Giuseppe Giugno

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Il segno della Santissima Croce nelle opere dei maestri crucifissari e nei repertori di beni artistici della Sicilia Centrale tra Quattro e Settecento

DOI: 10.7431/RIV17062018

Il Crocifisso è uno dei motivi iconografici più diffusi nella storia dell’arte attraverso l’operato di pittori e scultori. Da un primo e attento esame delle rappresentazioni che di esso sono state fornite nel tempo, rinvenibili nella Sicilia centrale, è possibile intercettare alcune opere cinque e seicentesche che rimandano a scultori napoletani, palermitani e madoniti. Va osservato che la produzione di «immagini del Cristo, della Vergine madre di Dio e di tutti i santi» assume un valore strategico per la difesa della dottrina e ortodossia cattolica contro l’eresia luterana in età post-tridentina. La necessità di disciplinare e normare la diffusione delle immagini sacre, «non perché si creda che in esse risiedano qualche divinità o energia che le rendano meritevoli di culto», si fonda principalmente sul bisogno di evidenziare che «l’onore ad esse tributato va in realtà ai modelli che esse raffigurano»1. L’arte assume, dunque, un importante significato e valore didascalico normato attraverso la codificazione di «precise tematiche e specifiche iconografie»2.

Nella produzione, diffusione e circolazione di opere d’arte ha un ruolo determinante la figura del committente. Il riferimento va nello specifico – come attestato dai preziosi repertori di beni artistici – alla chiesa, all’aristocrazia feudale e alle confraternite. Proprio quest’ultime, all’indomani del Concilio di Trento conoscono un sensibile incremento, svolgendo funzioni rilevanti sul piano dell’assistenza ai poveri e malati e attendendo al decoro degli spazi liturgici loro affidati. A tal proposito occorre ricordare che le confraternite, assieme alle realtà conventuali delle città e ai privati, alimentano la produzione di opere d’arte affidandone la fattura, per quanto attiene alla scultura lignea, ad artisti abili nell’arte dell’intaglio.

In particolare, tra Cinque e Seicento, la committenza pone attenzione ai maestri che in un certo senso erano riusciti a specializzarsi nella scultura del legno ed in determinati generi iconografici, come accade con frate Umile da Petralia Soprana – al secolo Giovan Francesco Pintorno – e i frati di Petralia Sottana Innocenzo e Benedetto nella fattura di Crocifissi3. In alcuni casi gli scultori, noti per le immagini del Cristo alla croce, vengono anche indicati con la qualifica di crucifissari, come documentato per Salvatore Passalacqua, Simone de Lentini e Filippo Ribaudo4. Il riferimento alle qualifiche professionali rimanda, inoltre, ai percorsi di formazione in uso nel Seicento che aspiranti intagliatori e scultori di legname dovevano compiere secondo quanto stabilito dai capitoli del Consolato dei Maestri d’Axia. Di norma, come documentato a Caltanissetta, l’apprendistato era esteso all’arco di un intero quadriennio e culminava nell’esecuzione materiale di una porta di legno. È attestato, infatti, che nel 1635 un tale Raffaele Miraglia di Caltanissetta si impegna con Francesco Drago, uno dei falegnami del tempo:

«ad omnia servitia eius apotece fabri lignarij et ad omnia servitia urbana per quattro anni e hoc absque ulla mercede itaquod dictus Drago teneatur ei dare esum et potum et calzari et vestiri di lana cioè calzi casacha et calzuni nec non et un paro di calzetti […] ci habbia di imparari la detta arti di maestro di ascia et allo fini di detti anni quatro ancora ci habbia di dari tutti quegli stigli che sonno di bisogno per fari una porta di ligno»5.

Era proprio l’apprendistato presso la bottega del maestro scultore e intagliatore che consentiva agli allievi di imparare l’arte del “manufacere et scolpire in lignamine. In alcuni casi però accanto a questo, come ben asserisce Giuseppe Fazio a proposito dei Crocifissi di frate Umile, la formazione doveva certamente avvenire attraverso l’ascolto meditato di testi omeletici e libri ascetici come le Rivelazioni di Brigida di Svezia ed il Trattato dell’Oratione e della Meditatione per li giorni della settimana di Luigi Granata, dai cui contenuti lo scultore avrebbe tratto le immagini plastiche connotanti la sua produzione artistica6.

