Giovanna Perini Folesani

giovanna.perini@uniurb.it

Bernardino Baldi, la ditta Barocci e Guidubaldo dal Monte

DOI: 10.7431/RIV19012019

Per gli storici dell’arte, il cognome Barocci evoca automaticamente Federico, raffinato artista della seconda metà del Cinquecento, pittore di Corte nella nativa Urbino e oggetto di un’ampia e insolitamente ben informata biografia belloriana1, mentre il nome di Bernardino Baldi fa pensare ad un suo modesto collega bolognese (1557-1612)2, coevo a lui ed ai Carracci, autore di mediocri pale d’altare controriformate e di alcuni manoscritti storico-teorici sulla pittura (oggi perduti), di cui si ha notizia grazie alla Felsina Pittrice di Carlo Cesare Malvasia, che li ha invece visti e compulsati3.

In realtà esiste un altro Bernardino Baldi (1553-1617)4, assolutamente contemporaneo al precedente (e anche a Barocci, di cui è concittadino), benché privo di nessi familiari con lui: il suo rapporto con le arti figurative, maggiori e minori, pur esistendo, risulta fortemente mediato dalla letteratura e, tutto sommato, è ignorato dagli storici dell’arte, essendo egli letterato di professione e appassionato matematico e studioso di fisica e ingegneria, oltre che, per quasi un quarto di secolo, abate di Guastalla, ma solo al fine di poter contare su un incarico ben remunerato, creato apposta per lui (d’intesa col papa marchigiano Sisto V) da Ferrante II Gonzaga, alla cui corte Baldi trascorse un lungo periodo. Nella nativa Urbino, questo Baldi (a volte inopinatamente benché comprensibilmente confuso, specie all’estero, con l’omonimo bolognese)5 funse negli ultimi anni della sua vita come consulente per le invenzioni di alcuni quadri barocceschi (la tradizione locale, urbinate, prontamente recepita dal maggior biografo settecentesco del Baldi, il bibliotecario del Duca di Parma Ireneo Affò, gli attribuisce l’invenzione della cosiddetta Madonna Albani)6 ed è lui stesso ad informarci in versi latini (e forse anche italiani) del fatto che Barocci gli fece un ritratto, oggi perduto, probabilmente giovanile7. Con il pittore suo concittadino Baldi condivideva del resto molte amicizie e conoscenze, come (oltre alla famiglia ducale tutta), Antonio Galli, istitutore del giovane Baldi non meno che dei rampolli della corte8, Guidubaldo dal Monte (celeberrimo matematico ritratto con grande eleganza proprio da Barocci)9 e soprattutto, gli altri Barocci: il padre di Federico, Ambrogio iun. (progettista intagliatore di gemme, scultore e orologiaio), il fratello di Federico (Simone, 1525 ca. – 1608), e i loro due cugini (Giovanni Ambrogio e Giovanni Battista), attivi tra Urbino e Roma, il primo come fabbricante di strumenti matematici, astronomici, nautici di precisione, gli altri anche di orologi, ed erano celebri in tutta Italia e oltralpe10. (Nella Biblioteca Lancisiana esiste una grande sfera armillare di ottone da loro costruita, realizzata non solo con grande perizia tecnica, ma anche con notevole eleganza nell’intaglio dell’elaborato piedistallo ligneo di gusto decisamente barocco)11.

Il famoso, rovinatissimo autoritratto di Agostino Carracci orologiaio (Fig. 1) dà un’idea piuttosto precisa (benchè non esaustiva) della tipologia degli oggetti creati dalla ditta urbinate, in materia di orologi da muro, da tavolo, da persona (sembrano da taschino, ma in realtà venivano portati al collo): che Agostino si dilettasse di creare congegni meccanici, anche di precisione (come appunto gli orologi) è Malvasia a ricordarlo, traendo spunto proprio da questo autoritratto a lui ben noto12, ma (dato che la costruzione di simili marchingegni di precisione nel Cinquecento era ancora poco diffusa, demandata, in Italia, a pochissime ditte di tradizione familiare, tra cui i Della Volpaia in Toscana e i Barocci a Urbino) forte è la tentazione di pensare all’autoritratto del bolognese come eseguito “in casa Barocci” a Urbino (è certo infatti che l’orologino da collo che Agostino tiene in mano, del tipo denominato “uovo di Norimberga”, corrisponde perfettamente al modello realizzato dai Barocci per Filippo Neri o la sua Congregazione a Roma)13 (Fig. 2). Se questa ambientazione ipotetica è fiction molto verisimile, storia invece – documentata dall’evidenza visiva del Battesimo di Schleissheim o della Madonna con San  Pellegrino – è un viaggio a Urbino di Ludovico Carracci ancora piuttosto giovane, poco importa se su indicazione del mentore Federico Zuccari come ho spiegato altrove14.

