Elisa Emaldi – Georgia Mavroeidakou

elisa.emaldi@beniculturali.it

Un raro manufatto ligneo post-bizantino del Museo Nazionale di Ravenna

DOI: 10.7431/RIV23032021

Il Museo Nazionale di Ravenna possiede tra le sue collezioni un vasto nucleo di oggetti devozionali post-bizantini, composto dalla nota e pregevole collezione di icone di scuola cretese e da un gruppo di piccoli manufatti intagliati in legno1.

Il soggetto del presente contributo è il capolavoro di tale nucleo, un trittico ligneo (Fig. 1), variamente definito altarolo o tabernacoletto, che già Giuseppe Gerola considerava “il pezzo più notevole della raccolta”2.

Il manufatto risulta presente nell’Inventario storico ottocentesco e proviene presumibilmente dalle collezioni camaldolesi: è alto 30,9 cm e largo 20,7 cm con uno spessore massimo di 4,3 cm. L’esecuzione complessiva è riccamente elaborata, con un sicuro effetto architettonico e una meticolosa attenzione per i dettagli, alquanto notevole viste le ridotte dimensioni.

Il corpo centrale, terminante con una archeggiatura lobata aggettante, è formato da un unico blocco di legno ed è completato da due portelle, o sportelli, assicurati da cerniere avvitate: è inserito su una predella, dalla quale non è separabile, a sua volta innestata in una più ampia base non scolpita. La predella tronco-conica, che si restringe verso l’alto, è modellata in quattro fasce rastremate e intagliate.

Il corpo centrale del manufatto, lo scrigno, è diviso in due registri dalla cornice aggettante ad arco multiplo: al di sopra si sviluppa una scena nella quale avanzano verso la Maestà divina le schiere dei Giusti mentre al di sotto, su un piano ribassato, vi sono le scene principali, visibili solo a sportelli aperti. All’esterno, la figurazione nella parte alta, o cimasa, è resa parzialmente illeggibile a causa di un danneggiamento, in particolare a sinistra per un terzo circa dell’altezza. Si può ipotizzare che il legno abbia subito danni da fuoco e sia stato in seguito levigato per eliminare le parti combuste.

La scena del Giudizio nel pennacchio è leggibile per confronto3, in quanto il tema è assai utilizzato nell’arte cristiana, non solo ortodossa. Al centro Cristo è assiso sul Trono, dietro di lui un ampio schienale: la Vergine ed il Precursore sono in piedi ai lati, mentre i proto-parenti, Adamo alla destra del Cristo ed Eva a sinistra, sono genuflessi ai Suoi piedi. Lungo le curve dell’arco gotico, le schiere dei Giusti, santi e Angeli rendono gloria con mani palliate4.

La raffigurazione della parte superiore degli sportelli è profilata in alto dall’arco polilobato: nell’elegante intaglio gli elementi vegetali fungono da ripartizione delle minuscole scene rappresentate. All’esterno le figure sono contenute tra calici di acanto, che formano le base dei quattro registri, e girali a candelabre, mentre all’interno le foglie a girali compongono losanghe e ovali negli spazi di risulta, con un chiaro recupero del gusto classicheggiante apprezzato tanto dalla rinascenza paleologa quanto dal Rinascimento adriatico. L’insieme è armonico ed elegante, ma a causa delle dimensioni esigue le scelte iconografiche tendono a sintesi estreme.

All’esterno trovano spazio su quattro registri venti scene, tratte dall’Antico Testamento: le due più ampie in alto, una per sportello, presentano a sinistra la creazione di Adamo, con il Creatore assiso, assistito dagli angeli, e a destra il tema iconografico del Paradiso, con Abramo, la Madre di Dio e a fianco San Disma, il Buon ladrone. Sotto questi due quadri, delimitati in basso da un calice di foglie di acanto, sono tre registri, composti ciascuno da tre camei maggiori nel centro del rispettivo sportello, ognuno fiancheggiato da altre due scene più piccole “dove appunto per la minuzia e per la ristrettezza dei quadretti, non è agevole determinare con sicuro criterio il soggetto, limitato a pochissime figure”.

