Angelo Antonio Faraci

angelofaraci20@gmail.com

Su alcuni inediti argenti della chiesa di Santa Maria Maggiore di Pietraperzia

DOI: 10.7431/RIV21042020

Situato nel cuore della Sicilia, l’antico principato1 di Pietraperzia conserva molteplici testimonianze del proprio glorioso passato. Il piccolo centro conobbe un grande fermento artistico tra Cinque e Seicento, ancora leggibile nelle opere dei maggiori interpreti del tempo da Antonello Gagini2 al pittore toscano Filippo Paladini3, maestri cooperanti in quel fenomeno culturale che i Signori del luogo alimentavano su modello della Corte spagnola. Questa “periferia” di Sicilia divenne in epoca moderna un raffinato ambiente attivo nella promozione del fiorente artigianato artistico di cui permangono le rilucenti opere in argento, talune, frutto della volontà di questa colta committenza. La ricerca e l’analisi di tali testimonianze consente di gettare nuova luce e confermare, ancora una volta, la sensibilità e il fasto che ha contraddistinto la città e la sua classe egemone.

Riemerge una parte della raccolta di suppellettili liturgiche custodite nella chiesa di Santa Maria Maggiore, punto nevralgico e luogo di rappresentanza per il casato nobiliare dei Branciforte  e dapprima dei Barresi che la scelsero per accogliere le loro sepolture4. Anche gli ecclesiastici, dal loro canto, hanno nel corso dei secoli incrementato notevolmente la raccolta di opere destinate alla celebrazione dei divini misteri. La loro preziosità è chiara manifestazione della grande fede espressa in conformità con il sentire del proprio tempo. La produzione artistica congiunta alla liturgia d’altronde possiede un plus aggiuntivo, poiché oltre ad avere uno scopo funzionale, ne gode di uno altamente rappresentativo e culturale.

L’inedito patrimonio della chiesa Madre offre una rassegna di manufatti che coprono un arco di tempo che va dal XVII alla prima metà del XIX secolo. La prima delle opere qui analizzate è un calice dorato il cui aspetto formale rinvia a soluzioni tipiche della produzione dei maestri palermitani sul tramonto del Cinquecento. Il vaso sacro è caratterizzato da una base circolare, da un nodo di forma ovoidale e da un decoro cesellato d’ispirazione floreale che investe l’intero corpo (Fig. 1). Si arricchisce, inoltre, con quattro immagini clipeate sul piede che identificano la possibile committenza domenicana, fiorente comunità stanziatasi nella città di Pietraperzia già nel 1521 per volere del marchese Matteo III Barresi5. Spiccano dunque la Vergine del Rosario, i Santi Domenico e Vincenzo Ferrer e Sant’Onofrio eremita, compatrono di Palermo. La figura della Madre di Dio col bambino, stante sopra la falce lunare, echeggia il prototipo della grande tavola della chiesa di San Domenico di Palermo, dipinta nel 1540 dal celebre Vincenzo degli Azani detto da Pavia6 (Fig. 2).  La formulazione iconografica del maestro manierista, diffusamente presa a modello come attestano le copie nel territorio siciliano7, fu replicata anche nelle arti suntuarie del tempo. Ancora una volta una testimonianza che rivela lo strettissimo rapporto tra le varie espressioni artistiche che, nella città di fine Cinquecento, convivono in un’assoluta e perfetta combinazione. L’affusolato nodo presenta inoltre gli usuali Arma Christi confacenti con la suppellettile liturgica per eccellenza, qual è il calice, contenitore del Sangue salvifico di Cristo. La raffinata committenza dell’opera sacra potrebbe, in qualche modo, intercettarsi tra le blasonate figure che per tutto il XVI secolo gravitavano intorno alle mura ancora fresche di calce del convento di San Domenico di Pietraperzia. Nella fattispecie si ricorda come già Donna Antonella Valguarnera, vedova del marchese Matteo III Barresi, fu munifica sostenitrice dei Padri predicatori, concedendogli nel 1534, terre e denaro per l’acquisto di «vasi sacri e attrezzi»8. Il calice non presenta marchi, sebbene sia facilmente accostabile a numerosi manufatti coevi, proponenti i medesi elementi decorativi, tra cui si citano le opere della chiesa Madre di Calascibetta, oggi nelle collezioni del Museo Diocesano di Caltanissetta9, e le variati offerte dai calici della chiesa Madre di Mazzarino10.

