Francesco Lo Gioco

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L’armadio di sagrestia della Basilica di San Miniato al Monte di Firenze

DOI: 10.7431/RIV18012018

La chiesa di San Miniato al Monte si innalza sul più alto colle della città di Firenze. Fondata nel 1018 dal vescovo Ildebrando, ha conservato fino ad oggi la sua struttura originaria e può essere considerata uno degli esempi più importanti del romanico fiorentino. Uno degli ambienti più importanti e, contemporaneamente, affascinanti è la monumentale sagrestia, posta sul terzo livello a destra del presbiterio. Venne edificata su commissione di Benedetto di Nerozzo Alberti, uno dei maggiori esponenti della nobile famiglia fiorentina. Nato intorno al 1320, diventò una figura autorevole sia per l’ingegno, che lo guidò nella sua azione politica, sia per l’attività in campo economico che gli consentì di accrescere il patrimonio familiare già notevole1. Ma a causa dell’invidia di alcune consorterie importanti, come quella degli Albizi, e per essersi unito con uomini della parte popolare a seguito del tumulto dei Ciompi nel 13782, il 4 maggio 1387 l’Alberti venne privato di ogni carica pubblica e gli fu vietato di accedere ai palazzi della Signoria, del podestà e del capitano del popolo; inoltre, il suo nome comparve nelle liste di proscrizione; essendo accusato di simpatia per le classi popolari, fu confinato a cento miglia da Firenze e, insieme ai suoi famigliari, escluso dal ricoprire cariche cittadine3. Messer Benedetto, a seguito dell’esilio, si recò nella città di Genova, dalla quale decise di compiere un pellegrinaggio in Terra Santa. Prima di partire l’Alberti fece stilare, in aggiunta al suo precedente testamento del 1377, un codicillo testamentario, datato 11 luglio 1387 e redatto dal notaio Goro Sergrifi, dove stabilì che la sagrestia di San Miniato al Monte fosse decorata in tutte le sue parti, provvisto di arredi sacri e quanto fosse necessario:

«Item praesentibus codicillis, dictus codicillator legavit, reliquit, disposuit ac voluit et mandavit, quod Sacrestiae Ecclesiae Sancti Miniati ad Montem de prope Florentiam compleatur et compleri et perfeci debeat picturiis, armariis, coro, fenestra vitrea, altari et aliis necessariis et condecentibus»4.

Con questo codicillo in pergamena, conservato presso l’Archivio di Stato di Firenze nel fondo Diplomatico, tra le carte del monastero di Santa Maria degli Angeli di Firenze, dunque, Benedetto volle legare il suo nome alla sagrestia di San Miniato, disponendo un finanziamento per il suo completamento e perfezionamento5. Ma la decisione di mettere per iscritto la sua volontà, anche se probabilmente si era già dato inizio al lavoro, fu dettata dal fatto che stava per intraprendere un viaggio molto lungo e pericoloso, e che voleva assicurarsi che si portasse a termine il progetto. Durante il viaggio di ritorno nel gennaio del 1388 Benedetto morì a Rodi, dove si era ammalato di peste6. Le informazioni che si possono ricavare da questo documento sono molto vaghe; non c’è nessun dettaglio relativo al progetto o alcuna informazione riguardo a tempi, pagamenti o limiti di finanziamento, ma solo la volontà di finanziare i lavori necessari. È possibile che siano stati i frati olivetani insieme all’Opera di San Miniato a richiedere all’Alberti un documento che fungesse da pegno prima della partenza per il pellegrinaggio a Gerusalemme, una sorta di formalità come garanzia qualora, come avvenne, il loro benefattore non fosse sopravvissuto al viaggio.

Un altro documento importante che fa riferimento alla sagrestia è il testamento di Bernardo Alberti, figlio di Benedetto, datato marzo 1389, nel quale non compare alcun lascito volto a finanziare ancora i lavori, ma viene fatta la richiesta di celebrare annualmente messe in suffragio all’interno di quella che Bernardo definisce la cappella sua e del padre7. Entro questa data, dunque, la sagrestia doveva essere, se non ultimata, almeno vicina al suo completamento, dato che viene richiesta la celebrazione di alcune messe, e provvista di tutto il necessario per lo svolgimento della funzione propria di una sagrestia. Dunque, l’ambiente sarebbe stato decorato e arredato tra il 1387 e il 1389-90, mentre la sua costruzione, relativamente alla quale, non è pervenuto nessun documento, potrebbe essere stata pensata dall’Alberti intorno alla metà del nono decennio del Trecento, quando si trovava ancora a Firenze8. Benedetto, dunque, non aveva deciso la fondazione di questo monumento quando si trovava già in esilio, ma prima, per placare i rimorsi della propria anima, giacchè egli si doveva sentire moralmente gravato dal rimorso di essere stato, a causa delle cariche ricoperte, cagione di tanti ordinanze, tante decisioni e responsabile della morte di tanti cittadini; una committenza voluta per espiare i peccati, come mezzo per rivolgere preghiere a Cristo, e guadagnarsi così il favore divino9.

Un elemento fondamentale, che diede grande impulso alla realizzazione della sagrestia, fu il cambiamento portato dal novello ordine monastico dei benedettini olivetani, da pochi anni a capo della comunità sul monte fiorentino. La sagrestia fu la prima impresa edilizia degli Olivetani dopo il loro arrivo a San Miniato nel 1373 e sicuramente venne considerata come una sorta di manifesto per affermare, soprattutto attraverso i dipinti murali, il fiorente ordine di Monte Oliveto10. Si accede alla sagrestia dalla parete destra del presbiterio. L’ambiente, ad aula unica e a pianta quadrata, una delle più spaziose e monumentali sagrestie di Firenze, è coperto da una volta a crociera divisa da costoloni che continuano fino a terra, costituendo quattro piloni d’angolo. Nella chiave di volta è incastonato lo stemma dell’Arte di Calimala, l’arte dei mercanti fiorentini, e patrona della chiesa, non a caso posto in alto e al centro dell’aula, un forte richiamo al suo ruolo di vigilanza sulla sua decorazione e sulla sua manutenzione11. Le quattro pareti sono quasi completamente ricoperte da affreschi che le fonti attribuiscono alla mano di Spinello Aretino. Si tratta del primo grande ciclo di affreschi dipinto in Toscana in cui l’autore racconta in sedici scene le vicende della vita di San Benedetto, attingendo dagli scritti di Gregorio Magno e dalla Legenda Aurea di Jacopo da Varazze12, con aggiunte e significative innovazioni iconografiche13. L’intero ciclo risulta essere una perfetta sintesi dell’esaltazione del committente, Benedetto Alberti, il cui nome coincideva con quello del Santo monaco, e del santo stesso. San Benedetto in queste scene veste eccezionalmente di bianco come i monaci di San Miniato, quasi a voler significare la benedizione e l’approvazione da parte sua verso il nascente ordine riformato più aderente alla semplicità della Regola originale (Fig. 1).