Nello sportello di sinistra, dedicato ai proto-parenti, i tre clipei maggiori contengono, dall’alto in basso: la creazione di Adamo, la creazione di Eva, Adamo incoronato che impone il nome agli animali (maestà di Adamo), il Creatore che rimprovera Adamo ed Eva. Gli episodi laterali comprendono il peccato, il pentimento, la cacciata, Adamo ed Eva fuori del paradiso, i progenitori al lavoro.

Nello sportello di destra, dedicato ai Patriarchi, l’immagine maggiore, sotto la figurazione dell’Eden, è dedicata all’ospitalità di Abramo, seguita dal sogno di Giacobbe e dal patto di Abramo e Abimelch. Tra gli episodi laterali si riconoscono la chiamata di Abramo da Ur, il sacrificio di Abramo, la lotta di Giacobbe con l’angelo, la fuga da Sodoma.

L’interno delle ante è dedicato alla rappresentazione dell’Akathistos, con dodici scene intagliate per sportello “nelle ventiquattro figurazioni tradizionali, quali sono descritte nei manuali di pittura, non senza qualche variante dovuta per lo più alla tirannia dello spazio”.

Nella parte interna dello sportello sinistro si trovano, dall’alto al basso, l’Annunciazione, esplicitata in tre scene, di cui due con l’annuncio dell’angelo che arriva ad ali spiegate, il mistico concepimento, il Magnificat, la visita a Elisabetta, il dubbio di Giuseppe, la nascita con l’adorazione dei pastori, il viaggio dei Magi e la scena del loro arrivo con l’offerta dei doni, il ritorno dei Magi, la fuga in Egitto e la presentazione di Gesù al tempio.

Nello sportello destro le minuscole sculture alludono, nel rispetto dell’inno, all’incarnazione di Dio in Cristo, al Suo essere salvatore degli uomini, uomo e Dio, lodato dagli angeli. L’inno prosegue con il tema della saggezza, portata dalla Vergine, che si fa rifugio dell’umanità. Le immaginette centrali fanno riferimento alla vergine celebrata “con lodi ineffabili” e come portatrice di luce. Le ultime stanze, che fanno riferimento al ruolo di Cristo che riscatta l’Umanità dal peccato, della Vergine tempio di Dio e alla bontà degli atti di lode, sono illustrate dallo scultore sulla scorta di raffigurazioni diffuse in ambito ortodosso, sia nelle miniature che nei cicli pittorici degli edifici sacri.

Aprendo gli sportelli, come doveva accadere nei giorni di festività religiosa, si rivela la maestria scultorea dello scrigno, il campo interno. La parte superiore, conclusa e ritmata dall’arco polilobato e tripartita da due colonnine tortili, è dominata dalla Resurrezione, espressa in tre momenti salienti. Alla sinistra del riguardante si ha la scena delle Marie accolte dall’angelo al sepolcro ormai vuoto, descritto come una cassa con coperchio visto di sguincio, e due soldati con grandi scudi e copricapi puntuti in primo piano. Al centro della scena tripartita Cristo emerge dal sepolcro impugnando il vessillo. L’avello è posto sotto la consueta architettura a cupola, con archi sorretti da colonne tortili, mentre in primo piano vi sono tre soldati a terra tra i loro palvesi. La scena è di grande efficacia: si noti il volto di Cristo raffigurato di tre quarti, che sembra gettare uno sguardo agli armigeri addormentati e lo scudo del soldato centrale, che inclinato verso il riguardante sembra fuoriuscire dallo spazio dell’opera. A sinistra, Pietro e Giovanni giungono alla tomba vuota, entro la quale è visibile il sudario. Alla destra, proprio di fianco al sepolcro vuoto, vi è l’iscrizione che Gerola5 aveva ipotizzato interpretabile come datazione, ma che più presumibilmente va riferita al Risorto. Si noti per inciso che nella raffigurazione della Resurrezione non è ricompreso il modello saliente dell’Anastasis con la discesa di Cristo nell’Ade, la liberazione dei proto-parenti e la sconfitta di Satana.

