Giovanni Boraccesi

g.boraccesi@libero.it

Una sinfonia di argenti nell’isola di Tinos: la chiesa di Myrsini

DOI: 10.7431/RIV23062021

In queste righe si vuole dar conto degli arredi liturgici in argento custoditi nella chiesa dell’Annunciazione a Myrsini, gli ultimi in ordine di tempo, visto che è quasi noto l’intero patrimonio delle chiese cattoliche di Tinos1, fatta eccezione per gli argenti delle chiese di Kardiani e Skalados, come anche per la ricca collezione di vasi sacri conservata nel Museo del Vescovado di Xinara.

Per primo illustro un inaspettato ed eccellente Calice (Figg. 12) descritto con ricchezza di dettagli. Presenta un piede a sezione mistilinea con orlo rialzato e gradinato; la superficie è suddivisa da membrature che generano sei spicchi triangolari a fondo ruvido contenenti tre testine di cherubini sorgenti da elementi vegetali, alternate a figure sbalzate raffiguranti rispettivamente la Madonna col Bambino, San Giovanni Battista e San Francesco d’Assisi, tutte di tre quarti e rifinite a cesello. L’elegante fusto è caratterizzato da un nodo ovoidale, anch’esso decorato da elementi naturalistici e da angeli alati. L’ornamentazione si fa ricchissima anche nel sottocoppa, con cartelle quadrilobate con fiori nel mezzo, intramezzate da testine di cherubini. La parte superiore è resa vivace da un giro di volute contrapposte. Una scritta latina incisa sotto il piede informa quanto segue: DONA IERONIMA GRANARA D. TOLEDO. Sulla coppa è impresso sia il bollo con il leone marciano in “moleca” (col libro chiuso e con le ali raccolte attorno alla testa), sia quello del controllore della Zecca (sazador) Zuanne Premuda (con le lettere ZC separate da un cigno), il cui incarico è documentato dal 1695 alla prima metà del Settecento2. Devo però precisare che quest’ultimo elemento, come vedremo, è frutto di un recupero e assemblaggio, giacché la restante parte del calice è più antica.

Circa la figura di donna citata nella predetta iscrizione, avanzo l’ipotesi che vada riconosciuta nella moglie di Rodrigo da Toledo, dal 1578 governatore spagnolo della città di Alessandria, sposato dal 1588 al 1593, anno in cui viene a mancare: «[…] la Signora Girolama Granara Matrona Alesiandrina di qualificate parti, terrore dell’avaritia, e degna di lodi per i suoi meriti; la quale; oltre al parafernale, ed una ricca, e preciosa suppellettile, gli portò in dote [a Rodrigo] scuti 40, mila in circa»3.

Per i caratteri morfologici e stilistici che caratterizzano le parti più antiche del manufatto, vale a dire la base e il fusto, sono propenso ad assegnarle alla mano di un argentiere milanese che le dovette realizzare tra gli anni finali del Cinquecento e i primi due decenni del Seicento, periodo in cui donna Girolama Granara era già diventata vedova. È opportuno segnalare che l’anno di morte della nobildonna, sebbene di poco discordante, è indicato nel 1623 e nel 16254. Significativo è il confronto che si può istituire con una serie di analoghi esemplari sparsi sul territorio lombardo: il calice del duomo di Bergamo (ante 1593)5, il calice della chiesa di San Paolo a Cantù6 ed altri nella diocesi di Como non meglio indicati7. Con minime varianti, questo modello di vaso liturgico dovette affascinare gli argentieri della città di Genova; al riguardo, si veda il calice di una collezione privata genovese8, forse da restituire a un maestro lombardo, e l’altro conservato nella chiesa di San Siro9.

Non vi sono notizie che chiariscano la primitiva destinazione del manufatto in esame, né tantomeno le circostanze del suo arrivo a Tinos. In attesa perciò di un auspicabile rinvenimento dei documenti, si può supporre che il calice sia stato di proposito consegnato a una chiesa (dell’ordine francescano?) di Alessandria, luogo di residenza della committente, per poi chissà come, trasmigrare nella chiesa di Myrsini, forse per iniziativa di un ecclesiastico o di un religioso oriundo della città piemontese.

