Mauro Sebastianelli – Giuseppe D’Anna

maurosebastianelli@hotmail.com – pinodmc@hotmail.it

Sguardo vitreo nella statuaria lignea devozionale*

DOI: 10.7431/RIV13052016

Tra il XVII e il XVIII secolo si registra un forte aumento della produzione di sculture lignee ad uso devozionale1. Le ragioni di tale fenomeno sono molteplici e vanno ricercate nel ridotto costo del materiale, dovuto alla grande disponibilità della materia prima, che ne consentiva un maggiore impiego in risposta alla crescente domanda di mercato2, oltre che nel peso ragionevole del legno stesso, condizione che favoriva il trasporto/commercio nonché gli spostamenti delle opere per esigenze di culto3. Tra i fattori che hanno contribuito alla diffusione della scultura lignea, va ricordato inoltre l’aspetto estetico finale che l’opera assumeva una volta terminata: infatti, combinando le doti mimetiche della pittura con la plasticità della scultura, le statue lignee intagliate riuscivano ad assumere espressioni di realismo e veridicità superiori a quelle rese dalle opere in argento o in marmo, sicuramente più auliche e preziose ma che mantenevano la freddezza e il distacco insiti in questi materiali4. È infatti da sottolineare come la stessa committenza spesso incoraggiasse una reinterpretazione in chiave realistica dei soggetti, spingendo l’artista verso l’adozione di un linguaggio figurativo coinvolgente e sempre più fedele al vero, con immagini capaci di “affectum movere5  (Fig. 1). Attraverso le rappresentazioni plastiche si dava così corpo a chi non lo aveva, rendendolo percepibile e consentendo al fedele di sperimentarne materialmente la presenza6. Emozioni e stati d’animo dei soggetti raffigurati venivano tradotti in materia dagli abili maestri dell’epoca mediante la profonda e fine resa degli sguardi, dei sorrisi e delle rughe del viso, da sempre regione essenziale della caratterizzazione fisiognomica. Il sapiente utilizzo dei colori e il ricorso a diverse tipologie di materiali permettevano all’artista di ottenere delle opere uniche e preziose, che incarnavano perfettamente la volontà della committenza ecclesiastica.

Tale elemento emerge anche dall’analisi dell’abate Giovan Battista Pacichelli (1641 – 1695) che in una lettera al Sig. D. Giacomo Saluzzo sulla scultura napoletana del suo tempo, affermava: «Giudichi pur ciascuno à suo piacere delle Scolture sagre in legno dè Sig. Aniello Michele figliuoli del fù Gioseppe Perrone, dell’Ardia, e di codesti altri Virtuosi, e della loro Esquisitezza, ò pè muscoli ben’espressi, ò per la carnagione colorita al vivo, ò per la delicata Dentatura e Palato, Vivacità degli occhi nel Vetro, con le ciglia e capelli naturali, con le Vesti di seta giusta il decorò, ò di lana, e in parte riussite secondo le leggi, e consuetudini degli Ordini Regolari […] in modo che la Rappresentanza ecciti à divota memoria del Rappresentato…»7. Lo spiccato senso di realismo portò, addirittura, alla «realizzazione di statue in cera, sulle quali gli artisti applicavano vere e proprie unghie, capelli cresciuti su crani vivi, ciglia reali e occhi di vetro»8. Mediante questi accorgimenti si esprimevano infatti il pronunciato patetismo e l’ossessiva intensificazione del dato realistico, entrambi fattori di influenza iberica nella scultura napoletana seicentesca9 (Fig. 2). Tra le tante soluzioni tecniche adoperate dagli artisti del passato, il presente studio approfondisce quella degli occhi in vetro, riconoscendo decisiva importanza a questi piccoli e preziosissimi manufatti, mediante i quali, sfruttando le proprietà dello stesso materiale, come la brillantezza e la trasparenza, era possibile rievocare il naturale lucore dello sguardo. Dalla ricerca condotta, dalla seconda metà del Seicento in poi, la tecnica degli occhi in vetro si diffuse in tutte le regioni meridionali d’Italia, trovando a Napoli il suo centro propulsore; tuttavia è difficile affermare con certezza se essa sia fiorita proprio nel centro partenopeo o se invece sia giunta dalla Spagna, considerata la sua parallela diffusione in entrambe le aree geografiche. Le altre regioni d’Italia, soprattutto quelle dell’area lombarda, rimasero estranee a questo tipo di tecnica artistica, se non per qualche singola opera di maestro ligure, come sottolineato dal Casati10.

