Giovanni Boraccesi

g.boraccesi@libero.it

Una sinfonia di argenti nell’isola di  Tinos: la chiesa di San Nicola di Bari a Chora e il Palazzo Vescovile

DOI: 10.7431/RIV13062016

Molteplici e variegati sono i richiami che attraggono un visitatore nell’isola di Tinos: non solo di ordine paesaggistico, com’è facile immaginare, ma anche e soprattutto di ordine religioso. L’isola – che prende il nome dal suo capoluogo, noto anche con il nome di Chora (la “Città del porto”) e, dunque, da sempre grande emporio commerciale delle Cicladi – è infatti meta di un intenso pellegrinaggio di fedeli ortodossi per la presenza del celebre santuario della Panaghia Evangelistria, eretto dopo la scoperta nel 1823 dell’icona sacra.

Sempre qui si registra la presenza di una nutrita comunità cattolica – un’altra è nella vicina isola di Siros – i cui valori storico-artistici, meritevoli di una più attenta osservazione e restauro, rendono necessaria una visita non solo nel capoluogo ma anche nei più modesti e affascinanti villaggi del suo interno.

Proprio perché questo patrimonio culturale appare ancora misconosciuto ho inteso offrire un piccolo contributo al riguardo, che si inserisce nel più ampio studio da me condotto degli argenti liturgici dell’intera diocesi latina, ufficialmente Arcidiocesi di Naxos-Tinos-Mykonos-Andros, i cui primi risultati sono confluiti in diverse pubblicazioni1. In queste note mi soffermo ad analizzare gli argenti della chiesa di San Nicola di Bari a Chora e del Palazzo Vescovile.

La chiesa, riedificata come parrocchiale cattolica intorno al 1738, nelle sue nobili forme attuali denuncia un più recente intervento, datato esattamente duecento anni fa, il 1816.

Il patrimonio argentario è costituito da quanto rimane della precedente dotazione di arredi sacri, con una cospicua presenza di materiale d’importazione, soprattutto da Venezia e da Roma. Questi ultimi pezzi hanno funto anche da incentivo e modello per gli artisti del luogo, la cui attività è tuttora avvolta nelle tenebre, oltre che per i più qualificati maestri turchi (Costantinopoli e Smirne), che ebbero così modo di aggiornarsi, dapprima timidamente, agli esemplari dell’Europa barocca e neoclassica.

Apre la rassegna un elegante Calice (Fig. 1) in bronzo dorato, la cui tipologia si ritrova in diverse regioni dell’Italia Centrale, soprattutto Toscana e Lazio. Su una base gradinata e movimentata da filettature si sviluppa il fusto con nodo ovaliforme; il sottocoppa è decorato da un cespo di foglie a palma. La struttura e la semplicità del pezzo mostrano un’adesione ai canoni postridentini, tant’è che si sarebbe indotti a datarlo alla prima metà del XVII secolo, nonostante il nodo rechi l’iscrizione: Georgij Spatarij Con(so)le F(ecit) A(nno) D(omini) 1753. Credo sia ragionevole pensare che tale frase sia stata incisa in occasione del dono del calice fatto alla chiesa dal console Giorgio Spatari, e non della realizzazione del pezzo.

Il successivo manufatto è un Ostensorio (Fig. 2), il cui giudizio è basato sulla visione della sola fotografia, non essendomi stato mostrato durante l’ispezione. Su un sottilissimo orlo insiste la base bombata, decorata da eleganti e sinuosi motivi vegetali; decori a baccelli impreziosiscono il collo del piede. Assai articolato è il fusto il cui nodo è decorato da tre teste alate di cherubini. La raggiera (originale?) presenta una teca centrale circondata da angeli e testine di cherubini; false sono le pietre preziose qui inserite. Nonostante l’evidente impossibilità a rilevare eventuali punzoni, il nostro ostensorio va ascritto a un argentiere veneziano della prima metà del XVIII secolo.