Pur interessante il successivo Ostensorio (Fig. 3), in argento e bronzo dorato. Presenta piede circolare con orlo ornato da una fascia cordonata e da motivi arabescati. Il fusto, costituito da un nodo a balaustro con incisioni fogliacee, supporta la raggiera che circonda la teca circolare bordata da cornicette, contenente la lunetta per l’esposizione dell’ostia consacrata. In alto, in origine, insisteva una crocetta, ora dispersa.

Nonostante l’assenza di punzonature, i caratteri strutturali e il repertorio decorativo mi portano ad assegnarlo a un argentiere veneziano del primo Seicento, confermando così ancora una volta l’ampia diffusione delle forme artistiche veneziane in diverse località della Grecia, in particolare quelle rivierasche e isolane del mar Ionio e dell’Egeo. E ciò a seguito del lungo dominio della Serenissima nonché dei traffici marittimi lungo questi due importanti bacini del mar Mediterraneo. In questo quadro di continui scambi e influenze è opportuno anche ricordare che fondamentale fu la presenza di prelati veneziani nel governo delle diocesi greche. Una conferma della piena appartenenza dell’ostensorio di Mersyni ad un artefice della Laguna ci viene dal confronto con gli ostensori di Chatzirados e di Volax, sempre a Tinos, e con quello della chiesa bellunese di Gosaldo, per fare un solo esempio nel Veneto10.

Il manufatto che segue è riferito a un Calice (Fig. 4) in argento e bronzo argentato. Ha una base a sezione circolare gradinata con filettature. Il nodo ovoidale liscio è contenuto tra due collarini. Il sottocoppa è lavorato a traforo con testine di angeli alati alternati a motivi vegetali; una smerlatura ravviva l’orlo superiore. Di tipologia cinquecentesca, l’oggetto va sicuramente restituito a un maestro veneziano del primo Seicento; un esempio significativo ci è offerto dal calice del vicino villaggio di Skalados che analizzerò meglio in futuro.

Sul piano cronologico, non si distacca di molto la realizzazione di una Patena (Fig. 5), anch’essa prodotta a Venezia tra la fine del XVII secolo e gli inizi nel XVIII secolo. Ne fa fede il contrassegno di un ignoto sazador, le cui iniziali ZC sono intervallate da una torre11.

Sempre nel quadro dei contatti tra Venezia e l’Oriente si pone questa Croce astile (Figg. 678), una delle tante finora rinvenute nel territorio diocesano di Tinos. Va detto che l’opera è costituita da due pezzi di manifattura differente e cronologicamente distanti tra loro. Più antica è la mazza processionale, quasi certamente confezionata in un laboratorio di Venezia. È interamente cesellata da un’ornamentazione vegetale su fondo opaco e da teste di angeli alternati a tre cartigli: nel primo, il monogramma A·R sovrastato da croce; nel secondo, le sigle MVC·/T·P·C·; nel terzo, la data A(N)NO/1747. In queste sigle ragionevolmente andranno riconosciuti i nomi dei devoti committenti. La mazza in esame trova paralleli con quella (1669) che sostiene la croce conservata nel Museo del Vescovado di Xinara12.

La croce astile, al contrario, andrà datata ai primi decenni del XIX secolo; qui l’ignoto maestro, attivo a Smirne o a Istanbul, opera ancora secondo moduli di tempi passati e in particolare del clima culturale di Venezia; confronti, in tal senso, si possono istituire con le croci ottocentesche di Smardakito e di Tarambados a Tinos. In una fase di restauro e rimontaggio delle lamine figurate, queste non sono state riposizionate in maniera corretta. Sulla parte anteriore è il Crocifisso; in alto, il Padre Eterno; a destra, San Luca evangelista; a sinistra, San Marco evangelista; in basso, la Maddalena. Sulla parte posteriore, è la Madonna; in alto, San Giovanni evangelista; a sinistra, la Vergine; a destra, San Giovanni; in basso, San Matteo.

