Rita Pellegrini

ritapellegrini09@gmail.com

L’«ostensorio d’oro» della cattedrale di Como (Stanislao e Cornelio Borghi, 1932)

DOI: 10.7431/RIV22102020

Premessa

Al termine della prima guerra mondiale, il cesellatore Stanislao Giuseppe Borghi e suo fratello Cornelio Raffaele costituirono un sodalizio lavorativo che durò sino alla fine degli anni ’40. La ditta realizzò molte opere di argenteria sacra e profana, fra le quali un ostensorio d’oro per la cattedrale di Como, che sarà oggetto specifico di questo studio.

Il paese natale dei Borghi è Fino Mornasco (CO), ove Stanislao nacque il 10 dicembre 1898 e Cornelio il 22 agosto 1901. Il padre, Natale Luigi, era tessitore e la madre, Assunta Cairoli, casalinga1.

A dodici anni, Stanislao, frequentate le scuole elementari e una scuola di disegno2, entrò come garzone nella bottega di Orazio Del Bo. Si trattava di un laboratorio dedicato alla fabbricazione e al commercio di arredi sacri, aperto a Fino Mornasco intorno al 1910 da una famiglia proveniente da Milano3. Qui Stanislao iniziò a lavorare di cesello, ma gli eventi bellici troncarono tale attività giacché la ditta fu convertita in fabbrica di proiettili. Il giovane si trasferì quindi a Milano nella bottega di Giovanni Redaelli4, e qui ebbe come maestro cesellatore Ambrogio Monetti, originario di Malnate (VA). Nel frattempo Stanislao si dedicò allo studio, frequentando la scuola d’arte applicata del castello sforzesco di Milano, ove ebbe modo di esaminare opere di importanti maestri del passato5. Per i suoi progetti, infatti, egli si ispirava non solo alle fotografie di oggetti d’arte, ma praticava uno studio minuzioso e diretto sui manufatti, annotandone ogni particolare caratteristica tecnico-stilistica che fosse originale e significativa6.

Dopo la guerra, Stanislao aprì un laboratorio a Fino Mornasco insieme al fratello Cornelio. Il suo nome divenne subito celebre, soprattutto per la spiccata creatività e precisione nel lavoro di cesello7, che lo portarono a realizzare, fra altre opere di pregio, due vassoi da parata neobarocchi in argento e la copia del cosiddetto Scudo del Cellini8 (già nella collezione Ettore Cusi).

Di fatto il lavoro era suddiviso tra i due fratelli, specializzati, come del resto tipico delle importanti botteghe argentiere, in differenti ambiti, in modo tale da poter garantire un’adeguata realizzazione dei manufatti: Cornelio si dedicava all’assemblaggio e alla composizione delle diverse parti, mentre a Stanislao spettavano il disegno e la cesellatura9. I Borghi si resero ben presto noti per la loro abilità, tanto che nel 1928 venne loro affidata la ricostruzione di due importanti opere rinascimentali: una croce dell’argentiere gravedonese Francesco Sergregori e un calice, forse opera del medesimo autore10. I due oggetti appartenevano alla chiesa arcipretale di S. Vincenzo di Gravedona (CO)11, alla quale erano stati rubati nel 1920. Si riuscì a recuperare solo il metallo fuso, un «amalgama di oro, argento e rame», come ebbe a scrivere l’arciprete Carlo Cometti12. Per portare a termine la copia della croce, testimoniò Stanislao, «mi misi all’opera con mio fratello Cornelio e aiutandoci con perfette fotografie della Casa Alinari di Firenze e con l’ausilio di memoria del vecchio sagrestano della chiesa, che l’ebbe in custodia per molti anni, in undici mesi di lavoro, l’abbiamo ricostruita identica e perfetta come l’antica, tanto da meravigliare il popolo che la conosceva»13. La chiesa gravedonese dovette rimanere molto soddisfatta dei lavori, in quanto anni dopo fece realizzare a Stanislao Borghi varie opere: una portina di tabernacolo (1959, Fig. 1)14, una via crucis in rame sbalzato di gusto pienamente novecentesco (1960, Fig. 2)15, una pisside in argento dorato con smalti al piede (1963), un servizio di candelieri in bronzo ispirati allo stile impero (1963), un servizio di candelieri in bronzo, per l’altare mariano, ecletticamente costruiti mediante riferimento a vari stili (1964), un coperchio per il fonte battesimale (1964)16. A quell’epoca tuttavia erano già cambiate molte cose. Innanzitutto nel 1932 i fratelli Borghi si erano trasferiti a Rovera di Malnate (VA), ove nel 1929 avevano acquistato un terreno su cui fecero edificare casa e laboratorio. Il trasferimento fu dettato da una ragione essenzialmente tecnica: Malnate disponeva di una rete di gasdotto comunale che garantiva una fruizione domiciliare del gas necessario ad alimentare la fiamma ossidrica per il lavoro17. La ditta F.lli Borghi fu attiva sino alla fine del quarto decennio del Novecento, quando Stanislao e Cornelio si separarono e il 31 dicembre 1949 si costituì una ditta individuale Stanislao Borghi18.

