Anita Paolicchi

Arte orafa a Pisa fra Sei e Settecento. Il Duomo e la città

di Daria Gastone, Pisa 2020, Astarte Edizioni, 252 pp., ill. col., ISBN 979-12-80209-04-7

Questo volume di Daria Gastone inaugura la collana “Arti congeneri”, diretta da Antonella Capitanio, della casa editrice pisana Astarte Edizioni.

Frutto della tesi dottorale discussa da Daria Gastone all’Università di Firenze nel marzo del 2018, Arte orafa a Pisa fra Sei e Settecento rappresenta la sintesi del lungo e puntuale lavoro di ricerca condotto dall’autrice in questi anni sia negli archivi di varie istituzioni del territorio sia nel corso di campagne di schedatura del patrimonio mobile della diocesi pisana.

Come osservato da Capitanio nella prefazione, questo studio colma una lacuna negli studi sulle antiche argenterie marcate che hanno conosciuto in Italia a partire dagli anni Settanta del Novecento un’accelerazione, ma che rimangono ancora incompleti. In particolare per quanto riguarda la Toscana, ad eccezione di Lucca e Firenze, città per le quali gli studi vennero favoriti dalla presenza di consistenti fondi archivistici relativi all’attività degli uffici della Zecca, le vicende storiche e l’assenza di un’organica documentazione per alcune aree del territorio hanno finora rallentato la precisazione dell’identità degli orafi attivi in città come Pisa, che perdendo l’autonomia amministrativa una volta inglobate nello Stato mediceo avevano perso anche la propria autonomia legislativa nell’ambito della produzione orafa.

Il primo capitolo, intitolato “Organizzazione del mestiere e regole della produzione”, fornisce alcune coordinate introduttive sull’argomento, narrando sinteticamente l’origine e l’evoluzione dell’Arte degli orafi pisani, ripercorrendo le normative emanate fra il Trecento e il Settecento, e si chiude con un interessante paragrafo sulla distribuzione delle botteghe orafe nel centro urbano della città.

Il secondo capitolo, “L’oreficeria a Pisa nel Seicento. Origine e sviluppi di un contesto produttivo coeso”, entra invece nel vivo della discussione, introducendo i protagonisti del mercato e del sistema produttivo pisano, caratterizzato da legami familiari (si ricordano per esempio le genealogie dei de’ Lani, i Cominotti, gli Zucchetti, i Tamburini) e strette collaborazioni fra maestranze orafe che condividevano spazi ed esperienze. L’ultimo paragrafo di questo capitolo si sofferma sulla “nuova generazione” di orafi attivi a cavallo fra Seicento e Settecento, erede di una consolidata tradizione locale, ma al contempo foriera di un rinnovamento dovuto ai rapporti con l’ambito artistico capitolino, con i quali queste giovani maestranze intessono relazioni e dal quale importano modelli. Figura centrale di questo scorcio di secolo appare essere Giovanni Francesco Norci, che prima si unisce in compagnia con altri orafi coetanei affermandosi come erede del patrimonio culturale di Giacinto Ranieri Fortini, e successivamente si ritrova a capo di una bottega attorno alla quale gravitano orafi più giovani, un vero e proprio “crocevia produttivo per la gran parte degli argentieri attivi a Pisa a cavallo dei due secoli” (p. 68).

Il terzo capitolo, “L’arte orafa nel Duomo di Pisa fra Sei e Settecento. Committenza medicea e devozione pisana”, è dedicato alla presentazione puntuale delle commissioni medicee per il Duomo e si sofferma in particolar modo sull’analisi dei modelli adoperati dagli orafi. Protagonisti di questo capitolo sono indubbiamente Sebastiano Tamburini e Giovanni Battista Foggini.

La prima opera a essere presentata è il ciborio d’argento della cappella dell’Annunziata, realizzato nell’ambito della politica condotta da Cosimo III a sostegno delle pratiche devozionali dei propri sudditi. Come ben evidenziato dall’autrice, si tratta di un’opera di “concertazione”: oltre all’orafo Sebastiano Tamburini e a Giovanni Battista Foggini, autore del progetto e supervisore insieme a Giovanni Vambrè, la realizzazione del ciborio vide coinvolte diverse figure professionali, come intagliatori, pittori, ricamatori, doratori, sia pisani che fiorentini.