Un ulteriore reperto metallico facente parte del patrimonio della chiesa di Myrsini è costituito da un Reliquiario (Fig. 9); la mancanza di iscrizioni identificative nell’apposito ricettacolo non consente di individuare le diverse reliquie ivi contenute. Da un’attenta osservazione il manufatto è composto da due pezzi disomogenei e di epoche differenti: la base e il fusto in rame dorato, probabili avanzi di un altro reliquiario o di un ostensorio, sono della metà del XVIII secolo e restituibili a una bottega veneziana; la croce in bronzo dorato e argentato appare più tarda, forse degli inizi del XIX secolo e licenziata da un argentiere dell’impero ottomano; nei capicroce sono inserite delle figure angeliche.

Esemplato su modelli tadogotici di matrice culturale italiana è un Turibolo (Fig. 10), del tipo cosiddetto architettonico, reso noto nella mostra di Tinos del 201013. È costituito da un piede esagonale scompartito e decorato da steli fogliacei. La coppa è interessata da festoni vegetali penduli, trattenuti da sei teste antropomorfe aggettanti. Su questa poggia il coperchio a due ordini con torrioni e bifore traforate minuziosamente decorate. Più in alto, una copertura piramidale bucherellata con anello apicale per trattenere le catene di sospensione. L’arredo, di eccelsa fattura, andrebbe forse datato al XVIII secolo o al massimo ai primi anni del XIX e restituito a un artefice dell’impero ottomano operante a Smirne o a Istanbul.

Per ragioni stilistiche e tipologiche nell’ambito della produzione ottomana di fine Settecento o del primo Ottocento andrà assegnata una Navicella (Fig. 11), in cui è riconoscibile il modello di matrice veneziana. La base, dal profilo circolare, è costituita da un gradino liscio e da una cornice a fogliette; il collo del piede è circondato da foglie appuntite e sovrastato da un nodo piriforme. La coppa è sormontata da un coperchio a valve incernierate con presa a volute. Sulle valve è sbalzata una fitta ornamentazione floreale. Il manufatto è confrontabile con la navicella della parrocchiale di Skalados, che analizzerò meglio in altra sede, quasi certamente realizzata dal medesimo artefice.

La particolare cura dell’ornato ravvisato sul turibolo appena descritto connota anche la successiva Pisside (Fig. 12). Il piede circolare è decorato da un motivo a fiori legati tra loro da nastri e fiocchi. Sul collo del piede è inciso una corona di foglioline lanceolate. Liscio è il fusto con nodo a pera. Il sottocoppa, a fusione, ripropone il disegno delle foglie lanceolate. I motivi della base, arricchiti da altri decori vegetali, si ritrovano sul coperchio sormontato da un piccolo crocifisso. La particolare lavorazione delle superfici metalliche, lisce e opache come in questo caso, e la prevalenza dei motivi fitomorfi sono una caratteristica costante delle produzioni messe in atto da più botteghe artigiane a servizio delle chiese cristiane durante il dominio dell’impero ottomano, segnatamente a Smirne e Istanbul. In tal senso analoghi repertori e tecniche esecutive connotano altri manufatti analizzati altrove: per esempio, le due lampade pensili di Kallonì, la coppa del calice di Karkados, e il turibolo di Stenì.