Un «ostensorio d’oro» per il Congresso Eucaristico del 1932 a Como

Per il primo Congresso Eucaristico Diocesano, che si celebrò a Como dall’8 all’11 settembre 1932, la cattedrale cittadina, dedicata all’Assunta (Fig. 3), si fregiò di un nuovo grande ostensorio, chiamato «l’ostensorio d’oro», realizzato dai fratelli Borghi di Malnate (Fig. 4). Non era la prima volta che essi lavoravano per il duomo: nell’anno precedente, il 1931, avevano creato due preziose corone d’oro destinate alla statua mariana rinascimentale della cattedrale19, a proposito delle quali, nel maggio 1934, il vescovo raccomandò: «siano ben custodite […], e si usino nelle principali solennità, o almeno nella festa dell’Assunta»20.

L’ostensorio divenne il simbolo delle giornate del Congresso, tanto che la sua immagine stilizzata fu utilizzata sia sulla copertina dell’opuscolo dedicato che si stampò21 (Fig. 5) sia per i gadgets che si realizzarono per l’occasione (Fig. 6).

Secondo la documentazione disponibile, le gemme e i metalli preziosi dell’ostensorio sarebbero stati donati dalla comunità locale22, circostanza ben ammissibile, dato che a quell’epoca in molte chiese della diocesi comasca vennero commissionati pregiati arredi grazie ai gioielli donati dal popolo. Appare però inverosimile che, nel caso specifico di questo ostensorio, siano state impiegate le gemme dei monili elargiti, vista l’omogeneità e la regolarità caratterizzanti le pietre che lo ornano. Nei casi in cui ciò accadeva, i manufatti, specialmente qualora si trattasse di diademi o corone, risultavano ornati da gemme tra loro eterogenee proprio perché ottenute dalle gioie donate. Un esempio di questo tipo è offerto da un altro manufatto della stessa ditta Borghi, e cioè una coppia di diademi del 1937 per l’effigie mariana miracolosa del santuario della Madonna della Neve di Vercana (CO). Il parroco locale portò personalmente a Malnate i tre etti d’oro che aveva raccolto e testimoniò per iscritto che «consegnato l’oro si assistette alla fusione, la quale venne fatta dapprima all’acido nitrico, poi al crogiuolo. Da questo ne uscirono 190 grammi di oro puro. Ottenuta dai giovani fratelli l’assicurazione che tutto sarebbe stato impiegato nel comporre la corona, si lasciò pure ad essi la vecchia raggera d’argento, proveniente da Palermo (1600), perché l’indorassero, la ingemmassero colle gemme levate in parte dagli anelli offerti e rimanesse così l’appoggio nel quale innestarvi la nuova corona»23. Le raggiere palermitane, che erano state donate nel XVII secolo a seguito dell’emigrazione da Vercana in Sicilia, sono quelle che adornano abitualmente la sacra immagine della Madonna con il Bambino. In occasione delle feste vi vengono sovrapposti i due diademi realizzati dai fratelli Borghi (Fig. 7). Entrambe le coppie di manufatti sono ornate da pietre fra loro diseguali.

La preziosità dell’ostensorio del duomo di Como è legata quindi, oltre che al raffinato lavoro di esecuzione, allo stesso materiale costituente, trattandosi in gran parte di oro24. Al termine del Congresso Eucaristico, esso fu portato in solenne processione, come si legge in una relazione dell’epoca: «Il carro trionfale, ornato da bellissimi cespi di fiori, è sormontato da ricco baldacchino di broccato d’argento antico, fissato al carro stesso. Ai fianchi delle otto aste dorate stanno altrettanti paggetti vestiti di velluto nero con ornamenti in argento. Due paggetti più piccoli sono davanti al tronetto del Santissimo e recano grappoli d’uva e spighe di frumento. Altri paggetti precedono il carro e gettano fiori. L’Ostensorio è appoggiato su un alto inginocchiatoio ricoperto con ricchi addobbi di seta»25 (Fig. 8).

