Sara Mocci

mocci.sara89@gmail.com

I Musei diocesani in Sardegna e un inedito San Cristoforo (XV secolo)

DOI: 10.7431/RIV23022021

Discutere di musei ecclesiastici porta inevitabilmente a parlare della loro missio, differente rispetto a quella di una comune istituzione museale, poiché la loro funzione va ben oltre la conservazione, valorizzazione e fruizione delle opere d’arte. Essi racchiudono in sé un insieme di valori estetici e morali che legano indissolubilmente il bene culturale alla sfera più intima e intrinseca dell’essere umano: la sua fede1.

Nel caso specifico della Sardegna, dove sono diffusi in maniera capillare su tutto il territorio regionale, i musei ecclesiastici sardi che fanno capo alle diocesi locali sono: il Museo del Duomo di Cagliari, il Museo diocesano di Iglesias, il Museo diocesano d’arte sacra di Ales, il Museo diocesano arborense di Oristano, il Museo diocesano dell’Ogliastra a Lanusei, il Museo diocesano di Nuoro, il Museo diocesano d’arte sacra di Ozieri, il Museo diocesano di Alghero, il Museo diocesano di Sassari ed infine il Museo diocesano integrato di Tempio–Ampurias. Oltre alla naturale funzione pastorale, essi costituiscono un efficace strumento per la tutela della memoria spirituale e civile delle comunità locali e per la valorizzazione e sviluppo economico del territorio di riferimento.

Quella dei musei diocesani in Sardegna può essere definita come una “nuova realtà museale”, in cui la Chiesa cattolica, nell’esercitare il magistero pastorale della memoria e della bellezza, istituisce “tesori” presso le Cattedrali, invitando a percepire nel “bello” anzitutto il sacro. L’obiettivo è certamente quello di conservare oggetti preziosi, tra i quali le suppellettili liturgiche e i paramenti sacri che si distinguono oltre che per il significato strumentale, per l’eccellenza nella lavorazione. Oggetti connessi al culto e alla liturgia sacra, in quanto espressioni dell’arte presentano anche un interesse che esula dall’uso: i cambiamenti liturgici e pastorali, caratterizzanti le varie fasi della vita storica della Chiesa, hanno infatti comportato via via l’inutilizzabilità a fini di culto di preziosi manufatti.

Dai primi anni Duemila, il sorgere di musei diocesani in Sardegna rispondeva sia all’esigenza di salvare dalla dispersione i materiali preziosi provenienti da chiese della diocesi, non più rispondenti alle nuove esigenze liturgiche o pastorali, sia a quella di fornire una efficace rappresentazione dell’eredità spirituale di un territorio così antico e ricco di storia attraverso le manifestazioni dell’arte. Ai musei ecclesiastici sardi, e in particolar modo a quelli diocesani, è specificamente assegnato il compito di diventare centri di animazione culturale orientati alla funzione pastorale, e perciò essi sono inseriti nel progetto pastorale diocesano.

La loro nascita si propone come una risposta al discorso di San Giovanni Paolo II, il quale nel 1997 aveva ricordato alla cristianità che i musei diocesani «non sono depositi di reperti inanimati, ma perenni vivai, nei quali si tramandano nel tempo il genio e la spiritualità dei credenti»2. A tali concetti si richiama Benedetto XVI nell’enciclica Deus Caritas est3 «occuparsi del patrimonio culturale ed in primis di quello religioso è un’opera di carità»; secondo il teologo Antonio Rosmini4 infatti, oltre alla carità materiale e quindi temporale, esiste anche una carità “intellettuale”, che comprende quegli uffici che tendono a giovare immediatamente il prossimo nella formazione del suo intelletto e nello sviluppo delle sue facoltà.

La finalità della conservazione non è tuttavia fine a sé stessa, ma si intreccia fittamente con l’attività di studio e approfondimento, rivolta in particolar modo alla storia del cristianesimo in Sardegna fin dalle epoche più antiche. I musei ecclesiastici sono diventati via via nel tempo simbolo di una religione e della sua secolare interazione con la collettività, illustrandone il percorso storico e civile, nelle sue più variegate sfaccettature, istituendo un confronto con altre realtà culturali e prendendo in considerazione tutte le presenze e le manifestazioni in un territorio nel suo continuo rinnovarsi.

