità dei committenti, la destinazione, il contesto della donazione e l’anno in cui è avvenuta.

Sulle tre delle patene conservate nelle collezioni del Museo Nazionale di Arte della Romania di Bucarest ricorre due volte lo stemma della famiglia valacca di discendenza imperiale dei Cantacuzino, con le iniziali SdCc, cioè Șerban dvornic Cantacuzino: il riferimento è a Șerban Cantacuzino II, detto “Măgureanu” dal nome della località di Măgureni, dove aveva stabilito la propria residenza4. Figlio di Drăghici Cantacuzino, e quindi nipote dello stolnic Constantin e cugino del voivoda Constantin Brâncoveanu, Șerban aveva debuttato in politica assieme al fratello Pârvu nei primi anni del regno del Brâncoveanu e, dagli anni Novanta del Seicento, dopo la morte del fratello, era divenuto uno dei personaggi più vicini al voivoda, distinguendosi come raffinato conoscitore d’arte e fondatore di chiese5.

Queste tre patene sono state evidentemente concepite come corpus unitario: realizzate nel biennio 1709-1710, sono molto simili fra loro per forma, dimensione e decoro, con un fiore di peonia posto al centro del fondo, circondato da un decoro radiale a rilievo che porta a una banda liscia, mentre sul bordo si sviluppa un decoro a festone con grandi fiori di acanto, peonia e girasoli. Il decoro floreale non presenta particolarità, essendo lo stesso che si ritrova anche su patene realizzate nello stesso periodo dagli orafi transilvani, che infatti avevano recepito piuttosto rapidamente le novità stilistiche centro-europee, introducendole, tramite le loro opere, nel voivodato di Valacchia, i cui regnanti erano da tempo sensibili al gusto occidentale, avendo avuto a più riprese contatti con l’Italia, in particolar modo attraverso Venezia. Il soggetto profano di alcuni medaglioni sul bordo ne tradisce però la provenienza occidentale, indicando inoltre che queste patene non erano, in origine, state realizzate per essere usate come corredo ecclesiastico. In passato era effettivamente stata tentata una lettura in senso religioso di alcune scene, ad esempio interpretando in chiave cristologica la scena di uno dei medaglioni della prima patena: tuttavia è chiaro che si tratta di un cigno che nutre i suoi piccoli e non di pellicano e della sua carità.

Una quarta patena oggi conservata nel museo del vescovado di Buzău, molto simile a quella per la chiesa dei Santi Apostoli, venne donata al monastero di Râmnicu Sărat, una fondazione di Constantin Brancoveanu e Mihai Cantacuzino. Grazie ai corpora di iscrizioni pubblicate dagli accademici romeni nel corso degli ultimi decenni6, recentemente Carmen Tănăsoiu, curatrice del Museo Nazionale di Arte della Romania, ha identificato altre due patene probabilmente riconducibili a questo corpus veneziano, ma oggi disperse: la prima appartenente alla chiesa di San Nicola Șelari, la seconda alla chiesa Sărindar (entrambe fondazioni bucarestine)7.

Un’impostazione simile si ritrova anche su una patena conservata al museo del monastero Antim, appartenente al patrimonio della Patriarchia romena: questa patena è però del tutto priva del gusto barocco che caratterizza le altre, ed è infatti stata ricondotta in via ipotetica a un atelier aromuno (o aromeno8) operante a Venezia, anche grazie alla presenza di un’iscrizione in greco sul retro che ne dichiara il nome dell’autore, Constantin Miseanu9.

Al Magureanu è invece indirettamente legato il più antico degli oggetti che compongono il corpus qui preso in analisi, il calice datato 1685, nella cui iscrizione in greco non è nominato alcun donatore. La sua collocazione nel tesoro del monastero di Hurezi – fondazione principale del principe Constantin Brâncoveanu, la cui costruzione comincia solo nel 1690 – permette tuttavia di ipotizzare due committenti: il principe stesso e il fratello maggiore di Șerban Măgureanu, Pârvu, che fino alla morte sovrintende alla costruzione per incarico del cugino.

