Marco Coppe

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Un calice inedito di Cosimo Merlini

DOI: 10.7431/RIV20052019

Nel convento dei padri Cappuccini di Montughi, situato sulle colline di Firenze, è custodita una notevole raccolta di opere d’arte che comprende dipinti, sculture e arredi liturgici. A quest’ultimo nucleo, tra i tanti più usuali o a carattere seriale, appartiene un arredo particolarmente degno di nota (Fig. 1) che è stato rintracciato nel 1983 tra i calici in disuso conservati nella vecchia sagrestia ed annotato nello schedario interno del convento1. Realizzato in argento parzialmente dorato, è lavorato a sbalzo, cesellato, inciso a freddo, e presenta parti a fusione2. Dal punto di vista formale, presenta un piede a sezione circolare impostato su un basso gradino rialzato da una fascia modanata. Il campo interno del piede è costituito da spighe di grano intrecciate i cui steli, salendo e aderendo al fusto, si innestano in un nodoso ramo di vite che sorregge un grappolo d’uva; il tralcio si apre in una teoria di pampini in rilievo che abbraccia la coppa liscia e appena svasata. Il gradino del piede reca l’iscrizione “COSMVS MERLINVS INV. FAC. FLOR. 1637”.

È facile riconoscere nel calice un’opera autografa della maturità di Cosimo Merlini (1580-1641)3, orafo di origine bolognese la cui attività è documentata a Firenze dal 1614 al 16414 e attestata da una serie di opere, alcune delle quali di grande importanza. Come già evidenziato dalla critica, il Merlini seppe interpretare in modo assolutamente innovativo tipologie di arredi la cui struttura era oramai fissata in precisi canoni. La Croce reliquario della Passione5, conservata presso il Museo dell’Opera del Duomo di Firenze, ne è un esempio: nonostante la particolarità della reliquia che doveva contenere, la croce è caratterizzata da elementi formali e compositivi proposti in una versione raffinata e personale, configurandosi in “una delle più significative interpretazioni di tale tipologia”6. Aspetto non comune, il maestro seppe inoltre coniugare la realizzazione di arredi per la Galleria a quelli per la committenza privata, realizzando queste ultime commissioni nella bottega del fratello Pietro Paolo sul Ponte Vecchio7. Da un punto di vista stilistico interpretò le esigenze controriformiste combinando spiccato naturalismo, particolare fantasia artistica e straordinaria tecnica esecutiva; come evidenziato da Antonio Paolucci; tuttavia, è difficile capire se il suo stile, soprattutto per i pezzi caratterizzati da uno spiccato naturalismo, appartenga “all’ambito del formalismo metaforico e intellettualizzante della maniera o se già non sia lecito parlare delle ‘imageries’ visuali enfatiche e naturalistiche dell’’età barocca”8.

Questi elementi formali si ritrovano nel calice in esame, firmato e datato 1637 (Fig. 2); esso si configura in una delle sue opere più rappresentative attestandosi in una distillata summa del suo stile. Se è vero, infatti, che in esso sono enucleati gli elementi tipici dell’opera tarda del Merlini, è tuttavia da sottolineare l’assenza di scene figurate che insieme ad attributi simbolici compaiono nella sua produzione coeva. Di ricercata complessità e ricchezza è la simbologia eucaristica del Pane e del Vino concretizzata dalle spighe di grano, dal grappolo d’uva e dai pampini di vite del sottocoppa. Questi elementi diventano simultaneamente, simbolo, decorazione e struttura; lo stesso accade nella pisside del Museo della Basilica di Santa Maria dell’Impruneta9 (Fig. 3), definita come una “vera e propria catechesi eucaristica figurata”10. Con questa opera il nostro calice condivide la stessa datazione e i caratteri formali del piede, del fusto e del nodo. Oltre naturalmente alla tipologia, è la sezione superiore a differenziarli: la coppa della pisside presenta brani figurati con iscrizioni latine relative a prefigurazioni bibliche dell’istituzione eucaristica; al contrario, nel calice di Montughi, non vi è una figurazione narrativa ma una struttura che combina forma e simbolo.

