Serena Franzon

Gioiello & jewellery, terza edizione, Museo del gioiello Vicenza

a cura di Livia Tenuta, Milano 2019, Silvana Editoriale, 344 pagine, ill. col.

Il Museo del Gioiello di Vicenza è stato inaugurato nel 2014 nel cuore della cittadina veneta, nota proprio per la produzione di accessori preziosi. Esso ospita un’esposizione interamente composta di monili, che si rinnova ogni due anni grazie all’apporto di curatori provenienti dal mondo accademico, del collezionismo e del design.

Questo catalogo, con testo in italiano affiancato dalla traduzione in inglese, accompagna la terza edizione del museo, che copre il biennio 2019-2020.

Il percorso museale distribuisce i 310 pezzi esposti in nove sale, ognuna contraddistinta da una precisa tematica, rimasta invariata rispetto alle precedenti edizioni. Il catalogo ripropone la stessa scansione riscontrabile nella sede espositiva, dedicando ciascun capitolo alla trattazione di una sala. Tutti gli oggetti in mostra sono riprodotti nel libro tramite fotografie a colori.

I saggi dei curatori sono anticipati da una breve introduzione di Alba Cappellieri, direttore del museo, che spiega come la divisione in nove sezioni permetta «di restituire la complessità semantica del gioiello» (pp. 10-11). La volontà di mostrare al grande pubblico che i monili, lungi dall’essere oggetti meramente decorativi, possano convogliare significati diversi a seconda del contesto d’utilizzo, è manifestata apertamente sia nell’esposizione che nella relativa pubblicazione.

Il catalogo si apre con la collana Flora di Bulgari, monile emblematico della casa d’alta gioielleria, scelto dal direttore del museo per accogliere i visitatori nelle sale (pp. 13-16).

Segue la prima sezione, volta a esplorare il tema della magia in relazione ai preziosi (pp. 17-46). Molto spesso infatti i monili sono stati visti come amuleti, portafortuna, oppure oggetti capaci di esercitare un influsso benefico.

La curatrice, Cristina Boschetti, analizza gioielli realizzati in epoche diverse e provenienti da svariati luoghi del mondo, facendo così comprendere come i gioielli magici siano esistiti in tutte le culture. Il saggio sottolinea però come il potere straordinario attribuito a questi oggetti non sia sempre immediatamente intellegibile a chi guarda, poiché strettamente legato all’ambito d’uso dei monili. Si pensi per esempio al caso delle perle di vetro veneziane, realizzate nella città lagunare almeno dal xv secolo: prive di connotazioni magiche nel luogo di produzione, esse erano ritenute taumaturgiche all’interno del contesto africano, dove sono state utilizzate per secoli nei riti di guarigione (pp. 25-31).

Il testo analizza diversi tipi di amuleti, divisi per filoni tematici: i monili a forma di animali, i contenitori di reliquie, formule magiche o sostanze farmaceutiche, e infine i gioielli con campanelli o sonagli, ritenuti in grado di allontanare gli spiriti maligni tramite il suono emesso. Uno dei paragrafi è inoltre dedicato alle gemme di epoca romana imperiale, incise con figure fantastiche e formule magiche. In aggiunta, deve essere segnalata la presenza nella sala di quattro pregevoli gioielli rinascimentali, normalmente conservati al museo Agostino Pepoli, e provenienti dal Tesoro della Madonna di Trapani.

La successiva sezione, curata da Pascale Lepeu, è incentrata sul valore simbolico dei gioielli (pp. 47-88). I preziosi possono infatti connotarsi come veicoli di svariati significati, sintetizzati nei titoli dei paragrafi del saggio: religione, aristocrazia, patriottismo, fortuna, protezione, amicizia-fedeltà-famiglia, amore, potere.

Tutti questi temi possono essere rintracciati nella lunga e fortunata produzione dei marchi Cartier e Van Cleef & Arples, dalle cui collezioni storiche provengono gran parte dei monili esposti nella sala Simbolo. Se una croce tempestata di pietre preziose può divenire facilmente un riferimento alla fede cristiana, altri rimandi simbolici appaiono essere meno espliciti. Per esempio la lettera V, così come il suo corrispettivo nel codice morse, divenne nel corso della seconda guerra mondiale un simbolo della causa alleata, per il richiamo alla prima lettera della parola victory. Ed è proprio il tema del patriottismo, uno dei meno indagati in relazione al gioiello, a mostrarsi ricorrente nei preziosi prodotti nei periodi di conflitto o in quelli appena successivi (pp. 59-65).

Il terzo capitolo è incentrato invece sull’aspetto funzionale dei monili (pp. 89-120). Il curatore Massimo Vidale esplora la funzione forse più importante del gioiello, sebbene non la più scontata: la costruzione dell’identità della persona che lo indossa all’interno di un contesto sociale. Nella sezione sono per esempio discussi alcuni sigilli, indossati come gioielli e risalenti talora a più di 4000 anni fa, che rendevano visibile non solo il censo, ma anche, attraverso la forma e il tipo di decorazione, il luogo di provenienza e la lingua parlata da chi li indossava (pp. 91-100). La trattazione prosegue con l’analisi di oggetti preziosi legati alla manifestazione dell’identità etnica e di casta: i gioielli in cornalina, che in India potevano essere indossati solo dai guerrieri, i monili femminili turcomanni del xx secolo e quelli dei kuchi, popolazione nomade afgana. La sezione chiude infine con un esempio tratto dal mondo contemporaneo: i gioielli usati dai rapper americani, emblemi di status e successo.