L’armadio di sagrestia

L’interno della sagrestia di San Miniato al Monte è fornito di un grande armadio da sagrestia angolare addossato alle pareti sud, ovest e nord, composto principalmente da tre elementi: il bancone o paratoio in basso, la spalliera a pannelli intarsiati al centro e, infine, il sopraccielo con cornice nella parte alta (Figg. 23). Il mobile di sagrestia costituiva, e costituisce ancora oggi per alcuni aspetti, l’elemento di arredo tra i più importanti di questo luogo, ricoprendo un ruolo da protagonista per custodire tutto ciò che di più prezioso poteva possedere una comunità religiosa o comunque ecclesiale, tra cui arredi preziosi, oggetti liturgici, paramenti e testi sacri e, in alcuni casi, anche i reliquiari. Quest’ultima funzione non era necessaria a San Miniato data la presenza di una cripta destinata a tale scopo. Per questo il mobile è costituito dal bancone nella parte bassa, l’unica parte predisposta a contenere tutti gli arredi all’interno, che ha anche la funzione di paratoio, poiché su di esso vengono sistemati i paramenti che deve indossare il celebrante qualche attimo prima di entrare in chiesa per celebrare le funzioni liturgiche, e non sono presenti armadi pensili.

L’armadio, alto circa tre metri e ventuno centimetri, ha come base uno zoccolo col fronte intarsiato che poggia su una pedana sporgente che corre lungo tutto il suo perimetro. Su di esso è appoggiato il massiccio paratoio con sportelli, alto circa un metro e dieci centimetri. Questo è suddiviso frontalmente in moduli uguali, grandi quadrati che si susseguono in modo regolare (Fig. 4). Ogni singolo modulo, alto 90 centimetri e largo circa 85, è composto da due ante speculari che si aprono verso l’esterno con un movimento di rotazione sull’asse verticale laterale, ed è a sua volta suddiviso in altri quattro quadrati più piccoli, due per ogni battente, disposti in due ordini sovrapposti; al centro di ciascun quadrato è montata una maniglia in ottone dorato, composta da una lamina cruciforme con profili sagomati al centro della quale è inserito un elemento semisferico in cui si inserisce un anello. Sia il modulo principale più grande che i quattro quadrati più piccoli, in cui è diviso il fronte, sono incorniciati da semplici modanature. Nella parte più alta del paratoio è stata applicata una elegante cornice a dentelli, cosiddetta ‘da portata’, che, oltre a concludere la decorazione nella parte più alta del fronte del bancone, ha anche la funzione di raccordare quest’ultimo al piano di appoggio. Tale ripiano è stato costruito in un materiale di altissima qualità; infatti, profondo circa 80 centimetri, è composto da tavole molto larghe, e lunghe più di due metri, elemento che sottolinea l’importanza della committenza. Per realizzare questi pannelli dovette essere necessario servirsi di alberi molto grandi, scelti accuratamente e non di facile reperibilità. I legni utilizzati per la costruzione dell’armadio sono il pioppo bianco (populus alba) per la struttura interna, legno usuale per l’intelaiatura degli arredi fiorentini, mentre i pannelli esterni e la corniciatura sono in noce (Juglans regia), legno di maggior pregio, impiegato molto spesso per rivestire la struttura. La scelta di questi due tipi di legni era molto diffusa ed è stata utilizzata a Firenze in diverse epoche sia per il mobilio domestico, sia per quello ecclesiastico; un esempio possono essere i perduti banconi intarsiati della Sagrestia delle Messe di Santa Maria del Fiore, realizzati con materiali e tecniche di costruzione molto simili al mobile di san Miniato14. La parte che si innalza sul bancone, dato che non erano stati previsti armadi pensili, è decorata con un elegante rivestimento a pannelli, o spalliera, che riprende la suddivisione a riquadri degli sportelli della parte inferiore, e sono disposti su due ordini sovrapposti, ornati con tarsie a toppo geometrico che presentano vari tipi di decorazione, con il pannello angolare posto a 45 gradi per una visione d’insieme più equilibrata e per favorire la visibilità delle tarsie in quella zona (Fig. 5). Le tarsie si possono dividere in due gruppi: i toppi con motivi decorativi incastonati all’interno dei pannelli e quelli a bordo che contornano ogni singolo quadrato. Si tratta di elementi decorativi acquistati già pronti dai legnaioli, che venivano realizzati entro botteghe specializzate nel settore15. L’impostazione decorativa dei pannelli si ripete in maniera regolare e ripetitiva e vede due tipologie di toppo geometrico a forma di rombo al centro del pannello, circondato da altri quattro toppi esagonali più piccoli, anch’essi di due tipologie, posti in prossimità degli angoli, che si susseguono lungo i due ordini della spalliera alternandosi a scacchiera (Fig. 6). I disegni sono molto complessi soprattutto quelli delle tarsie centrali che sono di dimensioni notevoli (14 cm per 14 cm); questi hanno lo stesso motivo ornamentale nella porzione centrale, una sorta di stella, circondata da piccoli rombi all’interno di due quadrati intrecciati, e si differenziano nella parte più esterna, uno più lineare e semplice, l’altro più particolareggiato e minuzioso (Figg. 7 e 8). Tutti i pannelli intarsiati sono riquadrati da bordature sottili con decorazioni geometriche, alcune tridimensionali, chiamate fuseruole16, con cinque diversi motivi (a linee intrecciate, a nastro avvolto su sé stesso o a zig-zag e a stella), che si alternano in maniera casuale (Fig. 9). All’apice della spalliera ritorna la cornice a dentelli che delimita la pannellatura centrale del mobile e, così come nel bancone, ha la funzione sia di concludere la decorazione della spalliera e anche di appoggio per la parte soprastante.