Un confronto obbligato va stabilito con il calice conservato presso la chiesa di San Bartolomeo a Prato11 (Fig. 4). Questo arredo non è mai stato attribuito direttamente al Merlini probabilmente per la mancanza di un’iscrizione e della relativa firma; il Paolucci sostiene che “la qualità del manufatto risulta evidente nella finezza dell’esecuzione, nella nobiltà e nell’eleganza delle forme e soprattutto nella stupenda invenzione (che, quasi, verrebbe fatto di definire ‘liberty’) di quei pampini di vite che a guisa di corolla vegetale formano la sottocoppa”; e, nel merito dell’attribuzione, che “anche se non firmato non potrà non essere attribuito data la strettissima somiglianza stilistica con la pisside dell’’Impruneta, alla bottega dell’illustre artefice”12. Anche la Nardinocchi non lo riferisce direttamente al Merlini, sostenendo con invidiabile prudenza che “il calice […] pur non presentando la firma del maestro, è sicuramente riconducibile – come è già stato sostenuto – alla sua produzione per l’inconfondibile disegno, peraltro prossimo, per concezione e per finezza di esecuzione, alla citata pisside dell’Impruneta”13. Si parla dunque di bottega e di stile: in modo del tutto plausibile e convincente, considerando che Cosimo ebbe due figli, Giovan Battista14 e Marc’Antonio15, orafi attivi nella seconda metà del Settecento16. Entrambi gli studiosi, nonostante non potessero conoscere il calice di Montughi, hanno fornito una proposta attributiva cauta sul calice pratese sulla base della quale oggi, quasi trent’anni dopo, risulta possibile abbozzare un discorso critico comparato che ne trae diretto beneficio.

Questa analisi si concentrerà sui caratteri formali che differenziano i due arredi analizzando tre macro-aree: piede, fusto e nodo, sottocoppa e coppa.

Partendo dal basso è evidente come il piede dei due calici sia simile per matrice ma non per struttura: quello dell’arredo di Prato (Fig. 5) presenta un alto gradino impostato su due cornici modanate, mentre nel fiorentino esso è costituito da un gradino liscio sul quale si imposta una cornice modanata anch’essa liscia. Si notano le differenze più evidenti sul campo interno del piede che, nell’esemplare pratese, risulta definito in modo più elementare costituendosi da un fondo liscio e piatto sul quale poggiano spighe di grano ben definite. Nel secondo (Fig. 6), al contrario, le spighe si sovrappongono e si intrecciano strutturando il campo interno del piede, con effetto di grande naturalismo. Si noti inoltre come il fusto, abbracciato dagli steli delle spighe, sia nell’arredo pratese a sezione circolare mentre in quello di Montughi si configuri in modo convincente in un esile tronco che nasce direttamente dalla terra.

Analizzando ora la sezione mediana, notiamo come nel fusto del calice pratese (Fig. 7) gli steli delle spighe di grano siano recisi appena sopra il collo del piede. A livello di percezione, questo comporta che il grappolo che funge da nodo sembri una sua appendice decorativa. Nell’opera fiorentina (Fig. 8), al contrario, il grappolo d’uva non si limita a ornare il nodo, ma diventa la stessa struttura. Differente è la resa degli acini, regolari e geometrizzanti in quello pratese, irregolari e vibranti in quello fiorentino; da notare, inoltre, come gli steli delle spighe lo penetrino comprimendone la parte inferiore che si espande, superiormente, in un modo squisitamente naturalistico. Le spighe dell’esemplare pratese si presentano strette al fusto da un disco modanato che non ha senso all’interno della struttura formale e simbolica dell’insieme; nel calice fiorentino, invece, sono legate da una cordicella intrecciata di raffinata fattura “con un effetto di straordinaria e suggestiva casualità”17. Infine, il raccordo tra nodo e sottocoppa nell’opera pratese diventa un semplice nodo a rocchetto con incise venature ad imitazione della corteccia della pianta di vite, tradendo una certa rigidità e artificialità; in quello fiorentino lo stesso raccordo è reso in maniera molto più naturalistica, identificandosi percettivamente in un nodoso ramo di vite al quale, inferiormente, è attaccato un grappolo d’uva.

Per quel che riguarda coppa e sottocoppa, nella sezione superiore del calice pratese la teoria di pampini che costituisce il sottocoppa (Fig. 9) presenta nervature superficiali in rilievo e un margine vivo che tradiscono un’aderenza al dato botanico mal trasferita dalla carta all’argento. Nel calice fiorentino la stessa teoria (Fig. 10) che struttura il sottocoppa appare molto più naturalistica in quanto realizzata in una lamina sottile e ad essa più aderente, che ricorda una vera foglia di vite; le nervature dei pampini, inoltre, non sono in rilievo ma incise e non sembrano più seguire un modello geometrizzante.