Ad una committenza nobiliare si deve l’inedito secchiello per l’acqua benedetta. Sulla conca d’argento dal profilo ottagonale prendono vita sette carnosi fiori che riempiono la quasi totalità della superfice dei singoli spicchi (Fig. 3). L’ornato floreale riproducente il tulipano, elemento declinato nelle arti dalla pittura ai marmi mischi11, trova riscontro in talune opere databili entro la fine del Seicento, tra i quali si segnalano il secchiello del 1685 dell’argentiere Didaco Russo della chiesa Madre di Regalbuto12, e quello del Tesoro di Sant’Anna nel Museo di Castelbuono, manufatto quest’ultimo che porta la sigla F.C.X d’ignoto argentiere13. L’ottavo segmento del sacro contenitore per le acque, reca uno scudo raffigurante un leone con le zampe mozzate, stemma gentilizio della famiglia Branciforte, principi di Pietraperzia (Fig. 4). Il nucleo araldico è racchiuso da una corona e dalle decorazioni a svolazzi congiunte nella parte inferiore tramite una collana onorifica da cui pende un montone; tale distintivo è certamente tra le più alte onorificenze nel sistema cavalleresco: il Toson d’Oro. L’inarrestabile ascesa e il prestigio raggiunto dalla casata Branciforte, tra la fine del Cinquecento e la prima metà del Seicento, è testimoniata da significativi riconoscimenti presso la Corona spagnola. Fabrizio, Grande di Spagna, ottenne con la cedola reale di Filippo III, del 6 aprile 1607, il cavalierato del Toson d’oro14, distinzione di cui si fa sfoggio nel ritratto ufficiale di Palazzo Butera a Palermo, oggi in collezione privata15. All’illustre esponente della nobile famiglia fa presumibilmente riferimento lo stemma apposto sul manufatto16; tuttavia va ricordato che ebbe il suddetto titolo onorifico anche Giuseppe I Branciforti, principe di Pietraperzia e di Leonforte, investito del collare da Carlo III nel 168217. La suppellettile non reca marchi a causa della sostituzione del fondo della conca, dove abitualmente si appongono i punzoni.

La committenza laica e la donazione d’opere in argento che ornano le immagini dei santi particolarmente venerati, sono aspetti facilmente riscontrabili nella tradizione siciliana. Tali azioni permisero ai casati nobiliari di trarre sicuramente lustro e prestigio agli occhi dell’intera comunità che, come sovente accade, consegna e assegna a specifiche effigi sacre la propria fede e devozione. Un esemplificativo caso è offerto dal Crocifisso della Cateva, opera pittorica su tavola databile al XIII secolo18, corredata da preziosi argenti, rimossi nel corso di un recente restauro (Fig. 5). Sul capo del Cristo, al quale il popolo pietrino ha tributato grande venerazione nei secoli, era stabilmente apposta una preziosa aureola raggiata, allineata, per aspetti prettamente stilistici, alla produzione palermitana. L’ornamento presenta, lungo l’inarcatura, motivi decorativi semplici e ariosi creati da volute e intervallati da grandi fiori a traforo. Sul bordo superiore corrono crescenti raggi a lance e a fiamme dal carattere spiccatamente barocco (Fig. 6).Un’altra sottile lamina d’argento sagomata a guisa di perizoma cingeva i fianchi del patetico Crocifisso. L’artificioso panno argenteo tuttavia non collimava con la foggia del perizoma dipinto sulla tavola. La tipologia fasciante con un nodo centrale che veste il Cristo, peculiare della tradizione figurativa tardogotica, veniva parzialmente coperta e alterata da quello in metallo prezioso, proponente una stretta banda di tessuto dalla chiara foggia tridentina. Il manufatto, in parte lacunoso, è percorso da elementi che evidenziano le profonde incisioni simulanti le falcature delle pieghe del tessuto in senso orizzontale. L’esuberante tipologia decorativa del perizoma caratterizzata da carnosi fogliami contrapposti, fa propende la datazione al tardo Seicento. La mancanza di marchi è da collegarsi ai notevoli interventi di ricostruzione effettuati nei primi anni del Duemila, seppure i manufatti vadano certamente a inserirsi nella produzione delle officine suntuarie siciliane19.

