Mauro Sebastianelli – Maria Rosaria Paternò

maurosebastianelli@hotmail.com

Dallo studio tecnico al restauro: le chinoiserie del Museo Regionale di Palazzo Mirto di Palermo

DOI: 10.7431/RIV01102010

Ogni argomentazione sull’affermazione del gusto per la cineseria in Europa deve necessariamente passare attraverso le considerazioni del testo fondamentale di Hugh Honour1, ancora oggi insostituibile soprattutto perché rese conto di come gli europei interpretarono e metabolizzarono quel fenomeno connesso con l’arrivo nei porti del vecchio continente di prodotti di ogni sorta provenienti dall’Estremo Oriente, prevalentemente ceramiche, lacche e tessuti tecnicamente perfetti2.

La passione per le forme culturali esotiche è un fenomeno che inizia a partire dagli inizi del XVI secolo, quando iniziarono a giungere in Europa prodotti cinesi in grandi quantità, che ben presto andarono ad arricchire le collezioni di molti sovrani europei3.

Per tutto il XVI secolo e gran parte del XVII furono i Portoghesi e gli Spagnoli a tenere le chiavi del commercio con la Cina e gli oggetti cinesi giungevano negli altri paesi d’Europa soltanto sulle loro navi. Nonostante questa egemonia ebbero rapporti con la Cina anche inglesi, francesi e olandesi; questi ultimi in particolare fondarono nel 1602 a Canton la loro Compagnia delle Indie Orientali. La moda sempre crescente degli oggetti orientali è documentata anche dal costante aumento di prezzi che ne permetteva l’acquisto solo ai più ricchi, ma col diffondersi di questa moda anche fra gli strati sociali meno abbienti si cominciò ad avere un’insistente richiesta di oggetti più economici. Le arti cinesi erano diventate di gran moda e gli artigiani europei furono costretti ad imitare gli oggetti orientali, per soddisfare anche collezionisti meno ricchi4.

Alla metà del XVIII secolo tessuti, porcellane e lacche invadevano i mercati di Parigi, Londra e Amsterdam, gli artigiani europei avevano cominciato ad imitare le arti della Cina, del Giappone e dell’India e da queste arti si creavano nuovi stili decorativi5. In particolare l’Olanda deteneva il monopolio per l’importazione della lacca dell’Estremo Oriente, nonché una produzione locale specializzata difficilmente distinguibile dall’originale, con scene di cineserie, vasi con fiori, uccelli ed alberi su fondo nero6.

Le lacche, le ceramiche, i tessuti e le argenterie fabbricate fra il 1660 e il 1715 e decorati a cineseria possono venir considerati come manifestazioni della sensibilità barocca; ma chiamarli cineserie è azzardato, l’ornamentazione di questi oggetti è un miscuglio eterogeneo di motivi orientali ed europei che sarebbe più prudente definire esotici. Nel tardo Seicento pochissimi europei avrebbero saputo distinguere i prodotti della Cina da quelli del Giappone o da quelli dell’India; tale confusione derivava anche dalla conoscenza geografica dell’Estremo Oriente ancora vaga. L’Oriente allo spettatore del tardo Seicento appariva come infinitamente lontano e bizzarro e di questa arte apprezzava l’esotica ricchezza, lo attraeva il fulgore della lacca, i bei colori luminosi, le linee sinuose dei vasi e le calde sfumature dei ricami orientali. Queste qualità venivano calcate nella decorazione a cineseria7.

È sicuramente lo stile Rococò, grazioso, elegante, spensierato, che meglio si prestò alle influenze esotiche. La diffusione e il successo degli ornamenti “alla cinese” nel periodo Rococò si deve soprattutto alla loro vaghezza, cioè alla possibilità di poter essere sfruttati dai decoratori come motivi estraniabili da qualunque contesto proprio e riutilizzabili in oggetti con tipologie e funzioni locali; venivano riproposti di volta in volta alcuni disegni (uccelli piumati, dragoni, pagode, paesaggi) in oggetti che nulla avevano a che fare con la tradizione a cui alludevano8. I primi disegni di cineseria rococò si devono a Antonio Watteau (1684-1781) e François Boucher (1703-1770), i quali fornirono dei veri e propri modelli non solo in Francia, ma in tutta Europa. Sacerdoti e idoli, riverenti cortigiani, devoti adoratori, parasoli a baldacchino, colonne con teste di mandarini e templi, divennero presto elementi essenziali della cineseria9.

