Sante Guido

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La “riscoperta” di un’opera di Nicola da Guardiagrele: il busto reliquiario di san Massimo d’Aveia Diacono Martire*

DOI: 10.7431/RIV16032017

In occasione dell’allestimento della mostra La Memoria e la Speranza. Arredi liturgici da salvare nell’Abruzzo del terremoto1, tenutasi nel corso della primavera 2010 presso i Musei Vaticani e voluta per ricordare il primo anniversario del sisma del 6 aprile 2009, sono giunti dai depositi della diocesi di L’Aquila molti manufatti recuperati tra le mura pericolanti della Cattedrale del capoluogo abruzzese dedicata ai SS. Massimo2 e Giorgio.

I circa 150 reperti, moltissimi dei quali testimonianze della feconda scuola orafa aquilana e abruzzese, apparivano impolverati, lacerati, in alcuni casi deformati e offesi dall’ingiuria del sisma. Alcuni estremamente preziosi testimoniavano il ricco corredo di suppellettili liturgiche della chiesa metropolitana d’Abruzzo, come la monumentale croce processionale di San Massimo del 1434 in argento dorato e smalti (Fig. 1) o quella simile, ma di dimensioni leggermente ridotte, proveniente da Monticchio presso L’Aquila datata 1436, entrambi pregevoli opere di Nicola da Guardiagrele3 (Fig. 2). Accanto a questa era la grande croce processionale di Sant’Eusanio (Fig. 3) importante e poco nota opera dai primi anni del XV secolo dell’orafo sulmonese Amico di Antonio di Notar Amico4, recentemente riconosciuto quale maestro dello stesso Nicola, al quale viene attribuita una delle otto formelle che decorano il manufatto5. Altre opere presenti in mostra costituivano la testimonianza del cerimoniale liturgico in cenobi, santuari e conventi, come il raffinato turibolo a torretta proveniente dall’importante abbazia benedettina di San Giovanni Battista a Lucoli6 (L’Aquila), la Cassetta reliquiario di san Franco Eremita (Fig. 4) da Assergi (L’Aquila), opera di Giacomo di Paolo da Sulmona7, databile tra il 1480 circa, ed il reliquiario a pisside dalla chiesa di San Menna sempre a Lucoli8. Attestati della sincera devozione popolare erano invece rappresentati dal modesto turibolo a torretta (Fig. 5) in bronzo9 dalla Chiesa parrocchiale di Santa Giusta a Sassa (L’Aquila), dal semplice calice in argento dalla chiesa di San Pietro a L’Aquila10, o dalla piccola croce processionale dalla chiesa del SS. Nome di Maria e San Rocco a Pianola (L’Aquila) che presenta nel verso non la consueta immagine del Cristo in trono o della Vergine con il Bimbo bensì la figura stante di san Massimo (Fig. 6), a testimoniare il fervore culto per il santo patrono aprutino11.

Tra gli oggetti destinati all’esposizione si annoverava un simulacro (Fig. 7) alto poco più di un metro raffigurante San Massimo Diacono. Il manufatto, già attestato nel 191612 e la cui preziosità era connessa più alla devozione religiosa rivolta al patrono della città che non ad un reale pregio artistico, era realizzato in materiali compositi. L’immagine del giovane martire era infatti costituita da un manichino snodabile in legno rivestito con abiti liturgici costituiti da una tonaca in tessuto nero un’alba con bordure ricamate e una dalmatica di moderna fattura; la mano destra era realizzata in legno dipinto d’argento ben visibile oltre la manica della tunica mentre l’avambraccio sinistro terminava con un foro atto all’inserimento dell’altra mano, purtroppo mancante. Il capo del santo, realizzato in metallo fortemente scurito, era applicato al tronco in legno con chiodi arrugginiti e coperto da un elemento circolare d’argento dorato che si allargava in un’ampia tesa, una sorta di aureola dorata che ne nascondeva il bel volto.

Liberata dall’ingombrante nimbo e staccata dal manichino di legno, la testa è apparsa con evidenza opera rara e raffinata, realizzata con eccellente tecnica esecutiva da parte di un capace artista, maestro nella difficile arte dello argento sbalzato (Fig. 8). L’opera,  parzialmente dorata, è un raro esempio di qualità stilistica, oltre che tecnica, senza dubbi risalente al Quattrocento e riutilizzata assemblandola nell’eterogeneo simulacro sulla fine del XIX o nei primissimi decenni del XX secolo13. L’intero volume del capo di san Massimo è eccezionalmente sbalzato in un’unica lamina di metallo prezioso che si chiude sul retro con una saldatura in argento bassofondente, perfettamente nascosta dalle lavorazioni superficiali a cesello della capigliatura e dalla lucidatura finale (Fig. 9). Il bel volto è costruito plasmando i volumi in armoniose proporzioni per le quali la sottile lamina modellata si piega in superfici terse, che disegnano le labbra carnose sporgenti perfettamente definite, e il piccolo mento appena sfuggente; le arcate sopracciliari delineano la curvatura della fronte convergendo poi a disegnare il rilievo equilibrato del naso. Precise linee incidono la lieve espansione del volume globulare, mentre solchi di differente profondità disegnano con naturalezza le orecchie e la chioma in argento dorato intorno alla tonsura col linee ora più sottili e delicate ora più profonde a definire ciocche di maggior consistenza. La leggera asimmetria dei caratteri somatici, che sposta l’inclinazione su un lato e suggerisce una visione leggermente laterale del volto, insieme alla semplicità essenziale con cui ogni porzione è costruita conferiscono alla scultura a tuttotondo l’immediatezza e la spontaneità di un intenso ritratto dal tono malinconico e sognate: dagli occhi allungati con pupille marcate da un profondo solco conferiscono al ritratto uno sguardo lontano che trascende il fruitore.