Sotto la cordonatura di separazione si apre la composizione centrale, una scena di Crocifissione ricchissima di dettagli. Il modulo non solo è di dimensioni maggiori rispetto agli altri ma risulta maestoso per composizione e cura esecutiva. La scena del Calvario è colta nel momento in cui Gesù è inchiodato all’alta croce, dotata di suppedaneo, da quattro personaggi, due per braccio, che si sporgono in pose bizzarre. Sotto al braccio orizzontale della croce stanno i patiboli dei ladroni, i quali sono visibili dal torace in su perché coperti dalla moltitudine dei personaggi secondari, quasi una trentina, tra i quali spiccano i soldati a cavallo. Non vi è in questa composizione la classica divisione tra sfera superiore e inferiore, e la folla di personaggi, a piedi e a cavallo, è assiepata su vari livelli, evidenziando per file i dolenti e i tormentatori. Alcuni di questi sono caratterizzati da cappucci e vesti con particolari caratteristiche tipiche delle fanterie medievali. Il monaco artista sembra qui richiamare varie lezioni, dagli esiti più alti dell’arte paleologa alle innovazioni dell’arte senese, come quelle introdotte da Pietro Lorenzetti negli affreschi di Assisi. Dal repertorio artistico tardo-gotico derivano altri dettagli, come la posizione delle braccia dei ladroni6, ripiegate dietro la croce. Gesù è presentato in posizione retta e dignitosa, come già nell’arte bizantina e diffusa sia in Italia che in ambito nordico: si noti che solo in questa scena il capo di Cristo è nimbato da un’aureola crucisignata.

Sotto le croci stanno i dolenti, nella ripartizione classica; le donne a destra della croce con la Vergine svenuta fra le pie donne e specularmente San Giovanni insieme ad altri uomini. Entro una cavità, nella roccia sulla quale è piantata la croce, è collocato il teschio di Adamo, secondo il topos ripreso anche dall’arte occidentale, qui rappresentato con la mascella dislocata.

Sui due lati della scena centrale e sotto di essa si trovano altri undici piccoli riquadri, tre per ogni lato e cinque alla base, ognuno riportante un’abbreviata didascalia7. Nonostante l’effetto di affollamento, l’insieme è equilibrato, dinamico e assai armonico: le partizioni, che riprendono il motivo delle colonne tortili della parte sommitale, sono ottenute tramite festoni bombati con nodi agli incroci ed elementi fitomorfi.

Si noti che i quadretti seguono un ordine tipologico8, che si rispetterà qui nella lettura, passando per ogni livello dal lato sinistro, dove stanno gli episodi dell’Antico Testamento, al lato destro, con scene tratte dai Vangeli.

I primi due riquadri riprendono il tema della resurrezione, illustrando a sinistra la resurrezione del figlio della vedova di Naim per intercessione di Elia – HLIAΓ  ANE – e a destra quella di Lazzaro – H EΓERCIC  Tȣ.

A sinistra vediamo il profeta in atto di invocare il Signore, la vedova in ambasce dietro di lui, con sullo sfondo un accenno di architettura e il bambino avvolto nelle bende a terra in primo piano, mentre la presenza dell’Altissimo è suggerita nell’angolo destro.

Nella scena di Lazzaro, il quale è appena visibile dentro al sepolcro scavato, il quadro risulta molto più affollato, ma Cristo, ai piedi del quale stanno Marta e Maria, è il fulcro e richiama nella postura il profeta sul lato apposto.

La seconda coppia tipologica è composta da Giuseppe ebreo in Egitto – HωCIΦ EN EΓI (sic) – e dall’ingresso a Gerusalemme – H BAIOΦOROC.

