Giovanna Benedetta Puggioni

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“Intrecci a regola d’arte”: l’antica e pregiata tradizione del filet di Bosa – Una nota introduttiva

DOI: 10.7431/RIV23092021

Tra le varie attività artigiane prettamente femminili, tra cui ricami e merletti (sfilati, buratti, filet), il lavoro su rete ha sempre avuto in Sardegna un carattere particolare1. Anche se il filet viene praticato in diverse località dell’Isola, il centro di produzione più rilevante e noto è stato nel passato ed è ancora oggi quello di Bosa, un pittoresco borgo adagiato nella valle del Temo, sulla costa nord-occidentale dell’Isola, antica ‘città regia’ dotata con il suo porto di particolari privilegi2.

Il filet di Bosa, infatti, è un lavoro singolare, unico, elegante, di bella espressione artistica e di estrema finezza. Le donne bosane ricamavano con grande fantasia e spiccata creatività, scrivendo la loro stessa storia tra gli intrecci, tramandando i segreti della cucitura di generazione in generazione e preservando così dall’oblio questa espressione di artigianato femminile.

Nonostante abbia avuto nel corso del tempo vicende di sviluppo e d’incremento alternate a momenti di stagnazione, la produzione del filet non è mai decaduta del tutto. Le sue origini sono lontanissime anche se non si possiede una documentazione certa: le fonti documentarie tacciono, lacunose e carenti di informazioni oppure non sono state ancora sufficientemente indagate3.

Considerata la presenza nel ciclo pittorico di affreschi della Chiesa di Nostra Signora de sos Regnos Altos, sita all’interno del medievale Castello di Serravalle a Bosa, nella scena che rappresenta L’incontro dei tre vivi e dei tre morti (metà XIV secolo)4, di tre personaggi regali che sotto la corona indossano come copricapo una cuffietta realizzata in una reticella simile al filet (Fig. 1), si può ipotizzare che tale tecnica di lavorazione fosse probabilmente già comparsa nel tardo Medioevo.

Fu soprattutto nel rione di Sa Costa, quartiere di pescatori e di agricoltori in pieno centro storico bosano5, che le donne si posizionavano con il telaio davanti all’uscio di casa (Fig. 2). Lungo un succedersi di scalette e stradicciole sassose, le case semplici, piccole e modeste, sviluppate in altezza (una camera per piano), non offrivano spazio e luce sufficienti per un lavoro così delicato e attento; si rendeva necessario così uscire dalle mura domestiche per ricamare meglio, dando luogo ad una gradevole costumanza e ad una sorta di rito sociale collettivo. I bambini giocavano intorno alle madri, mentre gli uomini intrecciavano i cestini o, nel vicino litorale, si dedicavano alla pesca, rinomata soprattutto quella dell’aragosta che, anticamente, era il cibo dei poveri.

Le mani che intrecciavano i fili erano mani segnate dal lavoro domestico e dal lavoro manuale, quelle stesse utilizzate per la raccolta delle olive, di cui sono sempre state ricche le campagne di Bosa.

Gli stessi strumenti utilizzati per la lavorazione del filet erano umili, semplici, specchio di quella gente quotidiana, capace di dipingere con l’ago «i cervi nelle selve impossibili», come scrisse Salvatore Cambosu nel 1951 in un suo scritto, nella rivista “Le Vie d’Italia”. Il prezioso merletto veniva poi venduto alle famiglie benestanti ed esportato fuori dalla cittadina, anche in paesi lontani.

La tecnica e gli strumenti

Il primo passo per la lavorazione del filet è rappresentato dalla creazione della rete, su randadu, nella quale poi verrà tracciato il disegno. Gli strumenti utilizzati per la sua realizzazione sono l’ago, s’agu, fatto di ferro, di acciaio, di osso e anticamente, per la rete di maglia larga, di legno; la spola, s’ispola, di acciaio o osso, nella quale si fissava il filo nel foro e si avvolgeva alternativamente nell’una e nell’altra biforcazione, usato in alternativa all’ago; il ferretto, su ferrittu, anch’esso di acciaio o di osso, destinato a regolare l’ampiezza dei quadretti della rete; il filo, su filu, di lino, di seta, di cotone, usato più o meno sottile a seconda della rete che si vuole ottenere6.

