Bianca Cappello

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Alcune considerazioni sui gioielli nei dipinti del Tintoretto tra oreficeria, moda, simbolo e tecnica

DOI: 10.7431/RIV24032021

Per quanto riguarda i gioielli e l’espressione del lusso, l’epoca in cui ha vissuto Tintoretto è particolarmente opulenta e ricca. A partire dalla scoperta dell’America, nel corso del XVI secolo si fa sempre più ingente la quantità di oro, argento e pietre preziose che dal continente americano e dalle Indie Occidentali, passando attraverso la Spagna, si riversano in Europa permettendo lo sviluppo di una moda sfarzosa che vede tra le sue massime espressioni proprio la produzione orafa.

L’oreficeria del Manierismo è caratterizzata dal generoso uso di oro, perle, e pietre di colore, spesso accostati tra loro in un’alternanza di forme e colori montati sia in gioielli a sé stanti sia in placche e bottoni da cucire sugli abiti, evidenziando così la preziosità dei tessuti, spesso ricamati con fili di oro e argento, nella produzione dei quali Venezia e Firenze primeggiavano1. Durante tutto il Rinascimento, il desiderio di indossare gioielli ci è rivelata dalle numerose leggi suntuarie promulgate nelle principali corti in Italia e in Europa, per mettere un freno alle spese investite nel lusso compresi abiti e gioielli. Mostrarsi con gioielli era un aspetto fondamentale della vita e del riconoscimento sociale e per tale motivo era molto diffuso anche l’uso di noleggiarli, sia per una occasione che per un periodo anche di parecchi mesi. Dai documenti pervenutici, tra i contratti di noleggio più frequenti, spiccano su tutti i fili di perle2. Proprio Venezia infatti, nata secoli prima come città bizantina, ancora durante il Medioevo ed il Rinascimento è fedele alla sfarzosa tradizione orafa locale, incentrata sul redditizio commercio di perle che arrivavano in città dalla vicina Costantinopoli, la “Porta d’Oriente” che filtrava le preziose gemme marine provenienti dal Golfo Persico e dalle coste dell’India. Già nel 1290 il Maggior Consiglio emana disposizioni relative all’importazione delle perle nel Ducato Veneto e, fino all’occupazione austriaca, alla fine del XVIII secolo, nel Tesoro della Basilica di San Marco era conservato un cospicuo numero di gioielli bizantini, ricchi di perle, gemme e smalti e che sicuramente sono stati un’importante fonte di ispirazione per gli orafi veneziani del Cinquecento. Parimenti importante era il commercio e l’ uso in oreficeria di diamanti, rubini, smeraldi e zaffiri che, oltre al loro valore di status symbol e riconoscimento sociale, spesso venivano montati nei gioielli riferiti al fidanzamento e al matrimonio3.

Là dove non si potevano avere materiali preziosi, si emulavano, e in questo Venezia, già dal XIII secolo, era uno dei centri più importanti con la produzione di perle di vetro e “veriselli” cioè gemme di vetro4. Come anche ci spiega Benvenuto Cellini nel suo Trattato di Oreficeria scritto alla metà del Cinquencento, il vetro poteva anche essere accoppiato con un sottile strato di pietra preziosa per creare una gemma di grande effetto ma di basso valore chiamata “doppietta”5. Anche questo commercio doveva essere molto diffuso vista la quantità di leggi suntuarie e di editti per scoraggiarne sia l’ uso che il commercio fraudolento6.

I gioielli non solo erano desiderati e indossati a profusione sugli abiti e sulle acconciature, ma erano anche oggetto di particolare attenzione da parte degli artisti che li dipingevano con dovizia di dettagli nei ritratti di nobili, mercanti ed ecclesiastici così come nelle scene allegoriche e mitologiche. È questo il periodo in cui artisti come Hans Holbein il Giovane e Leonardo da Vinci non solo ritraggono nei loro dipinti i membri delle più potenti corti dell’epoca ma anche disegnano per loro gioielli preziosi ed esclusivi7.

Nella Venezia del Cinquecento pittori come Tiziano Vecellio, Paolo Veronese, Lorenzo Lotto e Jacopo Robusti detto Tintoretto, dipingono nelle loro opere, abiti e gioielli come elemento distintivo dello status sociale della persona rappresentata, seguendo i dettami della moda corrente e offrendoci, a fianco della lettura simbolica, che sempre accompagna la rappresentazione dei gioielli nell’Arte, uno specchio sufficientemente fedele della produzione orafa coeva.

