Enrico Colle

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Tre mobili inediti provenienti dalle dimore reali italiane

DOI: 10.7431/RIV15082017

Lo studio delle arti decorative in Italia è cosa assai recente e il merito di averlo affrontato in modo sistematico e scientificamente corretto va a Cristina Piacenti, a Alvar Gonzàlez – Palacios e a Maria Accascina. Sono stati loro i primi studiosi in ambito italiano ad aver utilizzato, anche in questo campo della storia dell’arte, quegli ormai indispensabili strumenti d’indagine storica quali la documentazione d’archivio e le fonti inventariali. L’ulteriore approfondimento negli archivi delle regge italiane, condotto da che scrive negli anni passati, ha permesso di recuperare la storia di molti degli arredi ancora oggi presenti nelle ex dimore reali e di procedere alla loro ricollocazione nell’ambito del riallestimento delle sale di alcuni di quei fastosi palazzi che i sovrani italiani avevano costruito e abbellito nel corso dei secoli1. Ogni arredo di provenienza reale infatti reca un marchio o dei numeri scritti a vernice di diversi colori che ne indica la provenienza e, attraverso la sua identificazione inventariale, la sua storia: è così, che nel corso di questi ultimi decenni, siamo riusciti ad identificare e a studiare, oltre alla mobilia presente nei musei statali, anche parte di quegli oggetti che nel corso dei secoli erano stati alienati. Si e voluto quindi presentare in questo contributo tre mobili, oggi in collezione privata, ma in origine eseguiti rispettivamente per i granduchi lorenesi, per il duca di Modena e per gli arciduchi d’Austria che, per la loro illustre provenienza, possono contribuire ad accrescere il catalogo delle opere commissionate dai citati sovrani e, allo stesso tempo, gettare nuova luce sull’evoluzione del gusto negli Stati Italiani durante la seconda metà del Settecento.

Il primo arredo è un mobile a due corpi2 – costituito  quindi da una parte inferiore,  sostenuta da gambe  leggermente ricurve con  nove cassetti e un piano ribaltabile ad uso di scrittoio, e da una parte superiore con sportello centrale a vetri affiancato da altri due sportelli (Fig. 1) – che fu in origine eseguito per le residenze di corte fiorentine intorno agli anni settanta del Settecento, per poi essere conservato nella Guardaroba Generale fino al 24 dicembre 1874 allorché esso venne consegnato, insieme ad altri arredi, al Magazziniere dell’Ispezione Mobiliare e da questi ad uno dei funzionari della corte sabauda, il marchese Spinola, probabilmente per arredare le stanze a lui assegnate. Da questa data in poi del mobile non vi è più traccia nei seguenti inventari di corte (rispettivamente redatti nel 1872 e nel 1911) e neppure sul mobile compaiono numeri successivi a quello dell’Inventario dei Mobili di Palazzo Pitti del 1860 dove esso è registrato nella “Palazzina presso l’ingresso del Giardino di Boboli detto d’Annalena” allora in uso al Conservatore Generale dei Mobili3.

In precedenza  la “segreteria” – come veniva chiamato il nostro arredo nei documenti  del Settecento e dell’Ottocento4 – era stata sempre custodita nelle stanze della Guardaroba Generale che, fino all’Unità d’Italia, era sistemata nelle stanze del Palazzo della Signoria, insieme ad altri esemplari simili descritti nell’inventario del 1791 anch’essi impiallacciati di “Barba d’olmo” (ad eccezione di uno in “noce d’India”) e  contornati da intarsi in palissandro  o in legni di diversa colorazione, secondo una moda che si era diffusa in Toscana fin dagli inizi del Settecento e poi, soprattutto, sotto il governo del nuovo Granduca Pietro Leopoldo, a Firenze dal 1765. Alcuni cassettoni e scrivanie, oggi divise tra Palazzo Pitti e la Villa del Poggio Imperiale, condividono infatti con il nostro esemplare la forma mossa delle gambe e l’uso di riquadrare le superfici – sovente impiallacciate di radiche facilmente reperibili in Toscana, come quelle di noce,  di ulivo,  di olmo, o di acero – con cornicette di palissandro e di ebano, affidando così ai soli contrasti cromatici dei legni l’abbellimento delle sagome dei mobili, escludendo del tutto le applicazioni in bronzi dorati allora di gran moda nel resto d’Europa. Tale scelta di gusto risulta caratteristica, come si è detto, del regno di Pietro Leopoldo che, all’effimero lusso dei ridondanti ornamenti rococò, preferì sempre, sia in architettura che nel più ristretto campo della mobilia, una sobria funzionalità ribadita ancora oggi dalle decorazioni degli ambienti da lui abitati5.