Per fare la rete quadrata, si segue questo procedimento: si fissa con un nodo il filo alla spalliera di una sedia o al piede di un tavolo, che serve come punto d’appoggio per tenere teso il lavoro in modo da poter stringere bene i nodi. Si forma con il filo una grande asola intorno al punto d’appoggio, si prende il ferretto con la mano sinistra, si passa, con la destra, il filo davanti ad esso e dietro l’indice, il medio e l’anulare della sinistra, formando un anello che si terrà fermo con il pollice sinistro. Con la mano destra si passa poi l’ago o la spola attraverso l’anello, e sotto il ferretto si infila l’asola. Poi, tenendo il lavoro ben teso, si lascia libero il filo tenuto prima dal pollice, poi dal medio e infine dal mignolo. Alla stessa maniera si procede in seguito facendo passare l’ago o la spola entro ciascuna maglia del giro precedente. Si ripete questo processo in giri di andata e di ritorno. Si inizia la rete con una sola maglia, si aumenta una maglia al termine di ogni giro quando il lavoro è in aumento, poi si sfila il ferro, si volta il lavoro, e si inizia il giro seguente. Appoggiando il ferro contro il giro precedente di maglie, si inizia il nuovo giro introducendo la spola o l’ago nell’ultima maglia dell’ultimo giro eseguito.

Si ripete tale operazione facendo tante maglie quante ne occorrono, e aumentandone una alla fine di ogni giro fino ad arrivare alla metà del lavoro prefissato; poi si chiude prendendo due maglie insieme alla fine di ogni giro.

Per fare la rete rettangolare, invece, si procede come per quella quadrata fino a raggiungere la larghezza desiderata; poi si inizia a diminuire su un lato una maglia per ogni giro, aumentandola sull’altro lato fino a raggiungere l’altezza desiderata. Dopo di ciò si diminuisce una maglia per giro su ciascuno dei lati fino a chiudere il lavoro.

La rete poi viene sistemata sul telaio, su telalzu, in genere di legno, con forma rettangolare; tre lati sono fissi ed un solo lato è mobile, proprio per determinarne l’ampiezza a seconda di quella che è la rete da ricamare.

L’operaia poi, procede alla decorazione vera e propria. Si realizzano i contorni del disegno da eseguire, si fa passare la gugliata di filo alternativamente, sopra e sotto i lati opposti delle maglie, fino a riempire il numero di maglie richieste dal disegno stesso. Infine, si realizzano i ganci, sos ganzos, insieme con i contorni.

Un confronto fondamentale è anche quello con l’antica arte dello sfilato siciliano, tecnica di ricamo eseguita su tela di lino e con fili di cotone pregiati. È così chiamato poiché sfilare significa letteralmente “tirare i fili” per fare in modo che si crei una sorta di reticolato, la rete, che poi viene intramata per realizzare il disegno desiderato.

I motivi ornamentali

I motivi disegnativi (sas mustras) sono tratti dall’ambiente circostante, prevalentemente dal mondo vegetale: fiori, piante, animali. Con i diversi ricami viene raffigurato il ciclo della vita ed il volgere delle stagioni: i fiori, che simboleggiano la primavera non solo dell’anno, ma anche della vita umana; il corallo, di cui erano ricche le coste bosane, simboleggia l’estate; i frutti, che i campi della valle del Temo producevano in quantità, simboleggiano l’autunno; il carciofo rappresenta l’inverno, in particolare il mese di gennaio. Di ogni soggetto, la rappresentazione verte sulle sue parti più belle: le foglie, il fiore, non le spine; della melagrana spicca soprattutto l’interno del frutto che, con l’accostamento dei suoi granellini, pare farne gioielli di filigrana.

Come in tutte le tecniche di ricamo ad ago, un posto importante era ricoperto dall’imparaticcio (sa mustra de su imparare), il disegno destinato proprio ad insegnare alle principianti come eseguire i vari disegni. Comprendeva i motivi d’ornato più importanti e noti, come animali domestici e selvatici, insieme ad elementi vegetali: pudditas, canes, chelvu, puzzones, fiores, etc.

Poi, troviamo il disegno del leone, che ripropone l’aspetto dei leoni di marmo posti ai piedi degli altari maggiori delle chiese cittadine; i disegni delle colombelle, de sas columbinas, delle gallinelle, de sas pudditas, del cervo, de su chelvu, della pavoncella, de sa paonessa (motivo prescelto nel 1920 per pubblicizzare la manifattura di Olimpia Melis Peralta sulla Rivista Sarda) e di altri vari tipi di uccelli che rappresentano la fauna bosana, spontanea o di allevamento.