Nel Ritratto del Doge Girolamo Priuli e nel Ritratto del Doge Pietro Loredan, il Tintoretto mette in primo piano i grandi bottoni in metallo, probabilmente in oro o argento dorato, sbalzati con profonde godronature che, assieme alla pelliccia di ermellino e al corno ducale decorato con un ricamo in filo d’oro e gemme, svelano inequivocabilmente il ruolo ed il livello della persona rappresentata. La particolare forma dei bottoni rivela, così come le architetture veneziane coeve, la fitta rete di relazioni culturali, oltre che commerciali, che esistevano tra Venezia e l’Impero Turco Ottomano che dal 1453 aveva conquistato Costantinopoli sottomettendo l’Impero Bizantino.

Nonostante Tintoretto fosse notato dai contemporanei Giorgio Vasari e l’Aretino per la sveltezza e la velocità nell’eseguire i suoi dipinti, è stupefacente constatare la cura con cui l’artista rende i dettagli dei gioielli che rappresenta8. Una tale dovizia di particolari può essere giustificata ipotizzando che il pittore abbia visto dal vero i monili rappresentati. In effetti, proprio la figlia prediletta, Marietta Robusti, era andata sposa al gioielliere tedesco Mario Augusta con cui si era trasferita nella contrada di Santo Stefano, nel sestiere di San Polo a Venezia9. Questo fatto, oltre ad esemplificarci una certa presenza a Venezia di artisti orafi provenienti dal nord Europa, ci porta a pensare che Tintoretto abbia potuto avere accesso ai gioielli prodotti dal genero e quindi una certa facilità nel reperire modelli a cui ispirarsi e da ritrarre nei suoi dipinti.

Non sono molte le tipologie di gioielli che ricorrono nei dipinti del Tintoretto e anche per tale motivo possiamo pensare che i gioielli che rappresenta corrispondessero a quello che per la moda dell’epoca rappresentava un “must-have”: bracciali a fascia in oro la cui superficie è movimentata a volte da un intreccio, come in Cristo in Casa di Marta e Maria, in L ’Incontro di Tamar e Giuda e in Susanna e i vecchioni; altre volte i bracciali sono arricchiti da una sequenza di perle e castoni di gemme colorate, soprattutto rossi-rubini e verdi-smeraldi come ad esempio in Ester davanti ad Assuero o in Giuditta e Oloferne solo per citarne alcuni. I bracciali sono spesso portati in coppia e indossati al polso delle eroine oppure, nelle figure allegoriche e mitologiche, sono posizionati alti sul braccio, vicino all’omero, con chiaro riferimento all’antichità pagana e ai costumi orientaleggianti. Ai lobi delle orecchie, le protagoniste dei dipinti del Tintoretto indossano quasi sempre un modello di orecchino che è formato da una semplice monachella a cerchietto in oro su cui è appesa una singola grande perla a pera. Il veneziano Marino Sanudo, rivelando la novità di questo ornamento, nei suoi Diarii annota, nel dicembre 1525, di aver visto per la prima volta, in occasione di un pranzo importante, una sua parente con i lobi forati da sottili anelli e con una grossa perla “secondo il costume dei mori”. Nonostante il personale disappunto del Sanudo, questa moda si diffonde ampiamente visto che è ricorrente nei dipinti Cinque e Seicenteschi di tutta Europa10.

Altro gioiello onnipresente nelle donne ritratte dal Tintoretto è il girocollo di filo di perle, tutte rotonde e dello stesso diametro che, come vediamo nella sua Susanna e i Vecchioni conservata nel Kunsthistorishes Museum di Vienna (Fig. 1), è indossata grazie a un nastrino di stoffa che viene allacciato dietro al collo con un fiocco.

Sempre seguendo la moda dell’epoca, Tintoretto dipinge le sue eroine con complicate acconciature fatte di trecce annodate con fili di perle o nastrini in tessuto dorato. L’uso di adornare le chiome con perle era un richiamo all’antichità poiché fa riferimento a Venere, dea dell’Amore nata dalla spuma del mare proprio come si credeva nascessero le perle. Per le veneziane era anche un malizioso modo di far risaltare il caratteristico colore dei capelli “biondo rossastro”, artificiosamente ottenuto esponendoli al sole con impacchi a base di acqua, cenere, guscio d’uovo, scorza di arancio e zolfo. L’amore per tali acconciature era tanto forte che neanche San Lorenzo Giustinian, primo Patriarca di Venezia, alla metà del Quattrocento, era riuscito a proibire alle donne di portare “perle in testa”11.