Tornando agli orologi, però, il Cinquecento è il momento in cui la “privatizzazione del tempo”, ovvero la possibilità di misurarlo autonomamente, nella propria dimora, senza dover dipendere dalla scansione delle ore affidata esclusivamente e collettivamente all’orologio pubblico posto in cima alla torre o al campanile della piazza principale della città o del borgo, comincia a diffondersi ed affermarsi soprattutto a livello di gran signori e cortigiani di rango (è il caso del ritratto bellissimo, di incerta attribuzione, dell’urbinate Antonio Galli)15 e raggiunge addirittura la qualità della portabilità personale (spesso legato al collo, talora stivato in una tasca o solo eccezionalmente portato al polso, fissato ad un vezzoso nastro): insomma, non è affatto un caso se Tiziano ritrae Eleonora Gonzaga, moglie di Francesco Maria I della Rovere (e pertanto duchessa di Urbino per matrimonio)16 (Fig. 3) seduta accanto a una finestra aperta del suo palazzo, vicino ad un tavolo su cui riposa il suo cagnolino d’affezione, raggomitolato come un gatto davanti ad un prezioso orologino da tavolo che, c’è da giurarci, è fabbricato dai suoi sudditi Barocci (a differenza di quello effigiato dallo stesso pittore nel ritratto del cardinal Madruzzo, verosimilmente di origine transalpina, teutonica)17. Il pregio particolare dell’oggetto risiede senz’altro nelle sue modeste dimensioni (che ovviamente rendono più difficile la realizzazione dei delicati meccanismi di precisione che lo animano), non meno che nella pur sommaria decorazione incisa della mostra, nella colorazione verosimilmente a smalto della cupoletta che lo sormonta per il campanello, o ancora nelle colonnine ornamentali che ne impreziosiscono il corpo, trasformandolo in un oggetto pseudo-architettonico quasi di oreficeria (anche se, invece dell’oro o dell’argento, è l’ottone dorato a costituire il parallelepipedo della cassa). Spesso (è il caso di orologi non firmati e però attribuiti ai Barocci per sostanziali somiglianze meccaniche, oltre che stilistiche) la cassa di metallo dell’orologio (solitamente di ottone luccicante) risulta decorata con racemi incisi (nel caso dell’orologio di Filippo Neri, anche l’interno della cassa è decorato a racemi e con una goffa figura allegorica femminile), facendo assomigliare vieppiù questi prodotti ad oggetti di oreficeria. Anche Francesco Maria II della Rovere, in seguito, si fa ritrarre da un anonimo pittore di corte, forse pesarese (ma non estraneo alla cerchia di Federico Barocci), in piedi accanto ad un tavolo coperto su cui poggia un diverso tipo di orologio da tavolo (detto a tamburo), sicuramente anch’esso di fabbricazione locale, e dunque presumibilmente della ditta Barocci, quasi a voler illustrare nel suo stesso ritratto non solo uno status symbol, ma una delle eccellenze produttive del suo stato18 (Fig. 4).

Del resto, l’esempio più famoso di orologi della ditta (opera di Giovanni Maria Barocci, che lo ha firmato e datato 1570 nel basamento di un colonnino decorativo) è il complesso orologio planetario realizzato per Pio V, a quattro facce (con altrettanti quadranti, ciascuno progettato per un compito diverso, quale, oltre a segnare le ore, i giorni della settimana e del mese, mostrare anche i movimenti dei pianeti, del sole e della luna) in cui la complessità e versatilità del meccanismo si accoppia ad una notevole eleganza strutturale, confermata dalle eleganti, lisce colonne doriche angolari, non meno che dalle sommarie statuette di ottone che le sovrastano e dalla elegante figura allegorica, più grande, collocata in cima al campanello19. (L’aspetto generale è molto simile a quello dell’orologio posato su un mobiletto accanto a Fabrizio Salveresio nel ritratto dipintogli da Tiziano e oggi al Kunsthistorisches Museum di Vienna)20. Non a caso proprio questo orologio è immortalato da Baldi in un sonetto stampato nella sua raccolta di Versi e prose (1590), in una sezione (Rime varie) dedicata all’urbinate Vittoria Galli (figlia di quell’Antonio Galli che si era fatto ritrarre forse da Tiziano accanto ad un orologio). Il sonetto reca un titolo molto dettagliato:

Fatto sopra un Horologio da ruote, opera di Gio. Maria Barocci da Vrbino, donato da lui a Pio quinto, nel quale sono inserti i corsi de’ pianeti, et altre cose appartenenti a movimenti celesti

L’ingegnoso contesto, ond’altri puote

Del ciel ritrar l’inesplicabil giro,

Quai dotte man sì nobilmente ordiro,

E l’armonia temprar di tante ruote?

Celesti furo: hor come ad altri note

Foran le vie de l’immortal Zaffiro:

Si parmi, e quinci avien che l’arte ammiro

E le bell’opre al cieco vulgo ignote.

Fortunato metallo, a cui fu dato

Entro sì breve spatio accoglier quanti

Moti abbraccia del ciel l’immenso velo.

Dritto non è, ch’al par di te si vanti

Il vetro di colui, cui diede il fato

Dar altro mondo al mondo e cielo al cielo21.

Notevole che l’ammirazione per chi ha saputo realizzare un orologio multifunzione così complesso ne faccia elogiare le “dotte mani”, sintagma sovente riferito al pittore o allo scultore fin dal Medioevo (si pensi ai tituli vergati da Sigeri di St Denis), sicché l’orologiaio si eleva al di sopra del rango di mero artigiano per assurgere a quello di vero artista, tanto più che anche le sue mani sono “celesti”, ovvero divine, altra connotazione, iperbolica, spesso attribuita all’artista rinascimentale, almeno a partire dal De pictura di Leon Battista Alberti22.

Ma l’orologio più particolare realizzato per il duca d’Urbino dalla ditta Barocci, basandosi sui calcoli di Guidubaldo dal Monte, è quello a rifrazione presente nel giardino segreto (detto anche giardino pensile) del Palazzo Ducale e scambiato spesso per un normale bacino di fontana in pietra, misteriosamente privo di tubazioni di carico e scarico dell’acqua: in realtà l’orologio a rifrazione somiglia concettualmente ad una meridiana, come questa funziona solo di giorno, alla luce del sole, ha una forma concava (spesso emisferica) e reca incise al suo interno, che deve essere tenuto costantemente pieno d’acqua limpida, le tacche delle ore calcolate in base alla posizione dell’orologio rispetto al sole e alla rifrazione subita al suo interno dai raggi solari23 (Fig. 5). Un esempio assai più piccolo, portatile, in ottone (detto: orologio a calice), attribuito a Simone Barocci (fratello del pittore) è permanentemente in mostra nel Museo della Scienza di Firenze24 (Fig. 6) e, come quello grande in pietra, è semplicissimo nella forma, affatto privo di elementi esornativi: la funzionalità è tutto e la bravura dell’artefice sta nel seguire al millimetro le misure fornite dal matematico che l’ha progettato. É per questo che Baldi celebra in versi non Simone Barocci, bensì Guidubaldo dal Monte, per il prezioso orologio del giardino segreto di Palazzo Ducale, risalente al 1572, dando sommariamente conto del principio che sottende il suo funzionamento:

Sopra un orologio da sole oprato con acqua del P. Guido Baldo de’ Marchesi del Monte

Non è tazza di Bacco e di Fileno

Quel che là vedi concavo emispero;

Orologio è ch’al sol dimostra il vero,

Se fin a l’orlo è di bell’onda pieno.