Il nuovo utilizzo di un materiale comporta, come sempre, la messa a punto di tecniche specifiche relative alla sua produzione e, analogamente, si possono individuare diverse procedure sia di realizzazione che di inserzione degli occhi in vetro, in relazione alle aree geografiche e al periodo di esecuzione delle sculture analizzate. Dallo studio condotto è emersa l’esistenza di due differenti tecniche che si distinguono l’una dall’altra sia per le modalità di inserimento degli elementi vitrei sia per la morfologia degli stessi occhi. La prima tecnica, di origini napoletane, è in assoluto la più diffusa in tutta l’Italia meridionale e gli scultori siciliani probabilmente ne appresero la pratica o dalla visione di opere provenienti dal capoluogo campano o dall’influenza diretta di artisti partenopei. Tale procedura prevedeva l’applicazione dell’occhio “dall’esterno”, inserendolo direttamente dal recto della figura nell’incavo dell’orbita, appositamente creato dall’artista tramite intaglio (Fig. 3). La seconda tecnica, di origine spagnola e chiamata “mascarilla”, prevedeva invece la realizzazione di una vera e propria maschera che permetteva l’incastro dei bulbi vitrei all’interno del viso del soggetto rappresentato ed è diffusa in tutta la Spagna11 (Fig. 4).

L’ampia diffusione nell’Italia meridionale di sculture lignee con occhi vitrei montati “alla napoletana” ha permesso di prendere sotto diretta osservazione numerose e preziose testimonianze, il cui studio si è rivelato fondamentale per ottenere una prima visione della tecnica, considerate le esigue informazioni in bibliografia.

Nella tecnica napoletana, gli occhi erano ottenuti con lamine vitree concave, le cui morfologie potevano variare dalla semisfera (Fig. 5) alla calotta o alla sezione di sfera, di dimensioni leggermente maggiori a un quarto. L’utilizzo di una tipologia di lamina piuttosto che un’altra dipendeva dalla necessità dell’artista di aumentare più o meno la cornea, in relazione all’espressione che si desiderava ottenere o all’apertura degli occhi del soggetto stesso12: venivano utilizzate lamine a calotta quando era necessario che l’occhio mostrasse molta più cornea13 (Fig. 6), ad esempio quando il soggetto guardava in alto, in basso o lateralmente; si applicavano invece lamine a sezioni di calotte se la figura rivolgeva lo sguardo avanti a sé in posizione frontale o se aveva gli occhi semi chiusi (Fig. 7). Le lamine a semisfera erano impiegate nelle opere più pregiate e nei grandi gruppi scultorei dove ogni personaggio aveva gli occhi orientati in direzione diversa14. Le lamine concave si ottenevano sezionando una sfera cava in vetro soffiato, eseguita appositamente della misura proporzionata alle dimensioni della scultura da un artigiano specializzato15, o utilizzando stampi in mattone su cui veniva pressata la pasta vitrea incandescente mediante un controstampo metallico provvisto all’estremità di un cuscinetto sferico di grandezze variabili in base all’estensione della matrice16. Il carattere artigianale delle lamine si traduceva in piccole imperfezioni, spesso notabili ad occhio nudo, quali bolle d’aria intrappolate all’interno del vetro o difformità nelle coppie di occhi, in cui uno degli elementi presenta dimensioni o concavità leggermente diverse rispetto all’altro (Fig. 8).