Tra realismo e simbolismo

L’ostensorio realizzato dai fratelli Borghi per la cattedrale di Como è di notevoli dimensioni (altezza = 80 cm; larghezza ricettacolo = 23,5 cm) e pesa all’incirca 6 kg. Si tratta di un’opera in oro con decorazioni in argento e gemme. Per intenzione e desiderio del vescovo dell’epoca, Alessandro Macchi, il manufatto doveva espressamente richiamare la facciata della cattedrale26 (Fig. 9). Si tratta pertanto di un ostensorio di tipo architettonico, nel quale la facciata del duomo di Como non viene rappresentata del tutto realisticamente. Grazie a una serie di espedienti tecnico-artistici, l’opera ne mette piuttosto in luce, con sapiente ricercatezza e attraverso trasposizioni e artifizi decorativi, i caratteri salienti, senza dimenticare di ricorrere a quei simboli specificamente eucaristici che designano lo scopo dell’oggetto.

Il piede ha forma ottagonale e si presenta gradinato secondo un disegno che rimanda alla modanatura dello zoccolo della cattedrale. Tale soluzione compendia la necessità di raffigurare la base dell’edificio reale con quella di caratterizzare un oggetto sacro, destinato a contenere il cibo di rigenerazione e di vita eterna, simboleggiate proprio dall’ottagono27. La decorazione si riallaccia al tema della eucaristia e della carità. La parte superiore dello zoccolo è ornata da un’applicazione a girali vitinei, alla quale si alternano due immagini scelte dal repertorio simbolico paleocristiano. La prima trova il proprio archetipo nelle cripte di Lucina del cimitero di S. Callisto e si tratta del «pesce con cestello con pane» (III sec.)28 (Fig. 10). La seconda immagine deriva da un motivo diffuso, e desunto in qualche misura già dall’iconografia dell’arte classica, ossia quello delle due colombe, simbolo dell’anima, che si abbeverano a un vaso (la «coppa della vita») o, più tipicamente nell’arte cristiana, che beccano lo stesso tralcio di vite29. Nel caso specifico, la coppa è rappresentata dal calice di un fiore.

La superficie superiore del piede è suddivisa da costoloni lisci in otto specchiature terminanti a cuspide, modellate secondo il disegno delle nicchie che compongono il polittico marmoreo posto sopra il portale di accesso alla cattedrale. Tali specchiature si presentano concave e sono ornate alternativamente da un lapislazzuli e da una figurina modellata in argento. I lapislazzuli hanno forma romboidale (metà dei lati dell’ottagono) e superficie leggermente concava, adeguata a quella delle specchiature in cui sono inseriti. Risultano vivacizzati da un bordino a milligrana. Ciascun castone presenta un profilo liscio, con angolo a meandro regolare, bordato esternamente da cornice a cordone intrecciato, elemento decorativo ampiamente usato nella facciata della cattedrale e che, in particolare, costituisce il contorno marmoreo più interno del portale principale d’ingresso (Fig. 11). Le piccole applicazioni in argento alternate ai lapislazzuli raffigurano simboli legati al sacrificio di Cristo, e cioè l’Agnello di Dio, il Serpente innalzato da Mosè nel deserto30, due Colombe che si abbeverano a un calice, il Pio Pellicano (Fig. 12).

La figura dell’ottagono è ripresa nel colletto sommitale del piede, modanato e caratterizzato dalla presenza di una fascia costituita da otto gemme di eliotropio a forma di parallelepipedo rettangolo, bordate a milligrana. Il contrasto realizzato dall’inserimento della pietra dura potrebbe alludere all’ingresso nella cattedrale e, quindi, nel Mistero eucaristico. L’eliotropio è un calcedonio verde scuro punteggiato di inclusioni rosse, dovute alla presenza di ematite. Pertanto esso unisce il colore della Speranza a quello della Carità derivata dal sangue versato da Cristo31. Il mantenimento della forma ottagonale, che è quella generalmente adottata nel fonte battesimale, indica anche l’ingresso nella Chiesa32, non come edificio, ma come Corpo mistico.