Sul piano iconografico, le raffigurazioni del Crocifisso tra Quattro e Seicento rimandano al modello del Christus Patiens, introdotto tra il X e l’XI secolo come superamento dell’influenza bizantina che aveva fino a quel momento indotto gli artisti a rappresentare sulla croce il Cristo non morto ma vivo. A Caltanissetta, tale modello trova valida esemplificazione nella sacra effige quattrocentesca del Santissimo Crocifisso detto “Signore della Città”, conservata oggi nell’eponima chiesa, denominata nel Cinquecento di San Nicola di Bari. Intorno alla presenza del Crocifisso sorge nel tempio l’eponima società documentata nel 1603, alla quale si deve il merito di aver commissionato nel 1609 al fabbriciere Francesco Nicolosi la costruzione di una cappella con «suo dammuso a gavita», nella quale venne ricavata una nicchia per il simulacro7. Assai interessante è la devozione popolare che si sviluppa nei secoli intorno a questa sacra immagine (Fig. 1), molto venerata soprattutto durante il tempo quaresimale e la processione del venerdì santo:

«adorasi la più antica imagine del SS. Crocifisso da tutto il Popolo venerata specialmente in tutti li venerdì di marzo e venerdì santo in qual giorno dal Clero tutto, Compagnie e Regolari in abiti di penitenza processionalmente girasi tutta la città. Siccome pure una tale imagine viene venerata nei casi più necessarij del popolo»8.

Alla società del Santissimo Crocifisso, rifondata nel 1661, si deve anche la decisione di commissionare nel 1669 allo scultore Michele Ragona di Petralia Sottana la fattura di un fercolo ligneo, andato perduto, destinato alla processione e decorato dal pittore nisseno Giovanni Battista Laudato, finora non conosciuto:

«fari una vara di ligniami di salacio et chiuppo d’altezza di palmi octo giusta la forma dell’disignio fatta per esso mastro innanti del vicario foraneo di questa città quali bona magistribili et benvista a ditto vicario ipse de Ragona dare et consignare promisit seque sollemniter obligavit et obligat eidem gubernaturi stipulanti vel persona in ditta terra Petralie inferioris»9.

Databile sempre al Quattrocento è il “Crocifisso dello Staglio”, proveniente dalla prima chiesa madre di Caltanissetta detta di Santa Maria la Vetere, oggi custodito nell’abbazia di Santo Spirito. Si tratta di una croce dipinta su tavola sul modello del Crocifisso gotico diffuso nel XV secolo in Sicilia, nella quale, come scrive Felice Dell’Utri, si possono ravvisare le caratteristiche della pittura spagnola quattrocentesca condensabili in «una visione del volto ieratica e stilizzata, dall’espressione rude e burbera»10. Altro elemento caratterizzante l’opera è il bordo della croce segnato da un motivo frastagliato che rimanda a «tipologie arcaiche di croci dipinte siciliane dai bordi animati da piccoli promontori a gradinata»11.

Il rapporto tra l’opera e la pietà popolare è ben sintetizzato nella cronaca titolata Mentilumifer, nella quale viene raccontata la liberazione di una fanciulla dai malefici per la mediazione del Crocifisso12. Un interessante riferimento al manufatto emerge nel repertorio di beni ecclesiastici della chiesa di Santa Maria la Vetere, stilato nel 1560 su mandato del vicario generale della diocesi di Agrigento, don Raynaldo de Raynaldis. Nell’elenco compaiono, «duj tovaglj longhj dilo crucifixo et uno linczolo in dicto crucifixo» assieme al cenno ad una «vara dilo corpo di Christo», probabilmente impiegata per la processione del venerdì santo assieme al “Crocifisso della Città” 13  (Fig. 2).

Altri esempi di croci dipinte, ispirate a modelli tipici della tradizione iconografica del basso Medioevo ma risalenti all’età post-tridentina, sono presenti nella vicina città di Butera, antico centro feudale della famiglia Santapau Branciforti. Il riferimento va nello specifico alla croce della chiesa di San Francesco, datata 1631, attribuibile ad un ignoto scultore locale «lanciato verso soluzioni pre-barocche, quali sono la teatrale gestualità della Maddalena e il dinamismo della linea serpentina» del corpo del Cristo14. Accanto a questo modello si trova sempre a Butera nella chiesa madre di San Tommaso Apostolo un altro esempio di croce dipinta databile tra la fine del XV e la prima metà del XVI secolo. Si tratta di un manufatto particolarmente interessante perché presenta un perimetro animato, così come è stato già evidenziato per il Crocifisso dello Staglio, dall’innesto alla croce di brevi lobature che ne movimentano l’andamento generale15 (Figg. 34).