Sulla lampada pensile, di forma piriforme con decoro vegetale, realizzata in argento sbalzato e traforato, è riportato solamente un nome, Istratie Florescul, cugino di Constantin Brâncoveanu, che possiamo quindi ipotizzare esserne il committente. Questo ci permette di tentare di individuarne anche la destinazione originaria, non documentariamente attestata: Ancuța, la figlia di Istratie, si sposò con uno dei figli di Pantaleon Caliarh (Caliarhos), protomedico dello stesso Brâncoveanu, portando in dote il terreno su cui sorgeva anche la chiesa di Santa Sofia Florească di Bucarest, attestata nel XVIII secolo come possedimento della famiglia Caliarh-Florescu e per la quale Istratie potrebbe dunque aver commissionato la lampada10.

I due contenitori cilindrici decorati con elementi vegetali e figure di santi, simili dal punto di vista tanto strutturale quanto decorativo, si differenziano fra loro solo per alcuni dettagli minori11, e diversi sono anche i donatori: il primo, datato 1698-1699 si lega alla figura del Magureanu, che lo donò al monastero di Comana, una delle fondazioni poste sotto la sua protezione12, mentre il secondo, destinato al monastero di Cotroceni nel 1701, menziona nella lunga iscrizione donatoria il nome dell’egumeno Mitrofan. Più interessante è invece osservare come si differenziano dagli altri oggetti con la medesima funzione commissionati e realizzati in questo periodo per la corte valacca per la struttura, che solitamente riproduce una forma architettonica, spesso quella della chiesa cui erano destinati. Questi due contenitori dalla forma inusuale tanto in area valacca quanto in area veneziana possono essere messi in relazione con oggetti dalla funzione analoga e dalla forma simile realizzati per fondazioni ortodosse in altre aree dei Balcani, come ad esempio un artoforio proveniente da una bottega orafa di Bačkovo13.

Infine, il più tardo diskos, fu invece donato alla chiesa bucurestina dei SS. Apostoli da due donatori i cui nomi, due figure non meglio identificate chiamate Ioan e Dimitrie, emergono dall’iscrizione in greco.

I marchi orafi

Ciò che è invece veramente determinante per lo studio della provenienza di questi oggetti è la lettura dei marchi orafi su essi impressi, che dimostrano come si tratti di oggetti importati in Valacchia e non realizzati da orafi veneziani attivi in questa regione14: tutti presentano infatti il marchio raffigurante il Leone di San Marco, che veniva posto dalla Zecca a garanzia della bontà dell’oro e dell’argento usato dalle manifatture della Repubblica Veneta.

Una recente campagna di studio condotta presso il Museo mi ha permesso di constatare che spesso, nella bibliografia, i marchi apposti su questi oggetti sono stati mal interpretati. Mentre la provenienza lagunare era stata correttamente colta dagli studiosi romeni già in una fase piuttosto precoce dello studio di queste oreficerie, la lettura degli altri marchi apposti su questi manufatti sembra essere stata piuttosto problematica: al tempo dei primi studi su alcuni di questi oggetti, all’inizio del Novecento, e soprattutto nel momento della loro sistematica catalogazione negli anni centrali del secolo, gli studiosi locali erano comprensibilmente impossibilitati ad accedere alla bibliografia italiana sul tema delle oreficerie marchiate venete che, pur tutt’oggi incompleta, avrebbe fornito loro alcuni fondamentali strumenti di lavoro. Non sapendo come interpretare gli altri punzoni apposti accanto a quello raffigurante il leone di San Marco, questi vennero considerati come le iniziali dell’autore o l’insegna della bottega. In sintesi, tale prima errata lettura – che peraltro condizionò gli studiosi successivi, che tutt’oggi tramandano l’errore – non teneva conto delle normative sulle modalità di punzonatura nello Stato Veneto, che nel periodo che ci interessa, cioè il tardo Seicento e il Settecento, prevedeva che gli argenti recassero, alla fine della procedura di controllo, il segno dell’argentiere o il marchio della bottega, i bolli di due saggiatori, e il bollo di San Marco15, né considerava il fatto che questa normativa veniva spesso disattesa, così che gran parte degli argenti veneziani reca solamente due bolli – quello della città e quello del saggiatore – e solo raramente presenta il bollo dell’artigiano o della bottega, talvolta mancando persino il marchio di Stato.