Un ulteriore Calice (Fig. 3) si fa notare per l’articolazione dei volumi. La base, con orlo mistilineo, è connotata da una serie di modanature e di nervature verticali che interessano anche il nodo a pera, contenuto tra anelli di raccordo, e il sottocoppa. Sul manufatto è impresso il punzone di Venezia, il leone di San Marco, e quello di forma mistilinea includente le lettere ZP separate da una papera, che sappiamo di pertinenza di Zuanne Premuda, pubblico controllore della Zecca di Venezia2. Rispetto a quanto già indicato e in ragione dei dati nel frattempo raccolti dallo studioso Piero Pazzi e che gentilmente ha voluto farmi conoscere, Zuanne Premuda nacque nel 1672 e morì nel 1754; occupò l’ufficio di controllore della Zecca dal 1716 al 1749. Ne consegue che il calice in esame andrà datato a poco prima del 1754. Sul piano morfologico il nostro manufatto rientra nel cosiddetto “stile San Marco”, una particolare tipologia che si diffuse ampiamente nel Veneto nel corso del XVIII secolo e anche oltre. Confronti, per fare solo due esempi, è con l’analogo calice custodito nella parrocchiale di Gosaldo3 e con l’altro del 1804 di una chiesa della Valtellina non meglio precisata4.

Un altro esempio di oreficeria settecentesca ma di cultura differente ci viene dato da una ragguardevole Pisside (Fig. 4) di chiaro gusto rococò, per la prima volta esposta nella mostra di Tinos del 20105. Il piede su orlo movimentato è contraddistinto da cordoli lisci che ne ripartiscono la superficie ruvida in campiture triangolari animate da cartigli lisci, da volute  fogliacee e da festoni penduli. Il nodo a balaustro e il sottocoppa sono entrambi interessati da motivi vegetali e da cornicette mistilinee. Il coperchio bombato, provvisto di crocetta apicale, riprende grossomodo i motivi decorativi della base. Sul manufatto ho rilevato due punzoni: quello di garanzia della Zecca dello Stato Pontificio con la rappresentazione delle chiavi di San Pietro sotto l’ombrellino liturgico, e quello dell’argentiere contraddistinto dall’insegna del Nome di Gesù, ossia la sigla IHS, che è di Bonaventura Sabatini (maestro dal 1731 al 1766); suo figlio Giovanni Battista Sabatini (maestro dal 1766 al 1816) utilizzò lo stesso bollo fino al 18106. Un confronto è possibile con la pisside del 1756 conservata in una chiesa della Valtellina non meglio indicata7.

Di particolare fascino è una Coperta di immagine sacra (Fig. 5), oggi rimossa, costituita da un’unica e sottile lamina sagomata in argento sbalzato e cesellato; il suo particolare profilo e, soprattutto, la sua iconografia ci porta a dire che in origine dovesse coprire l’effigie di San Rocco, qui abbigliato con una sontuosa veste, accompagnato dall’immancabile cane (la sola testa), chiaro riferimento alla nota leggenda che racconta di come il santo, ammalatosi di peste, fosse stato nutrito dal fedele animale. A ben vedere, tale sagoma combacia perfettamente con quella del San Rocco riprodotta nella tela della Pietà e Santi (Fig. 5a) conservata nella stessa chiesa, ma che forse proviene dal locale Lazzaretto, come mi suggerisce padre Marco Foscolo che ringrazio. È giusto pertanto ipotizzare che l’intero quadro o più esattamente ciascun santo, fosse coperto da altri rivestimenti in argento; non va neppure esclusa l’ipotesi che per una particolare devozione nei confronti di San Rocco, protettore degli appestati, il committente non abbia riservato solo a lui tale rivestimento prezioso. La coperta, priva di punzoni, va forse riferita a un argentiere veneziano del XVIII secolo.