Nella formazione di un’opera d’arte sacra assume un ruolo determinante la committenza, che non va esclusivamente identificata con la sfera ecclesiastica ma anche con quella del notabilato locale che finanzia con risorse private gli interventi volti a decorare gli altari e le cappelle di cui intende acquisire il diritto di patronato. Si legge, ad esempio, che nel 1588 il notabile nisseno Gaspare Di Forte ottiene dal priore del convento di San Domenico di Caltanissetta una cappella posta accanto al nuovo cappellone absidale per averne ampliato le dimensioni e rinnovato le strutture a sue spese. In quella circostanza i domenicani donano alla cappella menzionata il «Crocifisso di ditta Ecclesia», andato perduto, a condizione però che Di Forte sistemasse nel luogo un altare conforme a quello della cappella della Madonna del Rosario presente nella chiesa16.

Altra concessione riguarda nel 1647 la cappella del Santissimo Crocifisso nella chiesa madre di Santa Maria La Nova, il cui diritto di patronato viene conferito dall’arciprete Geronimo La Mammana a Scipione Licari, per i numerosi interventi decorativi che erano stati da lui finanziati nel tempio e per i manufatti artistici donati17. Il riferimento va, nello specifico, al dipinto del Battesimo di Cristo attribuito da Francesco Pulci allo Spagnoletto, ma a parere dello studioso Felice Dell’Utri inquadrabile tra le opere giovanili del pittore nisseno Vincenzo Roggeri, ed al Crocifisso ligneo. Assai controverse per l’assenza di fondamento scientifico sono le attribuzioni di quest’ultima opera proposte da Pulci ora ad uno degli esponenti della bottega del Gagini ora allo stesso frate Umile da Petralia Soprana18. Interessante è la descrizione che ne propone sempre Dell’Utri, laddove evidenzia che il simulacro in legno policromo presenta un «perizoma decorato con motivi floreali in oro riecheggiante le splendide sculture siciliane del XVI secolo interamente ricoperte da sfarzose dorature rifinite a bulino»19 (Fig. 5).

Nell’ambito della committenza ecclesiastica suscita interesse il riferimento nel 1598 ad un Crocifisso ligneo per la chiesa di San Sebastiano, oggi andato perduto, commissionato ad uno scultore nuovo nel panorama artistico della cittadina nissena del quale viene esplicitato dalla fonte il solo riferimento al cognome Rogeri. L’opera da lui iniziata verrà, tuttavia, portata a compimento dal pittore e scultore Nicola Saporito:

«complirci uno crucifissio quali havia principiato don Rogeri di lignami / quali restao incomplito»20.

Il Crocifisso, riposizionato dopo il suo completamento in un nuovo altare della chiesa, come emerge nel 1599 quando viene concessa ad un tale Matteo Parla una fossa sepolcrale «undi che havi stato il Crucifisso di ditta Ecclesia et al presenti ci è uno altaro supra lu quali ci è il quatro di Jo. Leonardo di Fortj»21, rimanda probabilmente allo scultore napoletano Giovanni de Rugeri o de Rogerio. Di questi è nota, nel 1595, la partecipazione accanto allo scultore Paolo Pellegrino nella fattura di alcuni candelieri e nei primi anni del Seicento l’operato in diverse chiese di Palermo, città di cui aveva peraltro acquisito la cittadinanza22. La figura di Nicola Saporito, ad oggi ancora poco conosciuta, viene documentata a Caltanissetta sin dal 1576 quando realizza assieme agli inediti scultori Signorello Saporito e ad Antonuzio de Angelo il simulacro di San Rocco. Più avanti, il suo operato si legherà, perlopiù, alle confraternite della città con specifico riferimento a quella di San Paolino23.