La facciata della cattedrale di Como è stata interpretata in passato come un grande polittico. Al suo interno spicca in particolare il polittico a cinque nicchie soprastante l’ingresso centrale, raffigurante la Madonna col Bambino tra S. Giovanni Battista e S. Abbondio (patrono della diocesi di Como) e, ai lati, i SS. Proto e Giacinto, martiri le cui reliquie si conservano nell’altare maggiore dell’edificio (Fig. 13). È stato evidenziato come quello del polittico sia un codice di lettura essenziale per comprendere la sintassi della facciata del duomo di Como: attraverso di esso ricorre l’immagine della Gerusalemme celeste33. I Borghi intesero perfettamente tale «codice» e vi si riferirono per costruire il «nodo» del manufatto (Fig. 14). Confrontando con quest’ultimo il polittico a cinque nicchie, si osserva che, al di là delle semplificazioni necessarie alla rappresentazione (si veda la mancanza delle scanalature o l’arrotondamento delle colonnette che separano le nicchie), il disegno dell’impianto architettonico è perfettamente rispettato, fin dove possibile, compresi, ad esempio, i segni dei blocchi di marmo della parete e la sagoma delle piccole figure superiori del polittico reale, irriproducibili però nei dettagli per carenza spaziale. Il nodo presenta sezione circolare e alla base è caratterizzato da una cornice a cordone intrecciato, identica a quella presente nell’originale. Le nicchie sono in numero di otto (e nuovamente si ripete il tema della resurrezione e della vita eterna) e contengono le effigi in argento dei primi sette santi vescovi della diocesi di Como, indicati per nome e individualmente caratterizzati, attornianti la immagine argentea della Madonna col Bambino. Partendo dalla destra della figura mariana e procedendo in senso antiorario sono rappresentati, secondo un ordine che non è quello cronotattico: S. Felice con un libro (Fig. 15), S. Provino con la croce (Fig. 16), S. Esuperanzio benedicente, S. Console con una mano sul petto, S. Eusebio indicante il cielo con un dito, S. Amanzio benedicente, S. Abbondio benedicente.

Dall’interno del nodo si innalza una forma troncoconica, terminante in sommità con un internodo a forma di prisma esagonale regolare, su ciascuna delle cui facce è inserito un cabochon circolare in lapislazzuli, caratterizzato, come nei casi già visti, da bordo in milligrana. Se l’ottagono significa resurrezione, l’esagono, secondo la simbologia di S. Ambrogio, è figura della morte, intesa nell’accezione battesimale, e cioè di morte al peccato, preludio a uno stato di grazia34: rappresenta quindi, nuovamente, una concezione di rinascita. Rispetto all’architettura della cattedrale, la scelta dell’esagono regolare, che è comunque una figura inscrivibile nel cerchio, simbolo di perfezione, potrebbe essere spiegata con la presenza dei sei cabochon circolari, che costituiscono un raddoppiamento del numero dei tre tondi posti sopra il portale maggiore35.

Riprendendo una tradizione consolidata, i Borghi interposero tra il fusto e il ricettacolo due testine angeliche di apparente sostegno a quest’ultimo, ma, anziché anteriormente e posteriormente, le posizionarono lateralmente (Fig. 17). Attraverso accorgimenti come questo, l’ostensorio diviene fruibilmente osservabile da ogni lato.

Il ricettacolo è la parte più complessa del manufatto, nonché quella che richiama più direttamente la facciata della cattedrale, rappresentata nel recto. Occorre premettere che tale facciata è suddivisa in tre scomparti da quattro lesene e che il ricettacolo si riferisce alla parte centrale, bordata lateralmente da cornici che richiamano le lesene più esterne. Restano pertanto escluse dalla riproduzione le due lesene centrali e le due ali laterali. Da un punto di vista realistico, nell’ostensorio si riconoscono gli elementi architettonici fondamentali dell’edificio: il rosone; le due lesene laterali, ciascuna formata da tre nicchie sovrapposte, pari alla metà di quelle delle lesene vere; i gattoni sommitali; il gugliotto e le guglie laterali. Occorre tuttavia specificare che nelle lesene della facciata del duomo sono riconoscibili due livelli, uno superiore, formato dalle nicchie contenenti statue di santi, e uno inferiore, composto da serie di sei formelle a rilievo sovrapposte, raffiguranti simboli cristologici e mariologici, immagini veterotestamentarie, effigi di santi e altri motivi. All’interno della già citata concezione della facciata come grande polittico, la fascia delle formelle è stata interpretata come la predella del polittico stesso. Anche nell’ostensorio vengono effettivamente distinti un sotto e un sopra, evidenziando la predella tra due linee orizzontali costituite dalla solita cornice a cordone ritorto.

