Mauro Sebastianelli – Ciro Muscarello

maurosebastianelli@hotmail.com – muscarellociro@gmail.com

Modelli architettonici: sviluppo e tecniche di costruzione*

DOI: 10.7431/RIV13082016

La costruzione delle grandi opere, specialmente quelle architettoniche, implicava la realizzazione di modelli, spesso eseguiti per uno scopo e destinati a una breve vita che terminava una volta costruita l’architettura. Nell’arco dei secoli la loro realizzazione ha seguito di pari passo le mutazioni stilistiche del periodo, in relazione alla funzione ad essi affidata, con una conseguente ricaduta sulle tecniche d’esecuzione. Queste opere d’arte applicata si configurano come la testimonianza di un “modus operandi” che si è evoluto nel tempo e oggi arricchiscono la storia dell’arte e dell’architettura.

Il termine “modello” deriva dal latino modellus, diminutivo di modulus, e nel campo dell’architettura richiama il concetto di misura ed assume il significato di “architettura costruita in piccolo”. Già nel Cinquecento il prototipo si indicava con modulum ultimum1 e in epoca moderna si è ricorso al termine latino exempler, il quale si riferiva al modello che precedeva l’opera o alla copia che seguiva2. Oggi il vocabolo è stato affiancato dal termine “plastico” che definisce l’azione di modellare.

L’iconografia tardo antica e medievale spesso prevede la riproduzione di santi, papi, vescovi e sovrani mentre offrono il prototipo della stessa costruzione in cui si trova l’immagine come omaggio o ex voto al Divino3. Per la Sicilia è da citare il mosaico del Duomo di Monreale che ritrae Guglielmo II mentre offre il modello della chiesa alla Vergine4. È da porre tuttavia l’accento sull’aspetto meramente simbolico di queste raffigurazioni, perché riferite, tranne dovute eccezioni, a fatti accaduti prima della loro realizzazione.

Nel Rinascimento, pur mantenendo la funzione operativa sviluppata nei secoli precedenti, i modelli diventano strumenti di creatività e costituiscono uno step importante del processo di ideazione artistica. Molte fonti del periodo affrontano il tema descrivendo tale prassi come un passaggio ormai consolidato5. Leon Battista Alberti (1404 – 1472) nel suo De re Aedificatoria definisce i modelli, «nudos et simplices»6, come l’elemento rappresentativo dell’idea, il luogo in cui si materializza il progetto oltre a tutte le sue ipotetiche modifiche come in una macchina da calcolo7. In accordo con questo principio, per la costruzione di un’opera a volte venivano realizzati anche altri modelli specifici, relativi ai dettagli e parti dell’edificio8 e in tal senso non si può certo non ricordare quello per il Duomo di Firenze, per il quale Brunelleschi (1377 – 1446) ha eseguito più di un modello della cupola e del lanternino9. Il concetto è ripreso anche dal francese Philibert De L’Orme che si rifà ad un’idea di prototipo «in cui siano ben espresse le proporzioni e le dimensioni dell’edificio»10. Sempre per il Duomo di Firenze, furono realizzati due prototipi per il tamburo ed il ballatoio della cupola, uno da Michelangelo (attr.) e uno da Antonio Manetti Ciaccheri (attr.)11.

Tra i grandi progetti rinascimentali romani spicca certamente quello per la Basilica di San Pietro: un cantiere che ha attraversato diversi secoli e dove ogni progetto ha avuto i suoi modelli realizzati dagli illustri architetti che si sono avvicendati, anche se soltanto quelli di Michelangelo e del Sangallo sono giunti sino a oggi12. Il modello sangallesco fu eseguito tra il 1539 ed il 1546 da Antonio Labacco13 e Vasari nelle Vite lo descrive come la sua più importante opera ed il suo più grande modello, tanto da poterci entrare per percepire lo spazio interno; inoltre l’autore annota le ingenti somme che servirono per la sua realizzazione14. Di Michelangelo è importante il prototipo relativo al cupolone, realizzato tra il 1558 e il 156115.