Nel 1615, anche i padri dell’abbazia benedettina di Santa Flavia commissionano una imagine del Crocefisso, forse lignea, per il cui costo di appena 20 grani si può ritenere che servisse da Crocifisso da tavolo o d’altare24. Proviene dalla chiesa di Santa Croce – titolatura dovuta alla reliquia della croce custodita in una preziosa stauroteca d’argento, donata a fine Cinquecento dai Moncada alle monache benedettine presenti in quel tempo in città – un Crocifisso oggi conservato nella chiesa di San Pio X (Fig. 6).

Accanto ai simulacri lignei, occorre arricchire la riflessione sull’argomento attraverso i dati che emergono dai repertori di beni artistici stilati da abbazie, chiese madri, società religiose e aristocrazia feudale. Numerosi sono, infatti, i riferimenti ad oggetti in rame, argento e legno, alcuni con valore sacramentale, sui quali compaiono immagini ispirate alla Passione del Cristo. Pare utile, a tal proposito, il rimando ai beni consegnati nel 1571 da donna Lucrezia Branciforti, contessa di Raccuja, al reverendo Giovanni Andrea Riccobene, priore dell’abbazia di Santo Spirito, consistenti in una crocetta d’argento e in due «Agnus Dei» non in cera, come di solito accadeva, ma in metallo25:

«agnus Dej grandi di ramo cjoè di l’una partj cum lu sudario et di l’altra partj la imaginj di San Bastiano cum soj tiramj. Item una cruchetta dj argento cum suo lazo di sita blanca et nigra. Item un altro agnus Dej di argento cjoè di l’una partj cum lo agnello et dj l’altra cum la imaginj di Maria Virginj cum Cristo in bracza morto»26.

Ai beni si aggiungono dalla lettura di una ‘giuliana’ dell’abbazia, stilata nel 1618 durante il priorato di don Gabriele de Mancuso, «un altro crucifisso per innanzi l’altare della Madona di legno in argento con il suo pede e una croce grande di rame dorato con la sua asta»27. Probabilmente il Crocifisso in rame dorato è lo stesso che nel 1636 l’abbate Gaspare Romano donerà al Collegio dei Gesuiti della città, nella cui chiesa troverà sepoltura ai piedi dell’altare di Sant’Ignazio di Loyola, come sottolineato nel suo testamento:

«Item legavit ditto Collegio lo crucifisso di ramo supra dorato integro come sta una con lo supradicto / quatretto della Madonna et Santo Dominico con li cornici di ramo dorato supra expressato nella cappella di esso testatori et lo suo messali grandi novo»28.

Si aggiunge, inoltre, che nella stessa chiesa di Sant’Agata viene ancor oggi custodito un prezioso Crocifisso ligneo, d’autore ignoto, documentato in un inventario di beni del 1761, «Santissimo Crocifisso grande di legname con tisello di drappo rosso vecchio». Il simulacro è racchiuso entro un reliquiario sistemato in una macchinetta d’altare, il cui disegno va quasi certamente attribuito a Francesco Bonamici, impegnato nel 1644 nel progetto dell’altare di Santa Maria Maggiore nella cappella Tamburino della stessa chiesa29 (Fig. 7).

Il riferimento ad «una cruchj grandj di argento cum so pumo grandj et XIX pumetj doratj» assieme ad «una cruchj di argento ructo» compare nel citato repertorio di beni della chiesa madre del 1560 nelle sue due sedi di Santa Maria la Vetere e Santa Maria la Nova. Qui, accanto agli oggetti in argento, il segno della croce compare anche su casule e amitti:

«casubula di jambillocto allionato cum la cruchj di domasco virdj, un altra casubula di tila blevj cum la cruchj nigra; […] / Item un altro amicto di raso russo et un altro ammicto di jambillocto russo cum trj cruchj di oro […] uno paro altaro di cordellato jalno cum sua cruchj russa»30.

Il culto del Crocifisso trova radicamento nella vita di alcune confraternite e società religiose come evidenziato dalla lettura delle titolature sacre. Infatti, oltre alla già citata confraternita legata al “Signore della Città”, si ritrova anche nella vicina Delia dei Gravina di Palagonia una società col titolo del Santissimo Crocifisso, unita dopo il 1759 alla confraternita dell’Addolorata esistente nella chiesa madre di Santa Maria di Loreto. Interessante risulta, a tal proposito, l’intervento commissionato nel 1817 dai suoi confrati allo scultore di legname Giuseppe Frattallone, personaggio dal profilo artistico inedito, consistente nella fattura di un altare ligneo per la cappella con «fondi a colore di pietre diverse […] indorare tutte le cornici che decorano dicto altare a mistura formarci il tabernacolo e croce con fondi di pietra e cornici ed estremità indorate» e decori con simboli della passione di Cristo31 (Fig. 8).