Analogo intervento di abbellimento venne riservato al dipinto raffigurante San Nicola di Bari (Fig. 6), realizzato nel 1738 e posto sull’omonimo altare maggiore. La figura del vescovo di Mira fu in seguito ricoperta da un Arredo di immagine sacra (Fig. 6a) costituito da elementi in argento che,  prima di essere di recente rimossi e conservati altrove, erano adattati alle vesti e agli attributi episcopali del Santo. Tali pezzi, per lo più sbalzati a motivi floreali come i paramenti liturgici qui dipinti, constano in due lembi della stola, due maniche del camice, quattro pezzi del piviale, due mani, la mitria e il pastorale, questi due ultimi di chiaro stile ortodosso, come si evince dalla tipologia del pastorale, a forma di tau, cioè terminante con una croce commissa, qui magistralmente decorata da due fantastici rettili intrecciati tra loro. Questo gruppo di argenti, se davvero omogeneo o il frutto di qualche riciclo, è probabilmente opera di un maestro italiano (veneziano?), del XVIII-XIX secolo; sulla stola, infatti, ho rilevato il punzone con le iniziali MC inscritte in un rettangolo, finora inedito.

Gli argenti di seguito descritti sono databili al XIX secolo, periodo che come abbiamo detto coincise con la riqualificazione (1816) della precedente chiesa barocca. Le opere, dunque, sono in linea con il corrente stile neoclassico che privilegiò, a differenza di quello barocco, forme semplici, l’estrema levigatezza del modellato e un decoro assai sobrio. Corrispondenze puntuali, infatti, si colgono nei successivi tre reperti, quasi certamente opera di artisti turchi che li dovettero realizzare tra il 1816 e gli ultimi anni di occupazione della Mezzaluna, cioè prima del 1821.

La Navicella (Fig. 7), a mio parere ispirata a modelli veneziani, va stimata intorno alla prima metà del XIX secolo. La base circolare, decorata da un giro di trifogli e più internamente da un serto di foglie lanceolate incise e cesellate, sostiene il fusto ingentilito da due cornici e da altrettante fasce di perline. La parte superiore del corpo è perimetrata da una banda di foglie disposte orizzontalmente. Analogo motivo ricompare, assieme a quello delle perline, sul bordo esterno del coperchio provvisto di due sportelli con manici a ricciolo (quello di destra è rotto).

Sono sufficienti i soli elementi stilistici e decorativi ad assegnare senza riserve a un argentiere turco la paternità di una grande Lampada pensile (Fig. 8). Il manufatto, a triplice sospensione, è ricoperto da una minuta e lussureggiante decorazione naturalistica incisa e traforata. A una catenella è agganciato un medaglione con l’effigie di San Nicola di Bari, non a caso il titolare della chiesa, iconograficamente affine a quello raffigurato nell’omonima tela (1738) dell’altare maggiore. È pertanto ragionevole ritenere che in origine la lampada fosse collocata dinanzi a questo altare. È pur certo che con questo manufatto ci troviamo dinanzi all’estro di un argentiere esperto che probabilmente lo realizzò in occasione della nuova riconsacrazione del tempio, ovvero intorno al 1816.

Anche la successiva Croce astile (Figg. 9 e 9a), imitazione di quelle auliche prodotte nei laboratori orafi di Venezia e accostabile a molte altre rinvenute nelle chiese cattoliche di Tinos, è attribuibile a un argentiere turco o greco attivo in Turchia mentre la sua datazione dovrebbe essere entro il secondo decennio del XIX secolo. Sulla facciata anteriore è posto il Crocifisso, in argento dorato come le altre figure che vedremo più innanzi, la cui croce si arricchisce nelle estremità di testine di angeli. Nelle terminazioni trilobate, contenute fra due rami di palme, sono presenti le figure del Padre Eterno, in alto; della Madonna, a sinistra; di San Giovanni evangelista, a destra; della Maddalena, in basso. In asse con quest’ultima figura è posta una minuscola placchetta raffigurante la Madonna col Bambino. Sul retro della croce, all’incrocio dei bracci, è il Redentore e nelle terminazioni i quattro Evangelisti. Il nodo, di forma ovale, è decorato nelle due estremità da foglie lanceolate e nel mezzo da un traforo con volute fogliacee che ritroviamo anche nello spessore della croce.

