Priscilla Manfren

priscilla.manfren@unipd.it

«Pittoresche industrie casalinghe»: artigianato e arti applicate coloniali nelle rassegne dell’Italia fascista

DOI: 10.7431/RIV20152019

Questo contributo vorrebbe fornire una panoramica sul tema dell’artigianato e delle arti applicate delle colonie italiane tra anni Venti e anni Trenta del Novecento, proponendo come fil rouge un percorso attraverso alcune delle svariate mostre, spesso inserite in contesti espositivi di più ampia portata, dedicate a tali particolari produzioni. Lo scopo del lavoro è duplice: in primo luogo, esso punta a evidenziare le modalità di strumentalizzazione di queste specifiche produzioni da parte degli enti organizzatori e della propaganda coloniale governativa, desiderando inoltre riflettere sull’atteggiamento che di fronte a esse presentavano, da un lato, gli ‘esperti del settore’, ossia i critici d’arte, dall’altro, l’eterogenea massa dei visitatori di tali rassegne; secondariamente, il saggio vuole porre in luce alcune delle molteplici espressioni della cultura materiale indigena che, in tale arco cronologico, vengono presentate nel contesto italiano come manifestazioni artistiche più evidenti, tangibili e tipiche dei domini nazionali oltremare.

Va premesso che, per quel che concerne l’ambito italiano, le mostre coloniali e le sezioni a tema inserite in esposizioni di svariate tipologie sono state indagate, specie negli ultimi anni, sotto molteplici punti di vista; dopo i primi studi di carattere orientativo, come quelli di Salvatore Bono e Mariastella Margozzi1, sono infatti nati lavori dedicati a specifici aspetti di tali rassegne, quali gli allestimenti, analizzati da Giovanni Arena, i cosiddetti zoo umani, messi in luce da Guido Abbattista, l’arte italiana a soggetto africano esposta in tali mostre, esaminata da Giuliana Tomasella2, sino ad arrivare a numerosi studi, più e meno ampi, che approfondiscono specifiche esposizioni coloniali o rassegne con sezioni a tema, dandone una panoramica o soffermandosi su precisi contenuti3. In merito alle arti applicate d’oltremare va invece segnalato un primo ed interessante contributo redatto, ormai una ventina di anni fa, da Andrea Fabris, che si dedica nello specifico all’arte orafa in Etiopia ed Eritrea durante la dominazione italiana e, fra le altre notizie, fornisce un rapido accenno in merito alla presenza di artigiani indigeni dediti a tale pratica nell’ambito di alcune mostre coloniali4; la prima rassegna italiana in cui risultano presenti prodotti di orafi o argentieri eritrei o etiopici è, stando a Fabris, la Mostra Eritrea nell’Esposizione Nazionale di Palermo del 1891-1892, organizzata per promuovere la conoscenza della più antica colonia africana dell’Italia5. Fin da questo primo caso è evidente come l’aspetto etnografico di simili iniziative si legasse in maniera stretta con l’interesse commerciale ed economico, dato che rassegne del genere non solamente consentivano ai visitatori di avvicinarsi alle popolazioni coloniali attraverso la conoscenza del loro folclore, degli usi e delle tradizioni, ma ugualmente favorivano l’acquisto di prodotti dell’artigianato d’oltremare, non di rado realizzati al momento da indigeni presenti in loco, ospitati in laboratori ed edifici che simulavano i loro quotidiani contesti lavorativi in colonia. La possibilità di utilizzare l’artigianato locale quale suadente mezzo per comunicare l’altrove coloniale al grande pubblico è colta dunque sin dal tardo Ottocento dagli organizzatori delle rassegne, che di fatto con simili produzioni si inseriscono agilmente nel solco tracciato da molte esposizioni internazionali e nazionali che già avevano favorito la diffusione del gusto orientalista; a tal proposito, si pensi per esempio all’Esposizione nazionale svoltasi a Milano nel 1881, in cui il pubblico aveva potuto ammirare gli arredi esposti da Giuseppe Parvis, italiano residente al Cairo e iniziale produttore di mobili artistici, assai apprezzati e richiesti dalle élite locali e dal mercato occidentale, realizzati con un tipo di decoro variamente identificato come arabo, saraceno, moresco, musulmano6. L’importanza della produzione artigianale delle colonie in qualità di vero e proprio strumento di propaganda è però chiara e conclamata soprattutto durante gli anni del fascismo, come dimostrano alcune testimonianze relative alle sezioni indigene presenti nelle due note mostre internazionali d’arte coloniale organizzate, rispettivamente, a Roma nel 1931 e a Napoli nel 1934. In merito alle rassegne indigene organizzate dai vari governi delle colonie italiane (Figg. 12) e, soprattutto, ai prodotti dell’artigianato esposti nella Mostra dell’Artigianato Tripolino o venduti nelle botteghe del suk ricreato dall’architetto Limongelli al pian terreno di Palazzo delle Esposizioni7, un articolista scrive che quelli che «più o meno, rispondono ai principi d’arte»8 consistono in barracani, tappeti, scarpe ricamate, stuoie, cinture, cuscini, oggetti di oreficeria, lavori in cuoio, e simili (Fig. 3); poco più avanti, lo stesso autore afferma inoltre che «di questi oggetti, di uso più comune, trovasi poi una quantità notevolissima sui banchi del mercato centrale. Qui l’arte non si può dire imperi sempre sovrana, ma forse non è stato male autorizzare l’apertura di botteghe, dove il pubblico possa comprare direttamente dai produttori indigeni (o almeno dall’apparenza di indigeni) le pelli di gazzella nana, le fialette di profumi, i tappeti di uso corrente, gli oggetti di oreficeria, l’hennè, ed altre minutaglie, che non sono certo artistiche, ma che agli scopi di propaganda coloniale servono, presso una certa qualità di pubblico, assai più dei grafici, dei dipinti, dei bronzi»9.