Non è stato finora possibile rintracciare  ulteriori notizie circa le vicende dell’arredo qui esaminato – da ritenersi una tra le più importanti testimonianze dell’evoluzione dello stile rocaille in Toscana – prima del 1795 quando esso risulta inserito in una partita di oggetti inviati alla Guardaroba Generale dopo la morte di Pietro Brisson, guardarobiere di Palazzo Pitti, avvenuta poco prima del 1793, allorché il suo posto fu assegnato a Gaspero Benassi.  Nell’inventario della reggia fiorentina, redatto nel 1791, non vi è traccia del mobile, che però presenta alcune analogie con quella “segreteria impiallacciata di Barba d’acero, e fregettata di Noce, e Verzino, con cinque cassette per d’avanti, e nel mezzo scavo piedi a biscia, e coperchio di stecche a tamburo da scorrere, e per di dentro diverse cassettine, e spartimenti, e piano tiratovi panno verde, toppe e chiavi” registrata nel citato inventario al n. 3896, insieme ad un altro esemplare uguale6; mentre nell’inventario dei mobili della Guardaroba, stilato in quello stesso anno, al n. 3124 è descritta una “Segreteria impiallacciata di barba d’olmo con striscie di ebano rosa, con cassette, ribalta, maniglie, toppe e chiave N: V: 7088”7 che nel precedente inventario del 1786 si dice proveniente dal Palazzo della Crocetta. Sempre in questo inventario sotto il n. 571 è inventariata pure “una segreteria impiallacciata di barbe d’acero. E fregettata di ebano rosso, e nero con piano a leggio da aprirsi a ribalta …”8.

A questo punto si può però ragionevolmente supporre che la scrivania a ribalta, così come gli altri tre esemplari analoghi descritti negli inventari della Guardaroba del1791 e del 1796, sia stata realizzata intorno al 1770 da uno dei numerosi ebanisti attivi per la corte che proprio in quegli anni, per volere del nuovo sovrano, andava rifornendo le sale delle residenze granducali di nuovi arredi concepiti, al pari delle decorazioni murali, in linea col gusto rococò. Scorrendo i conti degli artigiani conservati tra le carte dell’amministrazione della Guardaroba9 troviamo infatti  che Gaetano Calvi, ebanista con bottega a Firenze sui lungarni, nel 1767 realizzò  una“segreteria” per il palazzo di Siena; così Vincenzo Ferranti,  il quale nel 1765 consegnò diversi mobili tra i quali “una segreteria a sdrucciolo tutta impiallacciata a barbe di noce con tre cassette davanti intere” e altre due più piccole rivestite di noce e intarsiate con fregi in ulivo; e poi Giuseppe Dolfi,  specializzato dal 1765 al 1799 nella costruzione di scrivanie e cassettoni in “noce nostrale” ; Pietro Lascialfare, autore nel 1767 di “una segreteria di nocie fregettata di ebano violetto con finimento di ottone e toppe”; Luigi Pomi di Pescia pagato nel 1771 per aver eseguito una “segreteria a sdrucciolo”; il pisano Angelo Nuti, che tra il 1770 e il 1771, consegnò alla Guardaroba diversi “bureaux” centinati impiallacciati di noce ed intarsiati in olivo e giuggiolo, con piedi “a biscia” e con bocchette di ottone per le toppe delle chiavi; ed infine lo stipettaio Giovan Battista Paolesi,  menzionato nei documenti della Guardaroba  dal 1764 al 1773 per aver fornito in più riprese arredi impiallacciati di noce “alla nuova moda”.