Nuovi rimandi alle raffigurazioni del Crocifisso compaiono nel 1625 nel repertorio di beni della società delle Anime Sante del Purgatorio, fondata nella chiesa di San Giovanni a Caltanissetta. Si tratta di «dui Crucifissi con uno Giesus di rilevo Ecce Homo», una «cruci grandi» ed un «quatro di Giesu alla colonna», oggi non più esistenti32.

Il quadro di analisi approntato si completa con la lettura degli inventari di beni artistici dell’aristocrazia feudale. Assai significativo è il repertorio di beni del 1567 trasmessi a Cesare Moncada, principe di Paternò, in occasione della morte del padre Francesco. Tra gli oggetti elencati compaiono: «una cruchecta di oro lavorata et smaltata», un’altra crocetta in argento, un’altra ancora «ingastata di oro et vintiquatro partituri di oro» in una composizione con 127 coralli, una medaglia «cum Christo in bronzo morto et un agnus Dei» ed una «pachi di argento cum Christo in cruchi»33. Nel 1584, Francesco II Moncada in occasione delle sue nozze dona alla moglie Maria Aragona La Cerda, figlia del duca di Montalto, diversi gioielli tra i quali anche una preziosa «croce di diamanti con tre perle grosse»34.

Il riferimento alla croce cinquecentesca ricompare nel 1631 nelle volontà testamentarie del principe Antonio Moncada, in quel tempo gesuita presso la Casa Professa di Napoli, dallo stesso prescelta come luogo della sua sepoltura. Antonio, nel disporre la vendita di tutti i suoi beni mobili, allodiali e burgensatici, finalizzata al pagamento dei debiti contratti dalla sua famiglia – dalla madre Maria e nonna Aloisia in particolare – ordina che qualora fosse rimasto denaro dopo l’alienazione di quanto ordinato, questo sarebbe stato impiegato per riscattare la croce di diamanti e un prezioso anello anch’esso di diamanti, forse quello nuziale dei genitori:

«[…] e di quello avanzasse se ne debba recattare la / crocetta di diamanti e l’anello con sette diamanti di fondo […]»35.

Le indicazioni testamentarie del principe Antonio rinviano alla grave condizione debitoria dell’aristocrazia nel Seicento, dovuta al peso delle soggiogazioni contratte per sostenere stili di vita al di sopra del gettito fiscale garantito dalle attività produttive e dalle tassazioni degli ‘Stati’ feudali. Immediata conseguenza del malessere economico che caratterizza la nobiltà è il commissariamento dei patrimoni feudali mediante l’istituto giuridico della Deputazione degli Stati. Gli unici beni sottratti al controllo della Deputazione erano quelli burgensatici e allodiali che potevano, pertanto, essere liberamente alienati o impegnati al Banco dei pegni per far fronte alle esigenze dei creditori. Quanto detto viene esemplificato nel caso del Moncada, come emerge nel riferimento agli oggetti preziosi che erano stati condotti al Banco di San Jacopo a Napoli «in testa della signora Marchesa di Vico», dei quali il principe chiede il riscatto mediante la vendita dei suoi beni, perché venissero restituiti alla moglie Giovanna La Cerda, in quel tempo monaca presso il monastero dell’Assunta di Palermo col nome di suor Teresa. Questa, peraltro, avrebbe dovuto consegnare la crocetta e l’anello alla figlia Anna Maria qualora avesse deciso di sposarsi: «se si caserà oltre la sua dote di pareggio seu leggitima». Se invece la nobile fosse divenuta monaca, i gioielli sarebbero stati consegnati alla nuora Maria Afan de Ribera, moglie del figlio Luigi Guglielmo. L’ultimo pensiero del principe va, infine, ad una croce – «il segno della Santissima Croce che sta in Sicilia» – e ad un anello di rubini in possesso della nuora Maria, di cui si sottolinea la provenienza dalla casa d’Aragona, per i quali Antonio afferma chiaramente che «per qualsivoglia causa ancorché urgentissima sia non si possano alienare né donare», ma debbono conservarsi perpetuamente per il primogenito del casato.