Segue una discussione sul tema della bellezza, a cura di Patrizia di Carrobio (pp. 121-156). Qui si esplora il lato ludico del gioiello, e come esso possa aggiungere bellezza a chi lo indossa, concentrandosi in particolare su spille e orecchini. Rispetto ai capitoli precedenti, si tratta di uno scritto dal carattere molto discorsivo e fortemente aneddotico. Esso riporta infatti una serie di episodi variamente legati ai monili presentati nella sala, riconoscendo una grande importanza alle scelte personali dell’orafo nel ricercare la pregevolezza estetica.

Il quinto capitolo è volto a esplorare il gioiello in quanto forma d’arte, ed è curato da Marie-José van den Hout (pp. 157-190). Gli oggetti analizzati sono quasi tutti provenienti dalla collezione della Galerie Marzee, di cui la curatrice è titolare, e sono descritti uno a uno nel testo, realizzato da Liesbeth den Besten. La scelta espositiva ha come fulcro l’uso dell’oro nella gioielleria d’artista, in particolare tra xx e xxi secolo. Il tema e il periodo scelto non sono casuali: il metallo nobile, in genere tra i materiali privilegiati nella produzione di gioielli, ha conosciuto in questo lasso di tempo una sorta di rifiuto da parte degli artisti, interessati a esplorare le potenzialità dei materiali poveri nella gioielleria. L’intento è quindi quello di indagare tutti quei casi in cui l’oro sia rimasto il principio ispiratore e la materia di realizzazione delle opere d’arte da indossare.

Chichi Meroni, curatrice della sala dedicata alla moda, è l’autrice del saggio successivo (pp. 191-234). In questo caso, la sezione è incentrata specificamente sui bijoux fantasia, e il percorso è scandito da riferimenti alle 7 arti: scultura, architettura, danza, musica, teatro, letteratura, pittura. I pezzi esposti richiamano da vicino le diverse discipline, come le tre spille con ballerini nella sezione danza, o quella a forma di tavolozza per la pittura. Nel contempo però il saggio è volto a sottolineare i legami tra le diverse forme d’arte e  il mondo dei gioielli e, soprattutto, della bigiotteria. Sono presenti infine un paragrafo dedicato ai bijoux de couture, monili realizzati per le case di moda, oltre a un approfondimento sul gioiello di ricerca, inteso come «espressione cosciente di un intento artistico individuale» (p. 227).

La successiva trattazione sul design, curata da Alba Cappellieri e da lei scritta assieme a Livia Tenuta, è incentrata sui creativi italiani che hanno fatto del gioiello la loro principale forma di espressione, escludendo dunque architetti o altri designer che si sono occupati solo saltuariamente di gioielleria (pp. 235-280).

Più che nella materia preziosa, in questo caso il valore del monile viene individuato nella qualità del progetto. Il design può infatti spingersi oltre i confini che lo identificano usualmente: l’esempio forse più calzante è quello degli anelli terapeutici come Doppio Pino di Monica Castiglioni. Disegnato su misura per un cliente con artrosi deformante, l’anello sfrutta anche le tradizionali proprietà attribuite al rame, ritenuto in grado di alleviare questo tipo di dolori (p. 258). La sezione si sofferma inoltre sull’incidenza delle nuove tecnologie sulla progettazione dei gioielli, presentando un panorama caleidoscopico di materiali e tecniche di realizzazione.

L’ottavo saggio nasce a corredo della sala Icone, curata da Gabriele Pennisi ed Emanuele Ferreccio Pennisi (pp. 281-302). In essa è possibile osservare gioielli provenienti da alcune collezioni private. Tutti i pezzi esposti vanno dal xvii al xx secolo, con un nucleo importante di opere in stile art déco. Il testo recupera l’idea di icona come immagine religiosa, ed esplora il rapporto tra monile e sfera del sacro, soffermandosi spesso anche sui materiali impiegati e sulle tecniche di produzione. Nella sezione sono però presenti anche gioielli legati al contesto culturale e politico, il cui valore iconico è rintracciato nella presenza di immagini e simboli.

L’ultima parte del libro è dedicata al futuro del gioiello, ed è curata da Olga Noronha (pp. 303-337). Questo testo è diviso in varie sezioni, che esplorano il monile come oggetto estremamente versatile e sempre in grado di nuove interpretazioni. L’idea della Medically prescribed jewellery, per esempio, implica che il gioiello possa arrivare a modificare il corpo. Il monile diviene una vera e propria protesi che possiede anche un valore estetico, basandosi sul concetto di non nascondere il danno corporeo, bensì di valorizzarlo (pp. 311-314). La sfida di rendere bello qualcosa che nasce con scopi funzionali è del resto intrinseca allo statuto stesso delle arti applicate. La vera essenza del gioiello, ornamentale, comunicativa e funzionale allo stesso tempo, è così ripresa dal passato e consegnata al futuro.

La pubblicazione è nel complesso molto variegata nella forma e nella sostanza dei diversi saggi. Può risultare utile agli studiosi poiché riporta numerosi gioielli provenienti da collezioni private, normalmente non visibili e poco studiati. L’intento del testo, molto semplice e adatto a una platea di lettori assai eterogenea, è però quello di avvicinare il grande pubblico a una forma d’arte che, per quanto in grado di attirare per la sua innegabile capacità di catalizzare gli sguardi, risulta essere ancora poco conosciuta nei suoi risvolti simbolici e contenutistici.