Le fattezze del giovane volto ben si accordano con la tradizionale raffigurazione di san Massimo che lo vuole rappresentato come un giovane diacono con la palma del martirio in una mano e nell’altra,  quale attributo principale del patrono di L’Aquila, il modello della città racchiusa tra mura14. Così infatti è raffigurato nella statua in pietra realizzata da Silvestro di Giacomo da Sulmona (Fig. 10) – più noto come Silvestro dell’Aquila – tra il 1476 ed il 148015, oggi collocata nei pressi della sacrestia nella Cattedrale aquilana ma originariamente facente parte del monumento funebre16 del cardinal Amico Agnifili, vescovo di L’Aquila tra il 1431 ed il 147217.  La stessa iconografia ritorna nella seconda metà del XVI secolo nella piccola figura del santo, raffigurato stante sul retro della già citata croce di Pianola (Aq), che ha nella mano sinistra il modellino in scala della città de L’Aquila ben definita, pur nelle ridottissime dimensioni, in tutto il suo agglomerato urbano. L’iconografia del santo ritorna, ormai cristallizzata dall’ufficialità liturgica, anche in seguito come ad esempio nella serie dei quattro dipinti dei Santi Patroni della Città (Fig. 11) realizzata per ornare l’abside della Cattedrale aquilana e replicata in altri edifici liturgici cittadini, tutte opere di Giulio Cesare Bedeschini nel secondo decennio del XVII secolo18. Nel dipinto il santo è raffigurato di tre quanti come un giovane diacono dal viso malinconico e dal perfetto ovale leggermente ruotato sulla sinistra, come nel caso della testa argentea, e con il modellino della città, oltre alla palma del martirio. Anche il simulacro di san Massimo proveniente dalla cattedrale aprutina, esposto ai Musei Vaticani, non faceva accezione a tale iconografia per quanto riguarda la presenza delle modellino della città. Infatti, sebbene il composito manufatto presentasse al momento del rinvenimento tra le mura pericolanti del deposito nell’episcopio ove è stato rintracciato il 10 aprile 2009, la mancanza della mano sinistra staccata dall’avambraccio in legno, una serie di foto risalenti agli anni Settanta del XX secolo dall’ archivio di Valentino Pace (Figg. 1213), testimoniano di come la statua fosse provvista della mano, realizzata non in legno dipinto come la destra, ma in argento a sorreggere il modellino tridimensionale della città di L’Aquila, sempre in metallo prezioso. La preziosa testa in argento quindi, i cui tratti fisionomici sono perfettamente accostabili alle immagini di san Massimo, e la sua originaria mano realizzata nello stesso metallo appaiono quali testimonianze superstiti di un manufatto ben più prezioso della moderno simulacro. Grazie ad alcuni a raffronti con opere di oreficeria , è possibile ipotizzare  che i due elementi – la testa e la mano- fossero parti integranti di un busto-reliquiario del quale andò dispersa tutta la porzione delle spalle, se non anche quella del tronco.

La tipologia del volume modellato tridimensionalmente e le dimensioni della testa di san Massimo si confanno perfettamente alla particolare configurazione dei busti-reliquiario risalenti al XIV e XV secolo come ad esempio, ad iniziare, il prototipo di tanti manufatti dell’Italia meridionale: il busto di san Gennaro19, meraviglia dell’arte orafa gotica francese a Napoli: vero e proprio il simbolo della città partenopea, realizzato tra il 1304 ed il 1305 dagli orafi di corte Maestro Etienne Godefroy, Guillame de Verdelay e Milet d’Auxerre commissionato da Carlo II d’Angiò in dono alla città. Accanto al capolavoro napoletano merita di essere citata, per quanto riguarda l’ambito abruzzese e di soli tre decenni più tarda,   la testa-reliquario di san Nicandro, realizzata nel 1340 da Barbato da Sulmona su stilemi di radice partenopea, dalla «naturalezza di espressione  <e dalla> finezza dei tratti quasi aristocratici»20, già a Venafro in Molise ma trafugato alcuni decenni or sono; a questa si può avvicinare la testa-reliquiario di sant’Amico a San Pietro Avellana (Isernia), opera sulmonese della seconda metà del trecento21. Ma ancor significativo, nello specifico ambito aprutino e ad un’epoca più vicina al manufatto in esame, può essere considerato il raffronto con il busto-reliquiario di san Berardo nella cattedrale di Teramo22 risalente alla metà del XV secolo (Fig. 14) impreziosito da straordinari smalti traslucidi, e in linea con il gusto dell’attardato gotico abruzzese23. Tuttavia, come verrà meglio enunciato in seguito, per quanto riguarda il “perduto” busto reliquario di san Massimo è più probabile che ci si debba riferire, per la presenza della mano in argento, ad una tipologia a mezza figura, quindi leggermente differente da quelle più tradizionali fin qui presentate. Nello specifico appaiono più pertinenti due raffronti particolarmente interessanti: il Busto-reliquiario di san Panfilo della cattedrale di Sulmona e il busto-reliquiario di san Giustino della cattedrale di Chieti. In entrambi i celebri esempi il santo acquista maggiore dimensione rispetto al tradizionale busto reliquiario, in quanto è rappresentato a mezza figura con le braccia a tutto tondo, la mano destra in atto benedicente e la sinistra sollevata a sorreggere i pastorale. Il primo – San Panfilo – (Fig. 15) databile al 1459 ed opera di dell’orafo sulmonese Giovanni di Marino di Cicco24,  ha un’altezza di 81 centimetri ed è realizzato in argento, rame e smalti filigranati dalla perfetta esecuzione tecnica. Il reliquiario, per come oggi appare, è il risultato di alcune manomissioni successive al furto del 6 aprile 1704, nel quale furono asportati gli arti, il pastorale, ma soprattutto la testa e la mitria lasciando, priva delle parti più preziose in argento, l’originale  quattrocentesca «casula damascata magistralmente ritratta con fine ornato a cesello arricchito da rosoni di filigrana in smalto bianco, rosso lacca, viola e verde smeraldo»25; mentre le mani furono recuperate e riassemblate nel corso di un restauro del 197926 la testa e le braccia,  mai più rinvenute, restano quelle eseguite dell’orafo romano Francesco Morelli27 nel primo Settecentesco.  Di primaria importanza per l’oreficeria abruzzese è ancor più la seconda delle opere in esame:  il busto-reliquiario di san Giustino28 (Fig. 16), di pochi anni anteriore al busto di san Panfilo: eseguito da Nicola da Guardiagrele nel 1455, è considerata l’ultima delle opere del maestro, quindi il frutto della sua maturità.  Il vescovo teatino è rappresentato a mezza figura benedicente con tiara e pastorale. L’opera è oggi nota solo da documentazioni fotografiche in quanto rubata nel 1983 e tutt’ora dispersa. Tuttavia al momento del furto solo la testa e le braccia risultavano ancora quali parti superstite dell’opera originale di Nicola da Guardiagrele poiché come attesta Girolamo Nicolino nel 1733 attesta che il busto «Monumentum Artificis Statuae argenteae S. Justuni constructae Anno Domini1455. Opus Nicolai de Guardia Grelis A.D.MCCCCLV  haec autem Statua, jam invetereta, Anno Domini 1716, duplo majori impensa refecta fiut, servato tamen antiquo Capite in gratiam antiquae venerationis»29; dunque pur riprendendo quanto tipologicamente realizzato nel XV nel corse del Settecento il busto reliquiario era stato rifatto coniugandolo in un linguaggio più moderno. Il reliquiario di san Massimo doveva avere quindi molto probamente una conformazione simile ai due esempi citati: una mezza figura sebbene a differenza dei due anziani vescovi, il Diacono era raffigurato con la mano sinistra protesa in avanti a sorreggere il modello della città di L’Aquila e la destra la palma del suo giovanile martirio.