Reca l’aquila a volo alto con RVP (Regia Urbs Panormi) e il marchio FCC45 del console Francesco Cappello, in carica dal 7 luglio 1745 al 22 agosto 174620, un altro inedito secchiello per l’acqua benedetta (Fig. 7). L’ignoto argentiere che sigla con le lettere GGR il manufatto, forgia un’opera ancora pervasa da quel gusto barocco per le superfici spiccatamente ansate. La parte inferiore presenta lineari motivi vegetali inframezzati da quattro scudi, due dei quali contenenti le immagini dei santi Francesco e Chiara: il primo colto nel momento di ricevere le stimmate, mentre la seconda assume la consueta posizione stante con l’ostensorio tra le mani, segno distintivo della sua iconografia. I santi sono alternati agli scudi recanti specularmente lo stemma di casa Trigona accollato ad un’aquila a volo spiegato (Fig. 8). Questa nobile famiglia di Piazza Armerina, ramificatasi in vari centri dell’Isola di cui si ha testimonianza nella stessa Pietraperzia con don Giovanni Maria Trigona, già governatore della città nel 162521, ebbe un particolare legame con le comunità francescane, favorendo con cospicui interventi e lasci testamentari, l’ampliamento dei tre conventi piazzesi, luoghi prescelti per la formazione dei novizi dell’Ordine nell’antica Val di Noto22.

Uno slanciato ostensorio di fattura messinese testimonia la grande produzione delle città dello stretto (Fig. 9). Da una base circolare arricchita da tre testine alate, si innalza un nodo ovoidale con incisioni fitomorfe e cherubini aggettanti. Su di esso, un esile fusto a balaustrino dona al manufatto una forte spinta verticale che si arresta con la dorata lente decorata con partiture geometriche, pampini di vite e spighe di grano dal chiaro rimando al sacrificio eucaristico. Una deflagrazione di raggi irregolari accoglie tre ricciolute teste alate disposte sulla raggera simmetricamente a formarne una croce. L‘ostensorio reca il marchio messinese ossia lo scudo crociato con le lettere M.S. (Messanensis Senatus) e quello del console della maestranza degli argentieri nel 1740, Pietro Donia che appone la sigla alfanumerica P.D.74023 (Fig. 10). L’opera, inoltre, porta le inziali P.L. da attribuire a Placido Lombardo24, documentato maestro attivo tra la fine del XVII e i primi del XVIII secolo, come testimoniano talune opere custodite nella Val Demone a cui si aggiunge, di recente, una pisside nel 1714 del Seminario Vescovile di Piazza Armerina25. In conformità a quest’ultimo dato e unitamente a quello suggerito dall’ostensorio pietrino, il Lombardo sarebbe ancora attivo nel quarto decennio del Settecento. Tuttavia le lettere P.L. potrebbero anche identificare il messinese Placido Lancella che forgia la patena della chiesa Madre di Regalbuto26.

Tra le più antiche tipologie di reliquiari vi sono le stauroteche, dal peculiare andamento crociforme del ricettacolo che, in taluni casi, può caratterizzare tutta l’opera. Custodi di piccole schegge del legno della Santa Croce venivano lavorate con materiali preziosi a rispetto dell’importante contenuto27. L’opera in analisi è composta da due elementi congiunti: una teca priva del cristallo fissata a una lamina argentea tramite cinque legagli metallici. È di notevole interesse la decorazione dell’aggettante ricettacolo caratterizzata da raffinati elementi floreali in filigrana, tecnica assai diffusa nella produzione siciliana, di cui si ricordano le suppellettili liturgiche dell’arcivescovo Roano del Duomo di Monreale28. La stauroteca probabilmente si ricollega alla festività di maggio dell’antico Cristo Crocifisso della Cateva e, verosimilmente, per consentirne l’ostensione fu deciso di applicarla alla lamina al fine di enfatizzarla visivamente29. Difatti il profilo mistilineo tracciato dai motivi in filigrana si accresce, sviluppandosi sulla superficie argentea sottostante, in una successione di volute conchiliformi e fogliate (Fig. 11). L’aspetto formale ricorda la più celebre reliquia della Passione di Catania ovvero il Santo Chiodo, custodito in un superbo reliquiario in lamine auree, realizzato nel 1709 dal messinese Saverio Corallo30. Non appare un caso che l’opera in analisi rechi sulla parte retrostante il punzone della città etnea – l’elefante di profilo sormontato da una “A”- e le lettere B.B. dell’argentiere Bartolomeo Barlotta31 a cui si aggiunge il marchio alfanumerico SAC65, che Maria Accascina ricollega al console catanese Santo Albergo32. Si ritrovano entrambi i punzoni apposti in un piccolo portaoli della chiesa Madre di Regalbuto33.

