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Affreschi dimenticati nel monastero della Martorana
DOI: 10.7431/RIV17012018
L’oggetto di questo breve contributo1 è costituito da tre fotografie inedite relative ad alcune pitture casualmente rinvenute negli anni settanta all’interno della vecchia sede della Facoltà di Architettura di Palermo (già monastero della Martorana), foto che avrebbero dovuto arricchire il corredo iconografico del mio libro dedicato alla Scuola di Architettura di Palermo2, edito dalla Casa editrice Sellerio nel dicembre del 2012 ma che, con mio grande rammarico, non furono pubblicate. Interpretando quello che sarebbe stato il desiderio del mio caro amico e collega Mario Giorgianni, che aveva seguito costantemente l’iter della mia ricerca sulla “Casa Martorana”, e quello del professor Camillo Filangeri, che mi aveva fatto dono delle fotografie, l’occasione del presente articolo mi è particolarmente gradita, non solo per colmare quella lacuna ma, soprattutto, per portare alla ribalta i preziosi reperti storici che mi accingo ad illustrare, e ciò, nell’ottica di un loro auspicabile recupero e valorizzazione3.
Inizierò la mia esposizione dalle immagini relative a due “quadroni” a fresco, o più verosimilmente a tempera, rinvenuti al di sotto del pavimento dell’odierna aula 16, cui si accede dal corridoio del secondo piano dell’edificio in questione (Fig. 1). Tali due dipinti, databili intorno alla prima metà del XVII secolo, decoravano in origine la parete che separava il Refettorio dall’Aula Capitolare dell’antico monastero benedettino (Fig. 2, riquadro in rosso). Negli anni trenta dell’Ottocento furono occultati da una elegante volta policentrica a sesto ribassato, del tipo “a incannucciata”; e poiché tale struttura voltata venne a sua volta nascosta negli anni sessanta del secolo scorso da un controsoffitto in gesso, si può affermare con certezza che tali “quadroni”, al tempo del loro rinvenimento, erano rimasti occultati per circa un secolo e mezzo.
Una terza immagine riguarda una porzione di fregio pittorico che in origine decorava l’ex Refettorio, oggi parzialmente corrispondente all’aula 3 di Giurisprudenza, ma un tempo ben più ampio (Fig. 3, riquadro blu), fregio anch’esso “dimenticato” dagli anni trenta dell’Ottocento, allorché venne occultato dalla volta prima descritta. Riteniamo che tali dipinti, da noi più avanti descritti, siano stati gravemente danneggiati durante i lavori di sostituzione del vetusto solaio ligneo esistente, ormai prossimo al collasso, con un nuovo solaio ordito con travi di acciaio e tavelloni di laterizio. In tale operazione, che interessò buona parte dell’Istituto di Urbanistica, la volta “a incannucciata”, di cui si è detto, fu giudiziosamente mantenuta, anche se rimase parzialmente nascosta da un controsoffitto in gesso in corrispondenza della stanzetta e del corridoio sottostanti (Fig. 3, riquadro in rosso).
L’immagine successiva (Fig. 4) mostra l’angolo sud-est del vano sottostante all’aula 16 che, fino al 2011, era destinata, insieme ad altri locali attigui, alla conservazione della Dotazione Basile e di una parte dell’Archivio Ducrot. Nella parete che delimita ad est tale vano si notano le tracce residuali di un dipinto con due figure virili, ambedue con aureola, mantello e pastorale vescovile. Difficile argomentare al momento sulla identità dei soggetti raffigurati, dei quali si propone anche un ingrandimento parziale (Fig. 5). Dalla stessa fotografia si rilevano inoltre altri elementi di un certo interesse, quali, una trave lignea trecentesca con suo dormiente intagliato, del tipo simile a quelli che si rinvengono nell’aula 12, intitolata a Walter Gropius (Figg. 6 e 7), o agli altri conservati in una stanza dell’ex Presidenza (Figg. 8 e 9), ed ancora, l’ossatura portante della citata volta ottocentesca, costituita dalle consuete centine di tavole di pioppo.