Il Turibolo (Fig. 10) poggia su una base circolare e gradinata decorata da tre fasce uguali di motivi a foglie. Il braciere presenta una decorazione continua a foglie sinuose che terminano in una voluta con fiore nel mezzo. Il bordo superiore è ingentilito da una cordonatura, tipico di una produzione in serie. Questi motivi si ritrovano, in maniera speculare e a traforo, nel coperchio, a sua volta provvisto di cupolino anch’esso traforato e decorato da foglioline lanceolate. Elegante è il motivo ornamentale del piattello di raccordo delle catenelle, scompartito da tre sinuose foglie d’acanto alternate ad altrettante sezioni triangolari decorate da pelte. L’oggetto è punzonato con il bollo di garanzia usato in Sicilia (a Palermo e a Catania) dal 1826 al 1872, ovverosia la testa di Cerere di profilo a sinistra, seguita dal numero 88; esso è accompagnato da un altro di forma ovale purtroppo illeggibile e da quello del probabile autore G M ///. 1826-1872. La foto del turibolo in esame è stata pubblicata nel catalogo della mostra di Tinos del 20109.

In aggiunta ai già studiati argenti di manifattura palermitana rinvenuti nel Palazzo Vescovile di Tinos10, in questa sede consegno agli studi gli ultimi cimeli di tale collezione, di cui non conosciamo l’origine tranne che per due esemplari provenienti dall’isola di Chio (anticamente Scio) e qui trasferiti per motivi di sicurezza.

Apre la rassegna un elegante Calice (Fig. 11) di gusto rococò. Nel rispetto dello stile che lo caratterizza, il manufatto si presenta dunque con un’esuberanza di ornati. Il piede, dal profilo mistilineo, è suddiviso in tre sezioni per mezzo di volute e decorazioni fogliacee; dal fondo ruvido fuoriescono tre belle teste di angeli alati. Analoghe decorazioni si ravvisano sul nodo del fusto e, in maniera più spettacolare, sul sottocoppa. È un oggetto di tipologia consueta e diffusa nella Sicilia della seconda metà del XVIII secolo11, per questo motivo, anche in assenza dei punzoni, andrà assegnato a un argentiere palermitano.

Il successivo Calice (Fig. 12) in argento dorato, è un’altra conferma della massiccia presenza in Grecia di oggetti liturgici di manifattura francese del XIX secolo. Di tipologia estremamente diffusa, si sviluppa su piede circolare decorato a motivi vegetali; i decori del grano e dell’uva si alternano ad alcuni episodi della Passione racchiusi entro clipei. Il fusto, anch’esso contraddistinto da decori vegetali, ha un nodo a pera mentre sul sottocoppa, decorato da un serto di foglie e da una cornice mistilinea, compaiono i simboli eucaristici dell’uva e del grano inframezzati a medaglioni ovali con le teste di Gesù, di Maria e di san Pietro. Sulla base è incisa la seguente iscrizione: LEONARDES JUSTILIANI G.M BATTISTA AMOR PATRIAE DONAVIT ECCLESIAE SANCTI JOANNIS CHIENSIUM 1842. Questo calice, come mi suggerisce padre Leo Kiskinis, proviene dalla chiesa di San Giovanni Battista di Sklavià, un piccolo villaggio dell’isola di Chio, a suo tempo appartenuto alla nobile famiglia genovese dei Giustiniani. A questo punto è opportuno ricordare che San Giovanni Battista è patrono della città marinara di Genova. A eseguire l’opera, come da punzone, fu l’argentiere Alexis Renaud, il cui laboratorio era installato a Parigi al numero 16 di quai Pelletier12; lo affianca il punzone del titolo con la testa di Minerva, valido dal 9 maggio 1838.