I musei diocesani sardi, così anche come quelli italiani, sono fortemente legati alla figura dei vescovi, che ne gestiscono la nascita, la vita e l’amministrazione, ne promuovono l’attività e agevolano il percorso all’interno della comunità: la loro apertura infatti avviene in primis verso le diocesi e le strutture religiose. All’interno dei contesti urbani, i musei diocesani si relazionano attivamente con le componenti delle dinamiche civili, facendosi portatori sani della memoria della spiritualità e della cristianità cittadina. Ma nonostante questo rapporto con la dimensione urbana e con un pubblico ampio, essi intrattengono delle relazioni saldamente ancorate con le diocesi: lo stesso termine specificativo del museo “diocesano”, segnala quel legame con il fitto intreccio di figure ecclesiastiche che compongono il territorio spirituale afferente alla cattedra (parrocchie, monasteri, etc.), e che dunque ascrive ad un sistema estremamente più vasto e non limitato alla cerchia cittadina; la diocesi diventa, quindi, un essenziale nodo fra museo e territorio, e deriva dalla secolare diffusione e penetrazione della cultura ecclesiale e religiosa, che permea e definisce la realtà geo-politica, sociale e civile, oltre che spirituale della nostra nazione.

Tornando ai musei ecclesiastici sardi, si tratta di dieci meravigliosi scrigni d’arte e di storia locale, il cui valore aggiunto è certamente conferito dalla passione di chi li dirige e dalla competenza e dall’impegno degli operatori museali che lavorano all’interno di queste importanti strutture, i quali, nonostante l’esiguo sostegno economico, sono prolifici di strategie ed iniziative calzanti, volte alla promozione delle strutture e alla fruizione degli spazi museali da un bacino d’utenza sempre più variegato, non perdendo mai di vista il fil rouge imprescindibile con la comunità locale.

Tra queste realtà museali regionali, per l’importanza delle opere conservate e per le iniziative culturali promosse, emergono il Museo del Duomo di Cagliari e il Museo diocesano arborense di Oristano, i quali insieme al Museo diocesano di Sassari corrispondono alle tre arcidiocesi isolane.

Il Museo diocesano arborense di Oristano

Il Museo diocesano arborense di Oristano è situato tra la Cattedrale di Santa Maria Assunta e il Seminario Tridentino, dai quali provengono alcune delle importanti opere d’arte raccolte. Inaugurato nel 2016, sebbene sia il museo ecclesiastico sardo più giovane, è un eccellente esempio in tutto il panorama regionale, rispecchiando a tutto tondo la missio affidata ai musei diocesani: esso assolve perfettamente il compito di luogo funzionale alla catechesi cristiana, che è il carattere intrinseco che determina sia la nascita delle opere, sia i criteri e le finalità che compongono il percorso espositivo, ma è anche l’attivo collegamento con la realtà sociale della città di Oristano, grazie alla fitta rete di rapporti che vigono tra il museo e visitatori. Il primo si pone nei confronti dei secondi come una realtà viva, interagente con loro e quindi, come soggetto in grado di attirare la loro sete di conoscenza e di spiritualità. Esso si conforma nella realtà quotidiana come una struttura in grado di stabilire un legame con la società presente, avvezza nelle abitudini a considerare l’istituzione museale come qualcosa di distante dalla propria esperienza, con l’ideazione di eventi, mostre temporanee, concerti e laboratori didattici per grandi e piccini. Questa fitta rete che il museo nel tempo ha tessuto con la realtà circostante è certamente anche merito di un’importante e tangibile sostegno dei canali social network, nella maniera specifica Instagram, Facebook e Youtube, pagine seguite da migliaia di utenti e che vengono quotidianamente aggiornate con contenuti informativi di altissima qualità, che hanno permesso una comunicazione efficace con il pubblico, soprattutto nel periodo di chiusura dei locali a seguito dell’emergenza epidemiologica COVID-19.

Lo spazio espositivo si snoda in 1200 metri quadrati di superficie visitabile, caratterizzati da ampi open space, sale museali accoglienti, moderne e sapientemente illuminate e custodisce al proprio interno suppellettili liturgiche, paramenti sacri che compongono il ricco Tesoro della Cattedrale, ma anche lacerti marmorei provenienti dall’antica Cattedrale medievale di Oristano, e i Codici liturgici risalenti alla fine del XIII secolo.

Di notevole pregio è certamente il dossale della Madonna con Bambino e Santi (Fig. 1) situato nell’ampia sala San Pio X, il cui recente restauro ha permesso una lettura più esatta e precisa dell’opera: si tratta di una tavola lignea sulla quale viene raffigurata al centro la Vergine con il bambino e nelle pale laterali si scandiscono in maniera parallela entro sette arcate lignee in rilievo, altrettante figure di Sante e Santi, tra cui emerge la figura di San Francesco d’Assisi, costituendo così la prima attestazione nota del culto del Santo in Sardegna.