Ugualmente, nel suo saggio sulle arti indigene per il catalogo della mostra d’arte coloniale allestita a Napoli nel Maschio Agioino nel 1934, Mario Scaparro, già autore di testi sull’artigianato tripolino10, sottolinea che l’esposizione e la vendita dei prodotti di arte indigena non significa solamente approfondire la conoscenza dell’animo delle popolazioni locali, ma anche valorizzarne la produzione in un’ottica turistica e, soprattutto, equivale a «fare una intelligente propaganda coloniale che si insinui nell’arte della casa, dell’arredamento e dell’abbigliamento più efficacemente di quanto non faccia un giornale ed una rivista, una conferenza ed un film, cose queste che spariscono mentre l’oggetto d’arte resta»11. Infine, in un articolo del 1936, in cui Angelo Piccioli tira le somme sui risultati delle due grandi rassegne italiane, si legge, a conferma di simili opinioni, che nel 1931 il valore complessivo della mostra era ammontato a circa 80 milioni di lire e che la vendita degli oggetti d’arte applicata, prodotti della lavorazione artigianale tripolina lì rappresentata da tredici espositori, aveva raggiunto la cifra di quasi un milione di lire, mentre quella delle opere d’arte pura era stata di circa centomila lire12; le minuterie indigene dunque, stando a questi dati, avevano fatto breccia tra i visitatori, probabilmente anche per i prezzi contenuti e abbordabili, ben più delle sculture e dei dipinti realizzati dagli artisti italiani.