Le stanze cinesi godettero di largo favore, ma gli esempi più articolati di decorazioni d’interno a cineseria erano offerti da deliziosi edifici che animavano parchi con padiglioni, pagode e chioschi. I mobili che adornavano questi padiglioni e gli altri ambienti cinesi pare fossero abitualmente impiallacciati con pannelli di lacca sia europea che orientale, ma in tutti gli esemplari la decorazione orientale si limitava alla superficie, mentre non si impose sulla forma e costruzione dei mobili.

Il primo esempio di costruzione effimera alla cinese fu il Trianon de porcellaine, nel parco di Versailles, edificato tra il 1670 e il 1671, omaggio di Luigi XIV alla sua favorita, Madame de Montespan, disegnato dall’architetto di corte Louis Le Vau. È da questo momento in poi che la Francia diventerà una delle nazioni in cui maggiormente si diffonderà la passione per le chinoiserie e si svilupperà un vero e proprio stile alla cinese a cui tutti guarderanno.

Anche in Inghilterra questa passione sarà dilagante, avvalorata dal fatto che è proprio la Compagnia delle Indie Inglese, oltre a quella Olandese, ad importare oggetti dal lontano Oriente, motivo per cui vi saranno un gran numero di modelli originali a cui gli artigiani inglesi potranno ispirarsi. Alcuni esempi di arredamenti inglesi in stile orientale si conoscono grazie al catalogo The Gentleman and Cabinet-maker’s Director, edito da Thomas Chippendale10, in cui è possibile individuare elementi d’arredo nello stile popolarmente conosciuto come Chippendale cinese in cui gli oggetti rimanevano piuttosto rococò, sia nel disegno che nella costruzione, ma bastava riempirli di decorazioni cinesi, padiglioni con tetti a pagoda, campanelli, creste erette e frastagliate, bastoncini e bambù intrecciati, simili agli steccati e recinzioni che figuravano sulle carte da parati, per ottenere un arredo in stile orientale.

L’entusiasmo per quelle strane forme cinesi divenne generale dopo il 1750, infatti durante il successivo ventennio molte dimore avevano una o più stanze in quello stile: ogni signora alla moda volle avere il suo salottino cinese in cui bere il thè in tazze di porcellana, anch’essa cinese.

Nel Settecento la cineseria era in voga anche in Italia, fin dal tardo Seicento si producevano a Venezia mobili con decorazioni alla cinese, ville e palazzi vantavano stanze cinesi con affreschi, stucchi e lacche. Non è una combinazione che tutto ciò avvenisse a Venezia, insieme anche a composizioni teatrali e operistiche in stile cinese, proprio perché la città era sempre stata aperta a influenze orientali e accolse tale moda con maggiore entusiasmo di qualunque altro stato della penisola. Motivi a cineserie molto eleganti erano presenti nelle più importanti dimore nobiliari della città, un esempio può essere la “Camera delle lacche verdi” di Palazzo Calbo Crotta, ora a Cà Rezzonico11.

Oltre Venezia si hanno altre pregevoli testimonianze di decorazione a chinoiserie all’interno delle dimore nobiliari italiane: da ricordare sono sicuramente gli esempi di Torino12 in cui, nel 1714, Vittorio Amedeo II duca di Savoia chiamò a corte il messinese Filippo Juvarra, che divenne architetto ufficiale della corte sabauda. A lui si devono il “Gabinetto Cinese” (Fig. 1), ideato nel 1732 e concluso nel 1736, che rappresenta uno dei più precoci interni di gusto a cineseria, in cui alle lacche originali cinesi si affiancano intagli dorati, specchi, pitture e stucchi, in cui l’amore per l’esotico e quello per un intaglio lineare e naturalistico, fine e prezioso, sono fusi in mirabile armonia13; si ricordano inoltre i suoi interventi per Stupinigi e per la Villa della Regina14. Altre pregevoli testimonianze di manufatti “alla cinese” sono custodite in altre residenze sabaude, come Palazzo Granari, Villa Vacchetta, Moncalieri, a testimonianza di quanto diffusa fosse la passione per le chinoiserie anche in Piemonte15.

Ma per trovare in Italia il più importante esempio di decorazione a cineseria bisogna spingersi fino al Regno delle Due Sicilie, in particolare a Napoli e Palermo16.

Napoli era sede di un attivo porto, nonché colonia di mercanti stranieri; lì gli inizi della cineseria si fanno risalire al Seicento, in particolare alla figura del mercante fiammingo Gaspare Roomer che ebbe un ruolo importante nell’accoglimento della cineseria nel linguaggio decorativo napoletano; molto interesse infatti dovettero destare i mobili lavorati “alla cinese” menzionati nell’inventario dei suoi beni redatto nel 1674. Questi mobili potrebbero essere stati acquistati in Olanda, paese con cui Roomer aveva stretti legami commerciali17.