Spesso nei dipinti di Tintoretto compaiono anche spille e pendenti che, in linea con i modelli a lui coevi, rappresenta con un corpo centrale impreziosito da un castone cloisonnè o con griffe, che trattiene una grande gemma di colore, spesso rossa, attorniata, secondo un disegno simmetrico, da altri castoni di gemme di colore o da perle imperniate.

Questa prima lettura visiva della foggia dei gioielli dipinti è solo uno dei tanti strati di decodificazione delle immagini del Tintoretto. Da sempre i gioielli sono stati usati nell’Arte come elementi semiofori, portatori di significati, sacri e profani, ben conosciuti dalla cultura in cui venivano rappresentati e spesso descritti in appositi trattati che erano un sunto delle conoscenze coeve di filosofia, religione, medicina e alchimia. Diamante, rubino, smeraldo e zaffiro rappresentano ciascuno un chiaro linguaggio visivo dei colori frutto di una lunga tradizione scritta e orale. Questo codice rafforza l’importanza della presenza dei gioielli nei quadri del Tintoretto. In modo sintetico, possiamo dire che in quest’epoca il diamante raffigura la forza e la tenacia, il rubino la carità e la grandezza d’ animo, lo smeraldo la fede e la forza vitale, lo zaffiro la spiritualità e la saggezza illuminata da grazia divina. Le perle, che sono tra le gemme più frequenti nei dipinti di Tintoretto, con il loro bagliore lunare e la loro provenienza acquatica, sono da sempre riferite al mistero femminino e potevano essere associate, in base al contesto di riferimento, alla castità virginale, come vediamo nella Sant’Orsola e le undicimila vergini oppure nel Tarquinio e Lucrezia (Fig. 2), in cui la virtù dell’eroina viene distrutta proprio come la sua collana di perle. Per lo stesso motivo, le perle simboleggiano anche l’amore sensuale, come nelle Tentazioni di Sant’Antonio, nel Giuseppe e la moglie di Putifarre, o nella Leda e il cigno e in generale nelle varie rappresentazioni di Venere.

Anche la posizione dei gioielli aveva sicuramente una lettura simbolica, come possiamo vedere nei casi in cui pendenti e medaglioni vengono raffigurati sul petto spesso sottolineati anche da un gesto della mano come a richiamare l’attenzione sulla purezza del cuore e la forza dei moti dell’animo, ad esempio in Giuditta e Oloferne o ne L’invenzione della Croce12

E’ possibile che l’attenzione per l’oreficeria e la sua forza simbolica fossero alcuni dei motivi per cui Tintoretto rappresentasse tanto spesso i gioielli nei suoi dipinti. Un’ulteriore chiave di lettura infatti potrebbe essere che i gioielli venissero da lui usati come mezzo per ottenere un determinato scopo visivo. Carlo Ridolfi, autore della biografia del Pittore, spiega che per progettare le sue composizioni Tintoretto realizzava piccole scenografie in cui inseriva figure di gesso o terracotta che illuminava con candele13. Ecco che i gioielli, grazie alla superficie vibrante e riflettente dei metalli, delle gemme e delle perle, potevano essere uno speciale mezzo con cui indagare gli effetti della luce artificiale. La luce infatti è protagonista nella pittura del Tintoretto ed è uno dei punti cardine della sua poetica. L’effetto luministico che il pittore studia e mira ad ottenere è quello artificiale e intellettuale, e in questa ottica i gioielli diventano il mezzo attraverso cui evidenziare i personaggi e gli oggetti proiettandoli nello spazio scenografico della sua fantasia.

Dal punto di vista della tecnica pittorica, così attenta in Tintoretto a bilanciare con veloci pennellate una perfetta regia che metta insieme disegno e colore, i gioielli sono punti luce studiati che, con tocchi di colore bianco, giallo, rosso, verde, creano un contrasto tra ombra e luce e aiutano il pittore a sottolineare i piani di prospettiva e azione della scena indirizzando così il punto di vista dello spettatore; il giallo dei bracciali e delle monachelle degli orecchini, il bianco dei fili di perle, il rosso dei rubini, esaltano le parti in ombra aiutando l’occhio a definire le parti del disegno altrimenti in secondo piano o poco visibili. Nella Giuditta e Oloferne (Fig. 3), la perla a pera dell’orecchino asseconda il movimento del capo inclinato dell’eroina fungendo da vettore dello sguardo verso la testa del tiranno che giace nell’angolo opposto dell’inquadratura.