Roger Pratt (1620 – 1685), durante il soggiorno italiano, descrisse l’iter per la loro realizzazione: «L’uso dei modelli è antichissimo. […]. Ecco come si costruisce un modello. Anzitutto si deve decidere una scala in piedi… che sia idonea all’impiego succitato; una volta trovato a quanto ammonteranno le dimensioni dell’intera opera, si preparano le tavole della giusta misura, che devono essere di un legno a grana fine, come il pero o l’abete, levigato e altrettanto stagionato, e su queste tavole si disegna cos’ come si è fatto sulla carta. Passano quindi al falegname che, dopo averle tagliate, procede al montaggio, il che non richiede grande lavoro se i lati e le estremità sono stati tagliati come indicato sopra. Se la casa è uniforme, nello stesso modo si fanno i versanti opposti, e successivamente gli ornamenti che saranno opposti sul modello nei punti adatti […]. In conclusione il modello dovrà assomigliare il più possibile a ciò che intende illustrare»16. Il modello, quindi, era il risultato del lavoro di un’équipe coordinata dall’architetto, il quale spesso rimaneva fuori dalla realizzazione pratica17.

La polimatericità che caratterizza tali manufatti è certamente da correlare alla complessità degli spazi e alle decorazioni previste dai nascenti stili, come il Barocco. Presso l’Accademia di San Luca il modello assurge a vero strumento didattico con il supremo valore rappresentativo18. Non a caso in quel periodo, sotto il pontificato di Clemente XI Albani19, Francesco Fontana riesce a raccogliere i prototipi di San Pietro conservandoli per i molteplici scopi didattici20.

I numerosi modellini pervenutici dimostrano quanto le leziosità delle rifiniture consacri il prototipo ad oggetto “principe” del fare architettura nel Settecento secondo un “modus operandi” degli architetti più rinomati. Vincenzo Scamozzi ne raccomandava la realizzazione per tutte le opere di particolare importanza e la completezza delle informazioni da portare con sé doveva essere tale da non lasciare alcun dubbio in merito alla sua lettura, anche in assenza dell’architetto21. La conseguenza più immediata fu l’arricchimento delle definizioni coloristiche e materiche per rincorrere la perfezione dell’opera e la ricercata corrispondenza tra la policromia del modello e la realtà costruita, funzionali per l’aggiudicazione dei lavori22. Nel caso di disapprovazioni o modifiche si ricostruiva l’intero modello; altre volte, invece, si procedeva anticipatamente con la realizzazione di ulteriori elementi da giustapporre23.

Tra il XVIII e il XIX secolo non era raro che gli architetti fossero chiamati per intervenire su preesistenze architettoniche e la commistione di stili si mostra anche sui modelli. In tal senso un ottimo esempio è il prototipo per il rivestimento neogotico della cupola della Cattedrale di Palermo, in cui Giuseppe Venanzio Marvuglia realizzò sia i partiti decorativi neoclassici che le sue soluzioni progettuali per il loro nascondimento24 (Fig. 1).

Dalla seconda metà del Settecento la rappresentazione dell’architettura si esplica anche con materiali meno consueti, come il sughero. Si tratta per lo più di modelli di architetture classiche, quindi di riproduzioni di edifici già esistenti da identificare come souvenirs25, la cui diffusione è da collegare ai viaggiatori europei nell’ambito del grand tour26. Nel XIX secolo si assiste al declino della produzione pur non mancando eccelse testimonianze. Questo fattore è dipeso soprattutto dall’affievolimento dell’interesse verso la spettacolarizzazione del prototipo a favore di un ritorno alla semplicità.

In Sicilia è noto il modello del Teatro Massimo di Palermo, realizzato sul progetto di Giovanni Battista Filippo Basile nel 186427 (Fig. 2).

La casistica finora affrontata, seppur non esaustiva, è sufficiente per comprendere i molteplici aspetti che potevano influenzare sia le tecniche esecutive che la resa finale dei modellini architettonici. A condizionare ancora di più la loro realizzazione era la ragione stessa del loro “essere modello” nonché la funzione ad essi assegnata, sulla base della quale è possibile distinguere due categorie.

Modelli tecnici o da lavoro

Come ricorda lo stesso nome, tali prototipi non erano realizzati per scopi estetici, ma per rendere comprensibile l’idea progettuale e soprattutto l’esecuzione dei lavori. Erano costruiti con materiale povero e senza particolari dettagli decorativi28. Inoltre è possibile riassumere alcune caratteristiche di questa tipologia di manufatti:

– non riproducevano quasi mai l’intero edificio o l’elemento architettonico da realizzare ma una loro parte esemplificativa concentrandosi più sugli aspetti tecnici di costruzione;

– a volte avevano una scala piccola (modello di grandi dimensioni), per esaltare l’aspetto tecnico-esecutivo, da cui deriva l’adozione di molteplici assemblaggi e incastri delle parti;

– non presentavano particolari finiture pittoriche;

– spesso erano trasportati in cantiere;

– la loro esistenza era legata al tempo di realizzazione dell’architettura, oltre il quale venivano distrutti.