Analizziamo anzitutto tale predella, che è costruita su lastra d’argento cesellata e parzialmente dorata (Fig. 18). Nel manufatto, la gamma tematica offerta dalle formelle del duomo è risolta, alla base delle due lesene laterali, con la raffigurazione di un giglio argenteo, inquadrato all’interno di una cornice a cuspide. L’idea non è banale, ma si riallaccia al fatto che molte delle formelle del duomo rappresentano, a scopo simbolico, motivi floreali o, più in generale, vegetali. Nella parte di predella compresa tra le due lesene, è cesellata una scena ambientata in un giardino di gigli, con figure femminili e maschili, impegnate nella preghiera o nel canto sostenuto da un’arpista e da una violinista disposte ai due lati. Si può asserire che la scena riassuma bene i molteplici motivi presenti nelle formelle, presentando una sorta di giardino della purezza e della virtù, sospeso tra terra e cielo, tra umanità e santità.

Sopra la detta scena si trova la parte principale dell’ostensorio, quella con la teca, inquadrata lateralmente dalle già nominate lesene nelle cui tre nicchie, a differenza delle figure di santi scolpite nell’edificio, sono collocate, di nuovo, alcune effigi di vescovi della diocesi di Como. Ogni immagine è connotata da un’abbreviazione del nome del presule di riferimento ed appare diversa dalle altre per posizione e/o atteggiamento. Come nel caso delle lesene più esterne del duomo, che presentano sei nicchie di santi anche nell’angolo di facciata rivolto verso nord e verso sud, nell’ostensorio le nicchie contenenti immagini vescovili sono riprese sui lati, consentendo, come si è già detto, una fruibilità visiva del manufatto in ogni sua parte (Fig. 19). Anteriormente, sul lato sinistro, procedendo dall’alto verso il basso si riconoscono i santi vescovi: Eupilio con una mano sul petto, Giovanni a mani giunte, Prospero a mani tese; analogamente a destra: Agrippino con una mano sul petto, Eutichio indicante verso l’alto e Flaviano con una mano sul petto. Sul bordo sinistro esterno: Vittorino con una mano sul petto, Rubiano con una mano sul petto e Giovanni indicante verso l’alto. Sul bordo destro esterno: Ottaviano orante, Adalberto un una mano sul petto e Martiniano con una mano verso l’alto.

La teca riprende l’immagine del rosone e questo non è soltanto un buon espediente tecnico-artistico, ma anche e soprattutto simbolico. Il cerchio è innanzitutto «una immagine della compiutezza e della perfetta corrispondenza interna»36, tanto che negli ostensori raggiati la teca, come del resto l’ostia, è di forma circolare. Il rosone rimanda inoltre alla simbologia della stella e della luce37 e, così come il rosone della cattedrale lascia filtrare la luce divina38, la teca della Eucaristia irradia la luce di Cristo Salvatore. Infatti, pur essendo un ostensorio architettonico, come in un ostensorio raggiato dalla teca si diparte la luce, rappresentata da raggi fiammeggianti e lanceolati, cesellati nella lastra di fondo (Fig. 20).

Nell’ostensorio d’oro il bordo interno della teca è costituito da gemme circolari viola sfaccettate e incassate a baffo, con bordo a milligrana; quello esterno da una fascia in lapislazzuli, inserita, come in un merletto, in una cornicetta a giorno cesellata e traforata (Fig. 21). Il blu/oro del lapislazzuli è il colore più utilizzato nel manufatto. Al di là delle discussioni linguistiche circa la coincidenza del lapislazzuli e dello zaffiro nella Bibbia, con tutte le conseguenze del caso39, si ritiene qui che la centralità debba essere data non tanto al tipo di pietra, che esprime comunque un concetto di sacralità40, quanto al suo colore. Il blu è stato definito il più immateriale e il più puro dei colori, legato alla verità, nonché, essendo un colore mariano, quello che esprime il distaccamento dai valori del mondo e la liberazione dell’anima41. L’uso del viola può essere invece ricondotto in questo contesto alla tradizione cristiana che ne fa il colore dei vescovi42: la presenza sull’ostensorio delle effigi dei primi vescovi comensi e il colore viola che si accompagna alla teca esprimerebbero dunque la partecipazione al Mistero eucaristico della Chiesa locale di Como, identificata nella sua cattedrale.

Dentro la teca, la preziosa lunetta d’oro è ornata al centro da uno zaffiro ovale sfaccettato, la «gemma delle gemme»43, che nel cristianesimo rappresenta sia la contemplazione44 che la purezza e la forza luminosa del Regno di Dio45. Lateralmente ad esso sono incassate due serie di sette diamanti ovali con taglio a rosetta, di dimensioni decrescenti procedendo verso l’esterno (Fig. 22). Questa pietra dalle qualità eccezionali è simbolo della incorruttibilità dell’anima e la vita eterna46. Tutte le gemme sono incassate a punte.