La fascia più alta dell’armadio è composta da un sopraccielo a forma di mezz’arco, che copre il mobile sottostante, il quale risulta sovrastato da una sorta di baldacchino che prende le sembianze di un vero e proprio cielo stellato (Fig. 10).

Alcune specchiature della spalliera non hanno al centro la consueta decorazione con i toppi romboidali, ma due stemmi ripetuti più volte, uno della famiglia Alberti, e l’altro della Corporazione dell’Arte dei Mercanti di Calimala, entrambi realizzati con la tecnica della tarsia lignea per ovvie ragioni di continuità stilistica. Il primo, uno scudo con le catene incrociate e agganciate in un anello al centro su fondo nero, è ripetuto quattro volte lungo l’ordine superiore della spalliera: due sono posti nella terza e nella nona specchiatura della parete sud, di fronte l’ingresso, e nella terza e nella tredicesima specchiatura della parete ovest. Anche nel sopraccielo è presente lo stemma Alberti, dipinto in trasparenza e sullo stesso tono del fondo blu, ripetuto tre volte nella fascia più vicina alla spalliera, uno nella parete sud, posto al centro dei due stemmi della spalliera sottostante, e due nella parete ovest. Questo stemma è un esplicito riferimento a Benedetto di Nerozzo, committente dell’intera sagrestia, il quale fa apporre più volte la propria arme gentilizia lungo il mobile, come a rimarcare anche a livello visivo l’assoluto patronato della famiglia Alberti all’interno dell’ambiente (Fig. 11), scelta innovativa che non è usuale riscontrare in altri mobili contemporanei. L’altro stemma, quello dell’Arte di Calimala, un’aquila che afferra con gli artigli un torsello, si ripete due volte e solo nel secondo ordine di specchiature della spalliera della restante porzione di armadio angolare accanto all’ingresso, in particolare nella sedicesima della parete ovest e nell’ultima della parete nord (Fig. 12).

La documentazione archivistica relativa all’armadio non si è conservata. L’unico documento che parla della commissione è il codicillo in aggiunta al testamento di messer Benedetto Alberti del 1387, nel quale è specificato che la sagrestia doveva essere completata con tutto il necessario come pitture, altare e altro, facendo riferimento in modo particolare agli “armariis” che, ovviamente, costituivano l’elemento di arredo tra i più importanti di ogni sagrestia17. Non sono stati trovati altri documenti che attestino la fattura del mobile, come il contratto o i pagamenti indirizzati a un legnaiolo o a una bottega, né, tantomeno, notizie su acquisti di legname e materiali destinati alla realizzazione dell’opera. Per questo, anche se è più semplice e intuitivo delimitare la costruzione dell’armadio in un preciso arco temporale, cioè subito dopo l’edificazione della sagrestia, più difficile o quasi impossibile, risulta dare un nome all’autore o alla bottega che lo realizzò.

Dal punto di vista cronologico è plausibile che sia stato eseguito alla fine del Trecento, tra il 1387, anno indicato nel codicillo, e il 1388 o al massimo i primi mesi del 1389, dato che il figlio di messer Benedetto, Bernardo, nel testamento redatto nel marzo dello stesso anno, fa riferimento a messe da celebrare all’interno dell’ambiente che doveva già essere, almeno nelle sue parti più importanti, compreso l’armadio, già completato. A conferma di ciò un ulteriore indizio, che conferma la datazione al 1387, è uno degli stemmi posti sulla spalliera, quello degli Alberti, elemento importantissimo che associa l’opera al periodo della decorazione pittorica della sagrestia subito dopo la sua edificazione commissionata dalla famiglia. Egli fece apporre il proprio stemma sul mobile in una posizione favorevole, quasi ad altezza uomo e abbastanza visibile, di fronte l’ingresso, da un lato, e dirimpetto l’altare posto sotto il finestrone, dall’altro, come a rimarcare anche visivamente il riferimento alla propria famiglia e al suo patronato all’interno della sagrestia, ulteriormente indicato nella vetrata, decorata con lo stemma in alto e la figura del committente inginocchiato e a mani giunte nella parte centrale. L’alta qualità dei materiali è in linea con la prestigiosa committenza e rispecchia la ricchezza di Benedetto, uno dei più ricchi banchieri della Firenze del suo tempo.