Il patriarca è rappresentato barbuto mentre passa in mezzo alla folla in trionfo sulla biga tirata da un nervoso cavallo, mentre sullo sfondo si vede la generica architettura turrita. La cavalcatura che caratterizza la scena di sinistra è una più docile asina, che trasporta placidamente il Salvatore tra una folla festante.

Sotto seguono le scene dell’offerta sacrificale; il sacrificio di Melchisedec – H ΘICIA Tȣ M – e l’ultima Cena – O ΔIPNOC O MI.

Il re e sacerdote di Salem indossa la corona; alla sua sinistra in primo piano vi è un’ara e al suo cospetto Abramo e suoi, con la futura Gerusalemme sullo sfondo.

Nel Cenacolo gli Undici sono seduti, disposti intorno a un tavolo circolare, con un edificio a pianta centrale a fare da quinta e significare l’architettura interna, secondo la visione medievale9: intorno al tavolo lobato si riconoscono i principali apostoli.

La sequenza inferiore è composta da cinque riquadri:

al centro sta il compianto –  O EΠITAΦIOC Θ che risulta così in asse con la crocefissione della parte centrale e il Cristo risorto in posizione apicale.

Il corpo del Salvatore è rappresentato disteso per tre quarti, e il legno pare usurato in corrispondenza al volto. Inginocchiata presso di Lui la Madre, dietro di lei un’altra Maria alza le braccia nel gesto della disperazione, mentre due piangenti chinano la testa sul cadavere e altri due uomini stanno più dietro, contro uno sfondo ove, tra le rocce, è visibile il sepolcro coronato da merlature.

Alla sinistra è raffigurata la scena della lamentazione di Giobbe sul letamaio – H ΠΛHΓH  TOν IOB. Giobbe, seguendo un’iconografia poco diffusa ma fedele al testo biblico10, è raffigurato calvo: siede nudo sul letamaio e parla alla moglie mentre sullo sfondo dietro un paesaggio roccioso stanno gli amici.

A destra del Compianto, altre due scene della Passione, la flagellazione e il tradimento. Nella prima, O EΠITAΦIOC Θ, Cristo è legato alla colonna, che in primo piano copre in parte il suo corpo11 lasciando ben visibili gli arti; da un lato e dall’altro i due carnefici sollevano i flagelli.

L’ultimo episodio tratto dall’antico Testamento, all’estrema sinistra, è Giuseppe venduto dai fratelli –  H ΠOνΛHCIC Tν Iν (ω) in dialogo tipologico con il bacio di Giuda – H MACTIΓOCIC, che chiude la sequenza. La scena veterotestamentaria richiama per composizione la precedente che ha per protagonista il patriarca Giuseppe. L’immaginifico cammello in primo piano copre parzialmente la concitata vendita di Giuseppe ai mercanti ismaeliti.

Nella scena del tradimento, Cristo è al centro, preso da un incrocio di braccia; Giuda di fronte a lui lo stringe, uno sgherro pare immobilizzarlo. Gesù e Giuda sono a capo scoperto a differenza delle altre diciassette persone della scena.

Qui come in tutto il trittico infatti, gli abiti sono segni distintivi che facilitano la comprensione dei ruoli. Gli ‘israeliti’ ad esempio portano tuniche, che non mancano di essere scolpite con precisi panneggi. A volte gli uomini hanno il capo coperto da un lembo del mantello; in tal caso, per essere identificabili come tali – giacché tutte le donne hanno chiaramente la testa velata – essi sono barbati. La veste del Cristo, sempre presentato a capo scoperto, con capelli descritti a ciocche, è lunga fino ai piedi con una sola eccezione. I ‘non-israeliti’, in particolare i soldati e i personaggi con ruoli negativi, sono generalmente abbigliati con una foggia che richiama i fanti degli eserciti medievali: hanno un copricapo a cappuccio, una tunica corta rilevata da una cintura, a volte maniche a sbuffo o frangiate e in alcuni casi, come i soldati nella scena di crocefissione, gorgiere e mantelline12.