La successiva e singolare Teca eucaristica (Fig. 13), in ragione delle sue ridotte dimensioni, fu concepita per portare a domicilio l’ostia consacrata. La base circolare e gradinato è caratterizzato da una cornice a treccia e da una fascia con motivi a zigrinature; il corto fusto presenta un nodo a pera. Sul coperchio della minuscola coppa, dorata all’interno, è inciso il trigramma IHS con tre chiodi. La teca è punzonata con il bollo del Regno di Napoli, ossia +N/8, in uso dal 1839 al 1873.

  1. G. Boraccesi, A Levante di Palermo. Argenti con l’aquila a volo alto nell’isola greca di Tinos, in «Oadi», n. 4, dicembre 2011, pp. 60-67; G. Boraccesi, Rapporti tra la Grecia e l’Occidente europeo negli argenti della Cattedrale di Naxos, in «Arte Cristiana», 863, marzo-aprile 2011, pp. 131-144; G. Boraccesi, Ανατολικά του Παλέρμο. Αργυρά σκεύη με τον «υψηλά ιπτάμενο αετό» στο νησί της Τήνου. Τα αργυρά ιερά σκεύη του Καθολικού Μητροπολιτικού Ναού της Νάξου, in «Anno Domini», III, MMXIII, pp. 338-356; G. Boraccesi, Una sinfonia di argenti nell’isola di Tinos: le chiese di Aetofolia, Kalloni, Karkados, Smardakito e Vrissi, in «Oadi – Rivista dell’Osservatorio per le Arti Decorative in Italia», n. 10, 2014. []
  2. P. Pazzi, I punzoni dell’argenteria veneta, 1992, p. 150 numero 479. []
  3. T. Conte, Oreficerie liturgiche tra XVI e XIX secolo nei vicariati di Agordo e di Canale d’Agordo, in M. Pregnolato (a cura di), Tesori d’Arte nelle chiese dell’alto Bellunese, Belluno 2006, pp. 60-61. []
  4. G. Perotti, scheda 489, in I Tesori degli emigranti. I doni degli emigranti della provincia di Sondrio alle chiese di origine nei secoli XVI-XIX, catalogo della mostra (Sondrio, 15 marzo-28 aprile 2002), a cura di G. Scaramellini, Cinisello Balsamo 2002, p. 413. []
  5. Ι. Γκερέκος, Σκεύη ιερά τω Θεώ ανατεθειμένα, Tήvoς 2010, p. 32. []
  6. A. Bulgari Calissoni, Maestri argentieri gemmari e orafi di Roma, Roma 1987, p. 375. []
  7. G. Perotti, scheda 253, in I Tesori degli emigranti, cit., p. 330. []
  8. S. Barraja, I marchi degli argentieri e orafi di Palermo, Milano 1996, pp. 56-57; U. Donati, I marchi dell’argenteria italiana, Novara 1999, pp. 12-15. []
  9. Ι. Γκερέκος,Σκεύη ιερά τω Θεώ ανατεθειμένα, Tήvoς 2010, p. 42 []
  10. G. Boraccesi, A Levante di Palermo, cit., pp. 60-67. []
  11. Argenti e Cultura Rococò nella Sicilia Centro-Occidentale 1735-1789, catalogo della mostra (Lubecca, 21 ottobre 2007-6 gennaio 2008), a cura di S. Grasso e M. C. Gulisano, Palermo 2008. []
  12. C. Arminjon-J. Beaupuis-M. Bilimoff, Dictionnaire des poinçons de fabricants d’ouvrages d’or et d’argent de Paris et de la Seine, t. I, 1798-1838, Paris 1991,  p. 79 n. 404. []