Tra le diverse di produzione censite, uno dei sistemi più antichi rilevati prevedeva l’ottenimento degli occhi direttamente sul legno; seguiva poi l’applicazione del film pittorico che poteva essere steso direttamente sul supporto ligneo o su un leggero strato preparatorio in gesso. Una volta dipinti gli occhi, venivano sovrapposte delle lamine vitree trasparenti, prive di finiture pittoriche, poste a schermatura al fine di dare maggior brillantezza ai bulbi oculari. Questa tecnica è stata riscontrata sia nel San Giovanni Battista17, della seconda metà del XVI secolo, custodito presso i depositi del Museo Diocesano di Palermo (Fig. 9), sia nel San Marco18, conservato nella chiesa di S. Leoluca a Corleone (PA), eseguito da Francisco de Pachi e datato 1569 (Fig. 10). Dopo avere prodotto le lamine, la tecnica prevedeva il fissaggio di queste al resto della scultura tramite uno stucco che aveva la duplice funzione di riprodurre plasticamente l’anatomia delle palpebre e allo stesso tempo assicurare l’immobilità degli elementi in vetro. In casi come quelli riportati, in cui le lamine vitree sono trasparenti (prive di decorazioni) e poste su superfici dipinte, la tecnica può essere individuata sfruttando l’opacità della stessa lamina, dovuta alla presenza di polveri e particellato che nel tempo si depositano tra il vetro e la porzione policroma. Un’evoluzione di questa prima procedura può essere rintracciata nell’introduzione di nuovi materiali, come è emerso dall’analisi di alcune opere censite a Palermo. Tra i vari casi è possibile citare il busto in cera raffigurante l’ Ecce Homo19, riferibile al XVIII secolo e custodito nella  chiesa di S. Maria degli Angeli (Gancia), o ancora una pregevole scultura lignea di piccole dimensioni, raffigurante San Michele Arcangelo20, conservata presso il Palazzo Arcivescovile di Palermo e databile al primo decennio del XIX secolo. Entrambe le opere presentano lamine vitree trasparenti poste sulla convessità degli occhi dipinti che nel primo caso sono realizzati in cera pigmentata, nel secondo in porcellana (Fig. 11). In entrambi i manufatti le palpebre sono state applicate e modellate dopo l’inserimento delle lamelle in vetro al fine di fissarle al resto del supporto così come da tradizione. Dal Settecento in poi nell’ambito della tecnica “napoletana” gli occhi in vetro dipinto sostituirono le lamine trasparenti. La pittura avveniva sul verso degli elementi vitrei e prevedeva l’utilizzo di colori ad olio per ottenere una resa cromatica e anatomica più vicina a quella dell’occhio umano. In questo caso, le campiture pittoriche, come di prassi nella pittura su vetro, erano stese in maniera strategica, sfruttando la trasparenza del materiale e realizzando per prima ciò che si voleva apparisse in primo piano: veniva così realizzata dapprima la pupilla, poi l’iride ed infine la cornea (Fig. 12). Altra tecnica di decorazione delle lamine vitree era la vetrofusione: in questo caso l’artigiano fondeva una goccia di vetro scuro sulla lamina bianca (ad imitazione della pupilla)21; Gli occhi così ottenuti si mostrano più brillanti rispetto ai primi, ma meno ricchi di dettagli. Questa procedura è risultata molto diffusa nelle statuine presepiali o comunque di piccole dimensioni22. Una volta realizzati e dipinti, gli occhi venivano inseriti all’interno di alloggi creati appositamente sul recto della scultura: le lamine vitree potevano essere addossate a sfere in stucco, al fine di creare una superficie di appoggio che garantisse maggior sostegno agli occhi, considerata l’estrema fragilità del vetro. Una testimonianza di questa tecnica era già stata rilevata dalla Mazzoni nel gruppo scultoreo raffigurante Sant’Anna e la Vergine Bambina e proveniente dalla chiesa di San Giovanni  Maggiore a Napoli23, dove gli occhi si presentano come sfere in stucco pieno su cui aderiscono delle lamine vitree concave. Nel territorio siciliano prova di tale pratica è stata riscontrata nella seicentesca scultura lignea a dimensioni naturali raffigurante un Ecce Homo24, conservata presso la chiesa di S. Maria degli Angeli (Gancia) (Fig. 13), nel quale le lamine vitree (oggi gravemente fratturate) aderiscono a dei supporti sferici in gesso. Un’altra modalità di inclusione degli elementi vitrei sulla sculture prevedeva la posa delle lamine inserite a semplice schermatura del foro oculare, senza alcun supporto sottostante. Quest’ultima variante della tecnica è stata maggiormente riscontrata su opere censite nell’area nord-orientale della Sicilia, rinvenendo elementi di continuità anche con altri manufatti di produzione calabrese e pugliese. È il caso ad esempio del busto di San Vito, conservato presso la Chiesa Madre di Stilo (RC) e datato al XVIII secolo, o ancora del San Raffaele e del Tobia, appartenenti all’omonimo gruppo scultoreo, custodito anch’esso nella Chiesa Madre di Stilo e riferibile al XIX secolo (Fig. 14). La scoperta della medesima tecnica anche su una piccola Immacolata in legno policromo e dorato, proveniente dalla chiesa di San Bartolomeo nella frazione di Lingua a Santa Marina di Salina (ME) e riferibile ai primi decenni del XVII secolo, rappresenta un dato molto importante, in quanto testimonia la presenza e la diffusione di tale variante contemporaneamente alle altre sopramenzionate, giungendo senza particolari evoluzioni sino ai primi del XIX secolo. Anche in questo caso le palpebre venivano realizzate in stucco.