Alla luce di questa analisi, sembra ragionevole escludere che il calice pratese sia stato realizzato da Cosimo Merlini: troppe infatti risultano le semplificazioni compositive e tecniche che lo caratterizzano. Altrettanto evidente è l’inferiorità del lessico formale che risulta impoverito rispetto all’esemplare di Montughi. Anche considerandolo una replica sembra tuttavia persistere un problema tecnico-stilistico.

In quest’ottica è necessario prendere in considerazione un terzo calice (Fig. 11) conservato presso la sacrestia del Duomo di Firenze18; l’arredo venne probabilmente commissionato da Leone Strozzi (1637-1703) all’orafo romano Francesco I Teoli19 (1658-1729), come è suggerito dal fatto che il suo stemma con insegne canonicali e vescovili compare sul coperchio della perduta patena del calice20. Sull’arredo compare il punzone che il Teoli utilizzò dal 1688 al 1729, una torretta fuori campo21, e il bollo camerale romano con il triregno e le chiavi incrociate22 (Fig. 12); questi elementi forniscono la possibilità di datare il calice entro il 1700. L’opera del Teoli, considerato una replica dell’arredo pratese, è in effetti paragonabile per struttura e dimensioni, ma rispetto a quest’ultimo presenta una superiore qualità tecnico-realizzativa ed elementi strutturali secondari leggermente diversi. Se confrontato con il calice di Montughi, è evidente come l’opera del Teoli risulti più vicina a questa che all’esemplare pratese; emerge infatti una maggiore capacità analitica ed un più efficace sforzo mimetico. È altresì vero che il calice realizzato dall’argentiere romano è qualitativamente inferiore a quello di Montughi come si può notare, ad esempio, nella resa schematica del sottocoppa che presenta una rigidità formale simile a quella del pratese. Il calice del Teoli dunque, pur non raggiungendo le vette di raffinatezza e di eleganza dell’opera di Montughi, si pone come una via di mezzo tra il calice autografo e la sua derivazione pratese. È lecito quindi ipotizzare che il Teoli non abbia preso a modello il calice di Prato per la sua replica ma quello di Montughi o, al limite, una sua copia più fedele realizzata dalla bottega23.

Per concludere, alla luce dell’inedito calice di Montughi, sicuramente di mano di Cosimo Merlini, è evidente come l’esemplare pratese risulti declassato ad opera derivata. Resta da capire se vi sia un rapporto che vada oltre quello formale e stilistico con la pisside dell’Impruneta, anch’essa datata al 1637; in questo senso è lecito chiedersi se sia possibile ricondurre questo inedito calice, come è stato proposto da Paolucci per questa pisside24, al gruppo di ex-voto offerti alla Vergine dell’Impruneta negli anni immediatamente successivi alle celebrazioni del 163325. Altro tema che meriterebbe ulteriori analisi è quello delle repliche e delle varianti, fisiologiche nel caso dei grandi maestri, ma che, per il Merlini, non si è ancora concretizzata in contributi scientifici.