Ha dunque doppio il vaso in sé calore,

Poi ch’a’ labri dà il fonte, agli occhi l’ore25.

La differenza concettuale e pratica tra orologi meccanici e orologi solari (a rifrazione o meridiane che fossero) era, come è ovvio, ben presente a Baldi, che ne fece l’oggetto di uno dei suoi apologhi, dichiaratamente ispirati, più che ai modelli classici, agli esempi moderni, umanistici, forniti da Alberti (e, pare, anche da Leonardo da Vinci, i cui manoscritti è stato postulato gli fossero almeno parzialmente noti, direttamente o indirettamente)26:

Un oriuolo a sole e uno a mostra

Un orologio da sole riprendeva quello dalle ruote che spesso vacillasse. Rispondeva egli: Se tu sei più giusto il dì, ed io son giusto, come mi sono, anche la notte; ricordati che i beni sono compartiti27.

Epigrammi ed apologhi, espressioni letterarie rispettivamente in versi e in prosa della brevitas concettosa, sono la misura preferita della scrittura di Baldi, in linea con il gusto incipiente, protobarocco per il concettismo28: del resto le sue frequentazioni letterarie includono poeti quali Gabriello Chiabrera, il bolognese Cesare Rinaldi, e lo stesso Marino.

In effetti, l’approssimazione nella misura del tempo tramite l’orologio meccanico, se non ben regolato, è il tema di un altro epigramma del Baldi, inserito nel gruppo degli “arguti”, in cui compaiono sovente personaggi fittizi29:

Dell’orologio di Atero

L’orologetto, o Torrentin, d’Atero

Or dorme, or va di passo, or corre, or vola;

Ed è verace in una cosa sola,

Ch’in tutto l’anno mai non dice il vero30.

Positivo, invece, l’epigramma sulla sveglia, che, concepito quasi come un indovinello, immortala uno strumento meccanico da lungo tempo in uso, raffigurato anche nei famosi postergali del Palazzo Ducale di Urbino scolpiti (anche da Ambrogio Barocci senior, scalpellino lombardo capostipite del ramo urbinate della famiglia) seguendo le tavole illustrative del Valturio31:

Per uno svegliatorio

Tener fra gli altri servi un servo soglio

Che fedel mi risveglia ognor che voglio:

Odi, lettor, se meraviglia scrivo:

Può tanto e non sa nulla e non è vivo32.

La misurazione del tempo con orologi solari (gnomonica) è parte della cultura dell’architetto (civile e militare) fin dai tempi di Vitruvio (di cui Baldi, architetto dilettante un po’ meno appassionato di Guidubaldo dal Monte, è comunque attento commentatore lessicale e interprete)33 e dunque non stupisce che l’urbinate dimostri nei suoi esercizi letterari tanto interesse per entrambi i tipi (meccanico e solare) di strumenti per la misurazione del tempo: ma è tutta la meccanica a destare la sua curiosità in tutte le sue applicazioni, comprese quelle macchine per sollevar l’acqua (basate o meno sul principio della vite di Archimede)34 che proprio Leonardo aveva attentamente studiato, a Milano e a Firenze, come rivelano le sue pagine del Codice Atlantico35. Non meno tranchant è anche la polemica di Baldi (presente già in Leonardo) contro le macchine che pretendono di agire in moto perpetuo36.

Anche l’ottica (sotto forma dei canocchiali galileiani) trova un piccolo spazio celebrativo:

Per l’occhiale di Galileo Galilei

S’avea l’antico e nobil Tolomeo

Il nuovo occhial ch’or opra il Galileo,

Contar potuto avria dal sommo Atlante

Stelle, pesci, erbe, fiori, augelli e piante37.

Naturalmente gli strumenti scientifici, all’epoca, non avevano ancora l’odierno design pulito e funzionale e, come gli orologi da tavolo, si concedevano qualche elemento schiettamente ornamentale: basta guardare la scatola cinquecentesca di metallo elegantemente damaschinato in oro e argento contenente calamai portatili e vari strumenti da disegno in acciaio anch’esso damaschinato (inclusi portamatite, compassi di vario tipo, tiralinee, portamine e simili) prodotti probabilmente dalla ditta Barocci e conservata al Museo di Storia della Scienza dell’Università di Oxford38. Proprio ad un compasso è dedicato un apologo morale di Baldi:

Il compasso

Uno desiderava saper dal compasso perché, facendo il circolo, stesse con un piè saldo e con l’altro si muovesse, cui il compasso: Perché egli è impossibile che tu facci cosa perfetta, ove la costanza non accompagna la fatica39.

È il genere di strumenti usati nel disegno tecnico-scientifico e nella cartografia, nei cui confronti Baldi dimostra un costante interesse, testimoniato non solo dall’epigramma al cartografo veneto Giovanni Antonio Magini, docente di matematica nello Studio bolognese40, esaltato come novello Tolomeo redivivo41, ma anche da un altro epigramma dedicato a un mappamondo (non è chiaro in realtà se si tratti di un vero mappamondo o, piuttosto e più specificamente, di un  planisfero):

Sopra un mappamondo

La tavola che miri è il mondo intero:

Contiene Ispani e Franchi e Mori e Sciti;

Sonvi gli ardenti e gli agghiacciati liti,

E questo accoglie in sen doppio emisfero.