Intorno alla teca sono disposte figure d’angelo oranti e adoranti, ripresa e adattamento di quelle testine di cherubino che ornano le teche di molti ostensori raggiati dei secoli XVII-XIX. Alla base due angeli sostengono una ghirlanda ornata da tanti piccoli cabochon tondi in pasta vitrea azzurra, che creano una sorta di cielo, per la scena sottostante della predella, attraverso cui si irradia la luce del rosone solare (Fig. 23).

La base della teca è ornata da una bordura di archetti trilobi che riprendono quelli sottostanti al polittico a cinque nicchie già citato. Minuziosa e particolareggiata, nonché molto simile all’originale, risulta la lavorazione delle guglie sommitali, elevate fra i caratteristici gattoni (Fig. 24). La loro realizzazione è frutto di un fine lavoro di pazienza. La croce del gugliotto centrale poggia su una sfera in agata, le cui sfumature simulano i cangianti riflessi metallici dell’originale (Fig. 25). Il sottotetto, come nel modello, è ornato di archetti pensili trilobati.

La parte posteriore del ricettacolo presenta una decorazione semplificata. In corrispondenza alle lesene ritroviamo in predella il solito fiore di giglio e superiormente tre nicchie abbozzate e senza profondità né figure (Fig. 26). Intorno alla teca raggiata e circondata da testine alate di cherubino è costruita una croce, il cui braccio verticale divide la predella in due parti, in ciascuna delle quali sono cesellate, specularmente tra loro, tre pecore aureolate in un campo di gigli. Si tratta forse di una raffigurazione del «piccolo gregge» a cui allude Gesù nel vangelo di Luca47 (Fig. 27).

Abbreviazioni

ACCo: Archivio della Cattedrale di Como
APGr: Archivio della Parrocchia di Gravedona
APVe: Archivio della Parrocchia di Vercana
ASDCo: Archivio Storico Diocesano di Como