Oltre alla pratiche descritte, che si basavano sull’inserimento degli occhi dal recto della scultura, ne esiste un’altra di origine spagnola, che prevedeva la realizzazione di una vera e propria maschera per incastrare i bulbi vitrei nel viso del soggetto raffigurato. Tale tecnica, chiamata “mascarilla”, differiva da quella napoletana sia per la morfologia dell’elemento vitreo sia per le modalità di inserimento all’interno della scultura. Solitamente gli occhi spagnoli presentavano una morfologia a globo, con un caratteristico beccuccio (estrema porzione della cannula) che fuoriusciva da un’estremità della sfera stessa (Fig. 15). Per la realizzazione di questi occhi, largamente diffusi in Spagna, il vetro veniva lavorato ad elevatissima temperatura da artigiani specializzati, soffiandoci dentro e ottenendo la forma sferica desiderata che veniva poi decorata con la tecnica della vetrofusione: le sfumature e le venature di colore che, una volta aggiunte, rendevano la riproduzione vitrea fedele all’occhio umano, non erano infatti dipinte dall’interno, come nel caso degli occhi a semisfera, ma venivano applicate direttamente sull’esterno del globo. Si trattava di steli di vetro colorato che venivano fusi e aggiunti per sovrapposizione al globo bianco. Il processo decorativo non sfruttava quindi la trasparenza del materiale operando a risparmio come nella pittura su vetro classica, ma avveniva per sovrapposizione della materia pigmentata. Lo strato di pasta vitrea colorata che veniva fuso sul globo alterava leggermente la sfericità dell’occhio, rendendolo lievemente cuspidato. Oggi la maggior parte degli occhi sferici in commercio è di produzione industriale, ma la tecnica rivive ancora in alcune interessanti botteghe artigianali o nei laboratori medici di protesi oculari che, seppur con i dovuti miglioramenti e l’utilizzo di materiali più conformi all’uso sanitario, impiegano una procedura affine a quella antica per la produzione delle protesi in vetro25. Nelle sculture spagnole, oltre ai globi interi, sono stati riscontrati anche occhi dalla morfologia semisferica; in questi casi la decorazione delle lamine si eseguiva come nella tecnica napoletana, direttamente dal verso, prediligendo l’utilizzo di colori ad olio e smalti; si operava a punta di pennello con velature oleose di differenti cromie, al fine di ottenere una superficie brillante e semi-trasparente, in funzione della maggior vocazione realistica tipica dell’arte spagnola che rendeva il processo decorativo degli occhi di vetro laborioso e curato nel dettaglio26. Anche in questo caso, una volta eseguiti gli occhi, si procedeva all’inserimento di questi all’interno del manufatto ligneo. La procedura è rimasta quasi del tutto invariata nel corso dei secoli, giungendo sino ai giorni nostri, come dimostrano le opere di alcuni scultori e intagliatori spagnoli contemporanei come J. M. Miñarro Lopez (Figg. 1617) o Liço Rodriguez. Quest’ultimo in un suo trattato sulla scultura descrive attentamente la tecnica dando preziose informazioni su accorgimenti pratici e materiali utilizzati: «Si esegue un taglio sulla testa per separare la faccia, come se fosse una maschera. Con un trapano a mano si scavano gli occhi dall’esterno verso l’interno. Successivamente, si leviga l’interno lasciando dello spazio attorno a due fori. Bisogna effettuare questo procedimento con molta attenzione per non danneggiare la parte esterna intagliata che deve rimanere di uno spessore minimo. Si posizionano gli occhi di vetro all’interno, sostenuti con pasta o stucco di gesso. Una volta posizionati (gli occhi) e dopo aver controllato attraverso la luce la direzione dello sguardo, si procede, se necessario, a effettuare le eventuali correzioni, considerato che una volta che il gesso si asciuga è impossibile correggere i difetti, visto che gli occhi sono composti di vetro soffiato e di strati di cristallo molto fragili. [… ] Una volta asciugato lo stucco, si posiziona la maschera del viso che viene retta da piccoli chiodi nascosti nel legno. Quando si tratta di opere grandi si lascia una linea di spessore di un millimetro all’incirca. Sia la linea che i buchi dei chiodi si riempiono di stucco, che una volta asciugato deve essere ripulito. Se l’opera è di piccole dimensioni, si ritaglia il viso con una piccola sega molto sottile, oppure si colloca un filo metallico sulla parte superiore della testa e si infligge un colpo secco per far scindere il visto dal legno; in questo modo, unendo nuovamente le due parti, non si provoca nessuno sfaldamento. Per incollare si utilizza esclusivamente colla»27.