Scarsamente documentata, è quindi assai difficile ricostruire la storia dell’opera, e soprattutto attribuirle una paternità certa; da fonti ottocentesche5, sappiamo che il Dossale era ubicato all’interno della cripta della ex cattedrale di Santa Giusta6, dalla quale venne spostato verso il 1861, probabilmente per essere portato nella chiesa di San Francesco di Oristano. Dai primi studi l’opera è stata considerata dagli studiosi come un’ancona di stile pisano-senese7, fino agli anni Sessanta del Novecento, momento in cui il Dossale venne accostato al corpus di opere di Memmo di Filippuccio8. Gli studi più recenti invece hanno proposto l’ipotesi che l’opera appartenga ad ambito pisano di fine XIII-inizi XIV secolo, e più precisamente al cosiddetto Maestro di San Torpè9. Il dossale costituisce un unicum nel patrimonio artistico isolano, poiché risulta essere la prima opera a fondo oro giunta in Sardegna; insieme ai preziosi libri liturgici miniati del Duomo di Oristano, è una delle prime testimonianze della cultura gotica toscana in terra sarda, ispirata dalla cultura francescana.

Il Museo del Duomo di Cagliari

Il Museo del Duomo di Cagliari sorge nel centro storico della città, nel medievale quartiere di Castello, all’interno della zona detta del Fossario, perché si trattava di un luogo in cui fin dal XIV secolo erano presenti due profonde fosse entro cui si usava gettare i corpi dei deceduti in caso di epidemia10. Nel corso del XVI secolo, su queste fosse fu costruito un edificio collegato con la Cattedrale di Santa Maria di Castello, il Seminario arcivescovile dedicato all’istruzione dei religiosi, detto anche Seminario Tridentino perché istituito in osservanza delle prescrizioni del Concilio di Trento, fondato nel 1576 dall’arcivescovo Francesco Perez. Conseguentemente al trasferimento del Seminario in una nuova sede nel 177811, l’antica struttura integrata nel Capitolo venne utilizzata per opere caritative sostenute dalla Chiesa e progressivamente l’edificio venne abbandonato fino agli anni Settanta del Novecento.

In occasione del Giubileo del 2000, a partire dal 1998 il corpo di fabbrica venne recuperato e gradualmente ristrutturato in funzione dell’allestimento del Museo diocesano, che fu inaugurato l’8 dicembre 2003. Sino ad allora, il “Tesoro” del Duomo era una raccolta di opere d’arte, nata grazie ai lasciti dei vari arcivescovi di Cagliari, a donazioni private, o a cessioni da altre chiese della diocesi, ubicata al piano superiore in una sala scandita da volte a crociera costolonate e gemmate, ambiente antico architettonicamente gemello alla sottostante Sacrestia dei Beneficiati (XVI secolo). Attualmente il Museo del Duomo di Cagliari si eleva su cinque livelli, ed ospita all’interno delle proprie sale importanti manufatti sacri in argento come calici, pissidi, stauroteche, anfore olearie, ostensori, un importante Crocione processionale di fine XV secolo12, forgiati dalle mani di abili argentieri sardi e italiani, a lungo dimenticati nella polvere, che negli spazi del Museo del Duomo ritrovano una rinnovata vitalità e svelano il proprio significato spirituale e simbolico. Molto forte è stata fin dagli inizi la sua attività culturale legata a manifestazioni quali mostre, presentazioni di libri, collaborazioni con grandi esposizioni temporanee; si vuole ricordare come illustre esempio il ciclo di mostre ispirate alla figura della Vergine Maria, un progetto vasto e ambizioso con prestiti di opere di grande valore e prestigio, diretto e curato da Filippo Martinez e al quale parteciparono i docenti della Facoltà di lettere e filosofia di Cagliari, Rossana Martorelli, Alessandra Pasolini, Maria Grazia Scano Naitza e Donatella Mureddu. La rassegna iniziò nel mese di giugno con la mostra “L’Annunciazione. Perugino, Bronzino e Tintoretto a confronto”, proseguì ad ottobre con “La Visitazione. Lorenzo Lotto, Cosimo Daddi e Tanzio da Varallo a confronto” e si concluse a dicembre con la terza e ultima mostra dal titolo “La Natività. Sandro Botticelli, Jacopo Bassano e Ignazio Stern a confronto”, la cui inaugurazione venne accompagnata da una lectio magistralis del critico d’arte Vittorio Sgarbi.