Da quanto detto sino a ora appare dunque chiaro che, a partire dall’esposizione palermitana del 1891-1892 e con l’espansione italiana in Somalia sul finire dell’Ottocento e in Libia negli anni Dieci del Novecento, la presenza dell’artigianato di fattura coloniale diviene costante e crescente nel panorama delle rassegne italiane. In merito, va però fatta una distinzione sulla provenienza e gli scopi delle tipologie di oggetti esposti: infatti, se da un lato si possono incontrare, come si è visto, prodotti indigeni da bazar orientale, destinati allo smercio per il pubblico dei visitatori (Fig. 4), dall’altro si rintracciano anche singoli oggetti o serie di manufatti di livello più pregiato e raffinato, facenti parte di collezioni private e statali, concesse in prestito per sola esposizione con lo scopo evidente di istruire il pubblico destando, nel contempo, meraviglia e fascinazione. A quest’ultima categoria appartiene, per esempio, la raccolta personale di lavori in oro e argento prestata da Ferdinando Martini, governatore dell’Eritrea, per le rassegne coloniali inserite nell’Esposizione Internazionale di Milano del 1906 e nell’Esposizione Internazionale di Genova del 1914; in queste mostre, come ricorda Chiara Marin, la collezione Martini offriva «un panorama quasi completo degli ornamenti eritrei maschili e femminili sia d’uso quotidiano sia cerimoniale13, rappresentando «per il turista medio il fulcro della Mostra Eritrea»14. Di valore materiale ma anche documentario doveva poi essere la raccolta di gioielli tripolitani ed eritrei in oro e argento, nonché quella di indumenti e tessuti della Libia, inviate dal Museo Coloniale di Roma alla Mostra Coloniale Italiana inserita nella Fiera campionaria di Milano del 1922; evidenti sono gli scopi didascalici e propagandistici di tale mostra che, prima a essere allestita dal Ministero delle Colonie dopo la guerra, è ideata per venire riproposta, nello stesso anno, nelle fiere campionarie di Padova, Napoli e Trieste15. La varietà e la ricchezza della collezione di monili esposti nella mostra itinerante risultano dal completo e dettagliato elenco presente nel catalogo della rassegna milanese, ove i singoli pezzi, purtroppo non suddivisi in base alla provenienza libica o eritrea, sono accompagnati dalla dicitura in lingua indigena. L’elenco è composto da oltre cento elementi (nn. 53-159), fra i quali figurano oggetti come un «cinto verginale (trizain)», dei «pendagli con coralli per le tempie (usciat)», vari spilloni, tra i quali si specificano quelli «per la testa (ghilà-l)», quelli «usati dalle beduine (kalail)» e quelli «con porta profumi (kalail-bu-aghil)», orecchini di varie tipologie fra cui «a mezza luna (alalig hella)», svariati bracciali, come quelli «per polsi (seimeilà)», «per gomiti (dinulì-gg)», «per donna (debleg)», una «crocetta (mascal)», quest’ultima sicuramente di provenienza eritrea, diverse tipologie di collane, fra le quali una «con coralli (aghed-hella)» e due in oro ma di diversa fattura visti i differenti nomi indigeni (mesghinet e lebba zohàb), svariati anelli e pendenti, alcuni dei quali si specifica essere «in filigrana», amuleti in foggia di «manina di Fatima», segno religioso musulmano ed ebraico, e persino una coppia di «gemelli per polsi» recanti il medesimo simbolo16. Come ultimo esempio pare poi interessante ricordare la preziosa ed eterogenea raccolta di cimeli concessa dal Principe di Piemonte in occasione della grande mostra partenopea del 1934. La collezione, i cui pezzi vengono minuziosamente descritti nel catalogo della rassegna, si configura come un insieme di raffinati doni diplomatici, tra cui diversi pugnali e sciabole, per lo più commissionati e offerti da personaggi delle élite indigene, o da specifici gruppi etnici o sociali, delle varie località in cui il principe era passato durante il suo viaggio in Eritrea e Somalia sul finire degli anni Venti17. Per avere un’idea della preziosità e dell’eterogeneità di questa raccolta, consistente in trentasei pezzi, si possono menzionare una «sciabola dall’impugnatura d’avorio» con «fodero in velluto rosso con rivestiture d’oro cesellato e smalti azzurri» e «cintura di velluto rosso con guarnizioni d’oro cesellato e smalti azzurri» donata dagli Eritrei del Seraè18, un billao, tipico pugnale somalo e, in tal caso, specificamente migiurtino, con «impugnatura d’osso con rivestiture di filigrana d’oro», «fodero di cuoio e carta-pecora con rivestiture di filigrana d’oro» e «cintura di cuoio rosso con guarnizioni d’oro cesellato» conservato in un «astuccio in legno intarsiato di forma esagonale», dono del commendatore Ali Jusuf Bahà Iacub di Mogadiscio19, una «croce abissina in oro» del preso di trecentocinquantacinque grammi, conservata in un «astuccio di legno intarsiato con avorio», omaggio degli Eritrei del territorio di Hamasien20, e una «corona d’oro massiccio» del peso di millecentoottanta grammi, riproduzione della Corona Reale Etiopica conservata nel convento del Bizen, racchiusa in «un cofanetto di legno intarsiato con avorio», dono che i cittadini di Asmara avevano offerto al principe insieme agli italiani di Adi Ugri e di Adi Caieh21.