Anche per quanto riguarda una analisi stilistica, il capo di san Giustino (Fig. 17) è quanto di più prezioso a disposizione per un raffronto con l’opera in mostra ai Musei Vaticani. Come ben annotato da Lorenzi il volto del vescovo teatino presentava stringenti raffronti con altre celebri opere dell’orafo guardiese quali «I Redentori delle croci di Lanciano, Guardigrele e l’Aquila, ma soprattutto quello solenne e monumentale dell’antependium teramano»30 (Fig. 18). Lorenzi si sofferma sulla descrizione dei caratteri distintivi dell’arte di Nicola nel san Giustino: «Gli occhi a mandorla (stretti e dalla forma allungata in orizzontale) contrassegnati da palpebre bel rilevate, così come l’espressione intensa dominata dalla fissità delle pupille, la fattura svirgolata della barba, finissima e ben declinata nelle infinite micro-ciocche convergenti in forti e fluenti riccioli, i baffi, dalla lunghezza misurata, ricadenti a incorniciare la bocca caratterizzata da labbra carnose»31. Ad eccezione della folta barba del santo vescovo i caratteri distintivi dell’opera di Nicola da Guardiagrale nella rappresentazione del volto di san Giustino sono quasi perfettamente rintracciabili nei tratti del volto di san Massimo (Fig. 19). I possibili inediti raffronti tra le due opere permettono di attribuire il ritratto del giovane Diacono alla mano di Nicola da Guardiagrele (Fig. 20). Identico fra le due opere appare infatti il modo di sbalzare la sottile lamina d’argento per modellare la fronte triangolare piana e lo scatto delle tempie a chiudere l’arcata sopracciliare ben definita, gli zigomi alti dell’ovale perfetto del volto, ma ancor più il delimitare gli occhi allungati dalle palpebre sporgenti e ben disegnate, ed inoltre il setto nasali dritto e ancora il sottile solco alla base del naso32 a delimitare lo spazio della bocca dalle labbra piccole e tondeggianti. Su tutto emerge poi la capacità di definire, fintanto nell’espressione, lo sguardo dai toni severi e per certi aspetti malinconici. Il raffronto tra i caratteri formali e di tecnica esecutiva, dunque, sembra non lasciare dubbi che i due volti  – Giustino e Massimo – siano stati sapientemente eseguite dalla stessa mano.

Il prezioso simulacro metallico di san Massimo, attribuibile quindi a Nicola da Guardiagrele non doveva inoltre mancare di un elemento costitutivo e fondamentale dei busti reliquiario: la base su cui il ritratto poggiava. Tra i numerosi oggetti giunti in Vaticano per l’esposizione, e proveniente dagli ambienti della Cattedrale aquilana, c’era una base poligonale in lamine di rame dorato in pessime condizioni di conservazione a causa del drammatico evento (Fig. 21). L’opera si compone di una zoccolatura a traforo a losanghe inflesse inscritte in cerchi, sormontata da un elemento architettonico che alterna nicchie a lastrine con decoro fitomorfo, recanti lo stemma del cardinale Amico Agnifili – un agnello sormontato dal un volume – (Fig. 22) separate da lesene a traforo e coronate da pinnacoli ed è quindi databile dopo il 1431 anno di nomina dell’Agnilifi a vescovo di L’Aquila. Ogni nicchia, che doveva ospitare figure di santi – oggi resta solo la figura centrale stante di Maria con il Bimbo – è completata da una timpano triangolare con rosoncino e gattoni vegetali. Lo stemma, ripetuto quattro volte, che contrassegna il manufatto, permette di assegnandolo alla committenza di Agnifili – il vescovo che si era rivolto a Nicola per la preziosa Croce processionale della Cattedrale, da lui firmata e datata 1434 sulla quale ritorna lo stesso stemma (Fig. 23) –  e l’evidente consonanza con lo stile e i modi di Nicola permettono di attribuirne l’esecuzione della bottega del guardiegrese.