Ancora sacri frammenti della croce di Cristo sono serbati nel reliquiario a palma caratterizzato d’affrontate volute conchiliformi su fondo reticolato (Fig. 12). La grande lamina in argento del ricettacolo si impreziosisce in basso con due cherubini e in alto con una corona che sormonta e chiude la successione di raggi diramanti. Il piede, dall’usuale base gradinata, mostra motivi esornativi ancora legati alla tarda produzione barocca, come le volute che danno origine al fusto con nodo vasiforme. Allo stato attuale la suppellettile si presenta non omogenea, difatti reca  due differenti punzoni palermitani: sulla base quello del console Gaspare Leone, GLC4934, mentre più tarda è la parte superiore vidimata da Giovanni Costanza, durante il mandato del 175335. Inoltre sono ravvisabili il marchio con l’aquila a volo alto della maestranza di Palermo e la sigla F.ND d’ignoto argentiere. Sempre il console Costanza vidima nel 1751 una esuberante pisside custodita nella raccolta pietrina. Il sacro contenitore consta di una base mistilinea, una coppa dorata unita al sottocoppa in argento con elementi rocailles, e un coperchio con volute aggettanti e crocetta apicale sul globo (Fig. 13).

Tra gli argenti della chiesa Madre, la suppellettile che mostra una piena aderenza con le istanze stilistiche del rococò, è l’elegante ostensorio dalla base mistilinea ornata da tre volute che la ripartiscono in settori; questi accolgono elementi decorativi desunti, per l’appunto, dal capriccioso repertorio settecentesco (Fig. 14). Il fusto è scandito da un nodo a balaustrino lavorato con cesellature mentre la sfera s’innesta tramite un corpo nuvoloso su cui poggia una lamina a sbalzo riproducente una cartouche accompagnata da spighe di grano e grappoli d’uva. La raggiera converge intorno alla lente e su quest’ultima si dispongono testine di cherubini e avvolgenti nuvole. La suppellettile è vidimata nelle diverse parti dal Console panormita don Gioacchino Carraffa in carica dal 5 luglio del 177736. Si riscontrano sul manufatto le lettere AMD, sigla da riferire ad Antonino Maddalena, argentiere la cui attività è documentata tra il 1727 e il 178137. Questa tipologia, dall’aggiornata e perfetta sintesi stilistica, fu molto apprezzata dalla committenza siciliana di fine Settecento, come testimoniano i numerosi esemplari con cui è possibile raffrontare l’ostensorio pietrino. Pertanto si cita il manufatto del 1777, analogamente marchiato, custodito presso la chiesa Madre di Sutera38 e quello della raccolta del Seminario vescovile di Piazza Armerina39. É inoltre possibile confrontare la suppellettile con l’ostensorio dorato della chiesa Madre di Aidone, opera vidimata da Cosimo Amari nel 177440.

È rappresentativa la presenza nella raccolta di una patena dorata che riporta l’incisone dello stemma della famiglia Frangipani (Fig. 15). Il manufatto, completamento privo di decorazioni, va a ricollegarsi all’arciprete Girolamo Frangipani, parroco della chiesa Madre durante i cantieri di completo riassetto e riconfigurazione della fabbrica in stile neoclassico41.

Il XIX secolo ci consegna un possente ostensorio in argento bicromo dal piede circolare, tripartito da profilature geometriche, recanti tre clipei con scene veterotestamentarie (Fig. 16). L’essenzialità neoclassica caratterizzante i manufatti a partire dalla fine del XVIII secolo incontra il modo criptico del ritrarre le scene poste sulla base. Una scelta minimale, priva di figura, predilige una simbologia sapientemente esplicitata con chiari elementi tratti da brani biblici: l’altare sacrificale, l’ariete impigliato tra i rovi e il tavolo dei pani dell’Esodo. Sul fusto baccellato un corpo nuvoloso sorregge la figura di un angelo dalle grandi ali spiegate con il braccio in alto nell’atto di indicare il mistero della Ss. Eucarestia presente dentro la dorata lente. Il manufatto riporta oltre il marchio di Palermo, l’aquila a volo alto, le inziali DGC800 del Console della maestranza don Giuseppe Ciambra42. La sigla DL.VA dell’argentiere potrebbe forse riferirsi a Domenico Lo Valvo, maestro attivo dal 1772 al 1780 presunto anno di morte43. Entrambi i punzoni sono riscontrabili in un calice del Tesoro della Cappella Palatina di Palermo44. Le soluzioni pienamente classiche come i festoni e il carattere geometrizzante del fusto annunciano la chiara volontà da parte della committenza di arricchire la collezione e soprattutto aggiornarla secondo lo stile che doveva uniformemente imperare nella nuova configurazione della chiesa Madre.