Ispirato, nelle complesse e bizzarre figurazioni, alle idee divulgate dagli artisti francesi18 appare lo straordinario risultato della realizzazione, tipicamente settecentesca, del “Salottino di Maria Amalia” per la Reggia di Portici (Fig. 2). L’opera rappresenta il maggior traguardo a livello tecnico e formale della prediletta tra le manifatture istituite da Carlo di Borbone, al punto che verrà ripetuto nel salotto del Castello di Aranjuez19.

Il repertorio decorativo di Portici è vastissimo: i trofei musicali e le scene figurate trovano ispirazione nei modelli di chiara e diretta provenienza cinese di Watteau, temperati dal gusto più occidentale delle cineserie di Boucher. Gli elementi plastici a nastro e gli abiti replicano il repertorio delle sete moireés, dei damaschi, dei lampassi occidentali ed orientali. Decorazioni kakiemon, fiori coreani e fiori di loto si articolano nelle scene figurate esaltati dal fondo bianco in porcellana. I festoni con trofei musicali, che accomunano strumenti musicali napoletani a quelli cinesi, recano 23 cartigli, alcuni con scritte in cinese eseguite da mano esperta, altri imitanti la scrittura o prive di segni. La presenza di queste scritte in lingua hanno svelato interessanti relazioni tra Carlo di Borbone e il Collegio napoletano dei Cinesi, fondato da Matteo Ripa nel 1724, prima generazione di religiosi cinesi educati presso la Congregazione della Sacra Famiglia20.

Quando Ferdinando VI morì, Carlo di Borbone dovette trasferirsi a Madrid per  assumere il titolo di Carlo III ed al suo seguito si trasferirono anche le maestranze della Real Fabbrica di Capodimonte che, dopo il felice risultato del Salottino di Portici, furono chiamate a replicare nella dimora di Buen Retiro a Madrid. Dal punto di vista tecnico e stilistico, il salotto Aranjuez è il prodotto della naturale prosecuzione della manifattura napoletana, o meglio un’estensione di questa.

Il rivestimento in porcellana è realizzato con le stesse caratteristiche tecniche di Portici e i decori sono caratterizzati da scene figurate disposte su zolle erbose sostenute da draghi dal corpo di uccelli dalle lunghissime code. Gruppi di figure cinesi si compongono ad illustrare scene familiari o cortesi; bambini finemente abbigliati si arrampicano sugli alberi, dame scambiano sguardi con cortigiani barbuti dal copricapo a pagoda e piumati. La fantasia compositiva si intreccia con quella decorativa, un ricco campionario di tessuti veste le figure, in tutto replicante i modelli della precedente decorazione napoletana21.

Gli anni di regno di Carlo di Borbone segnano il trionfo della cineseria nelle arti decorative, non solo nel campo delle porcellane, ma il richiamo all’esotico investe gli altri settori dell’artigianato artistico, l’oreficeria, gli arredi, i pavimenti maiolicati, le pitture ornamentali delle pareti, i parati dipinti in tessuto o carta, la laccatura e coloritura delle porte, gli stucchi ai soffitti.

In Sicilia la chinoiserie si era affermata sulla scorta dell’influenza della Francia e dei Borbone. I vari salottini orientaleggianti presenti in gran parte delle grandi residenze aristocratiche isolane non potevano non essersi ispirati, tra le altre cose, al meraviglioso gabinetto in porcellana della Reggia di Portici.

La scelta di costruire a Palermo nel 1790 un vero e proprio edificio “alla cinese” non può che testimoniare una radicata cultura cosmopolita, patrimonio degli intellettuali siciliani, consolidata anche dal rapporto con Napoli al tempo dei Borbone. Non stupisce la scelta fatta, per la villa ai Colli, di Don Benedetto Lombardi che affidò il progetto e la direzione lavori al famoso architetto Giuseppe Venanzio Marvuglia. La distribuzione interna alla Casina e l’organizzazione del Parco circostante vennero invece affidate a disegni più tardi, degli anni 1800-1802, opera di Alessandro Emmanuele Marvuglia, figlio di Giuseppe Venanzio.

Nonostante la Casina avesse ricevuto giudizi poco lusinghieri22, resasi disponibile alla morte di Benedetto Lombardi, venne individuata come residenza per Ferdinando IV di Borbone e Maria Carolina insieme alla loro corte, in fuga da Napoli23, insieme a una vasta area verde limitrofa che i nobili proprietari, per ingraziarsi il sovrano, mettono a disposizione nel gennaio del 1799; si tratta delle proprietà dei Malvagna, Niscemi, Pietratagliata, Salerno, Ajroldi e Vannucci24, che, insieme alla Casina e alle sue pertinenze, costituiranno il Real Parco della Favorita.