La fotografia n. 2 riguarda l’angolo nord-est dello stesso ambiente (Fig. 10), riconoscibile da alcuni particolari. Anche qui, al di là della trave lignea poggiante su un dormiente intagliato e consolidata, come l’altra estremità, da un puntello appostovi probabilmente nel corso del Settecento, e comunque prima della costruzione della volta “a incannucciata”, si nota un quadrone raffigurante una abbadessa in primo piano, ed ancora, due figure (in alto a destra), un grande vaso e altri particolari indecifrabili, nonostante l’ingrandimento fotografico da noi tentato (Fig. 11).
La fotografia n. 3, come si è detto, riprende un particolare del fregio che correva lungo l’intradosso dell’originario solaio dell’ex Refettorio (Fig. 12), un ambiente di epoca medievale che, a nostro parere, va identificato con quella chiesetta di S. Simone che Pagano de Parisio, conte di Avellino e di Butera, nel 1195 aveva donato alle monache della Martorana affinché potessero ampliare il loro piccolo monastero.
Secondo il professore Filangeri, con il quale ho avuto modo di soffermarmi sulla datazione di tale fregio, esso potrebbe risalire alla fine del XIII secolo. I soggetti raffigurati, dalle linee alquanto stilizzate e densi di contenuti simbolici, lo rendono di gran lunga più interessante dei due quadroni prima descritti. Le figure, di colore chiaro, pressoché uniforme, su fondo scuro (forse di colore azzurro) riproducono due grifoni rampanti contrapposti con al centro l’Albero della Vita, due pavoni, anch’essi affrontati, con al centro la sacra Fonte della Vita, e un piccolo drago, simbolo ricorrente di Satana. Infine, al di sopra del pavone di destra si intravede un frammento di un’altra figura, troppo piccolo però per tentare di identificarla.
Sicuramente il programma iconografico di tale ambiente non era circoscritto a queste poche immagini; infatti, come mi fu riferito dallo stesso Filangeri, egli avrebbe proseguito le riprese fotografiche se quel giorno non avesse esaurito la pellicola a sua disposizione. Né, tanto meno, potè mettere in atto il suo proposito il giorno seguente perché, quando ritornò sul posto, era ormai troppo tardi a causa dei lavori che si stavano apprestando in quella zona.
Mi sarebbe piaciuto approfondire il simbolismo di tali figure con lui, nella sua qualità di studioso particolarmente attento all’architettura e alle altre manifestazioni artistiche del Medioevo; gli avevo manifestato tale mio intendimento nel corso di una telefonata avvenuta all’inizio del 2013, nel corso della quale mi confessò la sua delusione per la mancata pubblicazione delle fotografie in discorso. Ci eravamo ripromessi di incontrarci presto per commentarle insieme, ma poi, purtroppo, non c’è stato più il tempo per farlo.
Desidero ora ritornare brevemente sul significato di tali raffigurazioni simboliche, argomento sul quale esiste una copiosa letteratura e sul quale ritengo non sia prudente addentrarmi data la complessità della materia; mi sembra tuttavia opportuno richiamare in questa sede alcune nozioni basilari a tal riguardo, tralasciando di riferire sulle remote origini e sui significati via via assunti nel tempo dai temi iconografici prima richiamati presso vari popoli e culture4, e ciò, al fine di sottolineare la grande importanza delle pitture documentate dalla foto n. 3.
I Pavoni (Fig. 13)
Numerosi sono i significati attribuiti alla figura del pavone sin dai primi tempi della Cristianità; spesso è stato assunto ad emblema del Cristo Salvatore, conduttore e pastore di anime verso la vita eterna, altre volte, a simbolo di Giustizia, del Giusto, del Buon Consigliere, della Primavera. Non mancano però le attribuzioni negative, quali l’Orgoglio, la Vanità e la Falsità del giudizio, ma si tratta di casi sporadici.