A questi nomi bisogna aggiungere quelli degli ebanisti impiegati stabilmente nella Real Galleria, e tra questi si possono ricordare: Francesco Giorgi, che successe nel 1774 a Zanobi Magnolfi nel ruolo di “primo ebanista”, seguito da Salvatore Landi, assunto nel 1763 insieme al suo maestro Bastiano Biagini e in questa veste fornitore della corte, insieme ai figli Pietro, Gaspero e Vincenzo,  di diversi arredi impiallacciati e intarsiati. Ma sicuramente l’artigiano che lavorò con più assiduità per la Guardaroba lorenese fu Giovanni Toussaint che, in un conto datato al 1747, si definisce “Menusier a Florence”. Toussaint – appartenente con tutta probabilità ad una famiglia originaria della Lorena e menzionato nelle carte dell’amministrazione granducale fino al 1786 – è in questi anni in prevalenza impegnato nella costruzione di sedili di vario tipo secondo il nuovo gusto Luigi XV, ma non disdegnò neppure fabbricare mobili più impegnativi quali appunto scrittoi come ad esempio quella “segreteria all’inghilese tutta di legno d’albero impiallacciata di Legno di noce … con sua piccola portella e tre cassette grande, e due piccole e per di dentro le sue spartimenti, e due cassette con sei toppe, e finimenti d’ottone”, che gli fu pagata nel gennaio del 1766.

Per quanto riguarda invece il secondo mobile10, una dormeuse in legno dipinto a cineserie (Fig. 2), come documenta l’etichetta apposta sulla parte interna della struttura lignea, esso proviene dalle dimore estensi e in particolare dalla distrutta villa di Pentetorri  i cui arredi furono inventariati nel 1842 insieme a quelli del palazzo Ducale. In questo inventario, conservato presso l’Archivio di Stato di Modena, manca però la parte relativa alla citata residenza e quindi non è stato possibile verificare la descrizione del nostro arredo fatta dai guardarobieri di corte. Esso però risulta puntualmente registrato in un documento di poco più tardo e cioè nell’Inventario del Palazzo di Pentetorri terminato il 30 maggio 1848 e definitivamente chiuso il 7 maggio di quell’anno quando –  dopo aver trasferito nel palazzo di Modena tutti quegli oggetti che non appartenevano alla villa – furono fatte chiudere tutte le stanze “con catenacci interni … e serrature a chiave”. La villa dopo l’Unità d’Italia passò, al pari di molte altre residenze di corte italiane, in dotazione alla corona sabauda che di lì a poco la cedette all’armatore Elia Rainusso che poi la donò alla Fondazione Opera Pia Rainusso con sede a Santa Margherita Ligure dove gran parte della mobilia fu successivamente trasferita. Con la guerra d’Etiopia l’edificio fu adibito a Clinica Universitaria per le malattie tropicali e, infine, nel 1944 un bombardamento aereo arrecò gravissimi danni  all’intero edificio che fu in seguito demolito11. E’ dunque assai probabile che il nostro arredo facesse parte di quei mobili acquisiti dalla Fondazione Rainusso  e così salvati dalle distruzioni dell’ultima guerra mondiale.

Dalla lettura dell’Inventario di Pentetorri del 1848 si ricava che nel piano nobile della villa erano stati allestiti ben due salotti di gusto cinese. Il primo – chiamato “Camera a Ponente con apparato Chinese” – era così arredato:

“ 1. Canapé da sdraiarsi di noce verniciato nero sopra a quattro piedi torniti con appoggio e testiera imbottita di tozzi [sic] e crine con elastici coperti di stoffa lana a righi rossi e bianchi con fiori bordure nere e rosse con coperta.

6. Sedie di noce verniciate nere piedi davanti torniti schienale intagliato e traforato cuscino stabile imbottito di tozzi [sic] e crine coperte di stoffa lana simile al canapé sud.o e sue coperture.

6. Sedie di chiavari [una nota dice “trasportate a Modena”] di legno giallo legate in salice bianco.

1. Tavolino di noce verniciato nero sopra 4 mensole inarcate e sostenute da due pedane nel fondo con piccolo cassetto e pomello d’ottone.