Mentre l’arme Alberti lega l’armadio di sagrestia alla sua realizzazione a fine Trecento, lo stemma corporativo dei Mercanti di Calimala ci svela un particolare dell’opera rilevante che riguarda una sua porzione. Il mobile, infatti, così come lo vediamo oggi, non corrisponde esattamente alla sua conformazione originale. Nel 1472 l’Arte di Calimala commissionò l’allungamento dell’armadio dal lato della parete ovest, fino a ricoprire l’angolo vicino alla porta che permetteva l’accesso alla chiesa. Questo lavoro di ampliamento è testimoniato da un documento che riporta alcuni lavori fatti in quell’anno, un memoriale intitolato Libro dei frati di S. Miniato, conservato all’Archivio di Stato di Firenze, in cui si legge «Memoria che Jacopo legnaiolo comincia l’armario di sagrestia a dì 1° settembre 1472», insieme a un garzone18. Prima della realizzazione del prolungamento del mobile, furono necessari alcuni lavori all’interno della sagrestia, in particolare la chiusura del vecchio passaggio che portava al monastero posto a destra dell’ingresso, nella parete ovest, e che permetteva ai monaci di raggiungere facilmente la sagrestia direttamente dal chiostro, in funzione, soprattutto, della preghiera notturna che si svolgeva nei cori di notte posti nello stesso ambiente19. Anche questi lavori sono testimoniati dalle fonti e furono compiuti contemporaneamente alla costruzione della stanza del lavabo adiacente la sagrestia, avvenuta tra il 1470 e il 1472, da cui si accede attraverso un portale posto in fondo alla parete est, realizzato da Simone di Zanobi tra giugno e luglio del 147220. Un altro artigiano che compare nei documenti è il fornaciaro Bartolomeo di Mariotto di Montici21, il quale venne pagato dall’Arte dei Mercatanti 2100 fiorini per il rifornimento dei mattoni, tremila fino al 29 luglio, molti dei quali utilizzati per l’edificazione della stanza del lavabo e, alcuni, molto probabilmente, per la chiusura del passaggio verso il monastero22. Dieci fiorini sono devoluti al fabbro Andrea di Giovanni di Sandro23. I lavori realizzati in questo arco di anni, furono interamente pagati dall’Arte dei Mercatanti di Calimala, come ci testimoniano anche le Carte Strozziane24 dove sono citate alcune spese fatte dalla Corporazione in particolare per la sagrestia e il capitolo: «Nella fabbrica del Capitolo di S. Miniato si spese f. 33, 1470»25, «Sagrestia si fa di nuovo a S. Miniato, 1472»26, e ancora «Aggiunta si fa alla sagrestia di S. Miniato, 1470»27; quest’ultima citazione potrebbe fare riferimento proprio all’aggiunta fatta all’armadio28.

La parte che completa il mobile, realizzata da Jacopo legnaiolo con un voluto arcaismo, riproduce fedelmente lo stesso impianto e utilizza gli stessi legni per assicurare la continuità stilistica degli arredi già presenti nella sagrestia, con un buon risultato che può ingannare l’osservatore, dando l’impressione di un unico pezzo omogeneo e coerente. Fu l’Arte di Calimala, che ormai sovrintendeva la sagrestia così come l’intero complesso, a commissionare l’ingrandimento dell’armadio e a fare apporre il proprio stemma in alcune specchiature della spalliera, così come era stato fatto quasi un secolo prima con lo stemma Alberti nella porzione preesistente del mobile. La decisione dell’Arte fu quella di porre l’aquila dello stemma di Calimala nella prima e nell’ultima specchiatura delle pareti ovest e nord del nuovo mobile, delimitando alle estremità, la porzione di armadio aggiunto su ordine della corporazione. L’ipotesi che la parte aggiunta sia quella delimitata dai due stemmi di Calimala è confermata anche dalla posizione degli stemmi Alberti posti nella parete ovest. Escludendo infatti la sezione in cui campeggiano le due aquile, la restante spalliera è composta da quindici specchiature quadrangolari; i due stemmi Alberti risultano alloggiati perfettamente in equidistanza nella terza e nella tredicesima specchiatura, con nove quadrati tra di loro e altri due per ciascun lato alle estremità, andando così a comporre quella che doveva essere la lunghezza della spalliera originale, lunga poco più di sei metri; a seguire, la parte aggiunta, contraddistinta nella specchiatura successiva dall’aquila dell’Arte di Calimala. Grazie agli stemmi, quindi, si può facilmente intuire il punto di giunzione tra la parte originale, composta nel bancone da quattro moduli nella parete sud e sei nella parete ovest (Fig. 13), e quella aggiunta nel 1472, composta da due moduli sia nella parete ovest che in quella nord (Fig. 14). Il punto di giuntura tra le due sezioni si può osservare nella cornice di chiusura al vertice e soprattutto nel piano di appoggio, che proprio in quella zona, oltre che dall’evidente linea di giunzione, è caratterizzato da una diversa struttura del legname; se, infatti, nel piano più antico è presente un pannello che occupa interamente il piano di appoggio in profondità, dal fondo dove è appoggiata la spalliera fino al bordo esterno, nella restante porzione del piano sono state utilizzate due file di tavole per lo stesso scopo, e questo, oltre che un segno inequivocabile della diversa fattura, sottolinea ancora una volta l’elevata qualità del materiale utilizzato a fine Trecento, che, probabilmente, non è stato possibile reperire durante i lavori di ampliamento dell’armadio, nonostante la prestigiosa committenza dell’Arte. Durante i lavori furono leggermente modificati gli sportelli della parte finale del bancone originale, per poterli raccordare più facilmente con la parte nuova, mentre tutto il resto venne realizzato in stile, con il bancone suddiviso per moduli, ciascuno con quattro quadrati e quattro maniglie, con le stesse decorazioni nelle tarsie e nelle fuseruole della spalliera, mantenendo il pannello angolare inclinato a 45°, la stessa composizione del sopraccielo, e infine, il prolungamento della cornice in alto con gli stessi motivi decorativi. La parte finale più vicina alla porta d’ingresso è delimitata da una chiusura a bifora arricchita da eleganti tarsie a toppo poste nel dorso esterno. Nella parete retrostante l’aggiunta, si può notare la decorazione pittorica geometrica che continua dietro il mobile, ciò attesta ulteriormente che l’armadio in quella parte è stato aggiunto dopo, andando a coprire le pitture che erano state previste nel progetto originale per la decorazione della sagrestia.

Per quanto riguarda l’autore di questa parte di mobile conosciamo solo il suo nome associato alla sua professione, Jacopo legnaiolo, così come è riportato nei documenti, senza nessun’altra informazione, come l’aggiunta del patronimico, come era solito in quel tempo, o altro indizio che potesse far risalire alla sua identità. Consultando il registro delle matricole dell’Arte dei Legnaioli e quello dell’Arte dei Maestri di Pietra e Legname conservati all’Archivio di Stato di Firenze, risultano inscritti alle due corporazioni numerosi legnaioli dal nome Jacopo, e non avendo nessun elemento identificativo non è stato possibile associarlo ad uno piuttosto che ad un altro artista. Un unico possibile riferimento proviene dall’elenco fatto dal mercante fiorentino Benedetto Dei che nella sua Cronica di Firenze del 1470, in cui annota i migliori maestri legnaioli del tempo attivi in città, è citato, quasi alla fine della lista, anche “el maestro Jacopo”29, senza nessun’altra informazione; potrebbe trattarsi dello stesso, probabilmente molto noto all’epoca, tanto da essere chiamato e citato nei documenti con il solo nome. La prestigiosa committenza da parte dell’Arte di Calimala confermerebbe l’ipotesi che si tratti dello stesso Jacopo, dato che i Consoli non avrebbero sicuramente scelto un artista qualunque, ma uno dei più abili presenti a Firenze.