In antico si credeva che la carne del pavone fosse incorruttibile e, per tale ragione, esso fu l’emblema dell’incorruttibilità più assoluta. Louis Charbonneau Lassay scrive in proposito: «Questa leggendaria incorruttibilità del pavone, alla quale i romani dell’epoca di sant’Agostino credevano, ha portato come naturale conseguenza a far sì che i simbolisti cristiani prendessero questo uccello come simbolo dell’immortalità, a cui si giunge attraverso la resurrezione, nonché, l’emblema di questa restaurazione dopo la morte. In effetti – precisa meglio Charbonneau – «sant’Agostino5 ricorda che la credenza dell’incorruttibilità del pavone viene semplicemente proposta come l’emblema dell’immortalità; questo concetto però, dal momento che si applica all’essere umano, corpo ed anima, comporta implicitamente l’idea preliminare di resurrezione»6.
Secondo Marius Schneider (1903-1982) il pavone è simbolo dell’eterno susseguirsi del giorno e della notte, della nascita e della morte, che si esprime con la muta annuale del suo piumaggio, dunque egli «viene a costituire l’emblema della immortalità, la quale è dovuta alla presenza continua dei pavoni nella fonte sacra o al piede dell’albero della vita»7. In un altro passo del suo formidabile saggio di musicologia comparata, lo Schneider, che accosta la figura del pavone all’angelo, ma anche a Mercurio, per via del fatto che nelle sue ore mistiche si colloca tra il giorno e la notte e, nello spazio, tra il cielo e la terra, sostiene che, proprio a causa di tale significato simbolico, si trova spesso raffigurato in atteggiamento di veglia nelle catacombe di viale Manzoni a Roma, sul sarcofago di Teodoro nella chiesa di S. Apollinare in Classe, nonché nelle rappresentazioni più antiche dei miracoli di salvazione (storia di Noè, Giona, Lazzaro).
Veniamo ora al tema cui si richiama la nostra raffigurazione, che è quello dell’Eucarestia. Numerose opere d’arte ci mostrano uno o due pavoni nell’atto di bere, o di avere appena bevuto, dalla coppa eucaristica. In questo caso, il pavone riveste il carattere di doppio emblema di incorruttibilità e di immortalità; «i due pavoni che si nutrono al calice, al ciborio, sono il simbolo dell’aspirazione alla vita eterna, speranza suprema del cristiano»8. Stesso significato assumono i due pavoni che piluccano i frutti dell’Albero della vita, i quali ultimi evocano probabilmente anch’essi l’Eucarestia.
Marco Miosi, antropologo culturale, interpreta l’immagine dei due pavoni messi uno di fronte all’altro che si dissetano ad una fonte, come il simbolo delle anime dei fedeli che bevono dalla Fontana della vita, emblema di coppa dell’immortalità e di rinascita spirituale, come anche di calice eucaristico. A suo dire, i due pavoni «sono mediatori fra il cielo e la terra. Mai abbandonano la fonte sacra della vita. Uno di essi presiede alla nascita, alla luce e alla venuta dell’essere umano in questo mondo; mentre l’altro simboleggia la morte, l’oscurità e il passaggio all’altro mondo»9.
Secondo Edouard Urech10, infine, il simbolo cristiano del pavone non si incontra più in Occidente a partire dal XIII secolo e due secoli dopo in Oriente. Tale affermazione, che andrebbe attentamente verificata, nel caso in cui si dovesse rivelare attendibile, oltre che confermare l’antichità delle raffigurazioni della Martorana, ci indurrebbe ad anticipare la loro datazione alla fine del XII secolo, il che ci porterebbe a concludere che tali pitture adornavano di già la chiesetta di S. Simone quando questa fu donata alle monache della Martorana nel 1195.
I Grifoni
Limitandoci sempre alla chiave interpretativa cristiana, il grifone è portatore di una doppia simbologia; infatti, le sue due nature, felina e volatile, alludono alla terra e al cielo, dunque alla fusione tra due essenze. Per tale motivo il grifone si presta a essere interpretato in senso cristologico, come simbolo delle due nature di Cristo: quella umana e quella divina. In ragione della sua doppia natura il grifone divenne anche l’immagine emblematica dei Santi. Essi infatti, come riferisce lo Charbonneau, «sono aquile per la regione elevata dove dimorarono ordinariamente i loro pensieri e i loro sentimenti, e leoni per il coraggio morale di cui hanno dato prova, durante la loro vita, nella lotta incessante del Bene contro il Male, in loro e intorno a loro»11. In definitiva, i due grifoni (Fig. 14) rappresenterebbero le anime sante che partecipano alle delizie del cielo.