Proprio sotto queste scene, separata da una semplice cornice a filetto, vi è l’iscrizione TOνTO Tω EΡΓON NICTOΡOν νΠAΡX   IEΡOMONA che riporta il nome del monaco Nestore13, al quale dunque andrebbe attribuita l’opera, ma che non è altrimenti noto.

La predella inferiore, lateralmente sagomata a gradoni, è costituita in due zone: nell’area sottostante le scene del corpo principale sono scolpiti altri momenti della Passione di Cristo, mentre in basso la narrazione è delimitata da una cinta di mura urbiche con torri e cortine.

Nel senso della lettura, da sinistra verso destra, la predella presenta la condanna di Gesù davanti al Sinedrio riunito in un emiciclo, mentre nell’angolo all’estrema sinistra Pietro lo rinnega di fronte ai servi. Gesù pare in ginocchio anche davanti a Erode, che indossa la corona e siede davanti a un tavolo con base ad archi gotici. La narrazione presenta poi il giudizio di Pilato, che indossa un mantello e un copricapo arcaico, sul tipo dei modelli tardo-antichi, e sta ritto sotto a un edificio circolare. Si prosegue poi con il cammino verso il Calvario, e il Cireneo caricato della croce: sotto la scala che conduce al monte, i soldati stanno giocando ai dadi le vesti del Messia14.

La forte resa volumetrica nel corpo principale, la ricerca ossessiva di creare una spazialità attraverso l’aggiunta di elementi architettonici e di sfondo, la cura dei dettagli narrativi e l’eleganza di quelli decorativi rendono l’opera di grande rarità e fascino.

Le scelte iconografiche delle scene, come già accennato, sembrano restituire una conoscenza attinta da molte fonti, filtrata da varie espressioni artistiche, quasi una volontà di trarre ispirazione da più di un antecedente. L’opera pare riecheggiare iconografie colte e popolari, con rimandi a cicli pittorici e icone, ma anche ad oggetti devozionali e suntuari di piccolo formato, e in particolare codici miniati, come passionari o bibbie moraleggianti.

L’artista infatti attinge a temi già elaborati e uniformati dell’arte paleologa ma sembra ritrasmettere influssi nordici e modelli o riferimenti italiani: si notino in particolare i rimandi alla pittura e scultura gotica e tardogotica, tanto nelle architetture quanto nella composizione di alcune scene15. Non mancano echi o citazioni colte, che vanno dall’arte classica (e tardoantica, come nel copricapo di Pilato) agli avori medio-bizantini16 alle ornamentazioni dei bordi miniati dei manoscritti medievali. L’attento scultore mostra inoltre, pur nei limiti del medium e delle dimensioni, la sua abilità nell’imitazione naturalistica e di realismo spaziale. Rimane però sostanzialmente fedele allo spirito artistico bizantino, nel rispetto delle convenzioni visive e quasi sempre della corretta iconografia dogmatica ortodossa. Quali erano i suoi modelli? Attingeva forse a incisioni o xilografie, vi erano opere pittoriche di maestri cretesi veneziani all’interno del suo contesto, o magari era ispirato da oggetti e manoscritti conservati nel tesoro di un monastero ortodosso?

Dal punto di vista tipologico il trittico è indubbiamente un oggetto devozionale, riservato alla pietà individuale, e non aveva nessun tipo di utilizzo liturgico. I modelli di ispirazione non sono riconducibili all’ambito della cultura ortodossa e vanno presumibilmente ricercati nella produzione di piccoli trittici devozionali e altaroli domestici, gli Hausaltärchen a microintaglio in legno, diffusi prevalentemente in ambito nordico17. Elaborati in materiali più nobili, come avorio, metallo smaltato, alabastro e inserti in madreperla, altaroli, trittici e placchette devozionali espressi nei modi stilistici del tardogotico trovano sopravvivenza negli atelier inglesi, francesi e fiamminghi almeno fino al XVII secolo e dunque diffusione presso la committenza altoborghese. Il conservatorismo stilistico è caratteristico degli oggetti devozionali: si pensi ad esempio al ricco repertorio della rinascenza veneto-cretese, mantenuto dai pittori post-bizantini a Candia e sull’Athos anche quando il suo appeal negli ambienti dei mecenati occidentali era ormai superato.