Modelli da presentazione o da esibizione

La funzione di questa tipologia di modelli è suggerita dal nome stesso; essi erano prodotti con scopi meramente estetici. Tali prototipi andavano mostrati alla committenza per ricevere le varie approvazioni, modifiche e/o suggerimenti dai diversi organi e per questo dovevano essere impeccabili da ogni punto di vista, specialmente quello estetico29. La loro produzione era legata all’iperdecorativismo dei secoli XVII e XVIII. Appartengono a questa categoria le “riproduzioni” eseguite né per mero scopo didattico né come strumento di calcolo o di prefigurazione.

Tecniche di lavorazione e di assemblaggio dei modelli architettonici

In molti modelli quasi sempre sono previste cupole, volte e altre superfici curve. Con lo scopo di rintracciare il processo evolutivo delle tecniche di realizzazione dei prototipi e di alcuni loro elementi architettonici, è stata condotta una campagna di ricerca sul territorio siciliano. Il lavoro di studio e raffronto ha anche permesso di individuare le tipologie di modelli cui ascrivere gli esempi esaminati (tecnici e/o da esibizione). In particolare sono stati studiati i seguenti modelli e/o riproduzioni:

  1. Modello ligneo per il rivestimento neogotico della cupola della Cattedrale di Palermo di Giuseppe Venanzio Marvuglia; 1801 – 1845; Museo Diocesano di Palermo, (si veda fig. 1)30.
  2. Modello per la riconfigurazione neoclassica della Chiesa di S. Ignazio all’Olivella di Palermo, su progetto di Giuseppe Venanzio Marvuglia; 1779; Chiesa S. Ignazio all’Olivella di Palermo31 (Fig. 3) .
  3. Modello per la cupola della Chiesa Madre di Piazza Armerina, su progetto di Francesco Battaglia, 1767; Museo Diocesano di Piazza Armerina (EN)32 (Fig. 4).
  4. Riproduzione del Soffitto a muqarnas della Cappella Palatina di Palermo; XX secolo; Accademia di Belle Arti di Palermo33 (Fig. 5) .

Un particolare elemento architettonico è la cupola, da sempre simbolo e punto focale dell’architettura cristiana, in tutte le sue forme: a calotta, ogivale, a base poligonale o circolare, a doppia calotta, ecc.

Struttura costolonata per le cupole

La struttura è molto semplice e prevede la giustapposizione di triangoli lignei, le vele, curvati su uno scheletro di costole in legno (Fig. 6) . Una variante è la struttura ad “ombrello”34 (detta anche a “melone”)35 (Fig. 7): in questo caso le costole sono disposte in maniera da formare l’ossatura di un vero e proprio ombrello dove alcune si ancorano ad una seconda struttura più grande (telaio), altre invece servono per vincolare le vele, generalmente all’intradosso. Durante le ricerche si sono riscontrate sia vele intere sia elementi formati da piccoli segmenti disposti orizzontalmente all’intradosso mentre le costole, il più delle volte, sono realizzate da un unico pezzo curvato. Questa ossatura si presta bene alla costruzione di cupole dal sesto molto basso o comunque di strutture cupoliformi poligonali e visibili dal basso.

Un esempio è la riproduzione del soffitto a muqarnas conservato presso l’Accademia di Belle Arti di Palermo. La struttura lignea di sostegno può essere così schematizzata: un telaio quadrato fa da elemento portante per l’intero soffitto (si veda fig. 7). Al suo interno è collocata la struttura ad ombrello, costituita da due crociere centrate in esso e sfalsate di 45°, su cui sono ancorate le vele della cupoletta polilobata. Ogni listello della prima crociera ha una funzione strutturale e allo stesso tempo portante, per cui si ancora al telaio quadrato; i listelli della seconda crociera invece hanno solo una funzione strutturale.