Il Museo diocesano cagliaritano custodisce inoltre un’opera d’arte davvero importante: il Trittico di Clemente VII (Fig. 2), trafugato dalla camera del pontefice, di cui sono state ricostruite le vicende del suo arrivo a Cagliari da Roma tramite preziose fonti d’archivio13. Agli inizi dell’Ottocento, il Valery14 parlando di questo Trittico, scriveva nel suo diario: «l’auteur est inconnu; mais […]il est de peu anteriorieur à l’année 1527, époque ou florissait l’école de Raphael […] dans la chambre à coucher du Médicis, cousin et second successeur de Léon X»15. Se il Canonico Spano (1861) ne rilevava l’antichità riconducendolo erroneamente al Beato Angelico16, Enrico Brunelli (1901) pubblicò la lettera del 23 luglio 1531 di papa Clemente VII17, il quale chiariva la storia del Trittico e del suo arrivo a Cagliari.

La vicenda, strettamente intrecciata con “il Sacco di Roma”, è stata ricostruita da Cecilia Tasca (2000), tramite alcuni documenti custoditi nell’Archivio Capitolare di Cagliari. Quando nel 1527 Carlo V d’Asburgo inviò i lanzichenecchi a conquistare l’Urbe, l’esercito poco soddisfatto delle ricompense dell’imperatore diede inizio ad un triste periodo di saccheggi e profanazioni all’interno di chiese e di palazzi18. Proprio in queste circostanze furono trafugate dalle chiese e dalle basiliche romane un importante numero di opere d’arte, gioielli ma soprattutto sacre reliquie, con l’intento di portarle in Spagna. Un soldato barcellonese, Juan de Barsena, durante il saccheggio degli appartamenti privati del pontefice, trafugò la reliquia della Sacra Spina ed una tavola fiamminga raffigurante una Pietà, Sant’Anna con Maria e il Bambino e Santa Margherita. Questi eventi sono ricostruiti grazie agli atti dei processi canonici celebrati fra il 19 settembre 1527 e il 15 gennaio 1529 per volere dell’arcivescovo Gerolamo di Villanova (1521-1534) «[…] per il riconoscimento e l’accettazione delle insigni reliquie rubate da empi durante il sacco di Roma col proposito di trafugarle in Spagna»19. Sappiamo che i soldati imperiali in possesso delle reliquie rubate salparono dal porto di Gaeta alla volta della Spagna, ma colpiti da una terribile tempesta, giurarono pentiti di restituirle all’autorità ecclesiastica del luogo dove la nave sarebbe approdata20. Essi giunsero a Cagliari in momenti differenti, quindi attraccarono al porto diverse navi con a bordo reliquie rubate da più soldati. Il 19 settembre 1527, si svolse il primo processo alla presenza dell’arcivescovo Gerolamo de Villanova, dei consiglieri civici e dei testimoni. In una missiva al pontefice del dicembre 1531 l’arcivescovo richiese che le reliquie giunte a Cagliari, e già oggetto di venerazione del popolo, venissero lasciate in città sotto la sua approvazione e riferì di una «immagine della Vergine che un soldato spagnolo di Barcellona ha tolto dal Palazzo Apostolico e dalla cappella della Santità Vostra poi pentito ed atterrito dal pericolo del mare ha lasciato qui da me»21. Questa è la prima attestazione della presenza a Cagliari della tavola fiamminga che Juan de Barsena, nel mese di ottobre del 1527, consegnò alla chiesa cagliaritana di Sant’Agostino22. Il pontefice, dal canto suo, pur desideroso di restituire le reliquie alla Chiesa romana e ai luoghi da cui furono trafugate, decise di accogliere la richiesta dell’arcivescovo cagliaritano: con una missiva del 23 luglio 1531, Clemente VII rinnovò la concessione alla chiesa cagliaritana di tutte le reliquie, compreso il suo personale Trittico fiammingo: «ora noi con la nostra autorità apostolica ne facciamo dono in perpetuo a te e alla tua Chiesa». Ordinò inoltre che le reliquie e il dipinto dovessero esporsi una volta all’anno nei secondi vespri della festa dell’Assunzione della Vergine, concedendo l’indulgenza plenaria a tutti i fedeli presenti, che avessero il proposito di confessarsi e recitassero sette volte in ginocchio l’orazione domenicale e la salutazione angelica23.

Complessa ed intricata è la storia degli studi, tesi a stabilire la cronologia esatta e la paternità del Trittico. Il primo a seguire una pista fiamminga fu Enrico Brunelli24, che attribuì la tavola a Gerard David (1460-1523), datando l’opera ai primi decenni del ‘500, mentre sia Dionigi Scano25 che Carlo Aru26 ricondussero il dipinto a prototipi di Rogier van der Weyden (1399-1464), soprattutto per quanto riguarda la qualità eccellente della tavola centrale, che rappresenta la Madonna Addolorata con il Cristo morto. Dal punto di vista iconografico rappresenta una Pietà sui generis, in cui i protagonisti, che emergono da un fondo neutro color oro, sono descritti fisionomicamente in ogni dettaglio: gli occhi arrossati della Vergine, le lacrime e le dita affusolate delle mani, il colorito diafano del Cristo, l’espressione colma di sofferenza, sono tutti elementi che riconducono ad un ambito fiammingo quattrocentesco che risente dell’influsso dei grandi maestri dell’epoca27.