Nella mutata situazione internazionale sembrò che in Sicilia stesse per cominciare una nuova vita e proprio per questo gli esponenti del baronaggio, sopraccitati, si adoperarono affinché Palermo non fosse da meno della capitale partenopea, offrendo ai sovrani la possibilità di dedicarsi a svaghi e battute di caccia come a Portici e soprattutto San Leucio, sito assorbito da Carlo III nel grande parco della Reggia di Caserta25.

I festeggiamenti per l’insediamento del sovrano e della sua corte, avvenuti il 4 ottobre 1799, non comportarono, per mancanza di tempo, un nuovo progetto. Tra il 1799 e il 1800 ci si occupò della circoscrizione del Parco, la sistemazione della flora “alla cinese”, la coffee house o “tempietto cinese” con copertura a pagoda. Solo dopo il ritorno a Napoli dei sovrani iniziarono i grandi lavori di «rimodernizzazione o sia riattamento», come indicato dai documenti del 1805, che hanno riguardato la Casina e i vicini locali di servizio.

Il nuovo progetto, tradizionalmente attribuito a Giuseppe Venanzio Marvuglia, che usufruisce certamente dell’apporto esecutivo, quale direttore lavori, e forse anche del figlio Alessandro Emmanuele, si limitò a un “restauro” della precedente Casina, rivolto a mutare alcuni particolari dell’esterno. Mentre l’apparato decorativo interno, dopo l’acquisizione reale, venne rinnovato interamente a partire dal 1805 con l’apporto di pittori “adornisti” (Rosario Silvestri e Benedetto Cotardi) e “figuristi” (Vincenzo Riolo e Giuseppe Velasco) impegnati nella decorazione dei più importanti ambienti interni. Con il ritorno a Napoli nel 1815 del sovrano e della sua corte inizia per la Casina un percorso di inesorabile declino26.

Il successo della cineseria a Palermo può dunque misurarsi attraverso la presenza, già nel 1790, di una residenza suburbana “alla cinese”, tra le ultime manifestazioni, in ordine di tempo, di un fenomeno che aveva interessato la campagna palermitana. Il panorama che si compone mostra una Palermo aperta ai contatti esterni.

Hugh Honour nel suo testo non esita a definire la Casina Cinese di Palermo «l’esemplare più raffinato di cineseria italiana del tardo Settecento»27.

Secondo quanto affermato da Pierfrancesco Palazzotto nel suo testo “Riflessi del gusto per la cineseria e gli esotismi a Palermo tra Rococò e Neoclassicismo: collezionismo, apparati decorativi e architetture”28, esempi precedenti di decorazione alla cinese sono individuabili all’interno di palazzo Castelnuovo, nell’ambito di alcuni lavori eseguiti negli anni 1752-53, a palazzo Valguarnera Gangi, all’interno del quale tra il 1757 e il 1758 vengono inseriti nelle gallerie gruppi simmetrici di mensole atte ad accogliere porcellane plausibilmente cinesi come i due camerini che chiudono il Salone degli Specchi di gusto orientale; a palazzo Branciforte di Butera, all’interno del quale sono stati identificati alcuni dettagli ispirati al gusto della cineseria, in particolare in tre saloni del piano nobile, il “Salotto Gotico”, il “Salotto Giallo” ed il “Salotto Rosso”; alle già citate decorazioni a cineseria dei saloni del palazzo individuati da Pierfrancesco Palazzotto, si aggiunge una scenografia mobile con pannelli, probabilmente in seta dipinta, con motivi a cineseria, oggi perduti, utilizzati per l’allestimento del teatro temporaneo all’interno di uno dei saloni del piano nobile del palazzo29 (Fig. 3).

Proseguendo oltre le mura cinquecentesche cittadine, è possibile riconoscere altri episodi rilevanti nelle ville della piana dei colli, tra cui si ricorda Villa De Cordova, in cui si trova il “Salone Cinese” databile probabilmente a dei rifacimenti attuati dopo il 1771, e Villa Airoldi, in cui la decorazione dei vari salotti del piano nobile presenta pitture e stucchi legate al tema del divertissement, legato allo spirito essenzialmente disimpegnato della villa dove trascorrere brevi periodi di ristoro in rapporto col paesaggio naturale circostante. Cantonali con mensoline, su cui in origine erano collocate porcellane cinesi, decorano gli angoli dei vari salotti (Fig. 4), ed in particolare la “Galleria”, con cantonali in stucco colorato che simulano paesaggi, come pitture giapponesi a rilievo, con costoni rocciosi che fungono da piano d’appoggio (Fig. 5), doveva essere una vera e propria “Sala Cinese”, probabilmente con pareti rivestite da stoffe o papier peint cinesi con motivi ornamentali e scene di genere30.