Chiude questa breve rassegna il nucleo di doni elargiti dal Vescovo Ludovico Ideo. Era consuetudine che i Pastori offrissero dei preziosi doni alla propria diocesi, come pegno di fedeltà; tuttavia, questo caso, ci propone un omaggio fatto all’amata terra natia dal suo figlio, eletto Vescovo di Lipari nel 185845. Monsignor Ideo decise di affidare alla Chiesa di Pietraperzia due candelieri neoclassici in argento, affrontabili con la serie di sette manufatti del Tesoro della Cappella Palatina46, e un calice dorato con patena, recanti il proprio stemma vescovile (Fig. 17). Il calice, in particolar modo, presenta eclettici elementi peculiari delle argenterie ottocentesche contraddistinte da vari retaggi decorativi che mirano spesso a un’apparente opulenza sebbene, solo sporadicamente, riescano a eguagliare la produzione artistica precedente. Sull’alto piede circolare siedono le figure delle tre virtù teologali mentre il nodo piriforme e il sottocoppa, riccamente ornati, recano i simboli della Passione di Cristo. Il marchio apposto a queste opere è di non facile lettura; ciononostante è possibile ascriverle da una produzione italiana sulla base di numerosi esemplari assimilabili come il calice nella raccolta del Museo Diocesano di Caltanissetta47.

Il Cristo Crocifisso in avorio

Una particolare attenzione merita l’inedito Crocifisso eburneo, dalla sorprendente incisività stilistica che rende debito a modelli tardo manieristici ed in particolare ai prototipi iconografici del Giambologna e di Guglielmo della Porta, diffusi a partire dalla seconda metà del Cinquecento e lungamente trasmessi, anche in opere di piccolo formato, da una nutrita cerchia di artisti per buona parte del primo Seicento48. L’ignoto maestro, probabilmente attivo nel meridione, gode di un singolare bagaglio figurativo chiaramente attingente dalla cultura artistica dell’Italia centro-settentrionale49. Egli elabora la figura del Salvatore abbandonato nel sonno della morte, con il capo lievemente reclinato sulla spalla, il volto dai soavi lineamenti segnato dalla fluente barba, incisa da lievi linee, che termina sul mento biforcandosi. I lunghi capelli ondulati lambiscono l’omero destro mente, sulla calotta, sono spartiti in morbide ciocche che si raccolgono sul lato sinistro in modo da mostrare l’acquietato volto del Cristo, scivolato in un tiepido dolore (Fig. 18). Estrema e accurata, l’anatomia del corpo manifesta pienamente l’ideale della bellezza classica, resa in un vibrante modellato snello e vigoroso. Il contenuto pathos, il carattere introspettivo, la muscolatura tornita e slanciata delle membra e il busto solcato dalle costole che, sul lato destro sono bagnate da quattro materici rivoli di sangue scaturiti dalla piaga, esibiscono un’analitica conoscenza anatomica tradotta in una sorta di manifesto dei propri ideali figurativi, a tratti aderenti alla cultura d’oltralpe. Le notazioni realistiche e una calibrata ricerca di effetti chiaroscurali si evidenziano in special modo nel sofisticato gioco di morbidi drappeggi del perizoma, virtuosisticamente orlato da frange lungo il perimetro del tessuto. Il panneggio si avviluppa ad una sottile cordicella che lascia ricadere un lembo dall’andamento sinuoso sul fianco destro (Fig. 19). Tale configurazione, perfettamente allineata alle nuove tendenze compositive giunte dall’area settentrionale e filtrate da numerosi artisti, accresce il conturbante realismo dell’opera, il cui peculiare biancore si esalta attraverso la luce che coopera nel manifestare la padronanza dell’artista di un vasto repertorio di opere in avorio. Queste sono riferibili a maestri dell’area franco-fiamminga (Fig. 20), molti dei quali attivi nel Seicento a Roma e a Firenze, e ad artisti italiani come ad esempio Giovanni Antonio Gualterio, eccellente interprete avvezzo nell’orlare il perizoma con frange o altri raffinati elementi decorativi50. Alla luce di queste considerazioni risulta evidente far propendere la datazione del manufatto in esame al metà XVII secolo, in conformità a numerosi esemplari scultorei in avorio attribuiti dalla critica ad artisti non sempre specializzati nella lavorazione del prezioso materiale, ma che mostrano una solida analogia con le raffinatissime qualità plastiche ed estetiche del Cristo pietrino.

La figura del Salvatore si stende su una croce lignea impiallacciata in tartaruga dai bordi modanati. La composizione nel suo insieme è ulteriormente impreziosita dalla presenza di elementi in argento come il mistilineo cartiglio accompagnato da una testina alata – recante l’inscrizione INRI –  e i chiodi che trafiggono le mani e i piedi del Salvatore. Altri quattro elementi decorativi riproducenti fasci luminosi sono posti nei punti d’intersezione dei bracci della croce in cui sono visibili le lettere A.B. di un argentiere di difficile identificazione. Le terminazioni della croce si allungano tramite rigogliose frasche fiorite recanti il punzone palermitano con l’aquila a volo alto, RUP, e la sigla SCA95 di Salvatore Calascibetta, celebre console che sovrintese a tale carica nel 179551. L’opera composita mostra dunque una mescolanza di elementi riuniti alla fine del Settecento per  impreziosire ed esaltare la bellezza del Cristo.