Nell’ambito dei monasteri ortodossi, non solo athoniti, il gusto miniaturistico si unì all’arte dell’intaglio ligneo, già diffusa per la decorazione di suppellettili e arredi liturgici18: l’intaglio miniaturistico di oggetti devozionali ha prodotto almeno dal XVI secolo oggetti come medaglioni, encolpi e croci benedizionali, che ebbero diffusione e richiesta presso le committenze occidentali, come il celebre nucleo delle croci Lascaris19. Affini alle opere appena citate sono le croci benedizionali del XVII secolo riconducibili alla scuola athonita diffuse tra le comunità greco-albanesi siciliane20.

È presumibile che il trittico, che consentiva di portare nell’ambiente domestico la bellezza, la cultura visiva e la forza mistica di opere di grande formato, sia stato eseguito da un esecutore di matrice culturale bizantina, un monaco ortodosso che lo ha composto come prezioso esercizio spirituale. Pare però altamente plausibile che, come per altri finissimi oggetti a intaglio, segnatamente le già citate croci Lascaris, il committente fosse un devoto cattolico che apprezzava l’arte e la cultura bizantina, attraverso quegli intrecci di strade commerciali e ibridazioni culturali così forti sin dall’epoca tardomedievale21.

Tuttavia il tabernacoletto di Ravenna non ha precisi confronti a noi noti con altri analoghi né in musei europei né tra i manufatti lignei conservati nei monasteri athoniti e richiede senza dubbio ulteriori ricerche, che auspichiamo questo breve saggio possa incentivare.