In occasione del restauro della Soprintendenza sotto la direzione di Giovanni Zanzu (1992), il Trittico è stato oggetto di indagini diagnostiche, strumentali al restauro ma utili anche alla risoluzione del problema della paternità. Per quanto concerne il supporto, si tratta di tavole di legno di quercia tagliate in maniera radiale, sulle quali è stato applicato uno strato di gesso con la colla prima dei pigmenti mescolati con l’olio. La tavola centrale, la più valida dal punto di vista qualitativo sia della tecnica sia del supporto, è di mano di un grande maestro28. Le tavole laterali, raffiguranti a sinistra la Sacra Generazione con Sant’Anna, la Vergine e il Bambino e sulla destra Santa Margherita con il drago, sono realizzate con minore finezza, probabilmente da allievi o collaboratori di bottega del pittore che realizzò la tavola centrale. Le riflettografie e i disegni soggiacenti hanno permesso agli studiosi di arrivare alla conclusione che l’opera si debba datare all’ultimo decennio del XV secolo. In considerazione della netta differenza tra la tavola centrale e quelle laterali, non si può parlare di un unico artista, ma di due o più mani che hanno collaborato, probabilmente nella stessa bottega. La tavola centrale con molta probabilità è una copia o una replica di un prototipo di Van der Weyden ancora non definito, ma è possibile accertare che non si tratti della sua mano grazie ai confronti ottenuti dopo l’esame ad infrarossi, nonostante la qualità stilistica molto alta del pannello centrale; le ante laterali invece, grazie ai confronti degli infrarossi, sono state ricondotte ad un seguace di Rogier, il cosiddetto “Maitre au Feuillage brodè”29, anonimo pittore fiammingo documentato a Bruges e a Bruxelles tra il 1480 e il 1510.

Un inedito San Cristoforo (fine XV secolo)

Tra le opere esposte nelle sale del Museo del Duomo di Cagliari si vuole segnalare l’inedita scultura lignea raffigurante S. Cristoforo con Gesù Bambino (Fig. 3). L’imponente simulacro raffigura San Cristoforo, barbuto e con una lunga capigliatura, abbigliato con le vesti da pellegrino e con calzoni rimboccati fino al ginocchio, rappresentato nell’atto di attraversare un corso d’acqua, secondo l’iconografia tradizionale formatasi già in età tardo medievale30. Volge lo sguardo verso il Bambino seduto sulla sua spalla, che stringe nella mano sinistra il globo, simbolo di regalità divina; le braccia del santo protese in avanti, dovevano in origine reggere una lunga pertica.

Proveniente dalla chiesa di S. Cesello nel quartiere storico di Villanova a Cagliari31, la statua versava in grave stato di degrado, con un supporto ligneo estremamente fragile e poroso a causa degli attacchi di insetti xilofagi e di muffe, con parti staccate o mancanti, le superfici avevano perso al 90% la cromia originaria.

La chiesa dedicata al martire sardo Cesello32, risalente al 1702, secondo la lapide di consacrazione un tempo in facciata oggi all’interno, era sede della compagnia degli scaricatori di vino o bottai, sita a pochi metri da Porta Cavaña, uno degli antichi accessi al quartiere di Villanova. All’interno della chiesa, un altare ligneo di gusto tipicamente barocco, opera dell’intagliatore napoletano Paolo Spinale (1703)33, presenta due grandi tele con scene della Cattura di San Lussorio presso Porta Cavaña e del Martirio del Santo alla presenza dei fanciulli Cesello e Camerino; la nicchia centrale originariamente ospitava il simulacro di San Cristoforo, secondo il canonico Giovanni Spano (1861): «una statua colossale in legno, opera antica e di qualche merito, recentemente ristaurata»34. Attraverso le vicende che interessarono il Gremio degli scaricatori di porto o di San Cristoforo, fino alla sua decadenza, la chiesa subì un graduale abbandono sino al 1951 quando fu affidata alle suore del SS. Sacramento, che ne curano oggi l’apertura al pubblico.