La base di rame in sottili lamine a forma dodecagonale allungata, stilisticamente risalente al XV secolo, costituisce l’elemento di appoggio proprio di un busto reliquiario. Le foto risalenti ai primi del Novecento attestano il coronamento ovale in lamina semplice e bombata che doveva fungere da incastro per inserimento del busto sulla sua base, mentre la struttura interna, realizzata in ferro molto pesante, era atta a supportare il peso. Uno dei pilastrini, contraddistinto da un raffinato decoro a smalto filigranato blu, presenta l’ornamentazione tipica della produzione di Nicola da Guardiagrele; in realtà l’intero piedistallo in rame, per qualità di intaglio e stile, per tipologia e tecnica, può essere avvicinato con  piena plausibilità alle opere uscite dalla bottega del guardiese.

I due manufatti fin qui analizzati – la testa di san Massimo e la base – sembra essere riferibili ad una unica opera si mano di Nicola. Un ulteriore elemento di raffronto, utile per comprendere in che modo la preziosa base fungesse da appoggio per la testa reliquiario, può essere colto osservando un altro pezzo giunto a Roma per la mostra, anche questo custodito nella Cattedrale del capoluogo abruzzese. Si tratta di un busto tardo settecentesco in legno dipinto (Fig. 24), frutto di un rifacimento di una perduta opera più antica raffigurante san Giorgio co-patrono della città di L’Aquila, vestito da cavaliere con mantello e lorica classicheggiante33. La base ricalca le forme e la struttura di quella quattrocentesca in rame: ad essa infatti s’ispirò chi intagliò il legno dell’alta zoccolatura modellando la successione di nicchie cadenzate da pilastrini coronati da pinnacoli, cui si alternano pannelli decorati con medaglioni circolari e aquile intagliate. I due busti dei santi patrono cittadini, probabilmente entrambi realizzati in metallo preziosi dovevano essere di aspetto del tutto simile allorquando venivano esposti sull’altare. Quindi, di Giorgio rimane solo tale rifacimento grossolanamente intagliato e dipinto databile ai primi del Settecento quando dopo il devastante terremoto del 1703 che rase al suolo intera città di L’Aquila si ricostruì la cattedrale34 e si realizzarono nuovi arredi liturgici, mentre della figura di santità di Massimo, il cui era estremamente più radicato, resta il bel volto in argento.

Quanto fin qui illustrato circa l’attribuzione a Nicola della Testa di San Massimo e la sua appartenenza ad un busto reliquiario simile ad altre opere coeve dello stesso autore o di orafi suoi contemporanei ha quindi indotto ad approfondire in ambito storico critico una ricerca inizialmente limitata agli aspetti tipologici, stilistico-formali e tecnici.

Gli elementi superstiti di quella che doveva essere una fra le opere più significative della produzione di Nicola da Guardiagrele non trovano alcuno spazio né nell’accurata monografia di Antonio Cadei nel 2005, né se ne fa cenno nei numerosi saggi contenuti nel catalogo dell’esposizione organizzata nel 2008 a cura dello scrivente e interamente dedicata all’orafo guardiese, così come nella voce biografica di Cristiana Pasqualetti35 o nel recentissimo  saggio di Stefano Riccioni36. Valentino Pace nel suo fondamentale studio per la storia dell’oreficeria abruzzese, trattando del simulacro di san Massimo nella cattedrale di L’Aquila riconosce la qualità dell’opera della testa in argento ma non ne attribuisce la paternità a Nicola da Guardiagrele quanto piuttosto ad un anonimo orafo coevo37. Il limitato interesse per gli elementi supersiti del busto-reliquiario di San Massimo che neanche in via dubitativa vengono avvicinati a Nicola, – ma liquidati come imitazione della sua arte così come la difficoltà di visionare i manufatti celati negli armadi della sacrestia della cattedrale aprutina e rilegati al solo ruolo di arredi liturgici frammentari – indussero a trascurare la base in rema dorato e a perdere la percezione del valore intrinseco della testa di san Massimo tanto che persino la documentazione fotografica risultava fino al momento della mostra ai Musei Vaticani praticamente inesistente. Nel 2004 Ezio Mattiocco elencando la «pletorica produzione più o meno arbitrariamente ricondotta a lui  < Nicola>  o alla sua bottega,  < cita >  la base < come unico elemento di >  ciò che resta di autentico della statua di San Massimo a L’Aquila»38: annotando l’esistenza di un effige dedicata al santo patrono aquilano lascia uno spiraglio sulla possibile originalità del basamento in rame pur ignorando la testa d’argento, cosi come la mano con il modellino della città, che probabilmente alla data del suo scritto andata già perduta. L’opera dunque, sembrava essere caduta nell’oblio e la testa relegata all’interesse che viene riservato ad un oggetto il cui pregio sta unicamente nella sua componente devozionale. In realtà la letteratura artistica fin dal primo Novecento trattò a più riprese della cosiddetta “Statua di san Massimo” con alterni giudizi che per la maggior parte non riconoscono negli elementi conservati presso la Cattedrale di L’Aquila l’autografia di Nicola, assegnando il manufatto ad un ambito a lui vicino.