Con l’Ottocento si chiude la stagione della grande committenza ecclesiastica ed aristocratica. Le inedite suppellettili analizzate sono dunque una chiara testimonianza del lustro e del decoro che per secoli hanno distinto la città di Pietraperzia. La loro immagine riconferma quel sentimento di ricerca peculiare nelle officine dedite alle arti suntuarie in Sicilia, sempre accorte nella diffusione di quella magniloquente bellezza a servizio della fede.

  1. Titolo acquisito da Pietro Barresi, primo principe di Pietraperzia. Sulla famiglia Barresi: F.M. Emanuele Gaetani, Della Sicilia Nobile, vol. II, Palermo 1754-1759 (ristampa anast. Bolognese 1968), pp. 298-300, Idem vol. V, pp.15-18 e F. San Martino De Spucches, La Storia dei feudi e dei titoli nobiliari di Sicilia: dalla loro origine ai nostri giorni, vol. I., Palermo 1924-1941, pp. 203-206, Idem, vol. VI, pp. 2- 4. []
  2. Il maestro del rinascimento isolano, in collaborazione al pittore Antonello Crescenzio, fu diverse volte attivo nel cantiere del Castello dei Barresi, cfr. H-W. Kruft, Antonello Gagini und seine söhne, Monaco 1980, pp. 476- 479, 494- 495, docc. LXXXVIII, XCII, CVIII. []
  3. Si ricorda la splendida pala d’altare della Vergine in gloria e i santi Pietro e Paolo, Agata e Dorotea dipinta da Paladini, ante 1604, per volere della principessa Dorotea Barresi. Si veda: P. Russo – V.U. Vicari, Filippo Paladini e la cultura figurativa nella Sicilia centro-meridionale tra Cinque e Seicento, Caltanissetta 2007, p.107, con bibliografia precedente. []
  4. All’interno della chiesa Madre si conserva oltre al monumento funebre di Pietro quello della sorella Dorotea, investita dei titoli il 25 gennaio del 1572, per la morte del fratello senza eredi. L’escalation matrimoniale di Dorotea giunse alle terze nozze con don Giovanni Zunica, vicerè di Napoli. Il re Filippo II la volle a Madrid come educatrice del figlio Filippo III e ciò le valse il titolo di Grande di Spagna. Non va dimenticato inoltre lo splendido sepolcro che Matteo Barresi commissionò ad Antonello Gagini per la propria madre Laura Sottile, cfr. G. Di Marzo, I Gagini e la scultura in Sicilia nei secoli XV e XVI: memorie storiche e documenti, vol. II, Palermo 1880-1883, pp.111-112, doc. LXXXV. []
  5. Cfr. Fra Dionigi di Pietraperzia, Relazione critico-storica della prodigiosa invenzione d’una immagine di Maria Santissima chiamata comunemente della Cava di Pietrapercia, Palermo 1776, (ristampa anast .Caltanissetta 1979), pp. 252-253. []
  6. Anche la figura di San Vincenzo Ferrer sul piede del calice ripropone le fattezze della tavola palermitana, cfr. G. Di Marzo, Vincenzo da Pavia detto il romano, pittore in Palermo nel Cinquecento, Palermo 1916, p. 38. []
  7. Tra cui si cita la tela custodita nel Museo di Alcamo cfr. G. Abbate, scheda I.6, in Il Museo d’Arte Sacra della Basilica Santa Maria Assunta di Alcamo, a cura di M.Vitella, Palermo 2011, pp. 85-86, e nella chiesa di Sant’Isidoro Agricola a Palermo, cfr. M.C. Di Natale, Le Confraternite dell’Arcidiocesi di Palermo, committenza, arte e devozione, in Le Confraternite dell’Arcidiocesi di Palermo, storia e arte, a cura di M.C. Di Natale, Palermo 1993, pp. 29-30. []
  8. Elargizioni confermate dal figlio Girolamo Barresi in data 6 giugno 1534, cfr. Pietraperzia dalle origini al 1776. Relazione critico-storica della prodigiosa invenzione d’una immagine di Maria Santissima della Cava di Pietrapercia, composta da P. Frà Dionigi, trascritta da S. Di Lavore, presentata da F. Marotta, Pietraperzia 2004, p. 275. []