Dato il valore storico del simulacro, in quanto documento dell’antica devozione per San Cristoforo, connessa al Gremio degli scaricatori di porto, risalente alla fine del XV secolo e anticamente ubicato nella chiesa di S. Lucia nell’antico quartiere della Marina35, la competente Soprintendenza con procedura d’urgenza si attivò per il restauro del simulacro (2014) sotto la direzione di M. Francesca Porcella36. Si procedette all’eliminazione delle incrostazioni costituite da rosume mescolato a rifacimenti plastici maldestramente eseguiti durante precedenti interventi, che ostacolavano la lettura del gruppo scultoreo, consentendo di mettere in luce la tecnica esecutiva. La struttura risulta eseguita da un tronco intero stagionato e svuotato, adatto a realizzare superfici lisce fino ai panneggi e alle parti anatomiche esposte, in contrasto con l’estrema definizione dei particolari della barba e delle acconciature finemente lavorate. Lo strato esterno di gesso e colla, sottile e compatto, supportava originariamente le policromie stese molto probabilmente a tempera, alternate a dorature ancora visibili attraverso le abrasioni delle ridipinture successive, risolte con campiture consone ai dettami iconografici. La scelta progettuale ha voluto valorizzare i valori formali rinascimentali, restituendone l’unità di lettura attraverso l’eliminazione delle mancanze materiche e integrando dei risarcimenti eseguiti utilizzando stucchi colorati in pasta, funzionali al consolidamento e ad assolvere alle esigenze statiche e di supporto agli elementi di cui si compone la scultura, riassemblati al corpo centrale utilizzando dei perni metallici originali e da altri in fibra di carbonio indispensabili a riposizionare gli arti superiori e inferiori, e i panneggi ai lati dell’elemento centrale. L’utilizzo di perni ha consentito di limitare gli interventi di consolidamento per impregnazione, fatta eccezione della porzione terminale degli arti inferiori, sulla quale permane a vista l’effetto della tarlatura. L’idea progettuale finalizzata alla musealizzazione è stata quella di sfruttare il vuoto presente sul retro della scultura (in origine chiuso da uno sportello, tecnica usuale nella scultura lignea per alleggerire) per creare una struttura verticale di sostegno in ferro che lavorasse in sinergia con la scultura, rendendola autonoma; al nuovo supporto, è stato aggiunto un bastone, richiamo all’iconografia classica di San Cristoforo, risolto per mezzo di una semplice asta, alla quale si è inoltre affidato il maggior carico degli arti superiori in forte aggetto, per mezzo di sottili perni in fibra di vetro inseriti a scomparsa. Dopo il lungo lavoro di restauro, fu presentata al pubblico l’8 Aprile del 2014 e da quel momento fa parte della collezione permanente del Museo del Duomo. L’opera rappresenta per la Sardegna forse il più antico esempio scultoreo dell’iconografia di questo santo, mentre diverse sono le attestazioni pittoriche, tra cui quella nel Polittico di S. Cristoforo (Pinacoteca Nazionale di Cagliari), attribuito al pittore campano Decio Tramontano (documentato negli anni 1556-1589)37.

Il simulacro trova raffronti pertinenti con alcuni esempi di statuaria lignea di ambito lombardo dei primi decenni del XVI secolo, in particolare con opere di Giovanni Angelo del Maino (documentato a Pavia tra il 1496 e il 1536), come il San Rocco della chiesa di Sant’Anna a Piacenza (Fig. 4), e il viso del Cristo del Compianto della Chiesa di San Paolo a Gambolò38. Il confronto lombardo più pertinente sembra però quello con il San Cristoforo nella chiesa di S. Cristoforo sul naviglio a Milano (Fig. 5), attribuito a Pietro Bussolo (attivo fra il 1473 ed il 1526)39, nel quale ritroviamo non solo analogo atteggiamento e simile espressività, ma anche dei richiami molto chiari nel vestiario; inoltre, rievoca il simulacro cagliaritano negli aspetti formali e nei tratti fisionomici la Maddalena della chiesa del Corpus Domini a Pagliario (BG), sempre attribuita al Bussolo40.

Ancor più convincente mi appare il raffronto tra il simulacro ligneo di Cagliari e quello del San Cristoforo conservato nel Museo Campano di Capua (Fig. 6), recentemente assegnato su base documentaria allo scultore Pietro Alemanno, attivo in Campania nella seconda metà del XV secolo41. Dal confronto tra le due statue emerge un evidente analogia nella forte carica espressiva dei visi e nell’intaglio preciso della barba, della capigliatura del Santo e del Bambino, ma soprattutto una straordinaria somiglianza nella struttura anatomica degli arti inferiori (Fig. 7), lunghi e affusolati, in entrambi i casi mancanti dei piedi, perduti per la rosura degli animali xilofagi. La mancanza di documentazione archivistica riguardante il San Cristoforo di Cagliari non permette di stabilire una datazione precisa e di ricondurlo alla mano di un artista specifico, ma il confronto stilistico e formale con gli esempi sopracitati non solo apre la strada verso studi più approfonditi e mirati, ma ci offre la possibilità di poter collocare il simulacro cagliaritano in un arco temporale che va dalla fine del XV secolo al primo decennio del XVI.