Tintoretto è anche un attento regista, un pittore che, seguendo la lezione di Raffaello Sanzio sulla resa del movimento, ha proiettato la pittura verso le movimentate coreografie del Barocco. La composizione dei suoi quadri si basa su un’attenta costruzione della scena che si trasforma in teatro della rappresentazione evocando nello spettatore non solo la vista ma anche il suono e il tatto, pervadendo tutto, proprio come in un’azione scenica dal vivo, di sentimento e movimento. Nel dipinto Tarquinio e Lucrezia sono le perle della collana spezzata che, rappresentate in caduta libera a varie altezze prima di toccare il suolo su cui poi si spargono, facendoci indovinare il rumore, danno il senso del movimento, della concitazione e infine del dramma irreparabile, sottolineato anche dal fatto che sul pavimento si raggruppano accanto al fatale pugnale.

Tintoretto oltre ad essere un grande pittore è quindi anche un attento regista che studia meticolosamente ogni dettaglio legando con coerenza sintattica ogni particolare in funzione del complesso per coinvolgere al massimo livello la partecipazione dello spettatore. Per tale motivo è molto probabile che i gioielli siano da lui utilizzati anche per creare un forte coinvolgimento emozionale e sensoriale: le collane esaltano e illuminano il candore del volto; i medaglioni d’oro e le fibbie gemmate sono distribuiti sul busto per evidenziare la morbidezza e la sensualità dei seni e delle spalle; gli orecchini a pendente illuminano la zona lievemente in ombra del collo, ammiccando, appena sotto il lobo dell’orecchio, da un punto erogeno e sensibile; i ricchi bracciali indossati ai polsi sottolineano il valore dei gesti delle mani mentre quelli posti sulla parte alta del braccio portano lo sguardo verso l’abbondanza e la morbidezza sensuale della carne nuda; i fili di perle e nastri dorati intrecciati nelle acconciature evocano la giovinezza, la raffinatezza ed il profumo dei capelli.

Nell’attenta messa in scenda dei dipinti del Tintoretto è possibile ipotizzare che, in sintonia con la tendenza del Manierismo di trasfigurare la realtà in immagini e costruzioni fantastiche, il pittore si sia ispirato ai tratti delle belle e famose donne a lui coeve per poi sublimarli nelle sue eroine. Questo è intuibile dalle lettere sopravvissute a lui indirizzate, scritte da Veronica Franco, la più desiderata delle cortigiane dell’epoca e ammirata poetessa nonché, come lei stessa dichiara, amica del Pittore. La Franco si dimostra stupita di essersi riconosciuta in un dipinto e stupefatta della trasformazione magnifica adoperata dall’abile artista. È vero che Veronica aveva commissionato a Tintoretto almeno un ritratto ma è anche possibile che i suoi bei lineamenti siano poi stati presi in prestito per rappresentare e dare vita ad altre figure da lui rappresentate14. Questo aspetto non è certo una novità nel mondo dell’Arte e la Franco non sarebbe la prima cortigiana ad essere fonte di ispirazione per dipinti simbolici e allegorici. Per il Tintoretto, ispirarsi ad una bella donna riconosciuta dalla collettività a lui coeva, potrebbe avere lo stesso effetto ottenuto nel cinema contemporaneo attraverso le “dive”; l’idea trainante è di creare un transfer dello spettatore facendolo immedesimare nella scena attraverso volti noti, i loro abiti, i gioielli ed il contesto “meraviglioso” a cui appartengono. In questa ottica, l’oreficeria è un tramite tangibile tra la realtà e la fantasia dove i gioielli sono oggetti di estremo lusso e di desiderio, in grado di nutrire il sogno e l’emotività dello spettatore.