Vi sono poi i disegni di caccia, abituale divertimento locale, sa cazza reale, per la quale si ricorreva all’ausilio di fili di seta colorati. Ancora, i disegni di fiori e frutti esaltano l’occupazione contadina ed i suoi prodotti, le noccioline, sas nugheddas, la spiga, s’ispiga, la vite, sa ide. Il disegno del corallo rimanda alla pesca e alle attività dei pescatori, mentre sa mustra de su ferru richiama l’attività degli artigiani del ferro e degli altri metalli.

La scuola industriale di filet

Furono tantissime le donne bosane che si dedicarono all’arte del filet, e ci fu soprattutto chi riuscì a dare vita ad una vera e propria manifattura. Un posto di rilievo, in tal senso, venne ricoperto dall’imprenditrice Olimpia Melis Peralta (1887-1975), sorella dei più celebri Melkiorre e Federico Melis7, pittori e ceramisti, i quali hanno lasciato profonde tracce nella storia dell’arte in Sardegna. Nata a Bosa nel 1887, Olimpia diede vita nella cittadina ad una vera e propria scuola e manifattura di filet dagli anni Dieci del Novecento, come avvenne in altre aree italiane come la Lombardia8.

I disegni preparatori, schematizzati e tendenti alla stilizzazione, venivano realizzati dai fratelli dell’imprenditrice, Melkiorre, Federico e Pino Melis (celebre illustratore del tempo), e poi riportati sulla rete dalle ricamatrici. In tutta la storia della manifattura si arrivò a dare lavoro a circa un centinaio di operaie, abilissime nell’arte del ricamo, i cui lavori vennero esportati fino a New York.

Questa attività artigiana o pre-industriale, fatta di estremo rigore, oltre all’aspetto prettamente commerciale, si propose di soddisfare le nuove richieste d’arredo domestico, dagli ornamenti da letto alle tovaglie, dai tendaggi alle bordure, sulla scia dei dettami della nascente Art Decò9. Il motivo della pavoncella, raffigurate in coppia, affrontate, fu prescelto nel 1920 da Olimpia Melis per pubblicizzare la manifattura sulla Rivista Sarda (Fig. 3).

La manifattura bosana restò attiva per circa mezzo secolo, fino agli anni Settanta/Ottanta del Novecento, sopravvivendo di pochi anni alla scomparsa della sua fondatrice.

Contribuì alla diffusione del gusto la scrittrice nuorese Grazia Deledda, prima donna italiana a vincere il premio Nobel per la letteratura nel 1926, che nella sua abitazione romana volle mobilio e arredi tradizionali sardi, aggiornati al nuovo stile decorativo10. Oltretutto, è da tenere presente il fatto che gli stessi disegni utilizzati per la creazione dei motivi decorativi del filet hanno, da sempre, interessato anche gli oggetti artigianali e d’uso quotidiano, dai cesti ai sugheri, dai gioielli al mobilio, dalle ceramiche ai tessuti.

A testimoniare che l’interesse storico-artistico per questa specifica attività artigiana risale proprio a tale epoca, le più antiche collezioni di filet sardo risalgono agli anni Venti del Novecento e sono conservate, a Cagliari, sia nella collezione comunale di Luisa Manconi Passino, nobildonna bosana che raccolse e collezionò tessuti antichi, sia nel patrimonio della Pinacoteca Nazionale, a Nuoro nel Museo Etnografico Regionale e in altri musei sardi11. Tra queste raccolte, un cenno speciale merita la collezione di merletti di Amilcare Dallay, comprendente circa trecento pezzi, oggi al Museo Nazionale G.A. Sanna di Sassari12.

Qualche esempio di filet: le tovaglie d’altare

Tra i preziosi arredi sacri, suppellettili liturgiche e altri addobbi conservati nelle chiese di Bosa, in particolar modo nella Cattedrale Maria Immacolata13, nella Chiesa di Nostra Signora del Carmelo14 e nella Chiesa di Santa Croce, spiccano una serie di pregevoli tovaglie d’altare, ornate di eleganti balze a filet, dove vengono rappresentati prevalentemente simboli della cultura religiosa, come croci, calici eucaristici, ostensori e monogrammi della Vergine, abbinati a cornici decorative. Purtroppo, ad oggi, non sono più presenti alcuni esemplari antichi ti tovaglie d’altare poiché, a causa di danneggiamenti dovuti alla fragilità del materiale, all’umidità in cui versano le chiese cittadine per via della vicinanza con il fiume, ai furti, alla rimozione di arredi non più decorosi per la presenza di macchie e lacerazioni di vario genere, non si sono conservati. Altri invece, non visibili, hanno necessità di essere restaurati.