A fianco di tale produzione andrà inserito un Piattino da comunione (Fig. 13) dalla forma inconsueta e privo di qualsiasi ornato. Sul bordo del lato principale è presente un clipeo che racchiude le lettere G.L. a carattere corsivo. Sul rovescio del piatto, un’altra iscrizione corsiva ci porta a conoscere il nome del donatore: Caropolo / Pro benefactore uno Pater Ave Gloria / T(errae?) Mussulii 1849 A°.1°. Come mi comunica padre Marco Foscolo, Mussulii era l’antico nome di Myrsini, in uso fino al 1960. Questa particolare suppellettile è stata da me più volte rinvenuta nelle chiese cattoliche di Tinos e di Rodi. Un’analogia, per esempio, si può istituire con il Piattino da comunione del 1845 esposto nel Museo Parrocchiale di Agapi. Il manufatto va probabilmente restituito alla mano di un argentiere dell’impero ottomano attivo nella città di Smirne o di Istanbul.

Sempre nell’ambito delle produzioni artistiche licenziate durante l’occupazione dell’impero ottomano si deve inscrivere una lastra raffigurante l’Annunciazione (Fig. 14), a sua volta delimitata da una elaborata cornice architettonica con decorazioni vegetali. Evidente il suo collegamento al titolo della chiesa, peraltro sottolineato dall’iscrizione incisa in basso: Annunt.o B. M. V./1848. Tale manufatto fu probabilmente eseguito da un artigiano della città di Smirne o di Istanbul.

Di qualche anno più tardi la realizzazione della citata lastra è questo Calice (Fig. 15) licenziato dall’argentiere Pierre-Henry Favier (1809-1894), attivo a Parigi dal 1846 al 187014. Lo attesta il punzone «FAVIER» accompagnato da marchio del primo titolo di garanzia con la testa di Minerva, in uso dal 1838. Presenta un piede circolare impostato su un orlo liscio; la superficie è caratterizzata da una fitta ornamentazione di simboli eucaristici e della Passione, nonché da scene figurate quali la Natività, l’Adorazione dei Magi e la Fuga in Egitto. Altri simboli eucaristici arricchiscono il nodo del fusto come pure il sottocoppa, qui con altre scene cristologiche: Gesù nel Getsemani, Salita al Calvario e Crocifissione. Il calice, che ha in dotazione anche la patena, si inserisce nell’ambito di una tipologia ampiamente diffusa in Francia.

Questo stesso atelier parigino ha licenziato una Croce d’altare (Fig. 16) come risulta dal punzone «FAVIER» affiancato a quello di garanzia con la testa di Minerva. Quattro piedini leonini sorreggono la base a sezione rettangolare decorata da una serie di elementi vegetali e simboli eucaristici. Sul lato principale è presente l’Agnello disteso sul libro con i sette sigilli dell’Apocalisse, e su quello secondario il triangolo con l’occhio di Dio. Al di là di un nodo vegetale si innalza la croce che accoglie il Christus triumphans, allineato al cartiglio INRI e al teschio di Adamo. Di natura vegetale sono le terminazioni della croce. Il manufatto ripropone una tipologia ampiamente documentata in Francia

Resta per ultimo da analizzare uno Sportello di tabernacolo (Fig. 17) che arreda l’altare maggiore della chiesa di Myrsini. Di forma centinata e con decorazioni vegetali lungo il perimetro, presenta al centro un calice eucaristico raggiato, da cui fuoriesce l’ostia consacrata con il trigramma IHS.

Le caratteristiche stilistiche fanno ritenere l’oggetto un’opera ottocentesca di produzione ottomana, forse realizzata nella città di Smirne.