Probabilmente Jacopo fu l’autore sia del prolungamento dell’armadio, sia dei battenti della porta della stanza del lavabo, realizzata negli stessi anni, la quale presenta dei tratti simili alla decorazione dell’armadio, in particolare le cornici a toppo; non è da escludere, quindi, l’ipotesi di quest’altro suo lavoro realizzato nello stesso ambiente e negli stessi anni caratterizzati da un forte fervore artistico anche nel resto del complesso monumentale di San Miniato.

L’aggiunta del 1472 ha causato negli anni un’interpretazione non corretta sulla fattura dell’intero armadio. Nella maggior parte della letteratura artistica, infatti, è riportata comunemente questa datazione come anno di fattura dell’intera armadiatura, fatta risalire, così, non più al tardo medioevo, ma alla seconda metà del XV secolo, malgrado che tale ipotesi sia insostenibile dal punto di vista stilistico. Solo nel 1983 Margaret Haines ha ricollegato la fattura del mobile alla committenza Alberti del 138730. Tale interpretazione viene convalidata anche dal confronto stilistico con altri banconi fiorentini, in particolare con l’esemplare trecentesco conservato nella sagrestia della basilica di Santa Croce, datato alla prima metà del secolo31. L’attuale porzione di mobile rimasta, faceva parte di un armadio che doveva essere, secondo alcuni studi32, molto simile a quello di San Miniato, con un bancone in basso, subito sotto la spalliera, in cui erano probabilmente inserite le formelle e le semilunette dipinte da Taddeo Gaddi con Storie di Cristo e di San Francesco (Firenze, Galleria dell’Accademia) e la copertura a sopraccielo con cornice aggettante. Questo armadio potrebbe essere stato utilizzato, dunque, come modello per quello di San Miniato, o probabilmente entrambi erano il frutto di una tradizione stilistica e un gusto artistico propri del medesimo periodo. L’impostazione generale del bancone è molto simile, anche dal punto di vista delle dimensioni, con dei moduli quadrangolari che si susseguono regolarmente, suddivisi in ulteriori quattro quadrati che corrispondono agli sportelli, circondati da cornicette a intarsio con rettangoli chiari e scuri; al centro di ogni riquadro è posta una losanga che circonda a sua volta una maniglia ad anello, mentre i quattro angoli sono abbelliti da diversi motivi decorativi circolari intagliati nel legno (Fig. 15). La spalliera originale che sovrastava il bancone è stata sostituita con un pezzo cinquecentesco che in origine era la spalliera di un coro, e messa sul bancone al posto di quella originale, andata distrutta in seguito allo smontaggio e spostamento delle formelle dal Gaddi all’Accademia delle Belle Arti avvenuto nel 181233.

Un altro bancone che potrebbe essere messo a confronto con i due già citati è quello esposto al Museo Stefano Bardini, attribuito ad ambiente ferrarese-bolognese e datato agli inizi del Cinquecento34, ma precedentemente assegnato ad ambito toscano di inizio Quattrocento35. Ed è questa seconda attribuzione che sembrerebbe, forse, la più aderente. Confrontandolo, infatti, con i due banconi di Santa Croce e San Miniato è possibile riscontrare alcune analogie. Anche in questo caso il fronte del mobile e suddiviso in grandi quadrati che si ripetono in maniera regolare, suddivisi a sua volta in altri quattro più piccoli, due per ogni anta, decorati ciascuno da un rombo in rilievo con delle tarsie geometriche al centro; le maniglie ad anello, una per ogni sportello, sono agganciate ad una placca in ferro battuto multilobata e borchiata (Fig. 16). Un elemento molto interessante è la cornice a dentelli, molto simile o quasi identica a quella del mobile di San Miniato, dove è utilizzata come una sorta di cornice marcapiano, mentre qui, oltre che nella parte alta del bancone, va ad incorniciare ogni singolo modulo dando più movimento all’intera opera. Anche alcune fuseruole, qui applicate accanto alla cornice a dentelli nella parte esterna dei moduli, presentano gli stessi motivi decorativi del bancone di San Miniato, in particolare quella a nastro avvolto su sé stesso, quella a zig-zag e quella a forma di stella, e anche una con ovali e piccoli triangoli, molto simile ad un’altra che si trova sempre nella sagrestia di San Miniato ma in un altro arredo ligneo conservato nei due cori di notte. Altri motivi decorativi delle fuseruole che sono applicate nel mobile del museo Bardini e non a San Miniato, sono quelli a meandro e a zig-zag molto stretto.

Anche l’armadio di Santa Croce presenta gli stessi problemi di attribuzione di quello di San Miniato, a causa della perdita delle fonti documentarie. Elementi d’indagine che potrebbero essere di aiuto in questi casi sono le singole modanature applicate sul mobile. L’attrezzo utilizzato per realizzarle consiste in pialle apposite per modanature, con il profilo della lama in ferro sagomato secondo il disegno della cornice scelto dai vari legnaioli che le possedevano nella propria bottega. Tutti pezzi unici, quindi, che venivano realizzati su commissione e utilizzati per diversi anni fino al consumo della lama, quando, a quel punto, ne veniva fatta una nuova dal fabbro, adeguata man mano allo stile del periodo e alle richieste delle botteghe. Così questo elemento decorativo può essere di grande aiuto per poter risalire in alcuni casi, anche se molto difficile, se non proprio all’autore, quantomeno ad una bottega che utilizzava delle pialle per modanature; è possibile fare questa ricerca tramite i confronti fra le varie cornici delle singole opere, confronti che potrebbero mettere in luce delle analogie e rivelare, nei casi più fortunati, la comune provenienza di opere diverse da un’unica fonte, sia essa una bottega o un singolo maestro legnaiolo. Nel nostro caso il confronto delle cornici non ha prodotto un risultato positivo in questo senso, poiché le varie cornici hanno, sì, alcuni elementi comuni, probabilmente perché eseguiti nello stesso periodo, ma non è possibile affermare che siano state prodotte da una stessa pialla. Mettendole a confronto si può notare una certa somiglianza in alcuni particolari, come gusci, stondature e curve, utilizzati in maniera diversa, con motivi stilisticamente tipici del XIV e dell’inizio del XV secolo, che poi passeranno in disuso (Figg. 171819).