Tra i temi mariani rappresentati, il rinomato disegno de su Calmene, che rappresenta il nome sacro di Maria Vergine, con le lettere M e V intrecciate entro una corona di stelle (Fig. 4), testimonia la religiosità del popolo bosano e l’antica venerazione per la Madonna del Carmelo, espresso in particolar modo sulle tovaglie d’altare decorate a filet.

Il motivo dell’angelo, s’anghelu, adatto anche per le tende o le coperte da letto, dove viene contornato perimetralmente da un disegno di roselline, rosittas, era frequentemente utilizzato come decoro per le tovaglie d’altare, come si vede in un bell’esemplare della Chiesa del Carmelo (Fig. 5), dove figure di angioletti oranti affiancano un ostensorio eucaristico al centro, e poi vengono reiterate, alternate a gigli stilizzati tra volute e rifinito a festoni racchiudenti palmette.

Talvolta invece le balze in filet rappresentano classicistici girali e decori vegetali, come fiori, foglie d’acanto o lunghi racemi a sviluppo orizzontale, come ben esemplifica una tovaglia d’altare della Chiesa del Carmelo, dove troviamo larghe foglie di vite alternativamente rivolte verso l’alto o verso il basso (Fig. 6), secondo una schematizzazione compositiva tradizionale, ripresa anche dai fratelli Melis.

Il tema della croce, sa rughe, uno dei più ricorrenti, viene variamente declinato: può essere alternato al nome di Gesù (IHS) e al sacro cuore, come in un esemplare bosano del XIX secolo (Fig. 7), oppure racchiuso entro cornici di rose e alternato al calice eucaristico, come in un magnifico esemplare di grande effetto (Fig. 8), entrambi conservati nella Cattedrale di Bosa15, o ancora arricchito da eleganti nodi d’amore e da splendide rose, in un altro manufatto sempre appartenente alla Cattedrale, risalente ai primi del Novecento (Fig. 9).

Nello stesso edificio religioso carmelitano, tra gli esemplari risalenti al secondo-terzo decennio del ‘900, è di grande pregio una tovaglia d’altare che rappresenta degli angeli affrontati, in adorazione del SS. Sacramento, tra grandi gigli e rose e giocosi cherubini.

Sono stati pochissimi i riferimenti documentari, riscontrati durante l’accurata ricognizione dei fondi d’archivio, effettuata dalla scrivente presso gli Archivi di Stato di Cagliari e Nuoro e presso gli archivi ecclesiastici e del Comune di Bosa: appena qualche cenno, privo di elementi descrittivi atto a consentire l’individuazione certa dei manufatti tessili. Si può però ipotizzare che probabilmente le preziose tovaglie d’altare ornate da decori a filet siano dei doni votivi, frutto di un lavoro collettivo ad opera di gruppi di donne, che si riunirono per dotare le chiese bosane di un adeguato corredo di tovaglie d’altare, le quali restano a testimoniare l’abilità delle loro mani e la loro devozione alla Vergine.

L’auspicio è quello di poter avviare un lavoro sistematico di catalogazione, prima che questo patrimonio si perda e fare in modo che questa antica tradizione di artigianato femminile continui ad essere tramandata di generazione in generazione, senza togliere l’ipotesi di una sua ripresa anche nel design moderno, dando voce ai valori di una cultura originaria e popolare.