1. Tavola rotonda di noce verniciato nero sopra 4 piedi torniti uno nel mezzo e tre triangolari sopra pedana simile”.

2. Tende di percal dipinto a trasparente diversi colori con cilindro e carrucola d’ottone.”

Si trattava con tutta evidenza di un salotto approntato durante gli anni trenta per l’arciduca Francesco IV d’Austria Este che, durante il suo regno, avviò consistenti lavori di miglioria e di abbellimento nella villa, seguendo quella moda per l’esotismo ritornata in auge in Europa durante la Restaurazione. In molti dei palazzi reali italiani si allestirono infatti ambienti arredati in linea col gusto inglese per la cineseria: a Palermo, nel palazzo dei Normanni, Giovanni Patricolo, tra il 1834 e il 1835, affrescò una sala con vedute e personaggi della Cina; mentre in Piemonte, proprio all’indomani della caduta dell’Impero napoleonico, e più precisamente nel 1817, fu deciso di collocare nel castello di Moncalieri alcuni pannelli dipinti alla “chinese” provenienti da Venaria Reale, secondo una tendenza che sarà continuata anche da Pelagio Palagi dopo il 1830, quando l’artista fu nominato architetto di corte.  A Firenze, infine, nel 1842 la granduchessa vedova Maria Ferdinanda d’Asburgo Lorena si fece allestire un salotto nel Quartiere d’Inverno di Palazzo Pitti arredato con mobili intagliati e dipinti in stile cinese12.

Il secondo ambiente della villa arredato all’orientale era ubicato poco distante dal primo e  vi si giungeva dopo aver attraversato un “piccolo quartiere di due camere a levante”, adiacente alla Galleria posta sul lato sud dell’edificio – dove si affacciava anche il precedente salotto – e prima della “Sala Nobile” contigua alla “Galleria a settentrione”. E infatti, nell’inventario, esso è descritto come “Camera Chinese a destra della Galleria a stucco lucido fondo bianco righe celeste lettere Egiziane dorate con vidalpo [sic] a fiori dipinti e vari uccelli”. Qui l’arredo era costituito da:

“N. 1 Canapè alla chinese testiera su di 8 piedi inarcati con fondo nero e dipinto alla chinese cuscino imbottito di tozzi [sic] e crine coperto di percallo ad arabeschi a colori diversi coperta di tela grigia

2. Cadreghe di forma chinese coperta eguale al descritto sud.o

6. Tamburetti simili cuscino stabile e simili al sud.o canapè

1. Tavolino a semicircolo di forma chinese su quattro piedi inarcati e dipinti come il canapé

1. Tavola piccola alla chinese su di un sol piede sostenuto da altre tre nel fondo formanti un triangolo

1. Paracamino = anzi paralume alla chinese pedana triangolare sagomata con serpe all’intorno di un bastone sormontato da ventaglio di penne alla chinese

1. Paracamino di pielle [sic] colorito celeste con varie lettere egiziane dorate

2. Tende di percal dipinte a trasparenti fiori ed uccelli a diversi colori con cilindro e carrucole d’ottone

2. Candellieri di cristallo …”.

Dalle descrizioni riportate dai guardarobieri si può dedurre che la foggia dei mobili, tra i quali si riconosce con tutta evidenza il nostro canapè, fosse più antica di quella degli esemplari registrati nel precedente salotto. Si potrebbe quindi ipotizzare che i citati mobili facessero parte di un vecchio allestimento presente nella villa fin dai tempi di Ercole III il quale, tra il 1773 e il 1783, avviò consistenti lavori di abbellimento agli interni dell’edificio; successivamente rimossi dal governo francese, ai cui mutati gusti non corrispondevano più né per foggia né, tanto meno, per decorazioni,  essi furono poi riportati nella loro originaria sede all’indomani della Restaurazione dei duchi d’Este i quali li fecero collocare in una sala decorata, durante i primi anni dell’Ottocento, in linea con la moda del revival  dell’arte dell’antico Egitto e di cui rimanevano tracce negli ornati delle pareti e in quelli disposti sul paracamino.

La chaise-longue fortunosamente ritrovata è dunque l’unico esempio a noi noto dell’arredamento di tale ambiente che doveva essere assai raffinato. La forma delle gambe, costituita da due volute contrapposte, e la particolare sagomatura dello schienale (Fig. 3) risultano vicini alla soluzione strutturale dei supporti di sinistra presenti in un progetto per console  eseguito a Parma verso la metà del XVIII secolo13 e alla forma, ben più elaborata, di un tavolo parietale a semicerchio, già posseduto dai duchi ed ora conservato a Vienna. Proprio quest’ultimo esemplare è corredato da una coppia di piccoli guéridon14 sul genere di quella “tavola piccola alla chinese su di un sol piede sostenuto da altre tre nel fondo formanti un triangolo” descritta nel menzionato inventario. Si tratta di mobili che, come mi comunica Vincenzo Vandelli, provenivano dal Castello del Cataio, vicino a Padova, ed entrati a far parte dei beni degli Asburgo d’Este nel 1803 in seguito al lascito del marchese Tommaso Obizzi. Con tutta probabilità essi furono eseguiti a Venezia e potrebbero rientrare tra quei vari “Tavolini intagliati e dipinti alla Chinese” inventariati nella villa proprio in quell’anno15.