Il confronto con il sopratetto della Cappella fornisce utili informazioni (Fig. 8) : gli artigiani normanni (forse palermitani) hanno realizzato le muqarnas costruendo una struttura a costole molto vicina, se non uguale, a quella ad ombrello appena descritta, su cui poi sono stati fissati i listelli lignei all’intradosso per formare la cupoletta. Alla luce di questo confronto, se non si può confermare con certezza la paternità della “struttura ad ombrello” ai maestri dei cantieri normanni e se di contro non si può nemmeno accertare la volontà dell’autore della riproduzione di riproporre le originarie strutture regali, si può invece sottolineare la remota presenza di questa particolare costruzione a Palermo, almeno sin dall’epoca in cui venne realizzato il soffitto della Cappella Palatina, ovvero tra l’incoronazione di Ruggero II, avvenuta nel 1130, e la consacrazione dell’edificio nel 114336.

Struttura a spicchi pieni

Immaginando di porzionare una calotta seguendo i suoi meridiani, si otterrà un numero di spicchi della medesima apertura angolare ed è questo il principio su cui si basa tale struttura. Il procedimento esecutivo per la costruzione di una cupola potrebbe essere così schematizzato (Fig. 9):

1) esecuzione del disegno in pianta della calotta per individuarne la base a contatto con il tamburo e suddivisione in n spicchi uguali seguendo raggi (meridiani della sfera proiettati);

2) disegno di uno degli spicchi su carta;

3) trasferimento della sagoma su un listello ligneo dallo spessore corrispondente a quello desiderato, sgrossatura e definizione del pezzo. L’elemento ligneo può essere già curvato a vapore oppure no; nel primo caso esso dovrà avere dimensioni leggermente maggiori rispetto a quelle della sagoma, nel secondo non vi è più la necessità di curvare il listello a monte dell’operazione poiché l’elemento viene ricavato già curvo da un pezzo di legno massello. Di contro, però, occorre necessariamente un listello ligneo molto grande, tale da poter accogliere l’intera sagoma e ciò implica un notevole impiego di materiale.

4) incollaggio sequenziale, previa prova a secco per verificare eventuali irregolarità.

Il principio è applicabile anche per la realizzazione di superfici curve come quella dei tamburi e in questo caso si lavorerà con assi e/o listelli lignei (Fig. 10).

A questa particolare tecnica si può fare riferimento per il modellino di Piazza Armerina (si veda fig. 4): la calotta è stata ottenuta mediante l’accostamento e l’incollaggio di 37 spicchi, uno in più rispetto a quelli del tamburo (Fig. 11), mentre 36 listelli lignei tutti uguali formano l’emiciclo del tamburo (Fig. 12) . Verosimilmente, le finestre sono state disegnate durante la prova a secco per poi ricavarle mediante taglio ed infine si è proceduto con l’incollaggio dei listelli.

Nel caso del grande tamburo del modello del Museo Diocesano di Palermo (si veda fig. 1) in prossimità delle coste sono stati realizzati degli incastri simili a quelli classificati come “tenone e mortasa”. Per ottenere un simile sistema d’assemblaggio le assi venivano sbozzate in prossimità delle coste eliminando parte del legno lungo il piano, per avere una sezione tale da favorire l’ingresso del tenone nella mortasa. Gli incavi eventualmente formatisi tra due tenoni adiacenti, o tra le giunzioni, venivano poi colmati da ulteriori listelli della stessa altezza, in modo da ottenere, tanto all’intradosso quanto all’estradosso del tamburo, una superficie curva (Fig. 13).

Struttura a igloo

Come lo stesso nome suggerisce, tale struttura richiama le abitazioni canadesi degli Inuit prima degli anni settanta. La tecnica prevede la realizzazione dei singoli conci, poi incollati previa verifica a secco (Fig. 14) . Il taglio di pezzi direttamente in forma curva, però, presenta l’inconveniente di creare punti di scarsa resistenza laddove le fibre del legno sono corte37. A questa tecnica sarebbe da riferire la calotta dell’archetipo ligneo del Museo Diocesano di Palermo (si veda fig. 1). Essa è molto imponente nelle sue dimensioni (h: 97,5 cm, l: 105 cm, s: tra 4,5 cm e 9,5 cm) e il relativo fattore di scala avrà influenzato non poco la scelta di questa struttura, difficilmente realizzabile con uno schema a spicchi. A ciò è da aggiungere la necessità di creare un modello del tipo “tecnico”, forse anche trasportato in cantiere, che avrà verosimilmente imposto una struttura sicura ed autoportante. La cupola del modellino dell’Olivella sembrerebbe avere una costruzione simile a quella ad igloo, seppur realizzata con pannelli lignei molto sottili (alcuni mm)38. Come già ricordato, i due modelli sono da ascrivere all’ambito di Giuseppe Venanzio Marvuglia e cronologicamente non molto lontani (1779 per il modello dell’Olivella e 1801 – 1845 per quello del Museo Diocesano).