La tecnica a “mascarilla” sia molto diffusa in Spagna e se ne può facilmente trovare testimonianza nella produzione scultorea iberica attraverso le sue diverse forme. Le sculture lignee spagnole si dividono infatti in due tipologie: le statue a “candelero28, dette anche a vestito, e le sculture a tutto tondo29; la presenza, in entrambi i casi, della tecnica a maschera è indicativa per affermarne l’ampio utilizzo nel contesto natio, al di là della componente cronologica e regionale (sono infatti diffuse sia in Andalusia che in Catalogna). Anche la diffusione della “mascarilla” in Spagna è stata sottolineata dalla Mazzoni che nota come «ad intaglio ultimato la testa veniva divisa in due segandola longitudinalmente all’altezza delle tempie e separando il volto dal resto del capo. Sul retro del viso si intagliavano due incavi fino ad arrivare alle palpebre e a forare la cavità oculare; veniva quindi immessa la lamella vitrea, dipinta dal verso, e fissata con tela e colla. Il volto così concluso era riapplicato alla testa, che poteva essere completata con preparazione e policromia»30. Dal testo si evince come anche nel caso degli occhi alla “spagnola” possano esservi delle diversità nelle modalità di inserimento, frutto dell’evoluzione tecnica o di singole abitudini, che hanno portato ad una diversificazione della procedura. Una delle varianti della tecnica originale della maschera, intesa come la parte del viso strutturalmente separata dalla testa al fine di inserire gli occhi in vetro, è la calotta31; si tratta di una porzione di legno che copre la parte superiore della testa e si ottiene attraverso un taglio angolare nel lato posteriore del capo, finalizzato sempre all’inserimento degli occhi (Fig. 18).

Nella tecnica a “mascarilla l’artista si avvaleva solamente del legno per l’ottenimento dell’intaglio e del modellato che definiva la fisionomia del soggetto; contrariamente alla procedura napoletana dove si faceva ricorso a uno stucco, qui le palpebre sono ottenute a risparmio nella materia costitutiva del supporto stesso dell’opera. Lo spessore esiguo delle palpebre, eseguite a risparmio nel legno, le rendeva fragili e soggette a una possibile rottura, motivo per cui lo scultore spesso utilizzava dei brandelli di tela per rafforzare queste zone particolarmente sensibili, che si potevano frantumare anche durante il processo di intaglio a causa della dimensione minima cui erano state ridotte, dopo essere state scavate all’interno per l’inserimento degli occhi32. Il bulbo oculare veniva poi fissato al supporto mediante un impasto a base di cera33 (Fig. 19).

Al fine di riconoscere la tecnica di inserimento degli occhi in vetro, sia “napoletani” che “spagnoli”, talvolta può essere sufficiente un’attenta osservazione a luce radente del manufatto, in quanto col tempo lo stucco tende ad irrigidirsi mostrando chiaramente i punti di adesione con il viso della scultura; è così possibile notare l’applicazione delle palpebre, nel caso di opere eseguite con la tecnica partenopea, o per le sculture iberiche la giunzione che corre tra la maschera e la restante porzione di viso, dove frequentemente si manifestano crettature o lacune degli strati pittorici a causa dei movimenti del legno, dell’invecchiamento della colla o dell’irrigidimento dello stucco posto nella commettitura. Ove ve ne fosse l’opportunità, per entrambi i casi una ripresa a raggi X rivelerebbe con estrema chiarezza informazioni utili per diagnosticare con precisione la tecnica esecutiva degli occhi e quella dell’inserimento all’interno del manufatto34 (Fig. 20). Dato certo, al di là delle procedure utilizzate per l’incastonatura dei globi oculari o per la produzione degli stessi, è che, comunque, gli occhi di vetro necessitavano di un processo lungo e dispendioso e che sarebbe stato certamente più economico e agevole per l’artista intagliarli direttamente nel legno35. Considerate quindi la maggior laboriosità dell’intervento e la preziosità del lavoro finale, opere con queste caratteristiche avevano un costo maggiore e dovevano essere commissionate all’artista appositamente. Nei gruppi scultorei gli occhi in vetro potevano interessare esclusivamente il soggetto principale o estendersi a tutte le figure, a seconda delle richieste della committenza sia per questioni economiche sia per dar maggior risalto al personaggio più importante. Solitamente, comunque, tutti i soggetti risultano provvisti di tale accorgimento tecnico, anche quelli marginali, come nel caso del cane del San Raffaele e Tobia di Stilo (Fig. 21), dei puttini alla base di Immacolate o rappresentazioni sceniche come l’Assunta36 di Nicosia (EN) conservata nella Basilica di S. Maria Maggiore, o ancora della Madonna del Rosario con San Domenico e Santa Caterina custodita a Trapani nella chiesa di San Domenico (Fig. 22). Nonostante questi esempi descrivano la casistica più diffusa, sono stati riscontrati anche casi dove solo alcuni dei soggetti rappresentati presentano occhi in vetro, come nel gruppo scultoreo della Sacra Famiglia di Maria37, custodito nella chiesa di S. Antonio da Padova a Palermo, o in quello della Mater Dolorosa di Termini Imerese (PA): i personaggi forniti di occhi vitrei sono Sant’Anna e Maria nel primo caso, il Cristo nel secondo. La presenza di globi oculari in vetro su sculture lignee dal XVII secolo in poi può anche essere intesa come elemento di evoluzione tecnica da parte di un artista o di una scuola rispetto la propria produzione precedente, come riscontrato per il Quattrocchi, il quale, nella fase iniziale della sua attività artistica, era solito ricavare gli occhi direttamente nel legno mediante intaglio; successivamente, dopo contatti con opere di fattura napoletana (nello specifico dopo aver visionato una scultura giunta a Ganci di produzione partenopea), fece propria la tecnica degli occhi vitrei38. Nel documento contrattuale per la Madonna del Rosario con San Domenico39si può leggere come il committente abbia ordinato al Quattrocchi la realizzazione dell’opera «col gusto moderno» e la fattura degli occhi «come la Concessione che venne da Napoli»40. Dopo il primo utilizzo, l’artista fece propria la tecnica e tutte le sue sculture furono dotate di occhi vitrei per ottenere quel maggior senso realistico tanto ricercato. Sono comunque altrettanto numerose le notizie relative all’utilizzo degli occhi di vetro giunte attraverso i contratti di commissione di altri artisti che hanno operato nel contesto meridionale, a testimonianza dello sviluppo e della diffusione di tale tecnica tra il XVII e il XVIII secolo. Così si legge ad esempio in un contratto per un gruppo scultoreo commissionato a Giacomo Colombo datato 1696: «[…] e similmente prometto di fare a proportione di detta figura due angiolotti piangenti che portano li misterii della Santa Passione, e contemplativi in essi misterii, colorite dette figure ad oglio le carnature con occhi di christalli […]»41. Ancora «[…] promette di fare due statue di mezzobusto di palmi tre l’una nette di pedagna, una cioè di San Magno martire, e l’altra di Santa Giustina vergine e martire, con le palme in mano, et altre insegne che se li dittaranno, e queste tutte di legname di teglia con pefettionarle di tutto punto, cioè con carnatura, occhi di cristallo, capelli e pannamenti […]» in uno di Francesco Picano risalente al 170542.