La struttura del nostro arredo risulta quindi affine alla mobilia prodotta nel nord Italia durante gran parte della seconda metà del Settecento e in particolare a quella veneziana, ma non si esclude neppure che esso possa essere stato eseguito da abili maestranze – per ora a noi sconosciute – attive in quel periodo in area padana visti l’utilizzo del legno di noce per la costruzione del telaio, scarsamente impiegato dai mobilieri veneziani dell’epoca, e l’interesse dimostrato dai nobili committenti sia emiliani che lombardi per questo genere d’ornato. Si pensi, ad esempio, agli interni parmensi – come i salotti della villa di Colorno, allestiti poco dopo la metà del Settecento, o alla decorazione a motivo di figurine cinesi, draghi, scimmie e uccelli della volta di una delle sale di Palazzo Pallavicino16 – e al fatto che a Milano, tra i molti artigiani che avevano adottato la nuova moda, era attivo un tale Luigi Frattini il quale nel 1751 firmò un mobile a doppio corpo, battuto dalla casa d’aste Sotheby’s  (Milano 20 giugno 2006 lotto n. 322), caratterizzato da una decorazione a motivi cinesi in oro su fondo nero. La stessa che si nota su  un cassettone a ribalta lombardo  dipinto di nero e  abbellito con ornati floreali e fantasiosi insetti assai simili alle stilizzate farfalle che si librano sui fondi bruni della chaise – longue qui esaminata17. Si aggiunga infine che nel Palazzo ducale di Modena, così come nelle residenze di Reggio e di Mugnano18, erano presenti arredi e fregi condotti seguendo tale gusto. L’inventario della reggia modenese, stilato nel 1771, elenca infatti  nella camera da letto del Duca una scansia di legno dipinta alla “chinese”, mentre in una stanza dei mezzanini era stata collocata una scrivania con analoghi decori con sopra un piccolo mobile che doveva servire da toilette, e nella guardaroba si conservavano due “bancaletti”, sempre dipinti di scuro e lumeggiati d’oro,con fantasie tratte dal vasto repertorio pittorico di matrice orientale conosciuto dagli artigiani grazie alla diffusione di disegni e stampe19. Ed è proprio ad un’incisione raffigurante la pagoda di Nanchino che il nostro anonimo decoratore si ispirò per abbellire le superfici lignee della dormeuse intervallando, ad una stilizzata versione del celebre monumento cinese, fronde, fiori e farfalle dorate.

Se dunque, da un lato, il presente arredo costituisce un’importante testimonianza dell’interesse per la moda della cineseria da parte della corte estense, dall’altro esso rappresenta una precoce, e del tutto inedita, versione italiana delle poltrone da riposo introdotte in Francia nell’arredamento delle camere da letto a partire dalla fine del XVII secolo e ulteriormente perfezionate durante il Settecento con la diffusione di esemplari sempre più comodi, che presero il nome di duchesse brisé (quelli costituiti da una poltrona dal sedile allungato che poteva congiungersi ad un ampio sgabello) o di chaise longue. Ed è proprio da quest’ultima tipologia – rielaborata, nel corso della seconda metà del XVIII secolo, dai mobilieri inglesi – che la nostra dormeuse riprende la sua forma allungata con lo schienale reclinato che venne però modificata dagli anonimi artigiani al servizio della corte estense con l’eliminazione dei braccioli, rendendola così più vicina alla forma di un canapè da centro che non a quella di un letto da riposo e quindi più consona a figurare in un salotto.