  1. Il lavoro dei Sardi, a cura di F. Manconi, Sassari 1983; Tessuti. Tradizione e innovazione nella tessitura in Sardegna, Nuoro 2006. []
  2. Subito dopo la conquista aragonese fu assegnata in feudo a Pietro Ortiz, per tornare poi sotto la giurisdizione di Mariano IV d’Arborea. Riconquistata nel 1410, entrò a parte del patrimonio regio nel 1420. Malgrado le proteste dei Bosani, nel 1468 fu concessa in feudo a Bernat de Villamarì, capitano generale della flotta regia. Ciò nonostante, Ferdinando il Cattolico confermò a Bosa la condizione di città e porto regio nel 1499, favorendone le attività mercantili, connesse alla pesca del corallo e allo sfruttamento delle saline. A. Castellaccio, L’amministrazione del Regno di Sardegna e Corsica: le città regie,  in XVIII Congrés Historia de la Corona de Aragon, vol. I, pp. 765-779; G. Sorgia, Le città regie, in I Catalani in Sardegna, a cura di J. Carbonell e F. Manconi, Consiglio Regionale della Sardegna-Generalitat de Catalunya, Cinisello Balsamo 1984, pp. 51-58. []
  3. Tra le prime attestazioni di interesse e apprezzamento nella storiografia sarda: G.V. Arata – G. Biasi, Arte sarda, Milano 1935 (ristampa anastatica: Sassari 1992). []
  4. R. Sfogliano, Il ciclo di affreschi tardo-medievale, in Il Castello di Bosa, Torino 1981; R. Serra, Storia dell’Arte in Sardegna. Pittura e scultura dall’età romanica alla fine del ‘500, Nuoro 1990; Bosa in età giudicale. Nota sugli affreschi del castello di Serravalle, a cura di A. Mastino, Sassari, 1991; F. Poli, La Chiesa del Castello di Bosa. Gli affreschi di Nostra Signora de Sos Regnos Altos, Sassari 1990; N. Usai, La pittura nella Sardegna del Trecento, Perugia 2018, pp. 29-60. []
  5. Paesi e città della Sardegna, a cura di G. Mura e A. Sanna, Cagliari 1999, pp. 199-209. []
  6. L. Degioannis, La tessitura tradizionale in Sardegna. Lavorazione, tecniche e motivi a Busachi, Mogoro, Morgongiori, Isili e Tonara, Oristano 1993, pp. 71-74. []
  7. A. Cuccu, Studio artistico Melkiorre Melis, Bosa 1989; G. Altea – M. Magnani, Le matite di un popolo barbaro. Grafici e illustratori sardi 1905-1935, Cinisello Balsamo 1990; M. Marini – M.L. Ferru, Ceramica di Sardegna. La storia, i protagonisti, le opere: 1920-1960, Cagliari 1990, pp. 94-112; M. Devoto, Ad vocem, in Dizionario Biografico degli Italiani, vol. 73, 2009; M. Marini – M.L. Ferru, Federico Melis. Una vita per la ceramica, Roma 1997. []
  8. M.L. Rizzini. Merletti della Bella Epoque in una collezione dei Musei Civici di Como, in «Arte tessile» 2, 1991, pp. 55-60; Tra devozione e artigianato. I merletti nell’addobbo liturgico della Pieve di Cantù, catalogo della III Biennale Internazionale del Merletto (Cantù, 13-28 settembre 1997), a cura di M.L. Rizzini, Cantù 1997. []
  9. G.V. Arata – G. Biasi, Arte sarda, Sassari 1992. []
  10. G. Altea, Il “Decò rustico” e le arti applicate, in G. Altea – M. Magnani, Storia dell’Arte in Sardegna. Pittura e scultura del primo ‘900, Nuoro 1995, pp. 191-215. []
  11. G. Carta Mantiglia, La tessitura. Materiali e tecniche della tradizione, in Il nuovo Museo etnografico di Nuoro, Sassari 1987, pp. 21-70; L. Degioannis, I tessuti e i ricami, in Pinacoteca Nazionale di Cagliari. Catalogo, vol. II, Cagliari 1988, pp.11-14 (schede pp. 111-127). []
  12. Randas. Merletti tradizionali della Sardegna, catalogo mostra (Sassari, Museo Nazionale G.A. Sanna, 3 luglio-31 agosto 2003) a cura di G.M. Demartis, Sassari 2003. []
  13. Chiese e Feste di Bosa, a cura di A.F. Spada, Monastir 2002. []
  14. Sulla chiesa: S. Naitza, Storia dell’Arte in Sardegna. Architettura dal tardo ‘600 al Classicismo purista, Nuoro 1992, pp. 150-151, 154-157; sugli arredi lignei: A. Pasolini – M. Porcu Gaias, Altari barocchi. L’intaglio ligneo in Sardegna dal tardo Rinascimento al Barocco, Perugia 2019, pp. 373-376. []
  15. Sulla cattedrale di Bosa: S. Naitza, Storia dell’Arte…, 1992, pp. 151, 228, 230-234. []