  1. Schedario interno del convento dei padri Cappuccini di Montughi, IV voll., vol. II, n. 28, p. 69. []
  2. Le misure si attestano in cm 22,5 × 11,5. []
  3. Per il profilo biografico e l’attività di questo maestro si veda in particolare: C. Aschengrenn Piacenti, Two jewellers at the Grand Ducal court of Florence around 1618, in “Mitteilungen des Kunsthistorischen Institutes in Florenz”, 12.1965/66, 1/2, pp. 115-121; A. Paolucci, Per Cosimo Merlini il vecchio, orafo Granducale, in “Antichità viva”, 14.1975, 6, pp. 24-30; A. Paolucci, Cosimo Merlini, in Il Seicento fiorentino, a cura di G. Guidi, D. Marcucci, III voll., vol. Biografie, p. 127; R. Tarchi, C. Turrini, Nuovi contributi sull’attività dell’orafo Cosimo Merlini tra committenza granducale ed ecclesiastica, in “Annali della Scuola Normale Superiore di Pisa”, Classe di Lettere e Filosofia, s. III, XVII, 3, 1987, pp. 757-770; E. Nardinocchi, I merlini: una dinastia di orafi, in “MCM. La Rivista delle Arti Minori”, 9, 1989, pp. 10-12; E. Nardinocchi, Laboratori in Galleria e botteghe sul Ponte Vecchio. Sviluppi e vicende dell’oreficeria nella Firenze del Seicento, in Argenti fiorentini dal XV al XIX secolo. Tipologie e marchi, a cura di D.L. Bemporad, Firenze, vol. I, 1993, pp. 114-133; Eadem, in Argenti fiorentini…, 1992, I vol., pp. 425-426. []
  4. R. Tarchi, C. Turrini, Nuovi contributi…, 1987, pp. 736-758. []
  5. Argenti fiorentini…, scheda n. 92, II, p. 143. []
  6. Ibidem. []
  7. R. Tarchi, C. Turrini, Nuovi contributi…, 1987, p. 744. []
  8. A. Paolucci, Per Cosimo Merlini…, 1975, p. 27. []
  9. Sulla pisside conservata presso il Museo del Tesoro di Santa Maria, Firenze, (Impruneta) si veda PSAE, n. cat. 00006883; Mostra del tesoro di Firenze sacra, Convento di San Marco, II voll., vol. I, 1933, p. 130; A. Paolucci, Per Cosimo…, 1975, pp. 27-28; Impruneta. Arte e tradizione, catalogo della mostra a cura di F. Rossi, A. Paolucci, Firenze, 1977, n. 10, p. 41; A. Paolucci, Le opere d’arte, in La comunità cristiana fiorentina e toscana nella dialettica religiosa del Cinquecento, catalogo della mostra a cura di C. Beltramo Ceppi, Firenze 1980, n. 102, p. 262; C. Proto Pisani, A. Paolucci A., B. Pacciani, Il Tesoro di Santa Maria dell’Impruneta, 1987, n. 13, pp. 42-43; R. Tarchi, C. Turrini, Nuovi contributi…, 1987, p. 751; E. Nardinocchi, in Argenti fiorentini…, 1992, II, n. 126, pp. 198-200, G. Cantelli, Storia dell’oreficeria e dell’arte tessile in Toscana dal Medioevo all’età moderna, Firenze 1996, cap. IV, pp. 9-10, Fig. 9, p. 259. []
  10. A. Paolucci, Le opere d’arte, in La comunità cristiana…, 1980, n. 102, p. 262. []
  11. Sul calice conservato presso la Chiesa di San Bartolomeo, (Prato), si veda PSAE, n. cat. 0034385; A. Paolucci, Per Cosimo Merlini…, 1975, n. 13, p. 30, G. Cantelli, Storia dell’oreficeria…, 1996, cap. IV, p. 10, Fig. 10, p. 259. []
  12. Ivi, p. 29. []
  13. Argenti fiorentini…, 1992, I, p. 127. []
  14. Per il suo profilo biografico si veda Argenti fiorentini…, 1992, I, p. 425. []
  15. Ibidem. È da segnalare inoltre che Marc’Antonio realizzò un calice datato 1682 (Fig. 13) simile per tipologia ma non sovrapponibile ai tre calici analizzati nell’articolo; si veda al proposito M. Fanti, Il Museo di San Petronio in Bologna, Bologna, 1970, pp. 57-58; La Basilica di San Petronio, II voll., Bologna, 1983, vol. II, p. 305, tav. 381, p. 308. []
  16. Si veda in particolare il prezioso contributo di E. Nardinocchi, I Merlini: una dinastia di orafi, in “MCM. La rivista delle arti minori”, 9, 1989, pp. 10-12. []
  17. A. Paolucci, Per Cosimo…, 1975, p. 29 (il riferimento in questo caso è al calice di argento conservato presso la Chiesa di San Luco, Mugello, ma risulta calzante anche per l’arredo in esame). []
  18. Sull’arredo si veda PSAE, n. cat. 00347993. []
  19. Per il profilo biografico del Teoli si veda C.G. Bulgari, Argentieri, gemmari e orafi d’Italia. Notizie storiche e raccolta dei loro contrassegni con la riproduzione grafica dei punzoni individuali e dei punzoni di stato, VII voll., Parte prima – Roma, pp. 459-460. []
  20. Sul manufatto si veda la scheda della Soprintendenza di Firenze n. 09/00347992. []
  21. C.G. Bulgari, Argentieri, gemmari…, n. 1016, p. 460. []
  22. Ivi, n. 56, p. 16. []
  23. Si veda la nota n. 11. []
  24. A. Paolucci, Per Cosimo…, 1975, p. 28. []
  25. Questi due arredi come detto, presentano una sezione inferiore e mediana assolutamente sovrapponibile; è interessante segnalare come nella pisside il Merini si firmi COSMUS MERLINUS BONON. FAC. FLOR. A. D. 1637 mentre nel calice come COSMUS MERLINUS INV. FAC. FLOR. 1637. A sottolineare nel primo caso la sua origine bolognese mentre nel secondo la paternità (del disegno) dell’opera. []