L’ultimo arredo (Figg. 45) qui esaminato fa parte di una serie di otto sedie20 che rientrano in una fornitura d’arredi commissionata dalla corte asburgica dopo il 1787 (data dell’ultimo inventario settecentesco del Palazzo Ducale di Mantova dove esse non risultano descritte) per ammobiliare alcune delle sale di rappresentanza della reggia mantovana.  I nostri sedili  infatti sono elencati negli inventari del palazzo21 solo a partire dal 1810 quando risultano registrati, insieme ad altri esemplari uguali, nella “Seconda Camera tapezzata di damasco cremice scolorito ” dell’Appartamento Guastalla (“16 Carreghini di noce coperti nel sedere, e schienale di Canna d’India vecchi con cuscini coperti di damasco cremice”, c. 2v.); nella “Sala dei Pappi” (“26 Carreghini di noce antichi coperti nel sedere di Canna d’India”, c. 7v.) e nella “Sala dei Fiumi dipinta a Bersò corrispondente al Giardino Pensile” dove  allora erano presenti altri “16 Carreghini in noce in tutto simili” ai sei divani disposti lungo le pareti di questo ambiente e descritti come  “6 canapè con fusto di noce intagliato antichi coperti di canna d’India” (c. 7).

Anche nel successivo inventario del 1814 – come riportano le etichette apposte sotto dei sedili – le sedie sono catalogate  nella seconda camera dell’Appartamento Guastalla (“307 – 16. Cadreghini simili con cuscini sopra” e cioè uguali al divano segnato al numero 306: “1. Canapè di noce moderno, con sedere, e schienale di canna d’India, e cuscinone di lana coperto di Damasco cremise” c. 10); nel “Salone dei Pappi” dell’Appartamento degli Arazzi (“638 – 33. Cadreghe di noce con sedere e schienale di Canna d’India e cuscino coperto di Damasco verde e filetto di seta gialla”, c. 23); e nel Salone degli Imperatori (“Sala dei Paggi, detta degli Imperatori / 387 – 24. Cadreghini di noce coperti di cana d’India, con cuscini coperti di damasco verde” e a fianco la notazione “il damasco stato rittinto e scolorito”. Alle sedie erano stati accompagnati cinque “canapè di noce intagliato con sedere di cana con cuscinoni coperti come sopra”).

Durante la campagna di inventariazione degli arredi della reggia condotta nel 1828 parte delle sedie non figurano più tra la mobilia della seconda Camera dell’Appartamento Guastalla: risultano invece ancora in loco gli esemplari  già disposti nella Camera dei Papi nell’Appartamento degli Arazzi (“Appartamento degli Arazzi per S. M. L’Imperatore Sala detta dei Papi / 800 – 800 Trentatrè Careghini di noce, coperti nel sedere, e schienale di canna d’India, con cuscini imbottiti, e coperti di damasco verde ritinto, in istato mediocre”) e quelli del Salone degli Imperatori  (“Sala degli Imperatori / 536 – 528 Ventiquattro Careghini di noce, coperti nel sedere e schienale di canna d’India, con cuscini imbottiti di cavedella, e coperti di damasco verde in mediocre stato”).

Nell’inventario redatto entro il 14 luglio 1860 i nostri “cadreghini” risultano rimossi sia dall’Appartamento Guastalla, sia dagli altri ambienti del palazzo. Nell’ex Camera dei Papi dell’Appartamento Arazzi  essi furono sostituiti da ben “quarantanove tamboretti di noce, a fondo bianco, con filetti ed intagli dorati, imbottiti nel sedere di cavedella e crina e coperti di raso cedrone contornato di passamano in seta” (n. 695), mentre nella Sala degli Imperatori al loro posto furono collocati altri “Ventiquattro careghini di noce a lucido imbottiti nel sedere con elastico, e coperti di lampas di lana e seta color cremise con borchie d’ottone attorno”. Tali sostituzioni erano state operate quasi un ventennio prima dai funzionari di corte che, nel 1842, avevano trovato in cattivo stato di conservazione parte delle sedie già nell’Appartamento degli Arazzi (787 – 783 Trentatrè Careghini con fusto di noce, coperti nel sedere, e schienale di canna d’India, con cuscini imbottiti di cavedella, e coperti di damasco verde ritinto. Scadenti”) e nel Salone degli Imperatori (556 – 537 Ventiquattro Careghini di noce, coperti nel sedere e schienale di canna d’India, con cuscini movibili  imbottiti di cavedella, e coperti di damasco verde …” con la scritta a lato “Id.” che stava ad indicare il loro scadente stato di conservazione, come quello del precedente lampadario di cristallo). Proprio in quell’anno infatti i Guardarobieri di corte  trascrissero le loro ricognizioni sullo stato di conservazione della mobilia del palazzo in un apposito inventario, che successivamente servì per operare la scelta della mobilia non più ritenuta idonea all’arredo della reggia per poi porla all’incanto, come puntualmente avvenne per le nostre sedie di cui una parte fu venduta, mentre il restante venne disposto in ambienti meno prestigiosi del palazzo (“Lì 9 Settembre 1842 terminata oggi la ricognizione di tutti i mobili, attrezzi, effetti ecc. dettagliati nel presente si chiude con la firma degli inservienti …”, elenco contenuto nell’Inventario delle Vendite all’asta che si tennero da quella data fino al 1860 e conservato nell’Archivio del Palazzo Ducale di Mantova).