Mentre i registri con i nomi e i marchi che gli orafi – per esercitare il mestiere – erano chiamati a depositare alla Zecca e ad apporre su ogni propria opera sono andati in maggior parte dispersi, impedendo l’associazione di un nome a un marchio, alcune notizie storiche relative alla Zecca hanno permesso di identificare molti dei saggiatori in carica nel XVII e XVIII secolo, e quindi anche i marchi rispettivi, che solitamente si distinguono da quelli degli argentieri per essere composti da due iniziali divise da un simbolo figurato.

Tuttavia, come è stato possibile verificare durante un periodo di studio nello stesso museo, l’errore non risiedeva soltanto in un travisamento del significato delle iniziali che compongono i marchi, considerandole indistintamente identificative degli orafi autori e delle loro botteghe, tralasciando la possibilità che si trattasse di marchi apposti dai saggiatori, ma proprio in un’inspiegabile errata lettura di tali caratteri.

Per spiegare meglio, prendiamo l’esempio dell’artoforio proveniente dal monastero di Comana. Nelle schede di catalogo che sono state dedicate a questo oggetto dall’inizio del Novecento è riportata l’informazione che vi siano impresse le lettere STAOP, ritenute identificative anche di altri oggetti appartenenti allo stesso corpus, come le tre patene del primo Settecento. Ad esempio, è così nel primo volume di una collana di testi di riferimento per la ricerca storica, ovvero Inscripțiile medievale ale Romîniei [Iscrizioni medievali della Romania], nel quale questi cinque caratteri, letti come STA.OP, vengono considerati il bollo della bottega nel caso dell’artoforio e il bollo dell’autore per tre patene16. È possibile che questa informazione sia tratta da testi precedenti, ma quello che è certo è che è stata pedissequamente recuperata da autori successivi, inclusi coloro che nel tempo hanno lavorato al Museo Nazionale di Arte della Romania a Bucarest, dove questi oggetti sono oggi conservati. Corina Nicolescu, la prima a redigere un catalogo sistematico delle opere di quello che allora si chiamava Museo di Arte della Repubblica Socialista Romena, aveva poi ritenuto queste lettere le iniziali di un unico argentiere di Venezia, S.T.A.O.P, pur riproducendo in apertura del volume Argenteria laica e religiosa due marchi separati che quindi componevano questo ipotetico nome soltanto se uniti17 (Fig. 2). Tale ipotesi di lettura è stata poi reiterata con varianti da chi si è successivamente occupato della collezione di argenteria e oreficeria del Museo o vi ha fatto riferimento18.

Sulla base dell’aspetto delle riproduzioni di questi due punzoni ad opera di Corina Nicolescu avevo in passato ritenuto che l’attribuzione a questo ipotetico orafo (o bottega) identificato dalle lettere STAOP potesse semplicemente venire corretta dando un senso alla presenza dei due punzoni identificabili, sulla base degli studi trentennali di Piero Pazzi sui marchi orafi veneti, come quelli di un orafo ancora non identificato che si firma con le iniziali ST e del sazador Antonio Poma il cui punzone si componeva di una A e una P inframezzate da un frutto allusivo del cognome. Ciò appareva inizialmente verosimile perchè come osservato dallo stesso Pazzi, il marchio ST si incontra spesso su opere contrassegnate anche dal punzone di questo sazador19.