Abbreviazioni

A.A.Ca: Archivio Arcivescovile di Cagliari.

  1. In merito alla funzione e alla missio dei musei ecclesiastici si vedano: C. Valenziano, Museo diffuso: l’idea, in Musei Ecclesiastici e Standard Museali: atti del convegno del Museo Diocesano di Catania XI 2003, Catania 2005; Chirografo sulla conservazione dei monumenti e sulla prodizione di belle arti, contenuto nell’editto del Cardinale Camerlengo Doria Pamphili, in A. Emiliani, Leggi, bandi e provvedimenti per la tutela dei beni artistici e culturali negli antichi Stati italiani (1571-1860), Bologna 1978; Pontificia Commissione per i Beni Culturali della Chiesa, Lettera circolare sulla funzione pastorale dei musei ecclesiastici, Città del Vaticano 15 agosto 2001, n.1.2. []
  2. Giovanni Paolo II, Messaggio ai partecipanti alla Assemblea Plenaria della Pontificia Commissione per i Beni culturali della Chiesa, n.2, 25 settembre 1997. []
  3. Benedetto XVI, Lettera enciclica Deus Caritas est, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 2006, p.72. []
  4. Antonio Rosmini (1797-1855), filosofo e teologo italiano, beatificato nel 1997, portò avanti tesi filosofiche tese a contrastare sia l’Illuminismo che il Sensismo. Nelle sue teorie seguì le concezioni di Sant’Agostino e di San Tommaso, rifacendosi anche a Platone. []
  5. G. Spano, Antica Cattedrale di S. Giusta in Bullettino archeologico sardo, VII, 1861. []
  6. Per le notizie sulla Cattedrale romanica di Santa Giusta si vedano: R. Coroneo, La Cattedrale di S. Giusta e l’architettura romanica in Sardegna, in Santa Giusta. Radici, a cura di Tito Melis, Oristano 2001, p. 33; R. Coroneo, Chiese romaniche della Sardegna. Itinerari turistico-culturali, Cagliari 2005. []
  7. C. Aru, Architettura, scultura e pittura in Sardegna, Sassari 1937; R. Delogu, Lineamenti di storia artistica, in Guida d’Italia. Sardegna, Milano 1952, pp. 43-66. []
  8. G. Previtali, Il possibile Memmo di Filippuccio, in «Paragone» n.155, 1962, pp. 3-11; G. Previtali, Giotto e la sua bottega, Milano 1967; G. Previtali, “Introduzione” in Simone Martini e “chompagni”, catalogo della mostra, Firenze 1985, pp. 11-31. []
  9. N. Usai, Il dossale con Madonna e Bambino tra Santi di Oristano, Ghilarza 2017. []
  10. R. Conde, Castell de Càller, Cagliari catalano-aragonese, Istituto sui rapporti italo-iberici, Cagliari 1984. []
  11. M. Schirru, Le residenze signorili nella Sardegna moderna (XVI-XVIII secolo), Sassari 2017. []
  12. A. Pasolini-M. Porcu Gaias, Argenti di Sardegna, la produzione degli argenti lavorati in Sardegna dal Medioevo al primo Ottocento, Perugia 2016. []
  13. C. Tasca, Il sacco di Roma (1527) e la donazione di Clemente VII alla Cattedrale di Cagliari di alcune reliquie e di un trittico fiammingo in Gli Anni Santi nella Storia, a cura di L. D’Arienzo, Cagliari 2000. []
  14. Valery è lo pseudonimo di Antoine-Claude Pasquin, conservatore delle biblioteche reali per Carlo X di Borbone (1824-30) e Luigi Filippo di Borbone Orléans (1843-48). []
  15. P. Valery, Voyages en Corse, à l’Ile d’Elbe, et en Sardaigne, Paris 1837. []
  16. G. Spano, Bullettino Archeologico Sardo, VII, 1861. []
  17. A.A.Ca, Archivio del Capitolo, sezione seconda, vol. 1041, n.4. Cfr. E. Brunelli, Un Trittico di Gerard David sottratto al Vaticano nel 1527, in L’arte, IV, fascicoli XI-XII. []
  18. Sul sacco: André Chastel, Il Sacco di Roma: 1527, Torino 1983. []
  19. Gli atti dei cinque processi canonici celebrati a Cagliari sono trascritti nella Sezione Prima dell’Archivio del Capitolo di Cagliari. []
  20. F. Putzu, La documentazione della Sacra Spina di Nostro Signore della Metropolitana di Cagliari, in “Studi Sardi”, XI, 1933. []