Sin dal 1912, Luigi Serra, prendendo in esame il basamento della statua di san Massimo affermava che pur trovando affinità con l’opera del guardiese lo riteneva essere «soltanto una imitazione della sua arte»39. Di parere discordante era invece Pietro Piccirilli, primo acuto e profondo conoscitore dell’oreficeria abruzzese, che nel 1916, solo quattro anni dopo il testo del Serra, trattando del tesoro del duomo del capoluogo aprutino ed esaminando con attenzione gli elementi supersiti dell’antico busto in argento riadattati nelle forme del manichino quali ancora oggi si vedono, esponeva il suo giudizio dichiarando che «Non saprei dire in quale epoca la statua di San Massimo sia stata trasformata. Le parti antiche che di essa rimangono, cioè la testa, una mano che regge una città cinta da mura merlate -la città di Aquila – e la base fanno credere che essa in origine fosse tutta un’opera di sbalzo e cesello. Quello che vediamo ora è un manchino vestito degli abiti sacerdotali, con la testa di argento nimbato lavorata da Nicola, le mani e i piedi di legno ». Secondo lo studioso non vi erano dubbi che il volto in argento provenisse dalla bottega del guardiese tanto che più avanti ribadisce «La testa è di una classica modellatura » e aggiunge un riferimento importante al solo altro elemento in argento sopravvissuto « anche ben studiata è la mano che mostra la città ». La sua analisi prendeva poi in considerazione anche quella base della quale il Serra aveva negato l’autografia descrivendo come «Tutta la decorazione sorge sopra uno zoccolo sporgente ornato con un vivace motivo a traforo. Le  statuine rimaste sono solamente due. Guastano alcune aggiunte posteriori, massimamente i palmizi che sormontano i campi fra le nicchie ». Piccirilli dunque ci informa che le figurine presenti nelle nicchie erano due – l’unica riproduzione fotografica che correda l’articolo mostra purtroppo le fattezze di una sola di esse -; da esse probabilmente, oltre che dalle caratteristiche forme decorative, lo studioso, che ben conosceva la tipologia delle figure a rilievo modellate da Nicola, deve aver tratto ulteriore certezza per assegnare anche la base ad un unico manufatto, successivamente smembrato. La sua categorica conclusione recita infatti «Dubito che gli elementi esaminati siano appartenuti a una statua; credo, invece, che per le loro proporzioni e per alcuni caratteri artistici, siano frammenti del busto che Mastro Nicola avrebbe, secondo l’ affermazione di qualche storico, lavorato per il Santo al tempo dell’Agnifili»40 legando quindi la bella testa d’argento al basamento con lo stemma del vescovo aquilano e dunque collocando il busto-reliquiario di San Massimo ad una data successiva al 1431, anno in cui Agnifili venne nominato vescovo della città.

Nonostante il convincimento espresso e argomentato da Piccirilli, Luigi Serra tornava nel 1929 in un volume dedicato a L’Aquila, a ribadire il parere già espresso dichiarando che «nella Cattedrale è custodito il basamento della statua di san Massimo attribuito a Nicola, mentre è soltanto imitazione della sua arte, al pari delle parti originali della statua … delle quale parecchi elementi vennero rinnovati»41; in tale occasione lo studioso dunque non solo nega l’autografia della base in rame, ma considera non originali nemmeno le altre porzioni superstiti che non cita nello specifico ma che sono, con ogni evidenza, la testa e la mano in argento, essendo il resto costituito dal manichino in legno e stoffa ben descritto da Piccirilli. Tale posizione trova infine una definitiva cristallizzazione, e una netta abiura della paternità delle opere in esame a Nicola da Guardiagrele, nella compilazione dell’inventario degli oggetti d’arte della provincia di L’Aquila redatto nel 1934 dallo stesso Serra nel quale i singoli elementi vengono trattati distintamente. A proposito del basamento si annota «Base della statua o busto di S. Massimo, in rame dorato; misura m. 0,24 x 0,42 x 0,32. È dodecagona con dodici pilastrini angolari decorati a rosoni traforati e cuspidati. Nei dodici lati si alternano sei nicchie con statuette, tre stemmi in smalto del Cardinale Agnifili e tre emblemi sbalzati della città di Aquila. Lo zoccolo presenta una decorazione a rosoni traforati. La base fu smontata e rimontata non correttamente. È molto sconnessa: mancano sei guglie alle nicchie. Un pilastrino, una cuspide della cornice di base: due pilastrini sono staccati; gli smalti sono caduti. È attribuita a Nicola da Guardiagrele ma forse più che opera del maestro si può ritenere della sua scuola. Della iscrizione in gotico, incisa sulla lastra d’argento che copriva la sporgenza dello zoccolo, resta solo la parola opus »42. Riguardo la testa di argento si forniscono solo le misure e le poche notizie che ad essa fanno riferimento sono contenute nella trattazione della mano sinistra in argento «recante un modellino della città. La statua fu rubata durante l’occupazione francese. La testa e la mano ritrovate dopo l’occupazione francese. Non si sa nemmeno oggi con esattezza se si tratta di una statua oppure di un busto sul tipo di quello di Chieti, mancando ogni documento o notizia a riguardo»43. Anche in questo caso dunque si dà risalto alla base in rame, della quale è pubblicata anche una riproduzione fotografica, mentre scarso rilievo è assegnato alle possibili componenti di un busto in argento. Un giudizio che ha fatto calare l’oblio sulla straordinaria testa in argento di san Massimo e per decenni condizionato gli studi successivi.

La mostra in Vaticano è stata dunque l’occasione per riscoprire un capolavoro di Nicola da Guardiagrele, i cui elementi smembrati e riutilizzati in epoche diverse, seppure custoditi in uno stesso luogo, avevano perso il senso dell’originaria unità. Ricomporre idealmente il probabile aspetto del Busto di San Massimo si è rivelato possibile anche grazie al sorprendente dialogo istauratosi tra le opere in mostra che ha permesso di riproporre suggestioni scaturite da un contesto fatto di profonda devozione religiosa e sensibilità artistica attraverso i secoli. Suggestioni e suggerimenti che costituivano il carattere peculiare, quanto inusuale, dell’evento voluto da Antonio Paolucci ai Musei Vaticani, al fine di non perdere La Memoria e la Speranza di una straordinaria città del centro Italia gravemente ferita e purtroppo ancora oggi, a distanza di otto anni, in grave stato di decadimento.