La passione per le chinoiserie non si limita però solo a Palermo, in ambito siciliano infatti significativo risulta palazzo Biscari a Catania, dimora di proprietà di Ignazio Paternò Castello, principe di Biscari, che nel 1764 incarica l’architetto Francesco Battaglia di ampliare l’edificio con la costruzione della “Galleria degli Uccelli” e della “Sala di Don Chisciotte”, decorate con scenette orientali sulle volte e sulle pareti e ricche di porcellane importate da Cina, India e Parigi.

Con l’Ottocento in Italia, come nel resto d’Europa, si assiste ad una disomogeneità stilistica, un succedersi, accavallarsi, mescolarsi di generi e di stili, un panorama complesso e articolato, intessuto di influssi dalla più varia provenienza. Se il Neoclassicismo impose un linguaggio sostanzialmente omogeneo a tutta l’Europa, dal terzo decennio dell’Ottocento il panorama delle arti applicate appare mosso dal fermento dello storicismo che si esprime in un’estrema varietà di stimoli che sfoceranno nello stile conosciuto come Eclettismo che caratterizzerà l’arte fino alla fine del secolo. Si verifica una sorta di sincretismo culturale in cui elementi stilistici sono derivati da differenti civiltà storiche: romanico, gotico, rinascimento, manierismo e barocco, ma anche la componente turca, indiana, cinese, bizantina e moresca. Caratteri specifici dell’Eclettismo sono la tendenza all’evasione, il culto per l’oggetto, il gusto scenografico e illusionistico31.

Dopo la metà del secolo, infatti, gli ambienti appaiono nel loro insieme sovraccarichi e grevi, tesi a trasmettere nello spettatore il senso del colmo e del confortevole, i mobili impiegati sono scelti in base a criteri di comodità e di ostentazione, divani e poltrone imbottiti e trapuntati, intarsio, decorazione scolpita e dipinta, rivestimenti in cuoio e lacca.

A testimonianza dell’ininterrotto successo di tutto ciò che è esotico anche in Sicilia si porta ad esempio la decorazione alla cinese della “Sala da pranzo” del Palazzo Reale di Palermo, per i cui dipinti Giovanni Patricolo si ispirò alle scene realizzate da Giuseppe Velasco all’interno della Palazzina Cinese32. Sempre al medesimo periodo Pierfrancesco Palazzotto fa risalire la produzione legata ad un famoso mobiliere palermitano, Antonio Catalano, che divenne uno dei principali e più noti creatori di mobilia di gusto esotico in città. Si registra la sua presenza nel 1856 alla mostra di Belle Arti organizzata dalla Commissione di Antichità e Belle Arti di Palermo nel Palazzo Senatorio con «fiori dipinti in fondo nero con un nuovo metodo per ornamenti di tavolo»33; un anno dopo venne premiato all’ultima delle manifestazioni borboniche promosse dall’Istituto d’Incoraggiamento, «per la costruzione di tavolini e sedie lavorate e verniciate a stile cinese, industria nuova per la Sicilia»34. Proprio per tale ragione ottenne anche un sussidio dalla Provincia per perfezionarsi a Parigi, capitale di quella tecnica. Nel 1867 presentò all’Universale di Parigi «alcuni mobili Chinesi molto bizzarri e vivaci, imitanti gli antichi Vieux Laques» ed ottenne la definitiva consacrazione all’Esposizione Internazionale di Vienna nel 1873 con la medaglia di merito per «una elegante giardiniera con acquario, intarsiata con molta venustà a madreperla e metalli, ed alcuni tavolini ornati di consimili tarsie combinate con grande abilità ed ottimo effetto»35.

Lo studio condotto in occasione del restauro di due tavolini conservati al Museo Regionale di Palazzo Mirto ha permesso di evidenziare le peculiarità tecnico-esecutive nella produzione di arredi lignei a chinoiseries di manifattura siciliana, con particolare attenzione rivolta all’uso delle lacche ad imitazione di quella cinese e giapponese tanto ricercata e apprezzata dai sovrani di tutta Europa, dalle corti alla ricca aristocrazia e, in epoca successiva, anche dalla borghesia. Per tutto il Settecento e l’Ottocento le dimore nobiliari e le case dei ricchi borghesi sono state impreziosite con oggetti che nella loro manifattura potevano o essere direttamente importati dalla Cina, grazie ai contatti aperti tramite la Compagnia delle Indie, oppure realizzati da artigiani locali che cercavano di avvicinarsi alla ricetta originale per produrre lacche del tutto simili a quelle orientali. Questo risulta essere anche il caso di Palazzo Mirto, sontuosa residenza per quattro secoli dei Filangeri, e poi dei Lanza Filangeri Principi di Mirto, i quali vollero inserire al suo interno un piccolo e bizzarro boudoir à la mode chinoise (Fig. 6), in cui le rappresentazioni parietali rievocassero un mondo esotico lontano e fantastico: decorazioni, costumi orientaleggianti, figure colte in atteggiamenti di vita quotidiana, il tutto su fondi, oggi ingialliti, che soddisfacevano la voglia di mondi arcani della committenza36.