A mio parere, è proprio questa la lettura interpretativa che bisogna attribuire alla scena dipinta nel fregio della sala della Martorana: due grifoni, ossia due Santi, che si nutrono all’Albero della vita. Quest’ultimo, come afferma Antonio Iacobini, è « …l’asse centrale, il pilastro, che unisce la terra e il cielo, assicurando la coesione dell’Universo», e che, in altri termini, «rappresenta la vis universalis cui attingono gli esseri viventi»12. In proposito Charbonneau ci ricorda che questo stesso tema iconografico si rinviene nell’antica cattedrale bizantina di Atene, dove, egli dice, i maestri decoratori, verso il IX o il X secolo, posero sulla facciata due grifoni che si nutrono dei frutti dell’albero della Vita (Fig. 15). «E sappiamo – aggiunge – che questo albero ed i suoi frutti sono riservati ai santi, secondo il testo che la Chiesa ha fatto suo: A colui che vincerà, io darò i frutti dell’albero della Vita, che cresce nel paradiso del mio Dio (S. Giovanni, Apocalisse, II, 7)»13.
Ricordiamo che esiste anche una variante di tale tema iconografico, la quale si ispira a motivi religiosi orientali, estranei al Cristianesimo, riproducente la scena di due grifoni che bevono in una coppa. In questo caso essi simboleggiano le anime sante che chiedono al sacramento del sangue eucaristico di Cristo la grazia necessaria nella vita terrestre.
Il Drago
La terza figura allegorica, posta tra le prime due, a breve distanza dall’originario alloggiamento della trave lignea dismessa, sembrerebbe un drago o un serpente alato (Fig. 16). Per via della sua pessima reputazione nelle mitologie di tutti i popoli, tale creatura favolosa fu considerata dai cristiani una potenza demoniaca. Essa rappresenta quasi sempre Satana, il principe dei demoni che Maria calpesta secondo la profezia fatta a Eva: La Donna ti schiaccerà la testa, e tu le insidierai il calcagno… (Genesi, III, 15). La sua presenza tra le raffigurazioni prima descritte potrebbe spiegarsi probabilmente come il tentativo di rappresentare l’insidia del maligno lungo il percorso dell’uomo verso la salvezza dell’anima, oppure la creatura che nell’eterna disputa tra il Bene e il Male viene vinta dalla potenza di Cristo e dei Santi. Bisogna infine ricordare che nella simbologia cristiana i draghi raffigurano anche i falsi Dei del Paganesimo, tuttavia, in questo caso, propenderei per una delle ipotesi precedenti14.
Concludo questa mia relazione con l’auspicio che gli importanti reperti storici qui presentati possano promuovere presso le sedi istituzionalmente competenti idonee iniziative di carattere operativo al fine di accertare la loro eventuale permanenza e, in tal caso, tentarne il recupero per valorizzarli nel quadro di un restauro complessivo dell’ex monastero della Martorana; ciò sarebbe il modo migliore per onorare la memoria dei professori Mario Giorgianni e Camillo Filangeri che, con zelo e passione, insieme ad altri componenti della nostra Facoltà, in più circostanze, si sono adoperati affinché tale complesso architettonico ricevesse l’attenzione che merita e un dignitoso futuro.