* Il presente scritto costituisce l’approfondimento di una breve nota nella quale si attribuiva l’opera in esame a Nicola da Guardiagrele: schede a firma dello scrivente in La Memoria e la Speranza. Arredi liturgici da salvare nell’Abruzzo del terremoto, catalogo della mostra a cura di S. Guido, Musei Vaticani (30 Marzo – 31 Maggio 2010), Città del Vaticano 2010, pp.188-189; pp.194-195. L’ipotesi attributiva viene brevemente ribadita nell’aggiornamento della voce biografica relativa a Nicola da Guardiagrele nell’Allgemeines Künstlerlexikon (AKL) in corso di stampa.

  1. La Memoria e la Speranza. Arredi liturgici da salvare nell’Abruzzo del terremoto, mostra a cura di F. Callori, A. Carignani e S. Guido. []
  2. San Massimo d’Aveia Diacono Martire, patrono principale della diocesi e della città di L’Aquila, nacque ad Aveia (l’odierna Fossa, frazione di L’Aquila) intorno al 228 d.C.; fu martirizzato durante la persecuzione di Decio (ottobre 249 – novembre 251). Nel 1256 la sede vescovile e le reliquie vennero spostate nella nuova cattedrale a lui dedicata a L’Aquila, città fondata nel 1248 da Federico II imperatore e re, unendo i territori dei due castelli di Amiterno e Forcona. Di lì a poco nacque anche la diocesi di L’Aquila: il 22 dicembre del 1256 infatti con bolla di Alessandro IV si istituiva la nuova sede vescovile trasferendovi quella di Forcona, della quale era stato vescovo san Raniero, sotto Alessandro II (1061-1073). In tale occasione venne costruita la prima cattedrale che, successivamente alle distruzioni di Manfredi del 1259, venne rifondata e dedicata ai SS. Massimo e Giorgio. G. Di Matteo – S. Guido, La Memoria e Speranza,in La Memoria e la…, a cura di S. Guido, 2010, p. 43. []
  3. Per la trattazione sul noto artista abruzzese si rimanda a A. Cadei, Nicola da Guardiagrele un protagonista dell’autunno del Medioevo in Abruzzo, Cinisello Balsamo (Milano) 2005; Nicola da Guardiagrele, orafo tra Medioevo e Rinascimento – Le opere, i restauri, catalogo della mostra a cura di S. Guido, Roma, Basilica di S. Maria Maggiore (28 ottobre 2008 – 8 dicembre 2008); Chieti, Museo Nazionale Archeologico (18 dicembre 2008 – 1 febbraio 2009); L’Aquila, Museo Nazionale d’Abruzzo (7 febbraio – 6 aprile 2009), Todi 2008: in particolare S. Guido – G. Mantella, Prestigiose commesse cattedrali per Magister Nicolaus Aurifex, in, Nicola da Guardiagrele, orafo …, in Nicola da Guardiagrele, orafo.., a cura di S. Guido, 2005, pp. 215-290. In rifermento alla celeberrima Croce di San Massimo si rimanda alla scheda di M.C. Cozzi, in Nicola da Guardiagrele, orafo.., a cura di S. Guido, 2005, pp. 401-402, figg. a pp. 403-425, con esaustiva bibliografia precedente; per la Croce di Monticchio: Eadem, p. 429, figg. a pp. 430-439. []
  4. S. Guido, La croce di Sant’Eusanio. La scoperta di un capolavoro poco noto dell’arte orafa abruzzese, in “Archivium Sancti Petri. Bollettino d’Archivio. L’Aquila 6 Aprile 2009 – 6 Aprile 2010. Studi Offerti dal Capitolo di S. Pietro in Vaticano ”, n.10, Città del Vaticano 2010, pp.12-23, con bibliografia precedente. Bollettino pubblicato in occasione dell’esposizione, a cura dello scrivente, dal titolo La croce di Sant’Eusanio. La scoperta di un capolavoro poco noto dell’arte orafa abruzzese, tenutasi presso il Museo del Tesoro della Basilica di San Pietro (3 giugno 2010 – 3 marzo 2012). []
  5. La raffigurazione ascritta alla mano giovanile di Nicola da Guardiagrele è Lo svenimento di Maria tra le pie donne con stringenti raffronti con la stessa scena della croce di processionale della chiesa di Santa Maria Maggiore a Lanciano (Chieti), capolavoro firmato dallo stesso autore ma di qualche anno successivo: 1422. a. Cadei, Nicola da Guardiagrele…, 2005, pp. 47-48; s. Guido,  La croce di Sant’Eusanio…, 2010, p. 16. Circa l’opera lancianese si veda M.C. Cozzi, La Croce di Santa Maria Maggiore a Lanciano, scheda di catalogo, in Nicola da Guardiagrele, orafo.., a cura di S. Guido, 2005, pp. 193, figg. a pp. 194-213. []
  6. Per la presenza dello stemma del vescovo di L’Aquila Giovan Battista Gaglioffi, l’opera in argento è databile al periodo che intercorre tra il 1486, anno della sua nomina e il 1491 anno della morte. Vedi B. Montevecchi, scheda di catalogo, in La Memoria e…, a cura di S. Guido, 2010, pp. 116-117. []
  7. Il cofanetto, chiuso da un coperchio a doppio spiovente,  misura cm 53 in larghezza, cm 30 in altezza e cm 25 in profondità; è realizzato in lamine in argento e argento dorato, sbalzato e filigranato impreziosito da numerosi medaglioni in smalto traslucido policromo. Sulla facciata anteriore della cassettina è raffigurata la Madonna in trono con il Bambino e ai lati Sant’Eligio e San Franco benedicenti. L’opera proviene dalla chiesa di Santa Maria Assunta (già di San Franco) presso Assergi, frazione di L’Aquila ai piedi del Gran Sasso, ove per ragioni di sicurezza era murata in una nicchia dalla quale è stata prelevata a seguito del sisma che aveva sensibilmente danneggiato l’edificio.  La cassetta-reliquiario di Assergi è l’ultima opera realizzata da Giacomo di Paolo, rimasta incompiuta a causa della morte dell’artista sopravvenuta nel 1481. si veda  G. Boffi, scheda di catalogo,  in La Memoria e …, a cura di S. Guido, 2010, pp. 222-223 (con bibliografia precedente). []