I restauri dell’Ottocento

L’attuale stato dell’armadio di sagrestia è molto buono. Considerando che si tratta di un esemplare assai antico, sorprende la quasi perfetta conservazione delle diverse parti del mobile. Questo fa sorgere alcuni dubbi in merito all’autenticità o meno di alcune parti del manufatto. L’ampio arco di tempo trascorso dalla sua realizzazione non risulterebbe coerente con alcune porzioni, in particolare le tarsie a toppo, eccessivamente ben conservate per risalire alla fine del Trecento. A confermare l’ipotesi vi è la documentazione dei lavori di restauro all’interno della basilica, compresa la sagrestia, nell’arco di anni che va dal 1855 al 1861, quando l’intero complesso monumentale, dopo anni di incuria e abbandono, necessitava di tempestivi lavori di restauro e di ristrutturazione. Vennero stanziate alcune somme di denaro da parte delle autorità cittadine al fine di restaurare e conservare l’antico luogo di culto36. Nel 1854 fu autorizzata la tumulazione privilegiata all’interno di San Miniato, per ricavare proventi da utilizzare per la custodia e il restauro della basilica. In questi anni, quindi, furono messi in opera vari interventi di ristrutturazione come il rifacimento dei tetti, il restauro dei mosaici, il rivestimento in scagliola delle colonne della navata centrale e la ricostruzione di alcuni archi e pareti37. Anche all’interno della sagrestia furono eseguiti alcuni lavori, tra cui la controvetrata della finestra realizzata in vetro colorato da Raffaello Payer tra il 1860 e il 1861, e anche alcuni non in sintonia con l’intento conservativo dell’assetto originale dell’ambiente, come la demolizione dell’altare posto sotto il finestrone38. Il metodo di intervento sulle opere architettoniche impiegato nell’Ottocento non aveva la sensibilità, la consapevolezza e il livello tecnico-scientifico dei decenni successivi. Per questo motivo, spesso venivano utilizzate delle tecniche ormai obsolete e talvolta dannose per le opere, e non vi era una coscienza tale da agire nel rispetto dell’oggetto danneggiato. Sostituire alcune parti senza pensare principalmente al loro recupero e mantenimento era una consuetudine che veniva abitualmente messa in pratica senza alcun problema. L’intento principale era quello di ridare all’opera un bell’aspetto anche a costo di eliminare alcune parti originali.

Durante la ristrutturazione ottocentesca della basilica, anche l’armadio di sagrestia, il quale molto probabilmente non doveva presentarsi in buone condizioni, venne sottoposto a un pesante e invasivo intervento di restauro. I lavori furono eseguiti tra il 1857 e il 1861, principalmente dal doratore e verniciatore Giovanni Bianchi, con il contributo di Luigi Bondi stipettaio. Giovanni Bianchi era uno degli esponenti di una prestigiosa famiglia, i Bianchi appunto, interamente impegnata nella bottega a conduzione familiare di doratura e verniciatura che aveva la sua sede principale in Oltrarno, in via Sant’Agostino vicino la basilica di Santo Spirito39. L’attività venne avviata da Giuseppe di Jacopo Bianchi doratore, e tramandata ai suoi numerosi figli, tra cui il primogenito Francesco, colui che diventò uno dei più importanti doratori e verniciatori della Firenze ottocentesca, poiché collaborò spesso con la Corte lorenese, operando all’interno della Guardaroba e compiendo molti lavori a Palazzo Pitti40.

Giovanni Bianchi, uno dei fratelli di Francesco, nacque a Firenze il 21 giugno 1806 e intraprese anche lui l’attività di doratore nella bottega di famiglia che nell’Ottocento era una delle più importanti del settore a Firenze. Il suo operato all’interno della basilica di San Miniato non è rivolto solo all’armadio della sagrestia, ma principalmente al restauro delle capriate lignee e dei dipinti murali. Nei documenti conservati presso l’Archivio Storico del Comune di Firenze, in due registri, uno dell’Amministrazione della Necropoli e l’altro di Entrate e uscite, sono annotati diversi pagamenti effettuati al Bianchi a partire dal 7 luglio 1857, in cui viene pagato per numerosi interventi, come per esempio il 9 Giugno del 1958 vennero «pagati a Giovanni Bianchi Doratore e Verniciatore in conto dei restauri fatti e da fare ai cavalletti del soffitto della Basilica, come da ricevuta n° 9. £ 600.»41. I pagamenti relativi al restauro dell’armadio cominciano il 1° maggio 1859 quando si saldarono al doratore £ 553 «per dorature fatte ai banchi di Sagrestia»42 e per altri lavori al soffitto della basilica. Nei registri le somme relative al pagamento della doratura e restauro dei banconi, sono sempre associate ad altri tipi di lavori, soprattutto ai tetti; per cui il suo intervento al mobile non è avvenuto in maniera continuativa, ma in parallelo ad altri lavori che eseguiva all’interno della basilica. Per questo motivo i pagamenti del lavoro sugli armadi vennero effettuati per molto tempo, quasi per due anni in maniera cadenzata, fino al 1° giugno 1861, e, per questo motivo, non è possibile quantificare in maniera specifica il costo del restauro del bancone, per un totale quasi £ 7.000,00.