Il percorso museale però custodisce anche tanti altri oggetti, altrettanto preziosi ed originali come quelli di manifattura orientale ed in altri casi delle rivisitazioni in stile orientale, chiaro esempio di come gli artigiani locali avessero assorbito e reinterpretato tale moda.

I due manufatti, oggetto di studio e restauro, conservati all’interno del “Salottino Salvator Rosa” (Fig. 7), posto al piano nobile di Palazzo Mirto, sono un tavolo con piano ribaltabile a vela, risalente alla metà del XIX secolo, e un tavolo da lavoro, databile alla seconda metà del XIX secolo; essi dimostrano che anche questa tipologia d’arredo non svolge semplicemente funzioni d’uso ma è da considerarsi un vero e proprio manufatto d’arte che non si sottrae alla moda per la decorazione esotica con laccature e scene cinesi37.

Rappresentano una tipologia tavoli di piccole dimensioni, che iniziano ad affermarsi nel corso del Settecento, ciascuno destinato ad una specifica funzione. L’utilizzo e il proliferare di tutta questa gamma di piccoli tavolini è da collegare anche alla trasformazione che a partire dal Settecento interessa gli ambienti interni; infatti durante i primi decenni del secolo si assiste alla tendenza generale a ridimensionare le abitazioni, come avvenne per i casini veneziani, spesso ricavati all’interno di palazzi preesistenti, più accoglienti e facili da riscaldare, caratterizzati da mobili e arredi di dimensioni ridotte; ogni angolo della stanza è finemente decorato con lacca o stucco colorato o dipinto38.

Per la produzione di questi piccoli tavoli si usavano materiali pregiati e tecniche elaborate quali placcatura ed impiallacciatura con pannelli di legni pregiati39, intarsi con tessere di legni diversi ma anche con pietre dure, scagliola, commesso, mosaico e stucchi colorati disposti secondo un disegno prestabilito40, intagli a basso o alto rilievo, decorazioni a pastiglia, laccatura ed infine incrostazione di vari materiali, come pietre preziose, smalti, vetri, madreperla, avorio, corno, metalli, corallo e tartaruga. Dall’enorme varietà di materiali utilizzati si comprende come molti artigiani dovessero contribuire a realizzare un unico pezzo: il mobiliere, l’intagliatore, il doratore, il maestro di intarsi, anche il tappezziere nei mobili da seduta, e i ruoli erano fissati in modo rigoroso dalle corporazioni dei produttori di arredi; ogni maestro doveva dedicarsi solo alla sua specialità41.

Appare quindi importante studiare il mobile sia sotto il profilo storico-artistico che tecnico, in quanto carico di valori sociali della più diversa natura, che vanno dalle correnti di pensiero, alle condizioni di vita, ai gusti, agli usi e costumi42.

Il tavolo con piano ribaltabile a vela in legno laccato nero (Fig. 8), presenta decorazioni a motivo geometrico e floreale in oro meccato sul piedistallo, mentre sul recto del piano è raffigurata scena esotica, realizzata ad olio, impreziosita da incrostazioni in madreperla (Fig. 9). Sull’intero manufatto, grazie anche all’osservazione ai raggi UV, si è notato poi un compatto strato di vernice originale, costituita probabilmente da resina naturale, in particolare da gommalacca.

Esso si presentava prima del restauro in buono stato di conservazione, a parte qualche piccolo foro di sfarfallamento ed uno strato di deposito superficiale coerente ed incoerente, prevalentemente costituito da polvere. La superficie pittorica invece presentava un’evidente alterazione bruna dello strato di vernice, un’accentuata crettatura con andamento reticolare, soprattutto sul recto del piano ribaltabile a vela, piccole abrasioni e lacune dello strato di resina naturale di finitura delle tessere in madreperla (Fig. 10).