Se tu la copri, amico, odi novella:

Avrai più che non ebbe il Re di Pella42.

Magini era subentrato a Egnazio Danti, suo maestro, nella cattedra bolognese dopo la sua morte, benché il domenicano perugino da anni si fosse trasferito a Roma per la realizzazione della Galleria delle Carte Geografiche in Vaticano. Nella stessa Bologna fioriva, in quel medesimo torno di tempo, promosso dall’Arcivescovo Gabriele Paleotti, un analogo interesse per la topografia locale, testimoniato anche dalla pianta di Bologna realizzata da Agostino Carracci43: tuttavia la cartografia e la realizzazione di mappamondi e planisferi con la misura delle distanze tra i luoghi risaliva al secolo precedente e infatti Bartolomeo Fazio ricordava il mappamondo dipinto da Jan van Eyck tra le prime realizzazioni scientifiche del genere44. Non è un caso, quindi, se l’epigramma di Baldi dedicato alle incisioni fiamminghe si trova appena a qualche foglio di distanza45: l’accenno ivi contenuto al fatto che «che non sol di stupor gli uomini industri empiono» (ove uomini industri è, a quanto pare, perifrasi per artefici, ovvero artisti) può far pensare ad una conoscenza di queste stampe da parte di Baldi favorita dalla frequentazione di studi d’artista come quello di Barocci, che del resto si era anche dedicato personalmente all’incisione46.

Sin qui si è passato rapidamente in rassegna il contributo di Baldi all’apprezzamento delle applicazioni tecnico-scientifiche delle arti del disegno, ma una fuggevole attenzione alle arti cosiddette minori, specie di lusso ovvero suntuarie, emerge dalla lettura dei suoi versi, a partire dalla produzione urbinate di ceramiche dipinte:

De’ vasi d’Urbino

È vil materia il fango, io tel consento,

Ma se i vasi d’Urbin forse vedrai,

Io non ho dubbio alcun che tu dirai

Pregiato esser il fango e vil l’argento47.

Più che dimostrare un vero gusto per la ceramica, specie urbinate, Baldi sembra constatarne le obiettive fortune economiche, condivise con la più antica tradizione manifatturiera faentina, vista, questa, in diretta competizione con la tradizione vascolare greca, che ne risulta superata in termini non tanto tecnici od estetici, quanto di fama e perciò fortuna:

De’ vasi di Faenza

Lodar di Samo e di Sagonto l’opre

De gli antichi scrittor l’illustri penne,

Ma la fama che chiara infin qui venne

Di Faenza l’industria oggi ricopre48.

Nulla più si ricava, nel corpus degli scritti in italiano di Baldi, sulle ceramiche, fatto salvo un prevedibile apologo sulla differenza tra un vaso di bronzo e uno di terra49: ma qualcosa è possibile spigolare su vetri e cristalli, a partire dai vetri di Murano:

De’ vetri di Murano

Beveano i Re già ne’ cristalli egregi,

Invido saria dunque o certo insano

Chi tacesse i tuoi pregi, o bel Murano,

Poiché le gemme tue tutti fan regi50.

Il sospetto che questo epigramma possa essere collegato alla tarda missione diplomatica del Baldi a Venezia presso quel governo per conto del duca di Urbino (1612)51 e che sia perciò ispirato da esigenze di captatio benevolentiae dell’interlocutore politico emerge dalla lettura di altri due epigrammi che val la pena di riportare, a riprova del sentimento ambivalente dell’autore nei confronti del vetro. Il primo contrappone il valore della bellezza fragile del vetro a quella durevole del diamante:

Al vetro

Se splendi, vetro, il tuo splendor che vale?

Men piace altrui beltà splendida e frale.

Lascia pur tu che di splendor si vante

Invitto alle percosse il bel diamante52.

Questo epigramma sembra una ripresa concettuale e variazione formale del tema svolto in uno degli Apologhi, dal titolo

Il melograno e il rubino

Il Melograno si doleva degli uomini che prezzassero più un Rubino per lo colore solo e disprezzassero i figli suoi, che di colore non cedono a lui, e di sapore il superano; a cui fu risposto: Tu ti duoli a torto, ché la sua bellezza è eterna, e la bellezza e bontà de’ tuoi figli è caduca e fragile53.

Non troppo diverso è il senso morale di un altro apologo, dal titolo:

Il ghiaccio e il cristallo

Il Ghiaccio pretendeva che il Cristallo gli dovesse cedere, allegando in suo favore il Cristallo esser prima stato Ghiaccio. Taceva il Cristallo, finché scoprendosi il sole, fu giudicato dal suo caldo vincitor della lite54.

Questo breve testo consente di apprezzare meglio, in rapporto all’elogio dei calici di vetro di Murano visto dianzi, l’epigramma

Per un bicchiere di cristallo

Bicchier, se ben ti tocco, io non ti scerno,

Sì sei tu del color de l’aria pura.

Sento ben, sì, che sei materia dura,

Pur com’è duro il gel che stringe il verno.

Ma s’io ti pongo ove la luce fere,

Veggio il lume del sol doppiar la luce

E così l’occhio a contemplar conduce

Quel ch’era pria celato al suo vedere.

Rassembri gemma tu, se si fa il vino

O crisolito ardente, o bel rubino;

Quinci stolti dich’io tutti coloro

Che potendo il cristallo, adopran l’oro55.

Per una volta il letterato sembra esprimere non un astratto concetto morale, né un doveroso e dotto encomio formale, né un generico asserto fatico declinato in compito esercizio letterario, ma una reale propensione estetica, che riesce a comunicare con qualche efficacia e felicità espressiva, specie ove lo splendore duro e simile al ghiaccio del cristallo si tramuta in crisolito o rubino quando il calice viene riempito da vino bianco o rosso. Eppure Baldi sembra sostanzialmente indifferente alla seduzione dei gioielli e della loro lavorazione, come dimostra un altro epigramma relativo ad un anello ornato da una gemma intagliata (forse un cammeo), in cui l’erudizione classica, mitologica, prevale nettamente sulla emozione estetica:

Sopra un Perseo scolpito in una gemma d’anello

Perseo contemplo, espresso in quella gemma,

Ch’il cerchio d’or de le tue dita ingemma.