Nell’elenco dei pagamenti si fa riferimento sempre e solo alla doratura dei banconi, anche se l’unica parte dorata è il sopraccielo, forse perché trattandosi di semplici registri si faceva un riferimento molto generico per giustificare il pagamento, senza scendere nei dettagli del lavoro svolto che invece dovevano essere dettagliati nel contratto o in altri documenti non pervenuti fino a noi. La somma pagata a Luigi Bondi è molto più modesta, ma si riferisce al solo intervento del restauratore sull’armadio. Il 3 dicembre 1860 compare in un registro un unico pagamento di £ 354,90 a Luigi Bondi stipettaio, «in saldo di spese accorse nel restauro dei banchi della sagrestia, opera fatta dal medesimo in tal lavoro e altri lavori di legnaiolo»43. Cosa abbia fatto concretamente il Bianchi e cosa il Bondi non lo sappiamo, possiamo sicuramente attribuire al primo la doratura del sopraccielo, e al secondo, in funzione della sua professione di stipettaio, l’assetto generale del bancone con il riallineamento degli sportelli, la sostituzione delle viti, delle maniglie44 e quello delle cerniere. In merito a queste ultime è possibile notare nella parte interna degli sportelli, in basso e in alto della zona vicina allo stipite, i fori stuccati dove erano ancorate le originali cerniere medievali con gangheri ad ago, e questo testimonia che gli sportelli non sono stati cambiati, ma solo rassettati.

Anche il resto del bancone è quello originale. Il dubbio si pone per alcune parti della spalliera e in particolare sulle tarsie a toppo, troppo lisce e perfette rispetto anche ai pannelli in cui sono incastonate, che presentano alcuni fori e tarlature che si interrompono improvvisamente sulla tarsia, e questo è poco probabile che si verifichi. Considerando i documenti, la cifra spesa è modesta. Stando a questi pagamenti è possibile sostenere che fu fatto poco, forse solo incollaggi e qualche sostituzione. Ma a guardare lo stato attuale delle tarsie si potrebbe propendere per un restauro abbastanza invasivo con molti rifacimenti. Quindi non è da escludere il rifacimento, forse parziale, delle tarsie a imitazione di quelle originali, incollate al posto di queste e spianate con la rasiera o pialletto45 per essere portate allo stesso livello del pannello antico. Sorprende però la presenza della quercia nera (le parti scure delle tarsie) non utilizzata nell’Ottocento. Le ipotesi sono diverse: che sia originale, oppure che sia legno verniciato per renderlo simile alla quercia fossile. L’intera superficie del mobile venne sicuramente raschiata con la rasiera per eliminare la patina di sporco che sicuramente si era accumulato sulle superfici, e successivamente trattata con metodi molto aggressivi e nocivi, per “pulire” i residui e la sporcizia del mobile, come l’utilizzo dell’idrossido di sodio, comunemente conosciuto come soda caustica, sostanza molto corrosiva. Ancora oggi l’armadio porta i segni di questa pulitura, delle macchie scure di varia intensità, sparse su tutta la superficie del mobile46.

Nonostante l’intervento di restauro, però, l’armadio della sagrestia di San Miniato rimane un importante esempio di arredo ligneo da sagrestia tipico del tardo Medioevo, con uno stile tipicamente fiorentino, e, inoltre, uno dei pochi esemplari che ancora oggi conserva, anche se un po’ alterata nel corso dei secoli, la struttura medievale originaria.