Altro aspetto alquanto singolare riguarda l’applicazione degli occhi in vetro su manufatti lignei più antichi, che originalmente ne prevedevano la realizzazione mediante intaglio e pittura sul legno stesso. Tale prassi si sviluppa soprattutto nel Settecento, in occasione di restauri che mirano all’aggiornamento stilistico dell’opera riadattandola al gusto barocco43; è il caso ad esempio della Natività di Andria (BT) o della Madonna con Bambino di Peschici (FG), entrambe opere risalenti alla seconda metà del XV secolo, in cui i recenti restauri ampiamente pubblicati hanno dimostrato che le sculture nel corso del Settecento erano state soggette a pesanti interventi di rifacimento44. In ambito siciliano la stessa situazione può essere riscontrata su alcune opere conservate presso il Museo Diocesano di Palermo, come nel caso della Madonna del Piliere45 (Fig. 23) della prima metà del XVI secolo, anch’essa recentemente restaurata, che nel corso del Settecento fu oggetto di un forte aggiornamento stilistico che portò non solo alla parziale ri-doratura del manufatto ma anche all’inserimento degli occhi in vetro sia nella Madonna che nel Bambino, in origine sprovvisti. Altre testimonianze si possono rilevare nel San Giovanni Battista46della seconda metà del XVI secolo, nel quale uno dei due occhi è di rifacimento e si presenta di colore e fattura differente dall’originale, o ancora nel San Vincenzo dé Paoli, una scultura della prima metà del XVIII secolo, che oggi mostra degli occhi vitrei di recente produzione, inseriti a sostituzione degli originali probabilmente andati distrutti.

Elemento fondamentale per la conduzione di questo studio è stato il continuo confronto con artisti contemporanei, raffrontando la tecnica antica con quella odierna appunto e rilevandone fattori di continuità ed evoluzione. Resta comunque da sottolineare come oggi, nella maggior parte dei casi, per la realizzazione di sculture e statuine si faccia ricorso ad occhi in resina sintetica o porcellana prodotti industrialmente, mentre gli artigiani che eseguono quelli in vetro in maniera autonoma siano rimasti ben pochi. In area napoletana la tecnica si è tramandata sino ad oggi e trova ampio sviluppo nei laboratori artigianali che realizzano figure da Presepe47 o in maestri artigiani di arte sacra. Da alcune interviste condotte ad artisti contemporanei napoletani e spagnoli48 è emerso che oggi la creazione degli occhi in vetro può avvenire anche ritagliando lampadine di pochi watt, le quali sono realizzate con un cristallo molto sottile, scegliendo la sfericità appropriata, oltre che lavorando il materiale come nell’antica tradizione del passato49.