Accanto ai repertori di beni artistici dell’aristocrazia d’antico lignaggio destano attenzione anche gli inventari testamentari del notabilato locale. Si cita, a tal proposito, l’elenco di beni e oggetti preziosi di Francesco Calafato, Barone di Friddani, imparentato con gli Starrabba, principi Delli Giardinelli. Si tratta di un personaggio allo stato attuale degli studi poco conosciuto ma molto abbiente che esercita, tra l’altro, a Caltanissetta negli anni trenta del Settecento le funzioni di procuratore e sindaco apostolico del convento di Sant’Antonino dei Minori Riformati. In un elenco di beni redatto nel 1741 dopo la sua morte, assai utile per conoscere il gusto e l’interesse artistico del notabilato locale del tempo per il collezionismo e gli oggetti preziosi, compaiono numerose gioie in oro, argento, smeraldi e diamanti riproducenti la sacra immagine del Crocifisso. Tra gli oggetti descritti nel documento sono elencati: «una croce di petto d’oro e diamanti […] una catena d’oro con sua croce smaltata del Santo Officio […] una corona di granatino con sedeci partituri crocetta e conetta di filo grano d’oro con le figure di Santo Antonino et Immacolata Conceptione». A queste si aggiungono «una croce di San Giacomo tempestata di smeraldi» ed un capezzale di damasco verde «guarnito di guarnitione d’argento con un Crocifisso di pietra con la croce di cristaldo»36.