In conclusione, è plausibile che la rappresentazione dei gioielli nel Tintoretto sia un mezzo efficacemente usato dal pittore per ottenere, in sintonia con la sua poetica, la perfetta resa scenica dell’immagine. Tintoretto infatti utilizza i gioielli come espediente per ottenere la coreografia voluta, dal punto di vista tecnico-pittorico, simbolico e contenutistico ma anche per dare forza al raggiungimento di una percezione più completa che stimola, oltre a quello visivo, anche gli altri sensi. Infine, ma non per ultimo, la rappresentazione dell’iperbole, del sogno, della dimensione del desiderio, che è ottenuto con la rappresentazione del lusso e di ciò che rappresenta il massimo nella moda e nel costume a lui coevi. Per tale motivo, oltre che per l’evidenza del rapporto parentale, è possibile che Tintoretto si sia ispirato non solo a modelli di gioielli di moda alla sua epoca ma anche a gioielli realmente esistenti, restituendoci così una visione ancora più interessante nella lettura dei suoi magnifici dipinti.

  1. M. Petrassi, Gli ori in Italia, Roma 1985, pp. 166-169; Cfr. A. Griseri, Oreficeria Barocca, Novara 1985; A. Black, Storia dei gioielli, (traduzione italiana a cura di Francesco Sborgi), Novara 1973, pp. 144-174. []
  2. P. Pazzi, I Gioielli nella Civiltà Veneziana, 1996, p. 51. []
  3. In una lettera di affari scritta e inviata da Costantinopoli a Venezia il 18 aprile del 1473, il mercante Coradi invia a suo cognato Nicholai Gruatto anche “perle tonde bone” e “rubini boni” proponendogli di utilizzarli come pagamento di altra merce veneziana da scambiare a Costantipoli; in L. Zecchin, Vetro e Vetrai Veneziani, I, p. 242. Cfr. anche: A. Lipinsky, Oro, argento, gemme e smalti, tecnologia delle arti dalle origini alla fine del medioevo, 3000 a. C – 1500 d. C, Firenze, 197, p. 316; P. Pazzi, I Gioielli nella Civiltà Veneziana, 1996, p. 24; cfr. D. Nicol, Venezia e Bisanzio, Milano 1990; D. Davanzo Poli, Le Arti Decorative a Venezia, Venezia, 1978, (ed. consultata, Bergamo 1999), pp. 147-166. []
  4. L. Zecchin, Vetro e vetrai di Murano, I, Venezia 1987, pp. 20-25; II, 1989, p. 76. []
  5. B. Cellini, Trattato dell’Oreficeria e della Scultura, Firenze 1565, edizione critica a cura di C. Cordié, Verona 1960, p. 997; G. Tassinari, Osservazioni sulla produzione di paste vitree nel XVIII e il caso di Venezia, in “Journal of Glass”, Vol. 52, 2010, pp. 183-184. []
  6. D. Davanzo Poli, Le Arti Decorative…, 1978 (ed. consultata, Bergamo 1999), pp. 251-264; P. Lebole, Breve Storia dei mestieri Artigiani, La tradizione fiorentina, Firenze 2003, p. 165. []
  7. Cfr. P. Venturelli, Leonardo da Vinci e le arti preziose, Milano tra XV e XVI secolo, Venezia, 2002; H. Clifford Smith, Jewellery, New York – London 1908, pp. 206-213. []
  8. G. Vasari, Vite dei più celebri pittori, scultori e architetti, Tomo III, all’interno del capitolo Vita di Batista Franco, (ed. consultata Roma 1760, pp. 63 e 66). []
  9. Dizionario Biografico degli Italiani, Treccani 2017, ad vocem Robusti, Maria, detta Tintoretta. []
  10. M. Sanudo, I Diarii, Venezia 1496-1533 (ed consultata ristampa anastatica, Venezia, 1879-1903), Dicembre 1525, vol. 40; citato in D. Davanzo Poli, Le Arti Decorative…, 1978 (ed. consultata, Bergamo 1999), p.158. []
  11. Citato in P. Pazzi, I Gioielli nella Civiltà Veneziana, 1996, p. 48. []
  12. S. Malaguzzi, Oro, gemme e gioielli, Milano 2007; A. Black, Storia dei gioielli, (traduzione italiana a cura di Francesco Sborgi), Novara 1973, pp. 175-178. []
  13. C. Ridolfi, Vita di Giacopo Robusti, detto il Tintoretto, celebre pittore, cittadino veneziano, Venezia 1642. []
  14. “Vi prometto che, quando ho veduto il mio ritratto, opera della vostra divina mano, io sono stata un pezzo in forse se ei fosse pittura o pur fantasima innanzi a me comparita per diabolico inganno”, V. Franco, Lettere familiari ai diversi della s. Veronica Franco. []