- Comunicazione letta in occasione della Giornata di Studio in onore del prof. Mario Giorgianni (Palermo 1945 – 2011), Palermo, 10 dicembre 2014, Aula Basile, Facoltà di Ingegneria. In ragione dell’argomento trattato, questo contributo è dedicato anche al professore Camillo Filangeri, deceduto nell’aprile del 2013, i cui tratti umani e di studioso particolarmente attento ai temi dell’architettura medievale e di alcuni ambiti territoriali siciliani sono stati ricordati nell’Aula Magna della Facoltà di Architettura il 14 novembre 2014 su iniziativa dell’Accademia di Scienze, Lettere e Arti di Palermo. [↩]
- Cfr. G. Cardamone, L a Scuola di Architettura di Palermo nella Casa Martorana, Palermo 2012. [↩]
- Le riprese fotografiche sono state eseguite dal professor Filangeri il 16 gennaio 1975, durante i lavori di consolidamento e ristrutturazione di quel formidabile palinsesto di architetture che costituisce l’ex monastero della Martorana, lavori che sono stati espletati in massima parte tra il 1975 e il 1978. Ringrazio la Prof. Maria Concetta Di Natale per avermi offerto la possibilità di pubblicare il presente articolo. [↩]
- Per la mia breve disamina simbologica di tali raffigurazioni pittoriche mi sono avvalso prevalentemente del noto testo di Louis Charbonneau Lassay, Il bestiario del Cristo. La misteriosa emblematica di Gesù Cristo, Bruges 1940, 2 voll., rist. Roma 1994 e del Dizionario dei simboli cristiani di Edouard Urech, Roma 1995. [↩]
- Si riferisce alla celebre opera De Civitate Dei, scritta da S. Agostino d’Ippona tra il 413 e il 426. Tra le numerose edizioni a stampa si segnala La Città di Dio, traduz. di D. Marafioti, voll. 2, Milano 2011, XXI 4, 1 e 7, 2. [↩]
- L. Charbonneau Lassay, Il bestiario del Cristo…, 1940, II, pp. 207-208. [↩]
- M. Schneider, Gli animali simbolici e la loro origine musicale nella mitologia e nella scultura antiche, trad. dallo spagnolo di G. Chiappini, Milano 1986, pp. 100-103. [↩]
- L. Charbonneau Lassay, Il bestiario del Cristo…, 1940, II, p. 214. [↩]
- http://www.scianet.it/ciapuglia/svl/documentiRead?doc_id=15394&tpl_id=7&tpl=1&prim=http%3A%2F%2Fwww.scianet.it%2Fciapuglia%2Fsvl%2FsrcDoc%3F%26amp%3Bquery%3Duva%2Bda%2Btavola [↩]
- E. Urech, Dizionario dei simboli…, 1995, p. 202. [↩]
- L. Charbonneau Lassay, Il bestiario del Cristo…, 1940, I, p. 535. [↩]
- A. Iacobini, L’albero della vita nell’immaginario medievale: Bisanzio e l’Occidente, in L’architettura medievale in Sicilia: la Cattedrale di Palermo, a cura di A.M. Romanini e A. Cadei, Roma 1994, pp. 241-290. [↩]
- L. Charbonneau Lassay, Il bestiario del Cristo…, 1940, I, p. 536. [↩]
- Con rincrescimento devo lamentare la scarsa attenzione posta a suo tempo nei confronti di queste importanti testimonianze storiche-artistiche dalla Direzione lavori; ricordo in proposito che le modalità operative da questa adottate e le altre problematiche di carattere tecnico-amministrativo emerse nel corso dei lavori, provocarono nel 1978 le dimissioni irrevocabili dell’intero gruppo di progettazione capeggiato dal professore Gino Pollini. I ritrovamenti di cui si è detto – com’era invece avvenuto in un’altra circostanza (alludo ai ritrovamenti archeologici del luglio 1976, mentre si apprestava la costruzione della odierna scala Culotta-Leone), andavano quanto meno documentati e, invece, di loro non ci rimangono che queste poche immagini “catturate”, in maniera del tutto fortuita, dalla fotocamera del professore Filangeri. Sulle numerose perdite e danneggiamenti occorsi nel tempo al patrimonio storico-artistico del monastero della Martorana, cfr. G. Cardamone, La Scuola di Architettura…, 2012, pp. 74, 86-87, 89-90, 94, 98, 100, 104, 107, 115, 120, 183, 361-362. [↩]