Perché non vola, Albin? Di’, chi lo frena?

Non vedi che ristretto egl’è in catena?56.

Insomma, manca la fascinazione per l’oreficeria e, in generale, per le arti suntuarie, la cui inserzione occasionale negli epigrammi è quasi sempre funzionale ad una finalità allotria, per lo più morale, come conferma indirettamente l’analisi di un ultimo epigramma, che ha per oggetto un “rinfrescatoio”, ovvero un  contenitore da ghiaccio in cui d’estate vengono immerse le brocche o le bottiglie di acqua e soprattutto di vino per tenerle fresche, sulla tavola imbandita. Urbino ne ha prodotti, proprio nel corso del Cinquecento e ancora nel primo Seicento, di clamorosamente artistici, eleganti e preziosi in ceramica (specie della ditta Fontana), ma Bernardino Baldi si concentra su un rinfrescatoio ben più modesto, di metallo, perché (a differenza della ceramica) consente di assolvere una duplice ed opposta funzione:

Rinfrescatoio e focolare

Questo rame che vedi, al tempo estivo,

Rinfescommi soave il vino e l’onda;

Poi, quando il verno più di nevi abonda,

Col carbon riscaldommi acceso e vivo.

E così tal che ben servir procura

Cangiar sa, là ‘v’è d’uopo, anco natura57.

È evidente che il componimento offre uno spaccato interessante della quotidianità cinquecentesca in una casa borghese o della piccola nobiltà mediocremente agiata, certo urbinate, forse anche padana: la multifunzionalità dell’oggetto rispecchia una allocazione oculata delle risorse economiche familiari, esaltando una polifunzionalità ed un’adattabilità degli oggetti che assume un valore anche etico, particolarmente appropriato ad un’epoca tormentata e difficile quale è stato, politicamente ed economicamente, il tardo Cinquecento italiano. C’è però, forse, anche qualcos’altro, di più rilevante esteticamente, rispetto al gusto individuale di Baldi: l’apprezzamento per l’oggetto in rame, metallo comparativamente umile, ma molto legato alla dimensione domestica, e specificamente alla cucina. Ciò è suggerito dalla relazione istituibile con un altro suo epigramma di ambito storico-artistico, legato questa volta alla pittura, e segnatamente ad un quadro che, nell’edizione primo-novecentesca dei testi, è assegnato a tal “Bastano”, ma che, dato il soggetto del quadro, fa ipotizzare trattarsi invece di un Bassano, storpiato da un errore di lettura del trascrittore (non di un refuso si tratta, perché il pur meritorio Ciampoli lamenta la difficile grafia del Baldi e così in altri epigrammi da lui pubblicati relativi alla pittura compaiono dei misteriosi “Dolfi”, che saranno verosimilmente i Dossi ferraresi e un’Ultima cena nel duomo di Urbino di tal “Berolli” che è con tutta evidenza il buon Barocci)58:

Per le pitture del Bas[s]ano

Opre son del Bas[s]an queste che miri:

Gusto non hai di buon, se non l’ammiri.

Ve’, se non è più ver, ch’al ver simile

Quel pastor, quel bifolco e quello ovile?

Ve’, come tersi e di materia fina,

I suoi vasi e ben posti ha la cucina.

Risi l’altr’ier, che per locarli al foco

Tentò levarne un buon laveggio il cuoco59.

Di là dal topos della mimesi così perfettamente riuscita da ingannare lo spettatore (di norma una persona semplice, distratta o affrettata come appunto il cuoco: ma il motivo retorico è qui mal apposto, perché è difficile pensare ad un quadro di Bassano di dimensioni tali che gli utensili da cucina ivi raffigurati possano davvero essere di grandezza uguale o vicina a quella reale), è evidente l’apprezzamento per gli orci e le suppellettili della cucina e in generale per la scena di genere (bucolica o domestica che sia) ed è chiaro che un’analisi della produzione poetica di Baldi relativa a pittura, scultura e architettura (quantitativamente assai più abbondante, rispetto alle poche poesie relative alle arti suntuarie o applicate) potrà fornire qualche maggior soddisfazione storico-critica e, soprattutto, consentirà di restaurare i testi, rettificandone le trascrizioni errate, segno inequivocabile sia dell’irrilevanza (per gli storici della letteratura) di conoscenze umanistiche più ampie,  in particolar modo figurative, sia della cogenza di un approccio interdisciplinare come opportuno e ormai scontato, financo banale correttivo di errori banali di tal fatta.