Da quanto esposto le otto sedie ora in collezione privata, insieme agli otto esemplari ancora oggi presenti nel Palazzo Ducale22, sono quanto rimane di una serie che in origine doveva constare di ben settantatré pezzi disposti ad arredare i citati ambienti della reggia mantovana. Se dunque l’appartenenza dei sedili alle collezioni degli arciduchi d’Asburgo è documentata dagli inventari di corte, per quanto riguarda la loro esecuzione non si sono rintracciati documenti in grado di far luce sugli eventuali autori:  la particolare sagoma delle gambe anteriori, che nella parte alta si raccorda con la fascia del sedile mediante una piccola mensola, così come i profili ondulati dello schienale23, farebbero pensare ad artigiani operosi a Milano, città, quest’ultima, da cui proveniva gran parte dell’arredamento del palazzo commissionato in più riprese, dopo i restauri intrapresi a partire dal 1779, dai funzionari dell’arciduca Ferdinando d’Asburgo24.

  1. Per ulteriori informazioni bibliografiche sugli inventari delle residenze di corte italiane e sulle loro vicende storiche si rimanda a E. Colle (a cura di),Gli inventari delle Corti. Le guardarobe reali in Italia dal XVI al XX secolo, Firenze 2004. []
  2. Il mobile, in legno impiallacciato di radica d’olmo e noce d’India con  bocchette per le serrature in ottone, misura 193 x 100 x 68 e reca sul retro le seguenti iscrizioni: il numero “17251” scritto con vernice celeste, e quindi riferito all’Inventario dei Mobili di Palazzo Pitti redatto nel 1860; mentre con vernice di colore scuro furono riportati i numeri “3831” (Inventario dei Mobili della Guardaroba del 1815), “2859” (Inventario dei Mobili della Guardaroba del 1804),  “2905” (Inventario dei Mobili della Guardaroba del 1796),   “7147” (Inventario dei Mobili della Guardaroba del 1791),  e “29 … 6” barrato di nero, frutto probabilmente di una correzione effettuata dai guardarobieri che nel 1796 confusero il nostro arredo con un altro mobile simile inventariato quell’anno al n. 2906. []
  3. Docu 800. []
  4. Docu 700. []
  5. E. Colle, Il mobile rococò in Italia, Arredi e decorazioni d’interni dal 1738 al 1775, Milano 2003, pp. 187 – 198. []
  6. IRC 4638, cc. 687 e 689 []
  7. Archivio di Stato di Firenze, Imperiale e Reale Corte 4354, c. 296. []
  8. Archivio di Stato di Firenze, Imperiale e Reale Corte 4353, c. 611. []
  9. Si veda a questo proposito il regesto riportato nel volume di E. Colle, I mobili di palazzo Pitti. Il primo periodo lorenese 1737 – 1799, Firenze 1992. []
  10. La dormeuse, in legno di noce intagliato e dipinto, reca le seguenti iscrizioni: su etichetta di carta parzialmente abrasa “N. 123… /INVENTARIO GENERALE 1842/Palaz… di Modena ”. []
  11. L’inventario della villa di Pentetorri è conservato presso l’Archivio di Stato di Modena, A.A.E., Economato Real Casa, b. 296, cartella 2. []
  12. Sulla moda per l’esotismo durante il XIX secolo si veda E. Colle, Il mobile dell’Ottocento. Arredi e decorazioni d’interni dal 1815 al 1900, Milano 2007, p. 109 e ss. []
  13. Il disegno è stato reso noto da  G. Godi, G. Cirillo, Il mobile a Parma fra barocco e Romanticismo 1600 – 1800, Parma, 1983, p. 99, fig. 226. []
  14. Per la console si veda A. Gonzàlez – Palacios, Il Tempio del gusto. Le arti decorative in Italia fra classicismi e barocco. Il Granducato di Toscana e gli Stati settentrionali, Milano 1986, p. 314, figg. 716-717; mentre la coppia di tavolini è stata pubblicata da E. Colle, Il mobile Rococò in Italia. Arredi e decorazioni d’interni dal 1738 al 1775, Milano 2003, p. 334. []