  1. E. Emaldi, M. Moretti, Quanto un granello di senape. Oggetti devozionali a intaglio del Museo Nazionale di Ravenna, «Romagna Arte e Storia» 112 (2018), pp. 53- 68. Per la composizione delle collezioni del Museo Nazionale di Ravenna, A.M. Iannucci, L. Martini, Museo Nazionale di Ravenna, Roma, 1993; P. Novara, La formazione del patrimonio museale nella Ravenna del XIX secolo. La documentazione, Cesena, 2014, pp. 621-646; Ead., Enrico Pazzi e la creazione del Museo Nazionale di Ravenna, Venezia, 2018. []
  2. G. Gerola, Un tabernacoletto intagliato del Museo di Ravenna, in «Felix Ravenna» 1 (1911), pp. 11-17. L’articolo di Gerola è ad oggi l’unico contributo edito che prenda in esame l’interessante manufatto. Il nucleo di oggetti lignei era esposto presso la prima sede del Museo Nazionale e alcune foto furono pubblicate da Corrado Ricci nel suo Raccolte artistiche di Ravenna (Bergamo 1905). Con il trasferimento delle collezioni nella nuova sede museale dell’ex monastero benedettino di San Vitale, la raccolta dei legni post-bizantini non fu inserita nel percorso museale. È tornata nuovamente in esposizione nel 2017 nella «sala delle devozioni» al primo piano. []
  3. M. Angheben, Les Jugements derniers byzantins des XIe -XIIe siècles et l’iconographie du paradis d’attente, in «Cahiers archéologiques», 50, 2002, pp. 105- 134. []
  4. La collezione del Museo Nazionale comprende anche un altorilievo in legno rappresentante lo stesso soggetto, del quale già Gerola nel suo articolo indicava la stretta relazione con il tabernacolo: si tratta analogamente di un lavoro a intaglio di ridotte dimensioni (cm 11,5 x 7,9 x 2,1), rappresentante Cristo in trono fra la Vergine e il Battista, Adamo ed Eva genuflessi ai Suoi piedi e altre ventitré figure. []
  5. G. Gerola, Un tabernacoletto…, 1911, p. 17. []
  6. Attestazioni della postura delle braccia dei ladroni diversa rispetto a quelle del Cristo, inchiodato a braccia tese, sono molto precoci, tra IX e X secolo: si vedano ad esempio le miniature della crocefissione nel Beato di Girona, Manoscritto 7 (Cat. Gir. Ms. 7 f. 16v) e nel manoscritto 24 (20) della Bibliothèque Municipale di Angers (f. 7v), nelle quali le braccia dei ladroni sono rappresentate come legate dietro al terminale orizzontale della croce. []
  7. La riduzione, mutilazione e gli errori in questo genere di didascalie lignee sono tutt’altro che infrequenti. Massimo Bernabò ne parla anche a riguardo di un prodotto molto raffinato, appartenente al nucleo delle croci Lascaris, in La croce lignea postbizantina di Palazzo Pitti, «Bizantinistica» 17 (2016), pp. 351-364: “Nelle scene del Vecchio Testamento di Firenze, pare che i titoli siano trascritti senza capire il significato delle parole, dato che sono troncati a metà di una parola od anche dopo le prime lettere. I titoli delle scene del Nuovo Testamento, invece, sono di massima più corretti. Il modello che usarono gli intagliatori per il Vecchio Testamento doveva quindi avere uno spazio più largo per il titolo; di questo, nella croce di Palazzo Pitti si è trascritta solo la parte che entrava nello spazio limitato del riquadro, senza avventurarsi a rimpicciolire le lettere e senza usare abbreviazioni ragionevoli”. []
  8. H. Maguire The Art of Comparing in Byzantium, «The Art Bulletin», 70.1, (1988) pp. 88-103, resta uno studio fondamentale sull’influenza delle strutture retoriche nell’arte bizantina. []
  9. Per le convenzioni utilizzate dagli artisti medievali per connotazioni topografiche, raffigurazioni delle architetture e rappresentazione degli spazi interni v. C. Frugoni, Davanti dentro, sopra sotto e altre convenzioni simboliche in La voce delle immagini. Pillole iconografiche dal Medioevo, Torino 2010, pp. 115-154. []
  10. M. Bernabò, Roma, Bisanzio, Castelseprio. Aggiornamenti dai manoscritti greci miniati di Giobbe, in A. C. Quintavalle Medioevo: immagini e ideologie, Milano 2005, pp. 191-197. []
  11. Si tratta di un’iconografia assai rara, già utilizzata in alcune miniature medievali (cfr. Beinecke MS 27: Speculum humane salvationis f 81v) ma anche dai maestri italiani, come ad esempio nella piccola tavola appartenente a un dittico devozionale, attribuita a Cimabue e oggi alla Frick Collection di New York o nell’affresco di Pietro Lorenzetti per la Basilica di Assisi. []