Struttura con pannelli curvi e costoloni

Questa struttura è molto più semplice e prevede l’accostamento di pannelli dallo spessore ridotto (entro l’unità del cm) curvati e incollati lungo la loro costa. Sono state riscontrate cerchiature lignee all’estradosso della superficie curva che, fungendo da costoloni, avevano lo scopo di mantenere inalterata la forma. Un esempio siciliano si può intercettare nelle volte del modellino dell’Olivella, dove le lacune della carta dipinta mostrano chiaramente le assi lignee curvate.

Non è raro ritrovare nei modellini strutture curve come costoloni oppure elementi decorativi come gli archi e le cornici circolari. Per la realizzazione di questi elementi si poteva adottare la curvatura a secco o a vapore39 ma in alternativa si poteva procedere con un metodo molto più veloce e meno complesso. La tecnica è detta dei “tagli trasversali” (Fig. 15): sul lato interno del listello si praticavano dei tagli a distanza regolare, profondi 2/3 dello spessore40. Una volta riempiti con colla, si procedeva lentamente con la curvatura dell’intero listello, che veniva quindi bloccato in questa posizione mediante un morsetto finché l’adesivo non fosse ben asciutto. Liberato dai morsetti, il legno poteva essere impiallacciato e lavorato ulteriormente con eventuali stesure pittoriche41.

È da notare che la tecnica è più appropriata per profili convessi ove i segni dei tagli rimarrebbero nascosti all’intradosso. Questa procedura sembra sia stata adottata per la realizzazione di modanature nella calotta del modello del Museo Diocesano di Palermo (Fig. 16) e per alcune modanature circolari del modello del Teatro Massimo di Palermo (Fig. 17).

Un altro metodo per ottenere strutture curvilinee si basava sull’accostamento di piccoli elementi trapezoidali assemblati con colla, (si veda fig. 15). Questa tecnica di realizzazione, forse più tarda rispetto alla precedente, è stata riscontrata nella novecentesca cornice polilobata ai quattro capicroce della croce lignea della chiesa del Santo Spirito di Palermo42 (Fig. 18). L’uso di questa procedura, più che ad una scelta stilistica, è da riferire all’economia della realizzazione oltre che ad una carenza nella cura dei dettagli.

Elementi cilindrici

Dai casi finora studiati si può riscontrare che generalmente gli elementi cilindrici venivano ottenuti con la lavorazione al tornio e i due modelli palermitani, quello del Museo Diocesano di Palermo e quello di S. Ignazio all’Olivella,  ne presentano un numero abbastanza elevato.

Molti partiti decorativi necessariamente dovevano essere realizzati a mano dall’ebanista attraverso un accurato lavoro d’intaglio. Tra i modelli studiati, sono da citare gli oculi e i capitelli di tutte le colonnine della cupola del Museo Diocesano di Palermo nonché le decorazioni “a punta di diamante”, la cui tecnica esecutiva potrebbe essere di due tipologie:

Applicazione delle punte sulle corone

Una volta lavorato il pezzo al tornio, sulla corona circolare si applica ogni singola punta di diamante, precedentemente realizzata (Fig. 19). Tuttavia è da rilevare la vulnerabilità di questi piccoli elementi nei punti di incollaggio.

Sottrazione di legno dalle corone

Così come nel primo caso si procede con la lavorazione del legno al tornio per ricavarne le corone circolari (Fig. 20) . A questo punto si può procedere in due modi:

– su ciascuna corona si tracciano le basi di ogni piccola piramide (metodo a). Poi si asporta il legno mediante sgorbie (necessariamente in maniera alternata tra una punta e l’altra), mantenendo i cunei di legno che, di fatto, costituiranno le punte. Per ultimo si passa alla definizione dei lati attraverso la limatura.

– durante la lavorazione le corone circolari vengono ulteriormente rastremate mediante tornitura, fino a rendere la sezione cuneiforme, con la punta verso l’esterno (metodo b). Sulla cresta della corona si tracciano a distanza regolare dei punti corrispondenti ai vertici delle piramidi e si procede con la sottrazione del legno in maniera alternata, per creare gli incavi tra un elemento e l’altro. In questo modo i due lati inclinati della corona, ottenuti durante la rastremazione al tornio, formano già le due facce della piramide.