  1. Stanislao e Cornelio avevano anche un fratello, Riccardo Luigi Vittorio (n. 1900 aprile 5), di professione decoratore, e due sorelle: Maria Giuseppa Piera (n. 1903 marzo 20) e Giuseppina Luigia Vittorina (n. 1907 dicembre 18). I genitori di Stanislao si erano sposati il 26 febbraio 1898 e la famiglia viveva a Fino Mornasco in via Odescalchi. I genitori di Natale Luigi si chiamavano Giovanni Borghi e Luigia Casartelli ed erano entrambi contadini. Tutti i dati anagrafici sono stati desunti da www.ancestry.it (consultazione 2020 maggio 11). []
  2. G. Maresca, Stanislao Borghi: una vita per l’arte, in “La Cava”, V, Varese 1998, p. 90; B. Majorino, Maestri di bottega nella provincia varesina, Gavirate 2000, p. 18. []
  3. Manuale della Provincia di Como 1910, Como 1910, p. 320. []
  4. Su Giovanni Redaelli cfr. A. Bernareggi, Le arti minori all’Esposizione d’arte sacra a Milano, in “Arte cristiana”, X, 7, Milano 1922, pp. 205-208. []
  5. Per le notizie biografiche fin qui presentate cfr. G. Maresca, Stanislao Borghi, 1998, p. 90; B. Majorino, Maestri di bottega, 2000, p. 18. []
  6. Testimonianza orale dei discendenti di Stanislao Borghi. []
  7. G. Maresca, Stanislao Borghi, 1998, p. 91; B. Majorino, Maestri di bottega, 2000, p. 18. []
  8. P. Venturelli, Argentieri e orefici a Milano e in Lombardia dal tardo Settecento agli anni Trenta, in Le arti decorative in Lombardia nell’età moderna 1780-1940, a cura di V. Terraroli, Milano 1998, 1999, pp. 336-339. []
  9. Testimonianza orale dei discendenti di Stanislao Borghi. []
  10. Francesco Ser Gregori è un argentiere gravedonese vissuto tra XV e XVI secolo. Di lui sono note, oltre alla perduta croce di Gravedona del 1508, una croce del 1489, conservata nella chiesa di S. Martino a Pianello del Lario (CO), e quella del 1513 appartenente alla chiesa di S. Maria in Martinico a Dongo (CO). Si attribuisce allo stesso autore la croce di Cernobbio, databile al 1508. S. Monti, Storia ed arte nella Provincia ed antica Diocesi di Como, Como 1902, pp. 170-173. Nel 1927, a seguito del furto, la fabbriceria di Gravedona incaricò l’ing. Antonio Giussani  di scegliere l’artefice per il rifacimento della croce. Il Giussani scrisse che «solo dopo varie ricerche ebbi la fortuna d’incontrarmi nei fratelli Stanislao e Cornelio […]. L’esame di numerose riproduzioni di oggetti antichi […] e di varie opere nuove ispirate al gusto dei classici, m’incoraggiò ad affidarne loro l’esecuzione […]». A. Giussani, La croce, il calice e la pace di Gravedona, in “Rivista Archeologica della Provincia di Como”, 96-98, Como 1929, pp. 175-184. []
  11. M. Zecchinelli, Le Tre Pievi. Gravedona Dongo Sorico, Milano 1951, p. 45. []
  12. Insieme alla croce e al calice, vennero rubati altri manufatti, fra cui una pace ritenuta di epoca compresa tra fine Duecento e inizio Trecento. Gli oggetti furono pubblicati da Santo Monti  a inizio ’900, in S. Monti, Storia ed arte…, 1902, pp. 165, 166, 171, 172, 178. []
  13. Sul calice fu impressa un’iscrizione che fa memoria dell’autore (opus stanislai burgi de fino mornasco […]) e che ricorda brevemente la storia dell’oggetto. G. Maresca, Stanislao Borghi, 1998, pp. 96-97. []
  14. APGr, 17, “Spese varie 1959”. []
  15. APGr, 1, Cronicon; APGr, 17, “Spese varie 1960”. []
  16. APGr, 1, Cronicon. []
  17. Testimonianza orale dei discendenti di Stanislao Borghi. Cfr. anche G. Maresca, Stanislao Borghi, 1998, p. 92; B. Majorino, Maestri di bottega, 2000, p. 19. []
  18. Testimonianza orale dei discendenti di Stanislao Borghi. []
  19. Agli atti della visita pastorale del 4 maggio 1934, il vescovo Alessandro Macchi scriveva che «ci è particolarmente grato ricordare come in occasione del I Congresso Mariano la preziosa statua dell’Assunta con il Bambino veniva solennemente incoronata nel maggio del 1931 dall’Eminentissimo Cardinale Schuster, nostro Metropolita, e si arricchiva il tesoro del Capitolo con due corone d’oro, offerte dalla popolazione ed eseguite dai Fratelli Borghi». ACCo, A VI, 3-4, “Visite Pastorali e Vicariali”, Alessandro Macchi (1932-1941). []
  20. Ibidem. []
  21. Christum Regem Eucharisticum Venite Adoremus. Primo Congresso Eucaristico Diocesano, Como 1932. In ASDCo, Ordinariato, 28, “I Congresso Eucaristico Diocesano”. []
  22. «[…] poiché l’oro, l’argento, le pietre preziose di cui si compone son stati offerti da famiglie cittadine in buon numero, così si può dire veramente che esso è l’espressione del culto e della devozione di tutta la città verso il Ss. Sacramento, ne raccoglie i desideri, le preghiere, gli omaggi». Così si espresse un anonimo redattore, da identificarsi forse nel sacerdote don Giacinto Turazza. Christum Regem…, 1932, p. 20. []