Il secondo manufatto, studiato e restaurato, è un tavolo da lavoro, con vano contenitore (Fig. 11), in legno, impiallacciato, laccato, dipinto e dorato. Su tutta la superficie sono presenti decorazioni a motivo geometrico e floreale in oro meccato, mentre sulla parte esterna del coperchio del vano contenitore è rappresentata una scena bucolica con personaggi in preghiera di fronte ad una cappella con crocifisso, il tutto incorniciato da decorazioni a motivo floreale (Fig. 12); sul coperchio si è potuta notare una particolare tecnica decorativa consistente nella stesura di velature di polvere metallica disciolta in legante oleoso sulla pittura ad olio precedentemente stesa, che le ha conferito un particolare effetto opalescente (Fig. 13). Tutta la superficie del manufatto poi presenta uno strato compatto ed omogeneo di resina naturale, probabilmente gommalacca.

Il manufatto presentava a livello conservativo un degrado legato ad un attacco xilofago che aveva provocato la caduta di parti di impiallacciatura in corrispondenza della base e del piedistallo, ma soprattutto accentuate abrasioni della pellicola pittorica sul coperchio del vano contenitore dovute probabilmente ad una funzione d’uso del manufatto (Fig. 14).

In entrambi i casi l’intervento di restauro è stato limitato alle sole operazioni reputate necessarie per una corretta conservazione, essendo questo un evento sempre traumatico per l’opera. I due manufatti sono stati spolverati per eliminare il deposito incoerente, che si era accumulato sulla superficie nel corso del tempo; si sono poi eseguiti una disinfestazione preventiva ed un intervento protettivo con resina acrilica sugli elementi in metallo presenti, sistema di bloccaggio nel caso del tavolo a vela, e serratura per il tavolo da lavoro. Le superfici sono poi  state sottoposte a pulitura con Emulsione Grassa neutra a pH 7 applicata a tampone per l’eliminazione dello strato di deposito coerente superficiale: sul tavolo da lavoro questo tipo di pulitura è risultata sufficiente in quanto non presentava un’evidente alterazione dello strato di vernice di finitura, probabilmente gommalacca, mentre il tavolo a vela, ed in particolare il recto del piano ribaltabile, è stato sottoposto ad una complessa fase di pulitura tramite l’utilizzo di Alcool Isopropilico puro a tampone, e Resin Soap DCA-TEA, rifinito poi con Alcool Isopropilico puro, il primo per assottigliare gli strati filmogeni alterati, il secondo per rimuoverli totalmente (Fig. 15). Terminata la pulitura, in entrambi i casi si è proceduto alla stuccatura e reintegrazione con colori a vernice delle lacune di piccola estensione presenti sui manufatti, ed all’equilibratura cromatica delle abrasioni. Gli interventi si sono conclusi con la verniciatura finale per nebulizzazione di entrambi i manufatti al fine di uniformare le superfici conferendo loro la brillantezza originale.

Oltre a testimoniare la diffusione dei decori a chinoiseries in tutta Europa, lo studio dei due tavolini di Palazzo Mirto ha permesso di approfondire la tecnica originale dei manufatti laccati orientali, evidenziando così le eventuali interpretazioni tecniche adottate dagli artigiani di tutta Europa chiamati a rispondere ad una sempre più crescente domanda di oggetti decorati a chinoiseries.

Il termine “lacca”, derivato dall’indiano lak, viene usato per indicare una vernice resinosa di origine vegetale ricavata dall’incisione della corteccia del cosiddetto “albero della vernice” o Tsi Chou e, per estensione, per definire quei preziosi manufatti esotici cui questa essenza conferisce lucentezza, levigatezza e solidità di superficie43. La lacca è un’invenzione cinese praticata fin da epoche remote, infatti i primi rinvenimenti si datano alla dinastia Shang (1500-1000 a.C.)44.

Questa resina orientale45 si estrae nella stagione estiva dalla pianta della Rhus vernicifera46, chiamata Ch’i shu in Cina, ove ha vegetazione spontanea nella regione meridionale ad un’altitudine di 1000 metri circa e Urushi-no-ki in Giappone, dove viene introdotta e coltivata dal VII secolo d.C.47.