Alla luce delle considerazioni effettuate in fase di studio e restauro e dall’osservazione della mancanza di alcune punte di diamante, che mostrano le loro basi ricavate dalla corona, è verosimile ipotizzare che quelle del modellino del Museo Diocesano di Palermo siano state realizzate con la tecnica dell’applicazione delle punte sulle corone (Fig. 21) . In entrambi i casi della procedura per sottrazione del legno si otterranno punte di diamante ricavate direttamente dalla corona circolare e ciò è un ulteriore elemento di forza per questi piccolissimi particolari suscettibili, come detto, a distacchi e/o rotture durante la movimentazione del modello. Di contro, la metodologia richiede molta esperienza e sicurezza nella fase si asportazione del legno poiché basterebbe una sola piramide mal riuscita o un errore nell’esecuzione per compromettere il lavoro; la problematica sarebbe invece risolvibile con l’applicazione delle singole punte, in cui si può sempre sostituire la punta e non perdere quindi tutto il pezzo tornito.

Gli incastri

La presenza degli incastri in un’opera è giustificata dalla necessità di connettere le sue parti43. Nel caso dei modelli essi servivano a far combaciare elementi costitutivi, spesso di grandi dimensioni, come pareti, cupole e partiti architettonici o a volte le due metà di un intero prototipo. Dallo studio di quelli citati in letteratura, non si registrano particolari ed innovativi sistemi di incastro, se non quelli ereditati da altre tipologie di opere d’arte, come la scultura o la pittura su tavola44.

Sul territorio siciliano è notevole l’incastro usato per innestare la cupola al tamburo nel modello di Piazza Armerina: in questo caso le uniche due parti che compongono il prototipo sono tenute insieme da due incastri simili alla tipologia classificata come “a mezzo legno passante” che assicurano alla calotta la sua giusta posizione rispetto al tamburo, (si vedano figg. 11, 12). La particolarità sta nel fatto che sia la “battuta di testa” che la cavità creata nello spessore del tamburo seguono il profilo curvilineo della struttura, dissimulando abilmente l’incastro con la bianca voluta (Fig. 22).

La maggior parte dei modelli esaminati testimonia l’uso di chiodi metallici, che si rivelano il sistema di vincolo più diffuso: solo nel prototipo del Museo Diocesano di Palermo se ne contano ben 53. I chiodi hanno dimensioni notevoli, poiché spesso realizzati a mano, a volte lasciati a vista altre nascosti da strati pittorici.

Un caso singolare è quello di due chiavistelli (probabilmente non originali) posti nel pannello laterale del modellino dell’Olivella di Palermo, che servono per l’ancoraggio del prototipo alla sua base lignea e presumibilmente anche per il suo montaggio (Fig. 23) . La mutazione di questi due oggetti sarebbe una chiara testimonianza del legame che vi era con l’ambito artigianale della falegnameria e dell’ebanisteria. Per permettere la visione dell’interno il sistema d’apertura più riscontrato su scala regionale è quello del taglio verticale lungo una o più direzioni del modello; in questo modo le parti combacianti erano lasciate libere o, seppur apribili, tenute insieme da cerniere. Altro sistema era invece quello con ganci metallici, tecnicamente chiamati “rampini”, comunemente usati in falegnameria per un ancoraggio “precario” di finestre, stipiti e porte. Nel modellino dell’Olivella di Palermo ne sono stati riscontrati molti per tenere chiusi i pannelli verticali e per ancorare volte, tamburo e cupola (Fig. 24). Proprio il carattere di precarietà di questi rampini lascia aperta la possibilità di smontaggio e rimontaggio dell’intero modello in altra sede.

Lo studio dei modelli architettonici ha consentito di avere una chiara visione del lungo processo evolutivo che li ha caratterizzati, in funzione di molti aspetti come le correnti artistiche e la committenza. Essi hanno rivestito prima il ruolo di strumenti di verifica, poi quello di prefigurazione di una realtà ipotetica e futura, fino ad assumere nei secoli XVI e XVII anche quello di oggetti di stupore e di “documento d’impegno”. Lo studio ha consentito la classificazione dei prototipi, “tecnici o da lavoro” e “di presentazione”, all’interno della quale è stato anche possibile collocare i model