Questa ipotesi, accettata in seguito anche dai curatori del Museo, rimane ancora valida per quanto riguarda le tre patene: è stato infatti possibile verificare come questi punzoni siano stati effettivamente impressi sul lato inferiore del margine.

La verifica ravvicinata di altri elementi di questo nucleo di argenti mi ha invece permesso di osservare come, in realtà, la portata dell’errore tramandato nella bibliografia andasse talvolta ben oltre l’impossibilità di decifrare i marchi orafi.

Ad esempio, sul fondo dell’artoforio di Comana, oltre al bollo della Zecca (ripetuto più volte anche sul corpo dell’oggetto), si trovano due marchi ben diversi da quelli menzionati in tutta la bibliografia precedente: il primo, costituito dalle iniziali AC inframezzate da una torre, è ripetuto cinque volte, il secondo, IL CORAGIO, a lettere maiuscole su un fondo quadrilobato, solo una. Il primo è il marchio di Anzolo (Angelo) Castelli (vissuto fra il 1662 e il 1710), il quale ha svolto l’incarico di saggiatore ordinario della Zecca a partire dal 1682, ma che è anche attestato come orefice20. Il secondo invece è il contrassegno della bottega posta all’insegna de “Il coraggio”: l’attività di questa bottega è documentata tra il 1681 e il 1706 e, come riportato da Pazzi, è riscontrato in maniera ricorrente, fra gli altri, proprio assieme al punzone di Castelli21 (Fig. 3).

Sull’artoforio del monastero Cotroceni, di pochi anni successivo, e meno noto nella bibliografia a causa di una sua tarda musealizzazione, l’errore è analogo ed è dovuto al fatto che gli autori delle schede non sapevano ad esempio quanto, nei marchi dei sazadori, sia frequente la presenza combinata delle iniziali del nome e di un simbolo evocativo del cognome. Per questo motivo il marchio del sazador Anzolo Castelli, che si trova ripetuto due volte – in alto a sinistra nella scena della Dormitio Virginis e in basso a sinistra nella nicchia di Sant’Atanasio –, venne letto come AAC, mentre in realtà consiste delle iniziali AC inframezzate da una torre allusiva, appunto, del cognome “Castelli”. In questa occasione, diversamente che nell’artoforio di Comana, il segno del sazador accompagna un marchio composto dalle lettere ZS (o SZ) separate da tre punti sovrapposti in campo quadrilobato. Questo secondo marchio non figura fra quelli elencati negli studi di Pazzi, né altrove, e non è quindi possibile in questa sede far altro se non segnalarlo.

In entrambi i casi, sia per l’artoforio di Comana che per quello di Cotroceni, resta il dubbio se Anzolo Castelli possa essere considerato l’autore, o se l’autore non sia piuttosto un orafo che, non avendo impresso il proprio marchio, è destinato a rimanere sconosciuto.

Conclusioni

Appare quindi evidentemente necessario sottoporre a verifica l’intero corpus di oggetti di attestata provenienza veneziana conservate tuttora in Romania: oltre alle patene e ai contenitori cilindrici, restano ancora da verificare i marchi apposti sul calice (BL, secondo la bibliografia), sulla lampada (ZAC, forse il marchio del sazador Zuanne Cottini, con le iniziali separate da una torre) e sul diskos (ZC, la cui riproduzione nel volume di Corina Nicolescu somiglia tuttavia molto al già citato marchio identificativo di Cottini).

La correzione della lettura dei punzoni è la premessa per un’esatta comprensione della provenienza di questi oggetti. Un certo orafo, una certa bottega sono punti di partenza per studiare la storia del loro arrivo in Valacchia e quindi, in un’ottica più ampia, sono tasselli che si aggiungono a quanto sappiamo delle relazioni economiche fra queste regioni, ma anche a ciò che conosciamo del gusto estetico dell’élite valacca e dell’importanza che avevano oggetti di importazione estera.