  1. A. Sapori, Alberti Benedetto (ad vocem), in Dizionario biografico degli italiani, I, Roma 1960, (consultato online in http/www.treccani.it). []
  2. Il tumulto dei Ciompi fu una rivolta popolare di natura economico-sociale, avvenuta tra il giugno e l’agosto del 1378. Stanchi dei soprusi dell’oligarchia al potere, i ciompi, ovvero gli operai salariati delle manifatture tessili che rappresentavano uno dei gradini più bassi della scala sociale dell’epoca, con una sommossa occuparono il Palazzo dei Priori chiedendo il diritto di associazione e la partecipazione alla vita pubblica cittadina. Il tumulto ebbe buon esito. Riuscirono, infatti, a eleggere come gonfaloniere un loro rappresentante, Michele di Lando, e ottennero la creazione di tre nuove Arti, quella dei Ciompi, quella dei Farsettai e quella dei Tintori, per rappresentare i ceti più bassi della società fiorentina, e, inoltre, la partecipazione di tutte la Arti al governo cittadino. Cfr. M. Luzzati, Firenze e la Toscana nel Medioevo. Seicento anni per la costruzione di uno Stato, Torino 1986, pp. 162 e sgg. []
  3. A. Sapori, Alberti Benedetto (ad vocem), in Dizionario biografico…, 1960 (consultato online in http/www.treccani.it). []
  4. L. Passerini, Gli Alberti di Firenze. Genealogia Storia e documenti, Firenze 1869, p. 193. []
  5. A.S.F. Diplomatico, pergamene secc. VIII-XIV, 11 luglio 1387. S. Maria degli Angioli (camaldolesi) – Firenze. Il documento in pergamena fu redatto a Genova nella casa di Benedetto dei Lomellini ed è consultabile online sul sito ufficiale dell’Archivio di Stato di Firenze, https://www.archiviodistato.firenze.it. []
  6. T. Loughman, Spinello Aretino, Benedetto Alberti, and the Olivetans: late Trecento patronage at San Miniato al Monte, New Jersey 2003, p. 203. La salma di Benedetto Alberti fu portata a Firenze e sepolta nella basilica di Santa Croce. []
  7. T. Loughman, Spinello Aretino…, 2003, p. 218. []
  8. T. Loughman, Spinello Aretino…, 2003, p. 216. []
  9. P. Franceschini, San Miniato al Monte, in “Nuovo Osservatore Fiorentino”, XXII, Firenze 1885, pp. 173, 174. Questa tipologia di committenza si ricollegherebbe ad una tradizione lunga e molto diffusa soprattutto nel Medioevo. []
  10. F. Gurrieri – L. Berti – C. Leonardi, La Basilica di San Miniato al Monte a Firenze, Firenze 1988, p. 230. []
  11. T. Loughman, Spinello Aretino…, 2003, p. 248. []
  12. Gregorio Magno fu il primo monaco ad essere eletto papa e l’autore della prima biografia della vita di San Benedetto scritta tra il 593 e il 594 e pubblicata all’interno della sua opera I Dialoghi; la Legenda Aurea è una raccolta medievale di biografie agiografiche in latino composta dal frate domenicano Jacopo da Varazze (o da Varagine) dal 1260 al 1298. Le due opere costituiscono le fonti più antiche e attendibili della vita di San Benedetto. [1] F. Gurrieri, L. Berti, C. Leonardi, La Basilica…, 1988, p. 217. []
  13. F. Gurrieri, L. Berti, C. Leonardi, La Basilica…, 1988, p. 217. []
  14. M. Haines, La Sacrestia delle Messe del Duomo di Firenze, Firenze 1983, pp. 56 e 59. []
  15. A. Wilmering, Lo Studiolo di Federico da Montefeltro. Le tarsie rinascimentali e il restauro e il restauro dello studiolo di Gubbio, Milano 2007, p. 68. []
  16. Le fuseruole furono molto utilizzate nel Medioevo per decorare principalmente parti di mobili lineari e per riquadrare pannelli intarsiati di mobili o stalli di coro, con dei motivi generalmente geometrici e in molti casi con effetti tridimensionali. []
  17. A.S.F., Diplomatico, pergamene secc. VIII-XIV, 11 luglio 1387. S. Maria degli Angioli (camaldolesi) – Firenze. []
  18. ASF, Archivio del Regio Arcispedale di S. Maria Nuova, Carte del Monastero dell’Arcangelo S. Raffaello, 17, Ricordi de’ frati di S. Miniato 1466-1483, f. 12v. []
  19. Ancora oggi è possibile osservare una parte dell’antico passaggio dalla parte del chiostro, di cui si è conservata una piccola nicchia non molto profonda che ha la sagoma di una porticina. []
  20. ASF, Archivio del Regio Arcispedale di S. Maria Nuova, Carte del Monastero dell’Arcangelo S. Raffaello, 17, Ricordi de’ frati di S. Miniato 1466-1483, f. 12r. []
  21. Montici è una delle colline attorno Firenze nei pressi del Pian dei Giullari appartenente al quartiere di Gavinana-Galluzzo. []
  22. ASF, Archivio del Regio Arcispedale di S. Maria Nuova, Carte del Monastero dell’Arcangelo S. Raffaello, 17, Ricordi de’ frati di S. Miniato 1466-1483, f. 12r. []
  23. ASF, Archivio del Regio Arcispedale di S. Maria Nuova, Carte del Monastero dell’Arcangelo S. Raffaello, 17, Ricordi de’ frati di S. Miniato 1466-1483, f. 11v. []
  24. Le Carte Strozziane sono una raccolta di documenti compiuta dal senatore Carlo Strozzi nel XVII secolo. In particolare sono preziose quelle relative all’arte di Calimala il cui archivio è andato interamente distrutto in un incendio. []
  25. ASF, Carte Strozziane, s. II, 51.2, f. 112r. []
  26. ASF, Carte Strozziane, s. II, 51.2, f. 120v. []
  27. Ibidem. []
  28. Il riferimento agli armadi è riportato in maniera specifica in: K. Frey, Le vite de’ piu eccellenti pittori scultori e architetti scritte da Giorgio Vasari pittore et architetto Aretino, vol. 1, Monaco 1911, p. 326, “Sagrestia di S. Miniato si fa di nuovo. Armadi  si fanno di nuovo come i primi”. []
  29. BML, Manoscritto Ashb.644, c. 46 v. []
  30. M. Haines, La Sacrestia…, 1983, p. 27 nota 17. []
  31. L. Marcucci, Per gli armarij della sacrestia di Santa Croce, in «Mitteilungen des Kunsthistoriches Institutes in Florenz», IX, 1960, p. 152. []
  32. Cfr. G. Giura, Storie di Cristo e di San Francesco, in L’arte di Francesco. Capolavori d’arte italiana e terre d’Asia dal XIII al XV secolo, catalogo della mostra (Firenze, 31 marzo – 11 ottobre 2015), a cura di A. Tartuferi, F. D’Arelli, Firenze 2015, pp. 284-295. []
  33. G. Giura, Storie di Cristo…, in L’arte di Francesco…, 2015, p. 290. []
  34. G. Manni, Mobili in Emilia, con una indagine sulla civiltà dell’arredo alla corte degli Estensi, Modena 1986, p. 115. []
  35. T. Pignatti, Mobili del Rinascimento, Milano 1967, p. 96. []
  36. F. Gurrieri – L. Berti – C. Leonardi, La Basilica…, 1988, p. 65. []
  37. All’Archivio Storico del Comune di Firenze sono conservati due volumi, il n° 10245 e il n° 10254, nella quale sono registrate tutte le entrate e le uscite relative ai lavori di restauro effettuati all’interno della basilica. []
  38. F. Gurrieri – L. Berti – C. Leonardi, La Basilica…, 1988, p. 230. []
  39. S. Chiarugi, Botteghe di Mobilieri in Toscana, II, Firenze 1994, p. 421. []
  40. Ibidem. []
  41. ASCF, 10245, filza 26, Necropoli di S. Miniato al Monte. Affari diversi, 1858, 9 giugno. []
  42. ASCF, 10245, filza 26, Necropoli di S. Miniato al Monte. Affari diversi,1859, 1 maggio. []
  43. ASCF, 10254, Libro di entrata e uscita dal 21 Febbraio 1860 al 19 Marzo 1867. La 1° per incassi di tumulazioni, la 2° per spese per le tumulazioni e per i restauri della basilica, 1860, 3 dicembre. []
  44. Le maniglie sembrerebbero autentiche, sono state cambiate solo le viti. []
  45. La rasiera o pialletto è un attrezzo ricavato da una lamina di acciaio di spessore fino a 2/3mm al massimo, molto affilato sui bordi, che si utilizza per asportare sottili strati di legno o il film di vernice su un pezzo da riverniciare. []
  46. Per l’analisi tecnica e stilistica del mobile sono stati molto preziosi i pareri e i consigli del professore e restauratore Simone Chiarugi che qui desidero ringraziare. []