Il ciborio, il cui impianto esagonale si rifà ad alcuni precedenti, coniuga abilmente elementi visivi tipici della tradizione fiorentina e novità romane, soluzione formale che verrà a lungo replicata in ambito pisano negli apparati festivi dedicati alla celebrazione dell’Eucarestia.

Il secondo tema affrontato in questo capitolo è il corredo orafo dell’altare di San Ranieri nella cappella dell’Incoronata, che, come altre opere per enti ecclesiastici cittadini, vide nuovamente coinvolto lo scultore fiorentino Foggini; parte di questi arredi andò dispersa nel corso del tempo e le loro dimensioni e il loro aspetto è noto solo grazie alle tracce documentarie relative alla loro commissione. Questa disamina è anche occasione per alcune precisazioni sull’attribuzione, finora imprecisa ed ipotetica, dell’autore del gradino d’altare in argento: le testimonianze documentarie identificate da Gastone permettono di ricondurlo con certezza al fiorentino Livio Vittorio Schepers, attivo nella bottega del Norci agli inizi del Settecento prima di trasferirsi con successo a Genova e infine a Napoli. Quanto agli angeli d’argento sull’urna di San Ranieri, evidenti differenze nella modellazione, nel trattamento dei volumi, nella gestualità e nelle fisionomie, concorrono all’individuazione di due autori distinti per l’uno per l’altro: come suggerito dall’autrice, il primo potrebbe verosimilmente essere opera di Giovanni Francesco Norci, coadiuvato da alcuni lavoranti, e, quando questi venne sospeso dall’incarico, la sua realizzazione potrebbe essere stata portata a termine da Orazio Dalli (p. 79), mentre il secondo può essere identificato in quello che, stando ai documenti, venne realizzato circa un decennio dopo dell’argentiere fiorentino Lorenzo Loi (p. 82).

A queste iniziative per il Duomo fecero seguito, sempre nel Settecento, altri cantieri artistici ecclesiastici, ai quali è dedicato il quarto capitolo, “L’oreficeria fra le arti. Aspetti della produzione suntuaria a Pisa nel Settecento”. Le chiese del territorio furono oggetto di interventi di riqualificazione e ammodernamento, che riguardarono sia l’impianto strutturale, sia l’arredo interno, sia l’ornato plastico-pittorico: questi interventi furono occasione di incontro fra maestranze eterogenee. Un ruolo-chiave in questo contesto venne giocato dai fratelli Giuseppe e Francesco Melani – pittori, progettisti e architetti nati negli anni Settanta del Seicento e morti entrambi negli anni Quaranta del secolo successivo –, i quali vennero fatti oggetto di grande apprezzamento per la loro capacità creativa. Nel Museo Nazionale di Palazzo Reale a Pisa sono conservati alcuni loro studi per arredi ecclesiastici destinati al Duomo: cornici per carteglorie, candelieri, vasi e reliquiari, in parte con certezza realizzati da orafi pisani, come risulta dalla documentazione conservata negli archivi.

Nell’economia del testo di Daria Gastone, questa traccia, in cui il Duomo è posto come centro gravitazionale della trattazione, diventa occasione per contestualizzare l’attività degli orafi anche in altre chiese del territorio, il cui patrimonio è stato purtroppo oggetto di requisizioni a partire dalla fine del Settecento.

Tra i punti di forza che rendono questo volume un contributo fondamentale per la conoscenza della storia dell’oreficeria è la prima delle appendici, ovvero una raccolta dei profili biografici dei quasi ottanta orefici ricordati nel volume, molti dei quali finora rimasti nell’ombra, dei quali l’autrice valorizza il ruolo nell’ambito dell’Arte degli orafi, evidenziando i momenti salienti della loro attività e precisando la localizzazione della loro bottega nel tessuto urbano. Il testo è poi completato da un’appendice di 51 documenti in gran parte inediti, così come inedite sono le fotografie che, insieme a disegni e illustrazioni antiche, ne costituiscono l’apparato iconografico.