  8. L’opera in argento e rame dorato è data al 1558 da una  una incisione sul bordo della base. Si veda B. Montevecchi, scheda di catalogo, in La Memoria e…, a cura di S. Guido, 2010, pp. 108. Si coglie l’occasione per osservare che l’opera in esame debba considerasi un unicum nella pur corposo novero di manufatti liturgici della diocesi di L’aquila e dell’intero territorio abruzzese. S’intende qui presentare un inedito raffronto con le due simili pissidi-reliquiario, riconosciute come opere di produzione ungherese del XV secolo, restaurate dallo scrivente nel 2008 e conservate nel Museo dei Beni Ecclesiastici della Diocesi di Rieti, presso la cattedrale di Santa Maria Assunta. Si vedano: L. Mortari, Il tesoro del Duomo di Rieti, Roma 1974; I. Tozzi, Il Museo Diocesano. Diocesi di Rieti, Rieti, 2004, p.58; A. Mihailik, Le coppe ungheresi del Duomo di Rieti, in “Corvina VIII”, XV, Budapest 1928; I. Tozzi, Due pissidi-reliquiario ungheresi al Museo della Diocesi di Rieti, in “Oreficeria adriatica” (rivista telematica: www.oreficeriadriatica.it), 2007; su questa tipologia di manufatti si veda inoltre il recente studio di E. Wetter, Objekt, Ȕberlieferung und Narrativ. Spȁtmittelalterliche goldschmiedekunst im historischen kȍnigreich ungar, Ostfildern 2011, pp. 124-169, in particolare per le due pissidi di Rieti si rimanda alle pp. 141-142. []
  9. L’opera è databile tra la seconda metà del XIV secolo e la fine del secolo successivo. Si veda B. Montevecchi, scheda di catalogo, in La Memoria e…, a cura di S. Guido, 2010, pp. 124-125. []
  10. L’opera in argento e argento dorato dalle linee semplici ed essenziali presenta l’iscrizione della donatrice S.R.A. Claudia Tavoltina e la data 1634. Si Veda M.C. Cozzi, scheda di catalogo, in La Memoria e…, a cura di S. Guido, 2010, pp. 216-217. []
  11. L’opera, in argento e rame dorato, è stata erroneamente datata dallo scrivente alla prima metà del XVI secolo, mentre deve riferirsi sicuramente alla seconda metà del Cinquecento allorquando questa tipologia di manufatti divenne particolarmente frequente nei riti post-tridentini. Si veda S. Guido, scheda di catalogo, in La Memoria e…, a cura di S. Guido, 2010, pp.  198-199. []
  12. P. Piccirilli, Il Tesoro del Duomo di Aquila e alcune opere d’arte antica, in “Rassegna d’arte” anno XI, n.6, giugno 1916, p.141. []
  13. Particolarmente sofferta è invece la zona del collo, con lesioni e numerose manomissioni frutto di riparazioni con saldature male eseguite e tasselli di rinforzo in lamine di ottone. []
  14. Circa l’iconografia dei modelli di città presentati da santi si veda: V. Camelliti, La città in mano. Per una storia della rappresentazione di modelli urbani dalle origini all’Occidente medievale, in Un Medioevo in lungo e in largo a cura di V. Camelliti – A. Trivallone, Ospedaletto (Pisa) 2014, pp.289-300. []
  15. Circa le produzione di Silvestro dell’Aquila e il suo periodo si veda: S. Paone, L’Aquila magnifica citade. Pittura gotica e tardogotica a L’Aquila e nel suo territorio, Roma 2009, con bibliografia precedente. []
  16. Il monumento è oggi a destra dell’ingresso a seguito della sua parziale ricostruzione nel 1877,  dopo il terremoto del 1703; presenta la sola urna con l’immagine del defunto e il relativo basamento; risulta scomparsa la figura di san Giorgio, mentre il bassorilievo a lunetta con la Madonna con Bambino decora oggi il portale laterale della chiesa di San Marciano e Nicandro a L’Aquila. []
  17. M.R. Agnifili, Agnifili Amico, in Gente d’Abruzzo. Dizionario biografico, a cura di E. Di Carlo, Castelli (Teramo) 2006, vol. I, pp. 71-74. []
  18. L. Monini, Brevi note biografiche su Giulio Cesare Bedeschini e la pittura aquilana della prima metà del XVII secolo, in La Memoria e… , catalogo della mostra a cura di S. Guido, 2010, p. 93-100; M. Maccherini, La pittura all’Aquila alla fine del Cinquecento e la formazione di Giulio Cesare Bedeschini, in Il restauro della Crocifissione di Santa Maria delle Grazie a Calascio e la pittura all’Aquila tra ’500 e ’600, a cura di M. Maccherini, L’Aquila 2015, pp. 95-106, con bibliografia precedente. []
  19. Il busto è realizzato in argento sbalzato, argento dorato, smalto, e pietre preziose. I caratteri somatici del volto dal forte realismo hanno fatto ipotizzare che si tratti dell’effige di Uberto d’Ormont, nominato arcivescovo di Napoli nel 1308; una possibile ispirazione è il trecentesco busto marmoreo di Pozzuoli. Per la celebre opera si rimanda a: E. Catello – C. Catello, La Cappella del Tesoro di S. Gennaro, Napoli 1977, p. 91 e segg.; Iidem, Scultura in argento nel Sei e Settecento a Napoli, Sorrento 2000, p. 14; P. Leone de Castris, Il Busto reliquiario, in Il tesoro di Napoli. I capolavori del Museo di San Gennaro, catalogo della mostra a cura di P. Jorio – C. Paolillo, Ginevra – Milano 2013, pp.33-41, con bibliografia precedente. []