* Gli schemi presenti nel testo sono stati realizzati da Giuseppe D’Anna

  1. A. Precopi Lombardo, La mostra. Il catalogo, in Legno, tela &… La scultura polimaterica trapanese tra Seicento e Novecento, catalogo della mostra (Trapani, Chiesa di Sant’Agostino, 22 dicembre 2010 – 31 agosto 2011) a cura di A. Precopi Lombardo-P. Messana, Erice (TP) 2011, p. 11. []
  2. Ibidem. []
  3. P. Leone de Castris, 1550 – 1650. Le immagini della devozione tridentina, in Sculture in legno in Calabria dal Medioevo al Settecento, catalogo della mostra (Altomonte, Museo Civico, 30 luglio 2008 – 31 gennaio 2009) a cura di P. Leone de Castris, Pozzuoli (NA) 2009, p. 41. []
  4. Ibidem; F. Abbate, Presentazione catalogo, in Sculture di età barocca tra terre d’Otranto, Napoli e Spagna, catalogo della mostra (Lecce, Chiesa di San Francesco della Scarpa, 16 dicembre 2007 – 28 maggio 2008) a cura di R. Casciaro-A. Cassiano, Lecce 2007, p. 13; P. Russo, Scultura in legno nella Sicilia centro-meridionale. Secoli XVI – XIX, Messina 2009, p. []
  5. I.E. Buttitta, Simulacri divini. Ruoli culturali e pratiche devozionali, in Manufacere et scolpire in lignamine. Scultura e intaglio in legno in Sicilia tra Rinascimento e Barocco, a cura di T. Pugliatti-S. Rizzo-P. Russo, Catania 2012, p. 696; G. Paleotti, Discorso intorno alle immagini sacre e profane, ed. a cura di G.F. Freguglia, Roma 2002; cfr. pure Fondazione Memofonte onlus. Studio per l’elaborazione informatica delle fonti storico-artistiche, p. 60, https://www.memofonte.it/home/files/pdf/scritti_paleotti.pdf. []
  6. I. E. Buttitta, Simulacri divini…, 2012, p. 696. []
  7. Cfr. L. Gaeta, “…colorite e miniate al naturale”: vesti e incarnati nel repertorio degli scultori napoletani tra Seicento e Settecento, in La statua e la sua pelle. Artifici tecnici nella scultura dipinta tra Rinascimento e Barocco, a cura di R. Casciaro, Galatina (LE) 2007, p. 200. Cfr. pure V. Pinto, Racconti di opere e racconti di uomini. La storiografia artistica a Napoli tra periegesi e biografia. 1685 – 1700, Napoli 1997, p. 86, nota 113. []
  8. Ibidem. []
  9. T. Fittipaldi, Scultura Napoletana del Settecento, Napoli 1980, pp. 27-28. []
  10. A. Casati, “composto di diverse materie con portentoso artificio”. Scultura polimaterica in area lombarda tra Sei e Settecento: alcune osservazioni, in Cartapesta e scultura polimaterica, a cura di R. Casciaro, Galatina (LE) 2012, p. 149. []
  11. I. Moreno Navarro-E. Fernandez De Paz, Arte y artesanías de la Semana Santa Andaluza, Sevilla 2006, p. 75. []
  12. M. D. Mazzoni, Considerazioni di tecnica costruttiva e decorativa di alcune sculture lignee napoletane tra Sei e Settecento. La tecnica degli occhi di vetro, in Bollettino d’arte. Scultura lignea per una storia dei sistemi costruttivi e decorativi dal Medioevo al XIX secolo, Atti del convegno (Serra San Quirico e Pergola, 13-15 dicembre 2007) a cura di G. B. Fidanza-L. Speranza-M. Valenzuela, Roma 2012, pp. 216-217. []
  13. Ibidem. []
  14. Ibidem. []
  15. M. D. Mazzoni, Considerazioni di tecnica…, 2012, p. 217. []
  16. J. C. Morales Vásconez, Técnicas y materiales empleados en la policromía de la escultura colonial quiteña y su aplicación con miras a la restauración, tesi di laurea, Universidad Tecnológica Equinoccial, Facultad de Arquitectura, Artes y Diseño, Escuela de restauración y museología, Quito 2006, p. 81. []
  17. J. C. Morales Vásconez, Técnicas y materiales empleados en la policromía de la escultura colonial quiteña y su aplicación con miras a la restauración, tesi di laurea, Universidad Tecnológica Equinoccial, Facultad de Arquitectura, Artes y Diseño, Escuela de restauración y museología, Quito 2006, p. 81. []
  18. B. De Marco Spata, Arte e artisti a Corleone dal XVI al XVIII secolo, Palermo 2003. []
  19. R. La Mattina, L’Ecce Homo in Sicilia, Storia arte devozione, Caltanissetta 2005, p. 137. []