Legenda archivi e fondi archivistici

ASCl – Archivio di Stato di Caltanissetta

CC. RR. SS. – Corporazioni Religiose Soppresse

ASPa – Archivio di Stato di Palermo

  1. Sull’argomento si rimanda a G. D. Mansi, Sacrorum Conciliorum nova et amplissima Collectio, vol. XXXIII, Venezia 1788, 171. []
  2. Cfr. M. C. Di Natale, Le croci dipinte in Sicilia, Palermo 1992, p. 111. []
  3. Sull’operato e la figura di frate Umile da Petralia Soprana si rimanda a P. Tognoletto, Vita del vener. Fr. Humile da Petralia Soprana laico scultore, in Paradiso Serafico del Regno di Sicilia, parte seconda, libro VII, cap. XXXIII, Palermo 1687, pp. 307-315; G. Di Marzo, I Gagini e la scultura in Sicilia nei secoli XV e XVI. Memorie storiche e documenti, vol. I, Palermo 1880, pp. 710-714; R. La Mattina-F. Dell’Utri, Frate Umile da Petralia. L’arte e il misticismo, Caltanissetta 1987, passim; G. Abbate-G. Fazio, Frate Umile a Petralia Soprana, Palermo 2015, pp. 29-55; Sempre sulla figura del frate si veda a A. Cuccia, La scultura lignea in Sicilia nei secoli XVII e XVIII, Tesi di Laurea, Relatore Prof. M. G. Paolini, Università degli Studi di Palermo, Facoltà di Magistero a.a. 1972-1973, pp. 48-63. Sullo scultore frate Benedetto si veda G. Abbate-G. Fazio, Frate Umile …, 2015, p. 53; G. Fazio, Inocentio Petroliensi Inferiori Laico de Minore Osservante Reformato. Revisione critica di frate Innocenzo da Petralia e del suo connubio artistico con frate Umile, in “Paleokastro. Rivista trimestrale di studi siciliani”, NS II, 3, settembre 2011, p. 42; S. Anselmo, Pietro Bencivinni “magister civitatis Politii” e la scultura lignea nelle Madonie, Palermo 2009, p. 74; su frate Innocenzo si rimanda a G. Macaluso, Frate Innocenzo da Petralia Soprana emulo del Pintorno, in “Archivio Storico Siciliano”, s. 3, XVIII, 1969, pp. 147-215; G. Fazio, Inocentio Petroliensi …, 2011, pp. 30-42. []
  4. Per una visione più ampia sull’operato dei maestri crucifissari in Sicilia si veda G. Mendola, Maestri del legno a Palermo fra tardo Gotico e Barocco, in Manufacere et scolpire in lignamine. Scultura e intaglio in legno in Sicilia tra Rinascimento e Barocco, a cura di T. Pugliatti-S. Rizzo-P. Russo, Catania 2012, pp. 143-189; su Salvatore Passalacqua si veda L. Sarullo, Dizionario degli Artisti Siciliani, Scultura, a cura di B. Patera, vol. III, Palermo 1994, p. 256. Su Simone de Lentini si veda Idem, Dizionario degli Artisti …,1994, p. 180. []
  5. A Caltanissetta l’esperienza formativa descritta compare già nel 1619 e si fonda su un periodo di tirocinio di cinque anni, durante il quale non differiscono rispetto al 1635 gli obblighi che tirocinante e maestro sono tenuti a rispettare. L’unica differenza è rappresentata dall’assenza dell’esame finale. Per un approfondimento sull’argomento si rimanda a G. Giugno, Il consolato dei maestri d’axia e dei corvisieri a Caltanissetta nel Seicento, in “Archivio Nisseno”, n. 3, a. II, luglio-dicembre 2008, pp. 104-109, rivisto e pubblicato in G. Giugno, Appendice documentaria. La maestranza dei falegnami a Caltanissetta nel Seicento, in Manufacere et scolpire …, 2012, pp. 612-613. []
  6. Cfr. G. Abbate-G. Fazio, Frate Umile …, 2015, p. 47. []
  7. ASCl, Not. V. La Rocca, reg. 940, f. 399r. Per un approfondimento sulla famiglia dei fabbricieri Nicolosi si rimanda a D. Vullo, I Nicolosi di Caltanissetta (Una famiglia di “mastri”), in “Archivo Storico della Sicilia Centro Meridionale”, vol. 1, n. 0 dicembre 1998, pp. 185-190; G. Giugno, Caltanissetta dei Moncada. Il progetto di città moderna, Caltanissetta 2012, pp. 63, 65-66. []
  8. ASCl, Curia Juratoria I, reg. 55, f. 10r. []
  9. ASCl, Not. G. Falci, reg. 867, f. 454r. Sullo scultore Michele Ragona si veda R. Termotto, Sclafani Bagni. Profilo storico e attività artistica, Palermo 2009, pp. 39-40. Suscita interesse nel 1668 il riferimento all’esistenza nella cittadina nissena di una fovea nella chiesa di Santa Maria Annunciata, fossa delli schiavi del Santissimo Crocifisso di detto venerabile Convento, destinata assai verosimilmente alla sepoltura dei membri dell’omonima confraternita nella quale trova posta in quell’anno un tale Blasio Petrantoni (ASCl, Not. M. Riccobene, reg. 824, f. 471v). []