  12. Questi attributi medievali sono comuni nell’arte della scuola cretese, che li diffuse anche attraverso le opere commissionate dai monasteri dell’Athos. Si veda ad esempio per il XVI secolo la crocefissione di Teofane Strelítzas o Teofane di Creta nel Monastero di Stavronikita. []
  13. Gerola notò la “forma affatto inusitata” del nome “di fronte alle consuete di Nestore o di Nestorio: se pure la corruzione ortografica non deve farci pensare ad uno scultore slavo, dato che in russo la prima sillaba NE di quel nome si scrive bensì come in greco, ma si pronuncia Nje”.  G. Gerola, Un tabernacoletto…, 1911, p. 17. Indipendentemente dalla provenienza, la presenza stessa di una “firma” è un elemento molto interessante, anche per una ipotesi di datazione dell’opera. Si veda B. Radojković, Sitna plastika u staroj srpskoj umetnosti. Objets sculptés d’art mineur en Serbie ancienne, Belgrado, 1977. []
  14. Padre Benedetto di Dečani, che ha effettuato un esame autoptico del manufatto, ha rilevato che la predella “rappresenta in maniera orograficamente pressoché perfetta la visuale che si ha della Città Santa, da mezza costa del Monte degli Ulivi, dal luogo oggi detto Dominus Flevit”. La rappresentazione risulta congruente con la tradizionale localizzazione dei luoghi della Passione: nel senso della lettura sarebbero rappresentati la Casa di Caifa, oggi San Pietro in Gallicantu, la Fortezza Antonia, la Cupola della Catena e il Golgota. []
  15. Nell’episodio del Calvario, significativamente illustrato prima del momento in cui Gesù esalo lo spirito, si riscontra una composizione affollata, più volte riproposta in pittura sia in Italia, nel trecento toscano ad esempio, sia nelle Fiandre e in seguito dalle scuole cretesi. Più rare sono le trasposizioni scultoree, che annoverano però i grandi esempi dei dossali in legno. Sui rapporti tra arti maggiori e minori in epoca gotica si veda R. Bartalini, Arti suntuarie, microtecniche, scultura in Scultura gotica in Toscana: maestri, monumenti, cantieri del Due e Trecento, Cinisello Balsamo (Milano) 2005, pp. 116-149. []
  16. I rapporti dell’arte bizantina con il passato sono stati indagati in maniera approfondita: si vedano ad esempio H. Papastavrou, Classical Trends in Byzantine and Western Art in the 13th and 14th Centuries in «Byzanz – Das Römerreich im Mittelalter. Monographien des RGZM», 1 (2010), pp. 183-209 e M. Mason, Venezia O Costantinopoli? Sulla scultura bizantina a Venezia e nell’entroterra veneto e ancora sulla Beata Vergine della Cintura di Costantinopoli di Treviso in «Saggi e Memorie di Storia dell’arte», vol. 36 (2012), pp. 7-56. []
  17. I Flügelaltaren, gli altari lignei a sportelli, e più in generale altarpiece, pale scultoree e arredi liturgici lignei del gotico europeo, a cominciare dai polittici ad ante mobili trecenteschi, fornirono ispirazione a una particolare categoria di opere a micro-intaglio, definita dalla letteratura in lingua inglese Gothic boxwood miniatures, diffuse soprattutto in area nordica e nelle Fiandre tra la fine del XV e l’inizio del XVI secolo. []
  18. Questa antica arte, una delle forme di artigianato artistico ancora oggi mantenuta viva sul monte Athos, ha lasciato purtroppo poche tracce. Le opere lignee dei monasteri dell’Athos sono state indagate con grande attenzione da Dimitrios Α. Liakos, del quale si veda ad esempio Η ξυλογλυπτική στο  Άγιον  Όρος  τον  16ο αι in «Deltion of the Christian Archaeological Society/ Δελτίον τηςΧριστιανικής Αρχαιολογικής Εταιρείας», Vol. 32 (2013), pp. 323-336. []
  19. A. Pontani, Croci lignee d’altare postbizantine conservate in Italia e in Austria, in «Jahrbuch der Österreichischen Byzantinistik», XLVI (1996), pp.379-421; M. Bernabò, Nota iconografica sulle scene del Vecchio Testamento nelle croci lignee post-bizantine di Sant’Oreste e di Firenze, in «Jahrbuch der Österreichischen Byzantinistik», XLVII (1997), pp.257-272. []
  20. A tal proposito v. M.C. Di Natale, Le croci, in Tracce d’Oriente – La tradizione liturgica greco-albanese e quella latina in Sicilia, catalogo della mostra a cura di M.C. Di Natale, Palermo 2007, pp. 155-167 []
  21. M. Bacci, Some Thoughts on Greco-Venetian Artistic Interactions in the Fourteenth and Early-Fifteenth Centuries in Wonderful Things: Byzantium through its Art, Londra 2013, pp 203-227. Si veda anche: E. Moutafov, I. Toth (ed.), Byzantine and Post-Byzantine Art: Crossing Borders, Sofia 2018. []