  20. S. La Barbera, La scultura lignea nel Museo…, 1999, p. 93. []
  21. M. Valenzuela, L’intervento di restauro sui manichini lignei, in Il presepe di Imperia, Storia, ricerche e restauro, a cura di M. Anfossi-M. Mercalli, Milano 2009, p. 76. []
  22. Ibidem. []
  23. M. D. Mazzoni, Considerazioni di tecnica costruttiva e decorativa…, 2012, p. 217. []
  24. G. MENDOLA, Maestri del legno a Palermo fra tardo gotico e barocco, in Manufacere et scolpire…, 2012,  p. 175. []
  25. https://www.asprion.at/protesi_oculari/ []
  26. R. Simón-L.Rodrigo, Los procedimientos técnicos en la escultura en madera policromada granadina. Technical procedures in polychromatic wooden sculpture in Granada, in Cuadernos de arte de la Universidad de Granada, a cura di E. Á. Villanueva Muñoz- I. Henares Cuéllar, nº 40, Granada 2009, p. 461. []
  27. R. Méndez Montero, Liço Rodriguez. Escultor de imaginería religiosa, San José 1997, pp. 28-29. []
  28. La scultura è collocata su un telaio di legno che prende il nome di “candelero”. Le statue si presentano vestite e le uniche parti visibili del corpo sono quelle che sporgono dalle vesti, ovvero testa, mani e piedi. Tali parti visibili sono in legno e policrome. Le braccia sono di solito incernierate all’altezza di spalle, gomiti e polsi con i sistemi di ancoraggio a “rotula” che le rendono articolate. Cfr. I. Moreno Navarro-E. Fernandez De Paz, Arte…, 2006, p. 75. []
  29. Ibidem. []
  30. M. D. Mazzoni, Considerazioni di tecnica costruttiva e decorativa…, 2012, p. 218. []
  31. I. Moreno Navarro-E. Fernandez De Paz, Arte…, 2006, p. 75. []
  32. R. Simón-L. Rodrigo, Los procedimientos…, 2009, p. 460. []
  33. https://www.azulyplata.net/blog/?p=1333 []
  34. Cfr. M. D. Mazzoni, Considerazioni di tecnica costruttiva e decorativa…, 2012, p. 217. []
  35. Ivi, p. 218. []
  36. S. Farinella, Filippo Quattrocchi, Gangitanus sculptor. Il senso Barocco del movimento, catalogo della mostra (Ganci, Chiesa di S. Giuseppe, Palazzo Bongiorno, Chiesa della Badia, 24 aprile – 11 luglio 2004) a cura di S. Farinella, Palermo 2004, p. 65. []
  37. A. Cuccia, La chiesa del convento di S. Antonio da Padova di Palermo, Bagheria 2002, p. 35 []
  38. S. Farinella, Filippo Quattrocchi, Gangitanus sculptor…,2004, p. 48. []
  39. Ivi, p. 47. []
  40. Ibidem. []
  41. G. Giotto Borrelli, Sculture in legno di età barocca in Basilicata, Napoli 2005, p. 92. []
  42. G. Giotto Borrelli, Sculture in legno…, 2005, p. 113. []
  43. F. Vona, Natività, in Sculture lignee e dipinti su tavola in Puglia, a cura di A. Pellerano-F. Vona-F. Dentamaro-M. Marmontelli, Foggia 2008, p. 53. []
  44. Ibidem. []
  45. S. La Barbera, La scultura lignea nel Museo…, 1999, pp. 80-82. []
  46. S. La Barbera, La scultura lignea nel Museo…, 1999, p. 85. []
  47. M. D. Mazzoni, Considerazioni di tecnica costruttiva e decorativa…, 2012, p. 219. []
  48. Si ringraziano pertanto i gentilissimi artisti Fabio Paolella, Miguel Angel Tapia e Juan Manuel Miñarro Lopez, che hanno prestato la loro arte, disponibilità e sapienza collaborando e autorizzandomi all’utilizzo del materiale di fotografico di loro proprietà.  []
  49. Il complesso dei dati raccolti ha permesso di ottenere al termine dello studio un’attenta indagine della tecnica, verificandone la reale ampia diffusione attraverso il censimento e l’analisi diretta di più di 50 sculture lignee (non solo in Sicilia) dotate di tale accorgimento tecnico. Gli occhi censiti sono stati documentati ed inseriti all’interno di una tabella in cui è possibile metterne a confronto le caratteristiche morfologiche, esecutive e cromatiche, in rapporto alle opere di appartenenza, ottenendo di conseguenza informazioni circa l’utilizzo e la diffusione di alcune tipologie in relazione al periodo storico e al contesto geografico del manufatto. []