  1. Di queste quattro patene, tre, di dimensioni maggiori (diametro 40 cm), erano destinate a contenere il pane per l’Anafora, mentre l’altra è di dimensioni minori (circa 20 cm) ed è propriamente chiamata diskos. []
  2. In particolare: R. Ortiz, Per la storia della cultura italiana in Rumania, București 1916 (edizione italiana 1943); M. Ruffini, L’influenza italiana in Valacchia nell’epoca di Constantin-Vodă Brâncoveanu (1688–1714), Milano 1933. []
  3. Particolarmente meritevole, a questo proposito, lo sforzo dell’Istituto Romeno di Ricerca e Cultura Umanistica di Venezia per garantire annualmente l’occasione agli studiosi dei due paesi di confrontarsi su questo tema. []
  4. Si tratta di una residenza ereditata dal padre, il quale a sua volta l’aveva con certezza ereditata dalla madre Elina: M. Muscariu, Mănăstirea Comana între istorie și legendă, Giurgiu 2017, p. 150, nota 173. []
  5. Corina Popa, Un ctitor al epocii brâncovenești: Șerban Cantacuzino II Măgureanu, in Artă, Istorie, Cultură. Studii în onoarea lui Marius Porumb, a cura di C. Firea e C. Opreanu, Cluj-Napoca 2003, pp. 247-255, in particolare p. 247. Per dettagli sulla biografia si veda: Nicolae Stoicescu, voce Cantacuzino Șerban (II) (Măgureanu), in N. Stoicescu, Dicționar al marilor dregători din Țara Românească și Moldova, sec. XIV-XVII, București 1971, p. 144. Per una sintesi del cursus honorum di Șerban Cantacuzino II Măgureanu si veda anche: C. Luca, Note sulle forme di assimilazione del capitalismo preindustriale nel Sud-Est europeo: depositi bancari di provenienza valacca nella Zecca di Venezia, in Cristian Luca, Dacoromano-Italica: studi e ricerche sui rapporti italo-romeni nei secoli XVI-XVIII, Cluj-Napoca 2008, pp. 179-192, in particolare p. 181. []
  6. A. Elian, C. Bălan, H. Chircă, O. Diaconescu, Inscripțiile medievale ale Romîniei. Orașul București, vol. I, București 1965. []
  7. C. Tănăsoiu, The Liturgical Silverware Donated by Boyar Șerban II Cantacuzino to his Main Monastic Foundations, «Museikon», 2 (2018), pp. 95-104, in particolare p. 102. []
  8. Gli aromuni, o aromeni, sono un gruppo etnico che in seguito a migrazioni si è sparso nella penisola balcanica a sud del Danubio (fino in Tracia, Epiro e Dalmazia); la loro lingua può essere considerata una forma di dialetto romeno, come la lingua parlata in Romania (propriamente daco-romeno). []
  9. S.S. Duicu, 46. Anaforniță, in Colecția de artă a Patriarhiei Române. Catalogul muzeului de la Mănăstirea Antim, București 2016, pp. 92-93. []
  10. Le dimensioni (28 cm) e la forma non si discostano da quelle delle lampade prodotte in Valacchia e Transilvania nello stesso periodo. Corina Nicolescu, Argintăria laică și religioasă în Țările Române (sec. XIV- XIX), București 1968, cat. 287. Per altri esempi di lampade valacche e transilvane vedi: C. Nicolescu, Argintăria laică și religioasă, cat. 265-294. Se ne ipotizza una datazione al 1708 basandosi sia sui caratteri stilistici dell’oggetto, sia sulle attestazioni documentarie che menzionano Istratie; cfr. Inscripțiile medievale ale Romîniei, vol. I, nr. 700. []