  21. Archivio del Capitolo, Sezione prima, Liber Diversorum, n.33, post 1529 gennaio 15. []
  22. Nell’ultima lettera del pontefice all’arcivescovo cagliaritano si evince che Giovanni de Barsena avesse consegnato la tavola nello stesso momento in cui depositò alcune reliquie nelle mani del frate di Sant’Agostino Gonsalvo de Reinoso il 22 ottobre 1527. []
  23. Archivio del Capitolo, Sezione seconda, vol. 1041, n.4, 1531 luglio 23, Roma, San Pietro. []
  24. Cfr. supra, nota 17. []
  25. D. Scano, Note d’arte sul Sacco di Roma, Cagliari 1927. []
  26. C. Aru, Il Trittico di Clemente VII nel Tesoro del Duomo di Cagliari, Parigi 1931. []
  27. Il card. De Medici, futuro papa Clemente VII, avrebbe acquistato l’opera nel corso di un viaggio nelle Fiandre alla fine del XV secolo, facendosi realizzare le ante laterali per completare il trittico devozionale. Cfr. G. Zanzu, Retables in Sardinia in the XVIth century. Three restored examples, in Retables in situ. Conservation and restauration, 11es journées d’étude de la SFIIC (Roubaix, 24-26 juin 2004), pp. 241-255. []
  28. È da segnalare che, durante i restauri, è emerso su un lato della cornice il bollo della gilda dei pittori della città di Bruges. []
  29. Memling: Rinascimento fiammingo, catalogo della mostra a cura di T.H. Borchert, Milano 2014. []
  30. Cfr. Jacopo da Varagine, Legenda Aurea, 1298 (consultata nell’edizione: Firenze 1990, pp. 421-427). []
  31. Scheda 20/00030928 Archivio Catalogo Soprintendenza Beni A.P.S.A.E. per le provincie di Cagliari e Oristano. []
  32. San Cesello, nome scomparso dalla toponomastica cagliaritana, secondo la Passio, subì il martirio proprio nei pressi della Porta Cavaña, Voce Cesello, in Bibliotheca Sanctorum, vol. III, Roma 1992. []
  33. Per il documento: F. Virdis-S. Cuccu, Documenti sull’architettura religiosa in Sardegna. Cagliari, vol. II (1556-1733), Lanusei 2018, pp. 403-405; sull’altare: Pasolini A.-Porcu Gaias M., Altari barocchi. L’intaglio ligneo in Sardegna dal tardo Rinascimento al Barocco, Morlacchi Editori U.P., Perugia 2019, Scheda 124, p. 152. []
  34. G. Spano, Guida della città e dintorni di Cagliari, Cagliari 1861, p. 260. Da una relazione dell’Ufficio Regionale per la Conservazione dei Monumenti della Sardegna (Archivio Soprintendenza Cagliari-Oristano), risulta che la scultura aveva ancora tale collocazione nel 1895. []
  35. A. Caboni, Cenni storici delle Istituzioni di Previdenza, Beneficenza, Istruzione e di Educazione nella provincia di Cagliari, Cagliari 1900. []
  36. www.siCaR.beniculturali.it []
  37. M. Serreli, in Pinacoteca Nazionale di Cagliari (Catalogo), vol. I, Cagliari 1988, p. 74; R. Coroneo, Scheda 141, in R. Serra, Storia dell’Arte in Sardegna. Pittura e scultura dall’età romanica alla fine del ‘500, Nuoro 1990, pp. 266-267; M.G. Scano, Pittura e scultura del ‘600 e ‘700 in Sardegna, Nuoro 1991, p.17; P. Leone De Castris, Pittura del Cinquecento a Napoli 1540-1573. Fasto e devozione, Napoli 1996, p. 297, 300 e 324, nota 19; P. Leone De Castris, voce Tramontano Decio, in La pittura del Cinquecento nell’Italia meridionale in La Pittura in Italia. Il Cinquecento, vol. II, Milano 1988, pp. 856-857. []
  38. G. Romano-C. Salsi, Maestri della scultura in legno nel Ducato degli Sforza. Catalogo della mostra, Milano 2005. []
  39. R. Casciaro, La scultura lignea lombarda del Rinascimento, Milano 2000; A. Pacia, M. Olivari, Scultori e intagliatori del legno in Lombardia nel Rinascimento, Milano 2002. []
  40. M. Albertario-M. Ibsen- A. Pacia-C. Cairati, Nel segno del Rinascimento. Pietro Bussolo scultore a Bergamo, Bergamo 2016. []
  41. L. Giorgi, Un San Cristoforo di Pietro Alemanno a Capua, in Ricerche sull’arte a Napoli, Napoli 2018, pp. 30-35. []