  15. Cfr. S. Luppi, Note sugli arredi e la destinazione d’uso degli spazi al Cataio, in E. Corradini (a cura di), Gli Estensi e il Cataio. Aspetti del collezionismo tra Sette e Ottocento, Milano 2007, pp. 127-128. []
  16. Cfr. F. Morena, Cineseria. Evoluzioni del gusto per l’Oriente in Italia dal XIV al XIX secolo, Firenze 2009, pp. 251 – 261. []
  17. Cfr. E. Colle, Il mobile rococò…, 2003, p. 89. []
  18. Si vedano a questo proposito l’inventario del Palazzo ducale di Reggio Emilia del 1838 dove si trova descritto un gabinetto cinese arredato con mobili di gusto Restaurazione, ma con alle pareti un “apparato chinese con cornice di legno dipinto bianco filettato bruno”; e quello del Casino di Mugnano, fatto arredare verso la fine del Settecento da Ercole III, in cui vi era una “Camera Chinese […] tutta addobbata di ricami chinesi incorniciati di cornice velata con soffitta simile a palanca” con tendaggi eseguiti con la stessa stoffa e mobili decorati con cineserie come quei due “ventaroni verdi chinesi” o quell’“ecran a paravento chinese” (J. Bentini, P. Curti, Inventario ristretto di Mugnano, Modena 1994, pp. 57 -58). []
  19. Cfr. F. Valenti, P. Curti (a cura di), L’inventario 1771 dell’arredo del Palazzo Ducale di Modena, Modena 1986, pp. 71-72, 99. Patrizia Curti (Note sull’arredo del Palazzo Ducale dal XVII al XIX secolo, in A. Biondi, a cura di, Il Palazzo Ducale di Modena sette secoli di uno spazio cittadino, Modena 1987, p. 259) riporta anche la notizia che nel palazzo, a quella data, vi erano tendaggi ricamati alla “chinese”. []
  20. Le otto sedie furono eseguite in legno di noce intagliato ed hanno il sedile e la spalliera in canna d’India intrecciata. Ciascun esemplare misura 89,15 x 48 x 43. Sul telaio del sedile compaiono le seguenti iscrizioni : marchio “M R”  impresso a fuoco; a vernice scura sono stati scritti i numeri “76, 75 (?), 80, 68 (?); su etichetta di carta bordata con un motivo decorativo  a intreccio sono stati apposti i seguenti numeri  “83” e “88”; altre etichette di carta bordate con un motivo a greca, risalenti all’inventario del Palazzo Ducale di Mantova del 1812, recano le scritte “… azzo Reale di Mant…/Appart.o d. Guastala/Camera N. II/N. 276”, “… Reale di Mantova/Salone degl’Imperatori/N. 262”, “… Mantova/Salone dei Papi 7/N. 580” che si riferiscono agli inventari della reggia mantovana. []
  21. Gli inventari consultati per la ricerca e citati nel corso del testo sono: Inventario generale di tutte le suppellettili  esistenti nel Reale palazzo di Mantova 1810 (Archivio palazzo Ducale di Mantova); Inventario del Palazzo Reale di Mantova 1812 (Archivio palazzo Ducale di Mantova); Inventario degli effetti della Corona 1814 (Archivio palazzo Ducale di Mantova); Inventario degli I.I. R.R. Palazzi di Mantova 1828 (Archivio palazzo Ducale di Mantova); Inventario dei mobili ed effetti 1842 (Archivio palazzo Ducale di Mantova); Elenco degli effetti Mobili di Proprietà di S.A.I l’Arciduca Ferdinando Massimiliano d’Austria 1860 (Archivio palazzo Ducale di Mantova). []
  22. L. Ozzola, Il Museo Medievale di Mantova. Palazzo Ducale, Mantova 1949, fig. 254. []
  23. E. Colle, Il mobile neoclassico in Italia. Arredi e decorazioni d’interni dal 1775 al 1800, Milano 2005, p. 350. []
  24. E. Colle, in Milano Neoclassica, Milano 2001, pp. 175 – 187. []