  11. La differenza principale, dal punto di vista decorativo, risiede nel fatto che l’esemplare di Cotroceni presenta nella nicchia a sinistra della porta una scena della Koimesis, equilibrata dalla compressione di due apostoli in un’unica nicchia a destra della porta. []
  12. M. Muscariu, Mănăstirea Comana…, 2017, pp. 147 ss., p. 156. []
  13. La prima proposta di mettere a confronto questi manufatti è stata avanzata in “Les chivote à l’époque de Constantin Brâncoveanu”, in Microarchitecture et figures du bâti: l’échelle à l’épreuve de la matière, atti del congresso (Institut National d’Histoire de l’Art, Parigi, 8-10 Dicembre 2014), Paris 2018, pp. 87-96, ma l’idea è stata successivamente, ulteriormente sviluppata nella tesi di dottorato, discussa a Firenze il 26 febbraio 2020, intitolata Reliquiari e tabernacoli. Un’indagine comparativa delle oreficerie sacre del mondo bizantino-slavo. []
  14. Sebbene rare, non mancano informazioni relative alla presenza, presso la corte valacca, di medici, umanisti e maestranze di provenienza italiana. Ad esempio, un orafo chiamato Gerolamo Campagnani realizza nel 1711 alcuni elementi ornamentali per un’icona della Vergine col bambino per il monastero di Dintr-un lemn (oggi al Museo Nazionale di Storia della Romania); A. Paolicchi, Esiti di cultura visiva italiana nell’oreficeria transilvana e valacca del tardo Seicento, in «Annuario dell’Istituto Romeno di Cultura e Ricerca Umanistica di Venezia», XIV-XV, 2012-2013 [2017], pp. 151-164. []
  15. Felice Gambarin, Bolli e punzoni sugli argenti a Venezia e in Terraferma nel ‘600 e ‘700. Testimonianze archivistiche, in Ori e Tesori d’Europa, atti del convegno di studio (Castello di Udine 3-5 dicembre 1991), a cura di G. Bergamini e P. Goi, Udine 1992, pp. 299-308, in particolare p. 300; P. Pazzi, L’argenteria veneziana, in L’oro di Venezia. Oreficerie, argenti e gioielli di Venezia e delle città venete, a cura di P. Pazzi, catalogo della mostra (Biblioteca Nazionale Marciana, 29 giugno-6 ottobre 1996), Venezia 1996, pp. 23-52, in particolare p. 30; Piero Pazzi, Tipi diversi di bolli che si riscontrano negli argenti e nelle oreficerie veneziane, in P. Pazzi, I punzoni dell’argenteria e oreficeria veneziana, Venezia 1990, p. 27. []
  16. Cfr. Inscripțiile medievale ale Romîniei, vol. I. []
  17. C. Nicolescu, Argintăria laică și religioasă, pp. 54, 372. []
  18. Solo a titolo di esempio di veda il catalogo della mostra De la Matei Basarab la Constantin Brâncoveanu. Arta secolului al XVII-lea (București 1992) o del museo del monastero Antim (Colecția de artă a Patriarhiei Române. Catalogul muzeului de la Mănăstirea Antim, București 2016). []
  19. Piero Pazzi ha spesso riscontrato il marchio ST su opere contrassegnate dal punzone del sazador Antonio Poma. P. Pazzi, I punzoni dell’argenteria e oreficeria veneta, I: Venezia e Dogado, Pola 1992, p. 136. []
  20. P. Pazzi, I punzoni dell’argenteria…, 1992, I, pp. 60-61; Piero Pazzi, Dizionario biografico degli orefici, argentieri, gioiellieri, diamantai, […] operanti nello Stato Veneto, […] dal Medio Evo alla fine della Repubblica Aristocratica di Venezia, Treviso 1998, p. 142. []
  21. P. Pazzi, I punzoni dell’argenteria…, 1992, I, nr. 248, p. 106. []