  1. A. Emiliani, Federico Barocci, Ancona 2008.  Sulla biografia belloriana di Barocci (G.P. Bellori, Le vite de’ pittori, scultori e architetti moderni, Torino 1976, pp.  211-236), vedi, oltre ad A. Emiliani, Federico Barocci…., 2008, I, pp.  19-21 e 29-31, anche G. Perini, Appunti sulla fortuna critica di Federico Barocci tra Cinque e Settecento, in Nel segno di Barocci – Allievi e seguaci tra Marche, Umbria e Siena, a cura di A. Ambrosini Massari e M. Cellini, Milano 2005, pp. 394-405, specie 396 e da ultimo S. Pierguidi, Barocci e Caravaggio nelle Vite di Bellori, in “Storia dell’arte”, 2015, pp. 43-51. []
  2. Dizionario biografico degli Italiani, Roma 1960-2006 (d’ora in poi abbreviato DBI), V, 1963, pp. 464-465 e A. Ghirardi, Bernardino Baldi, in La pittura bolognese del Cinquecento, a cura di V. Fortunati Pietrantonio, Bologna 1986, II, pp. 845-847, nonché M. Casadei, Bernardino Baldi e la pittura di Controriforma a Bologna, in “Il Carrobbio”, 1979, pp. 72-82. []
  3. C.C. Malvasia, Felsina Pittrice – Vite de’ pittori bolognesi, Bologna 1678, I, pp.  n.n. (segn.  v), 7, 8, 11, 14, 15, 23, 27, 30, 35, 44, 58, 141, 159, 222, 537, 544; II, p. 301. []
  4. DBI, V, 1963, pp. 461-464. []
  5. Vedi ad es. G. Bickendorf, Die Historiesierung der Italienischen Kunstbetrachtung im 17. und 18. Jahrhundert, Berlino 1998, pp. 107-108. []
  6. A. Emiliani, Federico Barocci…, 2008, II, p. 352-359, n. 87. []
  7. G. Perini Folesani, Sulle tracce di un perduto ritratto di Federico Barocci, in Scritti in onore di Francesco Federico Mancini, in corso di stampa. Molti sono gli epigrammi italiani di Baldi (rimasti inediti fino al secolo scorso) dedicati a ritratti o altri quadri di Barocci, ma non risulta siano stati fatti sinora oggetto di studi specifici. Per un’analisi degli epigrammi da un punto di vista meramente letterario vedi G. Cerboni Baiardi, Per una lettura degli epigrammi del Baldi, in Seminario di studi su Bernardino Baldu urbinate, a cura di G. Cerboni Baiardi, Urbino 2006, pp. 201-226, dove si offrono spunti per una loro possibile sistemazione cronologica. []
  8. A. Emiliani, Federico Barocci…, 2008, I, pp.118-119,  n. 10. []
  9. A. Emiliani, Federico Barocci…, 2008, I, p. 373, n. 93. []
  10. S.A. Bedini, La dinastia Barocci – Artigiani della scienza in Urbino, 1550-1650, in La scienza del Ducato di Urbino, a cura di F. Vetrano, Urbino 2001, pp. 7-98, specie 16-30. Non a caso, l’abilità professionale di Simone Barocci come costruttore di strumenti di precisione e dei cugini come orologiai è elogiata dallo stesso Baldi nel suo Encomio della patria, Urbino 1706, pp. 127-128. Vedi anche R. Panicali, Orologi ed orologiai del Rinascimento: la scuola urbinate, Urbino 1988. []
  11. S.A. Bedini, La dinastia Barocci…,2001, p. 20 e fig. 6, prima, C. Carsughi, La Biblioteca Lancisiana, ovvero distinto ragguaglio della pubblica libreria eretta l’anno 1714 nel Sacro Pontificio Archiospedale di Santo Spirito in Sassia, Roma 1718, p. 9: «di finissimo lavoro e di raro prezzo». []
  12. C.C. Malvasia, Felsina Pittrice …, 1678, I, p. 461. []
  13. L’autoritratto di Agostino Carracci è di proprietà della Fondazione della Cassa di Risparmio di Bologna – Genus Bononiae, ed è esposto al Museo della Città. Per l’orologio da collo di Filippo Neri, datato all’interno 1563,vedi S.A. Bedini, La dinastia Barocci …, 2001, pp. 32 e 35 e figg. 9-10. []
  14. G. Perini Folesani, Riflessioni baroccesche tra Bologna e Urbino, in Barocci in bottega, a cura di B. Cleri, Urbino 2013, pp. 3-40. []
  15. Vedi supra, nota 8. []
  16. Lo studio più recente su di lei è forse L. Miotto, Leonora Gonzaga della Rovere (1493-1550), in “Studi Pesaresi – Rivista della società pesarese di studi storici”, 2016, pp. 45-69 (per i suoi interessi artistici, specie 54-58 e 64). []
  17. Un excursus anche visivo sulla presenza degli orologi nei ritratti di Tiziano (senza peraltro illustrare né quello di Eleonora Gonzaga, né quello di Madruzzo) è in S.A. Bedini, La dinastia Barocci … 2001,  pp. 72-81 figg. 21a-24b. []
  18. Di questo ritratto esistono due versioni, una a figura intera, l’altra a tre quarti, attribuita a Giorgio Picchi: vedi la scheda di M.R. Valazzi su quest’ultima versione in Gli ultimi Della Rovere. Il crepuscolo del Ducato d’Urbino, a cura di P. Dal Poggetto  – B. Montevecchi, Urbino 2000, pp. 29-32, scheda n. 3. La scheda richiama l’attenzione sul fatto che a Pesaro il Duca aveva fatto allestire nel Palazzo dei “botteghini” simili a quelli creati da Francesco I al pian terreno degli Uffizi a Firenze, in uno dei quali lavorava un orologiaio tedesco a nome Peter, detto Pietro Orologiaio. All’Ambrosiana è conservato il disegno preparatorio per questo dipinto, un tempo attribuito a Barocci: vedi A. Emiliani, Federico Barocci…, 2008, II, p. 383, n. 103. []
  19. S.A. Bedini, La dinastia Barocci… 2001,  pp. 36-45, figg. 11-14. []