  1. G. Boraccesi, A Levante di Palermo. Argenti con l’aquila a volo alto nell’isola greca di Tinos, in «OADI»», n. 4, dicembre 2011, pp. 60-67; Idem, Una sinfonia di argenti nell’isola di Tinos: le chiese di Aetofolia, Kalloni, Karkados, Smardakito e Vrissi, in «OADI», n. 10, 2014, pp. 113-130; Idem, Una sinfonia di argenti nell’isola di Tinos: le chiese di Chatziràdos, Koumàros, Kròkos e Steni, in «OADI», n. 12, dicembre 2015, pp. 65-78;  Idem, Una sinfonia di argenti nell’isola di Tinos: la chiesa di San Nicola di Bari a Chora e il Palazzo Vescovile, in «OADI», n. 13, giugno 2016, pp. 87-95; Idem, Una sinfonia di argenti nell’isola di Tinos: le chiese di Agapi, Kerchros e Potamia, in «OADI», n. 14, dicembre 2016, pp. 107-122; Idem, Tα αργυρά του Αγίου Νικολάου της Χώρας Τήνου, in Όρμος ο Γαληνότατος. Η Ενορία Αγίου Νικολάου των Καθολικών Χώρας Τήνου, a cura di Marcos Foscolos, Τήνος 2016, pp. 321-332; Idem, Una sinfonia di argenti nell’isola di Tinos: le chiese di Komi, Tarambàdos e Volax, in «OADI», n. 15, giugno 2017, pp. 125-139; Idem, Una sinfonia di argenti nell’isola di Tinos: le chiese di Kampos, Loutrà e Xinara, in «OADI», n. 17, giugno 2018, pp. 151-164; Idem. Una sinfonia di argenti nell’isola di Tinos: le chiese di Kato Klisma, Ktikados e Sant’Antonio di Tinos, in «OADI», n. 19, giugno 2019, pp. 87-101. []
  2. P. Pazzi, I punzoni dell’argenteria veneta, Pola 1992, p. 150, n. 479. []
  3. G. Porta, Esemplari, e simolacri dignissimi delle virtù, stimoli potenti alle medeme…, Milano1693, pp. 290-291. []
  4. F. Gasparolo-F. Guasco Di Bisio-C. Parnisetti, (a cura di), Raccolta di iscrizioni alessandrine, in «Rivista di Storia, Arte e Archeologia per la provincia di Alessandria», anno LXIV, 1935, fasc. II, III, IV, pp. 220-792 (le iscrizioni sono censite con i numeri 207 e 209). Per questa segnalazione sono grato a Roberto Livraghi. []
  5. Il tesoro del duomo di Bergamo, Bergamo 1989, pp. 22-23; si veda anche pp. 26-27. []
  6. O. Zastrow, Canturium ecclesiarum thesauri. Frammenti di bellezza sui nostri altari, Cantù 2008, pp. 24-26. []
  7. O. Zastrow, Capolavori di oreficeria sacra nel Comasco, Como 1984, pp. 64-65, 68. []
  8. G. Roccatagliata, Argenti genovesi. La torretta, Genova 1992, p. 177. []
  9. Argenti genovesi, catalogo della mostra (Ottawa, Museo della moneta 15 settembre-15 ottobre 1992; Genova, Galleria Nazionale di Palazzo Spinola 30 ottobre-15 dicembre) a cura di F. Boggero-M. Bartoletti, Cento 1992, pp. 44-47. []
  10. T. Conte, Oreficerie liturgiche tra XVI e XIX secolo nei vicariati di Agordo e Canale d’Agordo, in Tesori d’arte nelle chiese dell’alto bellunese. Agordino, a cura di M. Pregnolato, Belluno 2006, pp. 50, 54. []
  11. P. Pazzi, I punzoni dell’argenteria veneta, Pola 1992, p. 145, n. 453. []
  12. Ι. Γκερέκος, Σκεύη ιερά τω Θεώ ανατεθειμένα, Tήvoς 2010, pp. 15, 36. []
  13. Ι. Γκερέκος, Σκεύη ιερά τω Θεώ ανατεθειμένα, Tήvoς 2010, pp. 18, 40. []
  14. C. Arminjon-J. Beaupuis-M. Bilimoff, Dictionnaire des poinçons de fabricants d’ouvrages d’or et d’argent de Paris (1838/1875), Paris 1994, p. 162, n° 01642; C. Aliquot, Un point de généalogie sur deux orfrèvres parisiens du XIXe siècle: les «Favier» orfrèvres parisiens de grosserie, in In Situ. Revue des patrimoines, 12, 2009, https://journals.openedition.org/insitu/6616. []