  9. Si vedano le schede 102-104, in Il Museo Diocesano di Caltanissetta, a cura di S. Rizzo – A. Bruccheri- F. Ciancimino, Caltanissetta 2001, pp. 228-229. []
  10. Cfr. M. Vitella, Le suppellettili liturgiche di Mazzarino, in Percorsi di archeologia e storia dell’arte. Centro Culturale “Carlo Maria Carafa” Mazzarino, a cura di S. Rizzo, Caltanissetta 2009, p.71, scheda 2d. []
  11. M.C. Di Natale, I Tesori nella Contea dei Ventimiglia, oreficeria a Geraci Siculo, Caltanissetta 1995, p. 32. []
  12. Cfr. S. Intorre, scheda I.10 in M.C. Di Natale – S. Intorre, Ex elemosinis Ecclesiae et Terrae Regalbuti. Il tesoro della Chiesa Madre, Palermo 2012, p. 81. []
  13. Cfr. M.C. Di Natale, Il tesoro di Sant’Anna nel Museo del Castello dei Ventimiglia a Castelbuono, in M.C. Di Natale – R. Vadalà, Il tesoro di Sant’Anna nel Museo del Castello dei Ventimiglia a Castelbuono, Palermo 2010, pp. 37-38. []
  14. S. La Monica, I Branciforti: plurisecolare egemonia politica feudale del casato in Sicilia tra ‘300 e ‘800, Caltanissetta 2016, pp.79-81. []
  15. M.C. Di Natale, Gioielli di Sicilia, Palermo 2008, pp. 23-24. []
  16. La sensibilità di Fabrizio verso le opere d’arte si evince nell’inventario dei beni mobili del Principe che presenta una straordinaria quantità ed eterogeneità di manufatti artistici; cfr. A. Ragona, L’inventario dei beni mobili di Don Fabrizio Branciforti principe di Butera, in “Bollettino della Società Calatina di Storia Patria e Cultura”, nn. 7-9, 1998-2000, pp. 157-220. []
  17. N. Pisciotta, I Branciforti dalle remote origini a Nicolò Placido. Storia, miti e leggende… Un pezzo di storia europea e della Sicilia, Barrafranca-Enna 2009, p. 199. []
  18. Cfr. M.C. Di Natale, Le croci dipinte in Sicilia, premessa di M. Calvesi, Palermo 1992, p. 9. []
  19. La rimozione dei manufatti in argento è testimoniata dal materiale fotografico, grazie al quale è possibile apprendere   la precarietà in cui versavano, M.C. Di Natale, Le croci dipinte…, 1992, pp. 10-11. Fig. 9-10. []
  20. Cfr. S. Barraja, I marchi degli argentieri e orafi di Palermo, saggio introduttivo di M.C. Di Natale, Palermo 2010, p.76. []
  21. L. Guarnaccia, Il castello di Pietraperzia, Pietraperzia 1985, p.58; La famiglia risulta presente in città fin dal 1580 con Gian Maria Trigona che contrasse matrimonio con Merchionella Micciché, Cfr. S. La Monica, Le Famiglie nobili di Pietraperzia, in “Agorà.  periodico di cultura siciliana” n. 47, gennaio – marzo 2014, p.3. []
  22. I tre conventi francescani pizzesi (Cappuccini, Minori Osservanti Riformati del convento di Santa Maria del Gesù e di San Pietro), saranno coinvolti dal testamento del barone Marco Trigona, attraverso legami burocratici ed economici con la chiesa Madre. Per una analisi dettagliata vedi D. Sutera, I Conventi francescani a Piazza Armerina: architettura e trasformazione, in Francescanesimo e cultura nelle province di Caltanissetta ed Enna: atti del Convegno di studio, Caltanissetta-Enna, 27-29 ottobre 2005, a cura di C. Miceli, Palermo 2008, p. 285. []
  23. M. Accascina, I marchi delle Argenterie e Oreficerie Siciliane, Trapani 1976, p.118. Per il profilo dell’argentiere Pietro Donia si rimanda a G. Musolino, in Arti decorative in Sicilia, Dizionario biografico, a cura di M.C. Di Natale, vol. II, Palermo 2014, p. 223, ad vocem. []
  24. Cfr. A. Raffa, in Arti decorative…, vol. II, 2014, p. 377, ad vocem. []
  25. A.A. Faraci, Arti decorative nel Seminario Vescovile di Piazza Armerina, tesi di laurea, relatore prof. M. Vitella, Università degli Studi di Palermo, A.A. 2017-2018. scheda I.5, pp. 53-54. []