  20. Il quadro è riprodotto in bianco e nero in S.A. Bedini, La dinastia Barocci… 2001, p. 78, fig. 23a (il dettaglio dell’orologio è riprodotto a piena pagina p. 79, fig. 23b). []
  21. B. Baldi, Versi e prose, Venezia 1609, p. 332. []
  22. L.B. Alberti, De pictura, Bari 1975, pp. 46-49 e passim. Per la divinità dell’artista vedi anche il classico saggio di E. Kris e O. Kurz, La leggenda dell’artista, Torino 1980, pp. 50-59. []
  23. In proposito vedi E. Gamba e R. Mantovani, Gli strumenti scientifici di Guidubaldo del Monte, in Guidobaldo del Monte (1545–1607): Theory and Practice of the Mathematical Disciplines from Urbino to Europe, a cura di A. Becchi – D. Bertoloni Meli – E. Gamba, Berlino 2013 (versione on line all’indirizzo: https://mprl-series.mpg.de/proceedings/4/)  e in precedenza L. Colombo, Gli orologi solari a rifrazione in Italia – Una storia completa degli esemplari più interessanti esistenmti in Italia, 2009 (leggibile all’indirizzo www.nicolaseverino.it). []
  24. F. Camerota, Catalogue of the Museo Galileo’s Instruments on Display, Firenze 2010, p. 9. []
  25. B. Baldi, Gli epigrammi inediti, gli Apologhi e le Ecloghe, Lanciano 1914, I, p. 82, n. 375 (Gli Apologhi erano già stati pubblicati a stampa in B. Baldi, Versi e prose… 1609, pp. 576-590, con minime varianti). []
  26. Sui rapporti tra gli scritti di Baldi e i precedenti leonardeschi, evidentemente in qualche modo a lui noti, vedi dopo i contributi pionieristici di P. Duhem (Etudes sur Leonard de Vinci – Ceux qu’il a lus et ceux qui l’ont lu, Parigi 1984, I ed. 1909, I, pp. 87-156 e passim), il recente studio di A. Becchi, Q. XVI – Leonardo, Galileo e il caso Baldi – Magonza 26 marzo 1621, Venezia 2004. []
  27. B. Baldi, Gli epigrammi…, 1914, II, p. 27, n. XIII. []
  28. B. Baldi, Gli epigrammi…, 1914, I, p. 97, n. 446: «Del concetto – Saper brami, lettor, che sia concetto?/È balen che lampeggia a l’intelletto:/Ratto vien, ratto parte e quegli è saggio/ Che ne riflette in su le carte il raggio». []
  29. Come spiega Domenico Ciampoli, che ha curato l’edizione degli epigrammi di Baldi traendoli da due mss. della Biblioteca Nazionale di Napoli, Baldi, preparandoli per la pubblicazione, li ha divisi in cinque gruppi: morali, gravi, arguti, ridicoli, vari (B. Baldi, Gli epigrammi…, 1914, I, p. 11). Su 1055 epigrammi, 120 hanno in qualche modo a che fare con le arti visive, in particolare la pittura (specie i ritratti, in particolare di Tiziano e Barocci, sovente aventi per oggetto duchi rovereschi o gonzagheschi) e la scultura (specie monumenti pubblici di marmo o di bronzo di regnanti e di condottieri, come il Gattamellata di Donatello a Padova), l’architettura (il Torrazzo di Cremona, la torre di Parma, fortezze roveresche e gonzaghesche, il porto di Pesaro, qualche edificio moderno anche straniero come l’Escorial, i giardini delle residenze roveresche e di qualche casata romana), ma anche arti minori (in particolare armi, ceramiche, vetri e strumenti di precisione). Essi sono presenti prevalentemente tra i gravi (78), mentre 25 sono tra gli arguti, solo 7 tra i ridicoli e 10 tra i varii. []
  30. B. Baldi, Gli epigrammi…, 1914,  I, p. 130, n. 646. []
  31. G. Bernini Pezzini, Galleria Nazionale delle Marche – Il fregio dell’arte della guerra nel Palazzo Ducale di Urbino – Catalogo dei rilievi, Roma 1985, pp. 172-175, scheda e fig. n. 52  e L. Molari – P.G. Molari, Il trionfo dell’ingegneria nel fregio del Palazzo Ducale d’Urbino, Pisa 2006, pp. 17-18 e tav. 52. []
  32. B. Baldi, Gli epigrammi …, 1914, I, p. 141, n. 730. []
  33. Gli scritti vitruviani pubblicati di Baldi sono elencati in A. Serrai, Bernardino Baldi – La vita, le opere, la biblioteca, Milano 2002, pp. 137 e 140 (entro l’elenco delle opere a stampa e manoscritte del Baldi compilato da G.M. Crescimbeni e commentato da Serrai, pp. 136-155). Per uno studio su Baldi e Vitruvio, vedi S. Bettini, Bernardino Baldi e Vitruvio, in Seminario…, 2006, pp. 227-250 e, più in generale, G. Ferraro, Bernardino Baldi, le matematiche, l’architettura, in “Studi di letteratura architettonica”, 2009, pp. 207-220. []
  34. B. Baldi, Gli epigrammi…, 1914, II, p. 25, n. III: «Un Fiume ed una macchina per sollevar l’acqua – Era nel corrente d’un fiume fabbricata una macchina da innalzar acqua: lamentavasi l’acqua della macchina che violentemente la levasse dal sito in cui si quietava, a cui disse la macchina: Lamentati di te medesima, che a tuo danno mi dai il moto». []
  35. Per la conoscenza probabile di una parte degli appunti leonardeschi da parte del Baldi, vedi supra, nota 26. È un fatto che l’autografo melziano del “Libro di pittura” di Leonardo, ora nella Biblioteca Apostolica Vaticana, nel 1631 (quando venne messo con altri in una cassa e portato a Roma) era nella biblioteca roveresca di Casteldurante, il che non esclude che anteriormente potesse trovarsi a Urbino, anche se è più probabile si trovasse, almeno inizialmente, a Pesaro: vedi M. Peruzzi,“Lectissima politissimaque volumina”: i fondi urbinati, in Storia della Biblioteca Apostolica Vaticana – III – La Vaticana nel Seicento (1590-1700): una biblioteca di biblioteche, Città del Vaticano 2014, pp. 337-394, specie 360. []