Va poi detto che, con l’evolversi dei traffici e il consolidarsi del dominio italiano nei territori coloniali, in tali rassegne, specie quelle inserite in contesti di carattere più commerciale, compaiono anche oggetti artigianali che utilizzano materiali o stilemi decorativi locali, ma che sono prodotti da italiani residenti in colonia come, fra i tanti casi, sono esempi i cuoi artistici di Carla Dogliani Bordiga di Tripoli22 o i sandali realizzati dalla Ditta di Giovanni Camogli nella cittadina somala di Brava23. Ugualmente, specie per quel che riguarda la produzione di ambito libico, figurano manufatti creati da indigeni inseriti in svariate tipologie di istituti scolastici, come quelli di arti e mestieri e quelli di lavoro e di istruzione per alunne musulmane, presenti sia a Tripoli che a Bengasi, nonché detentivi, come il Carcere Regionale di Bengasi, che vede i lavori dei propri detenuti esposti, al pari di quelli delle alunne della scuola cittadina, nell’ambito della Mostra della Cirenaica allestita nell’esposizione romana del 1931 (Figg. 56)24; prodotti dell’artigianato libico provengono anche dalle cosiddette scuole-botteghe, sorte verso la metà degli anni Trenta sotto il governatorato di Italo Balbo, gerarca ferrarese particolarmente attento all’arte e alle sue manifestazioni25. Fra i vari istituti, è di particolare rilievo la Scuola di Arti e Mestieri di Tripoli, la cui produzione compare già a Milano nel 192226; la sua vicenda, ricostruita da Francesca Di Pasquale27, rivela come da un certo momento in poi, nell’ottica del progetto fascista di rinascita e rilancio dell’arte e dell’artigianato libici per scopi commerciali e turistici, la presenza di italiani in qualità di supervisori e maestri – noto è il caso del pittore e ceramista sardo Melkiorre Melis28 – fosse divenuta più evidente, come testimoniato dalla fusione di stili presente in numerose creazioni. Se l’attenzione italiana nei riguardi della produzione locale, specie tripolitana, si era rivelata già durante il governatorato di Giuseppe Volpi con l’istituzione sul finire del 1924 dell’Ufficio Governativo delle Arti Applicate Indigene29, da segnalare è anche la costituzione nel marzo del 1936, in pieno periodo balbiano, dell’Istituto Fascista per l’Artigianato della Libia, ente tecnico artistico commerciale con sede a Tripoli, sorto per favorire l’artigianato nazionale e indigeno della regione promuovendo e sviluppando l’attività e il perfezionamento tecnico e artistico, ma anche provvedendo alla selezione, alla raccolta e al commercio, sia in Libia che nel Regno e all’estero, dei diversi oggetti30.

La produzione libica, come si è evidenziato, riveste sin dai primi anni Venti un ruolo preminente nel panorama dell’artigianato e delle arti applicate delle colonie italiane (