  23. APVe, Registri, “Libro delle Cronache del sacerdote G. F. Giossi”. Cfr. anche R. Pellegrini, Il bene fatto bene non fa rumore, Vercana 2017, pp. 17-18. []
  24. Infatti durante la guerra l’ostensorio venne depositato, insieme agli oggetti più preziosi, «nel luogo prestabilito» e fu ritirato alla fine del conflitto. ACCo, IV/3, 3. []
  25. Bollettino ecclesiastico ufficiale della diocesi di Como, VI, 10, Como 1932, p. 295. In ASDCo, Ordinariato, 28, “I Congresso Eucaristico Diocesano”. []
  26. Christum Regem, 1932, p. 20. Cfr. anche gli atti della visita pastorale del 1934 in ACCo, A VI, 3-4, “Visite Pastorali e Vicariali”, Alessandro Macchi (1932-1941). []
  27. J. Chevalier-A. Gheerbrant, Dictionnaire des Symboles, Paris 2012, p. 793. Il tema venne sottolineato dal cardinale e arcivescovo di Milano Schuster, che intervenne alle solennità della giornata conclusiva del Congresso: «A che la vita presente senza la speranza d’un domani senza limiti di tempo? A che vivere se non c’è una vita che non finirà? Come dice S. Agostino: “A che vivere splendidamente, se non è un vivere eternamente?”. Ebbene la vita eterna ci è fornita dall’Eucaristia, ma per vivere eternamente lassù, dobbiamo quaggiù vivere intimamente con Dio […]». Bollettino ecclesiastico, 1932, p. 292. []
  28. G. P. Kirsch, Le catacombe romane, Roma 1933, p. 192. []
  29. J. Chevalier-A. Gheerbrant, Dictionnaire, 2012, pp. 310-311; L. Charbonneau-Lassay, Il Bestiario del Cristo, Roma 1994, II, pp. 26-27. []
  30. «E come Mosè innalzò il serpente nel deserto, così bisogna che sia innalzato il Figlio dell’uomo, perché chiunque crede in lui abbia la vita eterna» (Gv 3, 14-15). []
  31. Anche l’etimologia gioca un ruolo importante, essendo l’eliotropia la proprietà di diffrangere i raggi del sole: l’ingresso nel tempio diffonde la luce divina. G. Ferrofino-L. Orsini, Ori e gemme in uso sacro, Alessandria 1987, p. 113; G. Devoto-A. Molayem, Archeogemmologia, Roma 1990, pp. 38-39. []
  32. J. Chevalier-A. Gheerbrant, Dictionnaire, 2012, p. 793. []
  33. A. Rovi, Immagini e simboli di santità, in A. Maggiolini et al., La Cattedrale sul lago, Milano 1995, pp. 74-75. []
  34. «Le plan hexagonal, qui est parfois adopté [pour les fonts baptismaux, ndr], insiste sur l’autre aspect du baptême, l’ensevelissement de l’être de pêchè dans son tombeau, prélude de sa renaissance en un être de grâce». J. Chevalier-A. Gheerbrant, Dictionnaire, 2012, p. 793. []
  35. I tre tondi raffigurano Adamo, Eva e lo Spirito Santo. A. Rovi, Immagini e simboli, 1995, pp. 82-83. []
  36. G. Heinz-Mohr, Lessico di iconografia cristiana, Milano 1984, p. 95. []
  37. M. Feuillet, Lessico dei simboli cristiani, Roma 2006, p. 98. []
  38. «[…] una luce solare che entra nel tempio, ma anche una irradiazione di presenza misterica che esce da esso […]». F. Rainoldi, Templum Mariae Virginis, in A. Maggiolini et al., La Cattedrale, 1995, p. 107. []
  39. Alcuni passi biblici legati alla teofania si riferirebbero al lapislazzuli anziché, come si traduce solitamente, allo zaffiro. G. Ferrofino-L. Orsini, Ori e gemme, 1987, p. 127. []
  40. J. Chevalier-A. Gheerbrant, Dictionnaire, 2012, p. 650. []
  41. G. Heinz-Mohr, Lessico…, 1984, p. 112; J. Chevalier-A. Gheerbrant, Dictionnaire, 2012, pp. 148-149. Cfr. anche G. Ferrofino-L. Orsini, Ori e gemme, 1987, p. 126. []
  42. J. Chevalier-A. Gheerbrant, Dictionnaire, 2012, p. 40. []
  43. Così chiamato da alcuni autori per il suo colore e da altri per le sue virtù, poiché «fortifica il corpo, e gli dà buon colore; raffredda gli ardori della lussuria e fa l’huomo casto e pudico; […] fa chi lo porta pacifico, amabile, pio, e divoto, e informa l’anima alle buone opere». L. Dolce, Libri Tre nei quali si tratta delle diverse sorti delle Gemme che produce la Natura, della qualità, grandezza, bellezza, e virtù loro, Venezia 1565, II, pp. 20, 35, 37, 38, 48, 60, 61, 65, 71. []
  44. G. da S. Gimignano, Summa de exemplis, et rerum similitudinibus locupletissima, Venezia 1584, p. 67, 69, 70, 75. []
  45. J. Chevalier-A. Gheerbrant, Dictionnaire, 2012, p. 978. []
  46. G. Ferrofino-L. Orsini, Ori e gemme, 1987, p. 71; J. Chevalier-A. Gheerbrant, Dictionnaire, 2012, p. 407. []
  47. «Non temere, piccolo gregge, perché al Padre vostro è piaciuto di darvi il suo regno» (Lc 12, 32). []