  36. B. Baldi, Gli epigrammi…, 1914, I, p. 174, n. 933: «Contro il moto perpetuo – Debalion per ritrovar s’affanna/ Macchina tal ch’abbia perpetuo il moto./ E notte e giorno più sottil di Scoto,/Or s’imagina ruota, or pala, or canna./Chi t’ha furato, dimmi, il sano ingegno?/Qual notte fa ch’il sol del ver non vedi?/Pensi colpir lo scopo e non t’avvedi/Che vuoti la faretra e non hai segno?/Se tornasse Archimede a sì gran fallo/Ti daria senza brache un buon cavallo». []
  37. B. Baldi, Gli epigrammi…, 1914, I, p. 113, n. 536. È probabile che Baldi fosse andato ad incontrarlo a Pisa, visto che esiste anche un suo epigramma in onore del Gioco del Ponte che, almeno oggi, ha luogo per la festa del Santo Patrono – San Ranieri – il 17 giugno (cfr. B. Baldi, Gli epigrammi…, 1914, I, p. 92, n. 423). Un altro epigramma “pisano” è quello Sopra l’idropico di Giotto nel Camposanto di Pisa (B. Baldi, Gli epigrammi…, 1914, p. 82, n. 377), in cui l’interesse artistico per i primitivi in Baldi si accoppia alla formazione padovana di medico. []
  38. S.A. Bedini, La dinastia Barocci…, 2001,  pp. 58 e 72 e fig. 20. Sugli strumenti per il disegno (artistico e scientifico) rinascimentali, vedi M. Cigola, Il disegno ed i suoi strumenti fra Quattro e Cinquecento, in Metodi e tecniche della rappresentazione, Cassino 2001, pp. 1-14. []
  39. B. Baldi, Gli epigrammi…, 1914., II,  p. 33, n. LIV. []
  40. Sul Magini vedi DBI, LXVII, 2006, pp. 413-418. Per l’epigramma, vedi B. Baldi, Gli epigrammi…, 1914, I, p. 99, n. 458: «Al P. G. Ant. Magino matematico – Io bramai già che ritornasse in vita/Tolomeo che descrisse e cielo e terra./Tornò: Magin, voi siete, onde quegli erra/ Che per tal non v’ammira e non v’addita». []
  41. In effetti nel 1596 Magini pubblicò a Venezia un’edizione della Geographia di Tolomeo, dal  titolo Geographiae universae tum veteris, tum novae absolutissimum opus, in due tomi, di cui il secondo ornato da tavole geografiche antiche e moderne: vedi DBI, LXVII, 2006, p. 415. Nel secondo volume alcune tavole sono dell’Ortelius, elogiato da Baldi in un paio di epigrammi: vedi B. Baldi, Gli epigrammi…, 1914, I, pp.105-106, nn. 494 e 495. []
  42. B. Baldi, Gli epigrammi…, 1914, I, p. 95, n. 434. []
  43. Si vedano i saggi pubblicati in F. Ceccarelli – N. Aksamija, La Sala Bologna nei Palazzi Vaticani – Architettura, cartografia e potere nell’età di Gregorio XIII, Venezia 2011, con bibliografia precedente. []
  44. B. Fazio, De viris illustribus liber, Firenze 1745, pp. 46-47. []
  45. B. Baldi, Gli epigrammi…, 1914, I, p. 94, n. 430: «Delle carte in rame di Fiandra – Io veggio, Fiandra, uscir sì rare carte/ Da’ metalli ingegnosi onde t’illustri,/ Che non sol di stupor gli uomini industri/ Empiono, ma sé di sé stupir fan l’arte./ Tacciasi Apelle o Zeusi, antica tromba, /Nomi, rispetto a’ tuoi, degni di tomba;/Fuggono i lumi onde la notte splende/ Tosto ch’il sol da l’orizzonte ascende». []
  46. A. Emiliani, Federico Barocci…, 2008, I, pp. 30-31, 218-219 (n. 23), 284-285 (n. 35) e II,  pp. 30-32 (n. 42.30), 61-62 (n. 46.3) 408-410. []
  47. B. Baldi,  Gli epigrammi…,1914,  I, p. 74, n. 333. []
  48. B. Baldi,  Gli epigrammi…,1914,  I, p. 75, n. 334. []
  49. B. Baldi,  Gli epigrammi…,1914,  II, p. 31, n. XLI: «Un vaso di terra ed uno di bronzo- Diceva un vaso di terra ad uno di bronzo: Tu sei tanto grave che quasi ne diventi inutile; a cui rispose quel di bronzo: E tu sei tanto fragile che ad ogni picciola percossa ti rompi». []
  50. B. Baldi,  Gli epigrammi…,1914, I, p. 75, n. 335. []
  51. I. Affò, Vita di Monsignor Bernardino Baldi da Urbino, primo abate di Guastalla, Parma 1783, pp. 117-120  e A. Serrai, Bernardino Baldi – La vita, le opere, la biblioteca, Milano  2002, pp. 105-106 (dalla biografia del Baldi scritta da G.M. Crescimbeni, con commento di Serrai). []
  52. B. Baldi,  Gli epigrammi…,1914, I, p. 155, n. 826. []
  53. B. Baldi,  Gli epigrammi…,1914, II, p. 37,  n. LXVIII. In realtà al momento non è possibile stabilire la sequenza cronologica delle composizioni epigrammatiche tra loro e rispetto agli apologhi, per cui la relazione tra i due passi può anche essere cronologicamente invertita. []
  54. B. Baldi,  Gli epigrammi…,1914, II,  p. 34,  n. LV. []
  55. B. Baldi,  Gli epigrammi…,1914, II, p.7, n. 1063. []
  56. B. Baldi,  Gli epigrammi…,1914, I, p. 125, n. 613. []
  57. B. Baldi,  Gli epigrammi…,1914, II, p. 6, n. 1054. []
  58. B. Baldi,  Gli epigrammi…,1914, I, p. 6 (per l’osservazione del Ciampoli sulla grafia «a tratti indecifrabile addirittura» del Baldi) e pp. 65 e 188, nn. 284 e 1010 (per i due epigrammi  con nomi di pittori inesistenti, evidentemente mal interpretati dal curatore). []
  59. B. Baldi,  Gli epigrammi …,1914, I, p. 108, n. 505. []