  26. Cfr. S. Intorre, scheda II.29 in M.C Di Natale – S. Intorre, Ex elemosinis…2012, p. 103. []
  27. Cfr. M. Vitella, scheda II. 22 in Il Tesoro Nascosto, gioie e argenti per la Madonna di Trapani, a cura di M.C. Di Natale – V. Abbate, Palermo 1995, p. 218. []
  28. Cfr. M.C. Di Natale, scheda 114, in Splendori di Sicilia. Arti decorative dal Rinascimento al Barocco, catalogo della mostra a cura di M.C. Di Natale, Milano 2001, pp. 433-434. []
  29. F. Marotta, La Settimana Santa a la Pasqua a Pietraperzia, Pietraperzia 1989, p. 39. []
  30. Cfr. C. Ciolino, Orafi e argentieri al Monte di Pietà. Artefici, e botteghe messinesi del sec. XVII, Messina 1988, p. 132. []
  31. Cfr. M. Accascina, I marchi…, 1976, p. 155. []
  32. M. Accascina, I marchi…, 1976, p. 156 e D. Ruffino, in Arti decorative…, vol. I, 2014, p.7, ad vocem. []
  33. Cfr. S. Intorre,  scheda II.28, in M.C Di Natale – S. Intorre, Ex elemosinis…2012, p. 103. []
  34. S. Barraja, I marchi…, 2010, p. 76. []
  35. S. Barraja, I marchi…, 2010, p.77. []
  36. S. Barraja, I marchi…, 2010, p.80. []
  37. Cfr. S. Barraja, in Arti decorative…, vol. II, 2014, p.390, ad vocem. []
  38. Cfr. M.V. Mancino, scheda II. 42, in M.C. DI Natale – M. Vitella, Il Tesoro della Chiesa Madre di Sutera; catalogo delle opere M.V. Mancino, Caltanissetta 2010, p.87. []
  39. Cfr. A.A. Faraci, Le arti…, tesi di laurea, relatore prof. M. Vitella, A.A 2017-2018, scheda I.8, pp. 57-58. []
  40. Cfr. M.A. Lima, scheda 13, in E. Caruso, San Lorenzo in Aidone: una chiesa Madre di Sicilia dal Medioevo all’Età Moderna e il suo tesoro, Palermo 2012, pp. 205-206. []
  41. Sull’attività di Frangipani in riferimento alle vicende della chiesa Madre cfr. G. Culmone, Alla scoperta delle radici. Viaggio attraverso l’archivio della parrocchia Santa Maria Maggiore di Pietraperzia, Caltanissetta 2010, pp. 152-153; sull’intervento di riconfigurazione della chiesa ad opera dell’architetto Pietro Trombetta cfr. F. Marotta, 22 maggio 1800: vero inizio della costruzione della chiesa Madre, in «La voce del prossimo», IX-X, 1985, pp. 15-17. []
  42. Cfr. S. Barraja, I marchi…, 2010, p. 83. []
  43. La sigla di Domenico lo Valvo DL.VA, fu composta per distinguerla da DLV di Domenico La Villa, cfr. M.C. Di Natale, Il Tesoro della Cappella Palatina. Gli argenti tra maestri e committenti, in Lo scrigno di Palermo. Argenti, avori, tessuti pergamene della Cappella Palatina, a cura di M.C. Di Natale – M. Vitella, Palermo 2014, p. 41. []
  44. Ibidem. []
  45. G. G. Mellusi, Messina –Lipari- Santa Lucia del Mela, in Storia delle Chiese di Sicilia, a cura di G. Zito, Città del Vaticano 2009, p. 516. []
  46. Cfr. M.C. Di Natale, Scheda 57, in Il Tesoro della Cappella…2014, p. 88. []
  47. Cfr. Scheda 190, in Il Museo Diocesano…, 2001, p. 258. []
  48. D. Gasparotto, I Crocifissi di Giambologna e la tradizione fiorentina, in Il Crocifisso d’oro del Museo Poldi Pezzoli, Giambologna e Gasparo Mola, a cura di A. Di Lorenzo, “Quaderni di studi e restauri del Museo Poldi Pezzoli”  IX.2011, Trento 2011, pp.10-11. []
  49. È doveroso ringraziare l’Avv. Giorgio Cicciarella per i preziosi consigli forniti al fine di una corretta analisi stilistica della statuetta del Cristo; inoltre un particolare ringraziamento va al sempre disponibile prof. Maurizio Vitella. []
  50. M.M. Estella Marcos, Un Cristo de marfil de Gualterius y otros dos ejemplares del maestro de la sigla JAG, “Archivo español de arte”,  n. 48, 1975, pp. 133-136. []
  51. Cfr. S. Barraja, I marchi…, 2010,  p. 82. []