  20. A. Lipinsky, Un centenario che non va dimenticato. Barbato da Sulmona ed il suo Reliquiario di san Nicandro da Venafro, in “L’Avvenire”, 18 dicembre 1940, p.3. []
  21. F. Valente, Reliquiari trecenteschi a Venafro, Isernia e S. Pietro Avellana, in “Almanacco del Molise”, Campobasso 1978, pp.373-393; E. Mattiocco, Dai tesori delle cattedrali all’oreficeria popolare, in Ori & argenti d’Abruzzo, dal Medioevo al XX secolo, a cura di A. Gandolfo – E. Mattiocco, Pescara 1996, pp.15 e 18. []
  22. V. Pace, Per la storia dell’oreficeria abruzzese, in “Bollettino d’Arte” , LVII (1972), pp.78-89; E. Mattiocco, Dai tesori delle cattedrali …, 1996, p.37. L’opera, recentemente restaurata, è oggetto di una imminente pubblicazione da parte dello scrivente. []
  23. A. Cadei, Maestri alemanni e Nicola da Guardiagrele. Una risistemazione del Tardogotico in Abruzzo secondo Antonio Cadei, Pescara 2014. []
  24. Giovanni di Marino di Cicco è documentata a Sulmona dal 1399 e ancora in attività nel 1459, anno in cui risulta impegnato nella realizzazione del busto. Si veda: P. Piccirilli,  Il busto di san Panfilo nella cattedrale di Sulmona, a proposito di oreficeria medioevale, in “Rassegna di arte antica e moderna”, XVIII (1918), pp. 116-119; P. Piccirilli, Un capolavoro del sec XV: il busto di S. Panfilo, in “Il Sagittario”, Sulmona, II, n.16, 22 aprile 1945. []
  25. E. Mattiocco, Il tesoro della cattedrale, in La cattedrale di San Panfilo a Sulmona, Milano 1980,  pp.126-127. []
  26. A seguito di un secondo furto della mitra e delle mani avvenuto nel 1978; Ibidem, p. 127. []
  27. E. Mattiocco, Dai tesori delle cattedrali …, 1996, p.38; E. Mattiocco, Orafi e argentieri d’Abruzzo, Lanciano 2004, pp.105-107. Circa l’orafo Morelli si tratta di Francesco Morelli III, nato nel 1671 a Firenze e morto a Roma nel 1729, patentato nel 1702, si veda: C. Bulgari, Argentieri, gemmari e orafi d’Italia, Roma, II, Roma 1980, p.176. Il  busto mutilo fu consegnato a Morelli per reintegrarlo il 14 maggio del 1704, a pochi giorni dal furto « come anco una cassetta con diversi argenti, tanto in pezzi come abbrugiati, questuati, di peso in tutto libre quattro e mezzo in circa » da  E. Mattiocco, Il tesoro della … , 1980, p. 126. []
  28. L. Lorenzi, Busto di San Giustino, in A. Cadei, Nicola di Guardiagrele un …, Cinisello Balsamo (Milano) 2005, pp. 317-318 con bibliografia precedente. []
  29. Ibidem; G. Nicolino, Monumenta quae supersunt Sancti Justini Civis Episcopi et principali Patroni teatini primun in lucem edita Hieronimo Nicolaino, Teate 1733, II, p.12. []
  30. Ibidem. Circa il paliotto del duomo teramano: M.C. Cozzi, scheda dell’opera, in S.Guido – G. Mantella – E. Mattiocco, Nicola da Guardiagele e l’Antependium della cattedrale di Teramo, Todi 2009, pp. 77-78. []
  31. Ibidem. []
  32. Il naso di san Massimo, come è stato possibile evincere dalla visione dell’interno della lamina durante le fasi di allestimento della mostra ai Musei Vaticani, appare nella zona della narici manomesso da un intervento di ripristino che ne ha modificato la forma dilatandone i volumi. []
  33. L’abbigliamento cortese-cavalleresco permette di riconoscere nell’immagine scolpita la figura di san Giorgio e non quella di san Massimo, come erroneamente indicato nel catalogo della mostra in Vaticano per un refuso in fase di stampa. Si veda G. Di Matteo, scheda di catalogo, in La Memoria e…, a cura di S. Guido, 2010, pp. 196-197. []
  34. L. Bartolini Salimbeni, La cattedrale dei SS. Massimo e Giorgio, in La Memoria e…, a cura di S. Guido, 2010, pp. 81-86. []
  35. C. Pasqualetti, Nicola da Guardiagrele, s.v. Dizionario Biografico degli Italiani,  Vol. 78 (2013). []
  36. S. Riccioni, Nicola da Guardiagrele: le firme e le opere, in “Arte medievale”, serie IV, VI (2016), pp. 255-266. []
  37. «Durante gli anni di attività del guardiese ben poche sono le personalità le cui qualità di stile e di tecnica permettano di valutare a un livello di rilievo: tra di esse si ricordano  < …> gli autori del busto  -probabilmente medioquattrocentesco- di S. Berardo a Teramo e quello – pressoché coevo – di S. Massimo del Duomo dell’Aquila».  Mentre a proposito della base in rame dorato Pace afferma che «il piedistallo < è > di esecuzione più rozza e con qualche derivazione di Nicola (cui è attribuito)» (V. Pace,  Per la storia …, 1972, p.83 e nota 89). []
  38. E. Mattiocco, Orafi ed argentieri …., 2004, p.157. []
  39. L. Serra, L’Aquila monumentale, Aquila 1912, pp. 55-57. []
  40. P. Piccirilli, Il Tesoro del Duomo di Aquila e alcune opere d’arte antica, in “Rassegna d’arte”, XI (1916), n.6, giugno, p. 41. []
  41. L. Serra, Aquila, Bergamo 1929, p.116. []
  42. Inventario degli oggetti d’arte d’Italia. IV – provincia di Aquila, a cura di Luigi Serra, Roma 1934, p. 10. []
  43. Ibidem. []