  10. Cfr. F. Dell’Utri, Abbazia normanna di Santo Spirito «Caltanissetta», Caltanissetta 1986, pp. 68-73; si veda pure Idem, Il Crocifisso a Caltanissetta, in “Notiziario”, San Cataldo 2000, p. 22. Per un ulteriore approfondimento sull’argomento si veda G. Davì, La cultura figurativa nel nisseno fra Cinque e Seicento, in La pittura nel nisseno dal XVI al XVIII secolo, a cura di E. D’Amico, Palermo 2001, pp. 41, 44. Sul Crocifisso dello Staglio si rimanda a Nisseno, a cura di S. Avveduto, Roma 1999, p. 54. []
  11. Cfr. M. C. Di Natale, Le croci …, 1992, pp. 6-7. []
  12. Cfr. M. Mendolia Calella, Mentilumifer. Devozione popolare e tradizione francescana in un’antica cronaca nissena, Caltanissetta 2012, pp. 55-57. []
  13. ASCl, Not. Baldassare Bruno, reg. 261, f. 756r. La trascrizione integrale del repertorio di beni della chiesa madre del 1560 è pubblicata in G. Giugno, Caltanissetta dei Moncada …, 2012, pp. 166-168. []
  14. Cfr. M. Vitella, La tradizione medievale diventa calore barocco, in Butera, “Kalòs – Luoghi di Sicilia”, n. 2, a. XI, 1999, p. 11. []
  15. Cfr. Idem, La croce dai bordi animati, in Butera, “Kalòs – Luoghi di Sicilia”, n. 2, a. XI, 1999, p. 14. []
  16. Francesco Pulci afferma che dopo la soppressione delle Corporazioni Religiose nel 1866 il Crocifisso di San Domenico trovò posto presso la vicina chiesa di San Giovanni. Si veda F. Pulci, Lavori sulla storia ecclesiastica di Caltanissetta, Caltanissetta 1977, p. 381. []
  17. Per un maggior approfondimento sulle cappelle di patronato privato nella chiesa madre di Caltanissetta, oggi Cattedrale, si rimanda a G. Giugno, Caltanissetta, gli altari di Santa Maria la Nova. Nuove acquisizioni documentarie sugli altari appadronati della Cattedrale Nissena, in “Agorà”, Periodico di cultura siciliana, n. 52, a. XVI, 2015, pp. 24-27. []
  18. Cfr. F. Pulci, Lavori sulla storia …, 1977, p. 305 e Idem, Lavori sulla storia ecclesiastica di Caltanissetta e sua diocesi, Caltanissetta 1881, p. 121. Sul pittore Vincenzo Roggeri si veda F. Dell’Utri, Vincenzo Roggeri Pittore siciliano del XVII secolo, Caltanissetta 2004. []
  19. Cfr. F. Dell’Utri, Il Crocifisso a …, 2000, pp. 22-23. []
  20. ASCl, Not. F. Mammana, reg. 352, f. 635v. []
  21. ASCl, Not. F. Mammana, reg. 355, f. 134r. []
  22. Sulla figura dello scultore Giovanni de Rogerio si rinvia a G. Mendola, Maestri del legno …, in Manufacere et scolpire …, 2012, pp. 174-175; su Paolo Pellegrino si veda Ibidem; L. Sarullo, Dizionario degli Artisti …, 1994, p. 176. []
  23. Per comprendere meglio il rapporto del pittore Nicola Saporito con la confraternita di San Paolino si veda G. Giugno, Pittori e scultori nella chiesa di san Paolino a Caltanissetta tra Cinquecento e Seicento, in “Agorà”, Periodico di cultura siciliana, n. 47, a. XVI, 2014, pp. 16-19. []
  24. ASCl, CC. RR. SS., Santa Flavia, reg. 222, f. 8v. []
  25. Si tratta di medaglioni “sacramentali” dalla tipica forma ovale che potevano essere montati in reliquiari da viaggio, indossati o sistemati in apparecchiature domestiche per proteggere le abitazioni dai malefici. Si veda I Papi della memoria. La storia di alcuni grandi pontefici che hanno segnato il cammino della Chiesa e dell’Umanità ed Opere recuperate dall’Arma dei Carabinieri, Guardia di Finanza e Polizia di Stato, Roma 2012, p. 302. []
  26. ASCl, Not. G. B. Maddalena, reg. 11, f. 996v. []
  27. ASCl, Not. F. Calà, reg. 336, f. 850r. []
  28. ASCl, CC. RR. SS., Gesuiti, reg. 36, f. 260r. []
  29. ASCl, CC. RR. SS., Gesuiti, reg. 73, f. 3r. Si veda G. Giugno, Caltanissetta dei Moncada …, 2012, pp. 125-127, 228. []
  30. ASCl, Not. B. Bruno, reg. 261, f. 756r. []
  31. ASCl, Not. F. Meo, reg. 217, f. 857r. Giuseppe Frattallone è probabilmente parente dell’omonimo scultore nato a Caltanissetta nel 1832, per il quale si rimanda a L. Sarullo, Dizionario degli Artisti …, 1994, p. 126. []
  32. ASCl, Not. F. Mammana, reg. 374, f. 555r. []
  33. ASCl, Not. M. Riccobene, reg. 824, f. 471v. []
  34. ASPa, Fondo Moncada, reg. 114, f. 75r. []
  35. ASPa, Fondo Moncada, reg. 114, f. 169r. Per un approfondimento sulla figura del principe Antonio Moncada si rimanda a L. Scalisi-R. L. Foti, Il governo dei Moncada (1567-1672), in La Sicilia dei Moncada. Le corti, l’arte e la cultura nei secoli XVI-XVII, a cura di L. Scalisi, Catania 2006, pp. 41-43. []
  36. ASCl, Not. G. Bevilacqua, reg. 2291, f. 79r. []