Il prodotto greggio, ki-urushi, di colore grigio lattiginoso e di consistenza vischiosa viene estratto praticando delle incisioni a “V” da cui lentamente fuoriesce la lacca48, che viene raccolta, per lo più, in conchiglie di molluschi fluviali e lasciata a decantare in ambiente buio ed umido, necessario in quanto il succo, se esposto al sole, tende ad imbrunire e ad essiccare49. Col passare del tempo la resina tende a separarsi in quattro strati. A quelli inferiori, torbidi e impuri, è riservato un utilizzo corrente, come l’impermeabilizzazione delle imbarcazioni, mentre solo la parte superiore, riposta in recipienti di legno di dimensioni modeste, è destinata a un accurato processo di raffinazione. Importante è la delicata operazione di amalgama delle varie componenti che richiedeva ore e ore di paziente mescolamento, protraendosi per giorni interi, a mezzo di utensili di legno nel caso in cui si mirasse ad ottenere una lacca trasparente, oppure di strumenti in ferro per lacche nere dai riflessi brunastri. Durante questa fase di omogeneizzazione, o anche prima, veniva definito il colore di fondo dell’opera da realizzare, aggiungendo al composto pigmenti naturali: cinabro e fiore di carcamo per il rosso, orpimento per il giallo e indaco per il verde e così via, mentre con polvere dorata si ottenevano le lacche d’oro. La filtrazione a pressione attraverso una pezza di cotone, o canapa finissima, consentiva di ottenere un fluido detto kisho-mi, privo di impurità e pastoso, che in base al tipo di lavorazione poteva anche essere diluito con olio di legno della Cina o olio di Tung, noto in Europa con l’appellativo portoghese di azeite de pau50.

Il supporto ligneo da laccare, la cui preferenza andava verso essenze ben stagionate dalla vena compatta, a grana fine, quali il cedro, la magnolia ed il palissandro, veniva preventivamente trattato con una sorta di mastice, un miscuglio di lacca, creta e polvere di laterizio, su cui venivano stesi fogli di carta impalpabile o garze di seta per eliminare qualsiasi forma di asperità, rendendo la superficie uniforme, pronta a ricevere la lacca, stesa a pennello in strati successivi di fine spessore. Fra un’applicazione e l’altra si doveva avere la completa essiccazione dello strato. La messa in opera di ciascuno strato si concludeva con una levigatura con pomice e cenere vegetale, avendo l’accortezza di riservare per l’ultimo «una pasta composta di olio e polvere ricavata dal corno di cervo calcinato»51. Condotte con precisione e diligenza, tutte le operazioni dovevano essere effettuate in ambienti tiepidi, tra i 20° e i 30° C, con un’umidità dell’80% e privi di polvere52.

Una volta preparato il fondo con la stesura di almeno 6-7 strati di lacca, aveva inizio la fase più complessa, quella della decorazione. A seconda della metodologia si distinguono lacche dipinte o policrome53, lacche d’oro54, lacche incise55, lacche scolpite o di Pechino56 e lacche di Coromandel57. La caratteristica della lacca cinese, che la differenzia da tutte le altre, è che una volta essiccata diventa assolutamente inattaccabile dall’acqua58, da solventi organici, da acidi e basi; la pellicola, una volta stesa sulle superfici, presenta un’ottima elasticità, resistenza agli urti e alle intemperie e non si consuma allo sfregamento59.

L’incontenibile passione per i manufatti laccati dilagò in tutta Europa con il gusto per l’esotico e con la moda delle chinoiseries; la vicenda può essere scandita in tre fasi: importazione, imitazione e creazione.

La prima fase, quella dell’importazione di oggetti in lacca, ha origine nel Seicento ed è legata al potenziamento dei traffici oceanici sulla via delle Indie e alla conseguente nascita della Compagnia delle Indie Orientali inglese (1599) e olandese (1602). Una delle più antiche testimonianze del fascino esercitato in Europa dai prodotti dell’Estremo Oriente è offerta dal fiorentino Francesco Carletti, che in viaggio nelle Indie descrive con dovizia di particolari i fastosi arredi del Palazzo del governatore di Goa e delle ricche dimore dei portoghesi lì residenti, manifestando tutto il suo stupore di fronte allo splendido mobilio: «il tutto indorato e rabescato bizzarramente sopra una vernice nera composta di una materia che si cava dalla scorza di un albero la quale s’appicca come lacca e diviene soda talmente che regge l’acqua ed ha in sé lucentezza così mirabile che uno vi si rispecchia dentro benissimo»60.

È questa l’epoca dei cabinets des chinoiseries, WunderKammer esotiche allestite inseguendo la bizzarra ispirazione della moda orientale e stipate di tesori, non solo lacche ma anche giade, bronzi, porcellane, tappeti in seta61. L’incremento della domanda indotto dallo strabiliante successo riscosso in occidente dalle lacche, il conseguente cedimento qualitativo della produzione cinese entrata in crisi ed i prezzi divenuti insostenibili orientarono gli esportatori verso opere che simulavano il laccato con la lucentezza degli smalti o verso un mercato antiquariale rivelatosi ben presto troppo costoso e insufficiente a soddisfare la richiesta. Queste le ragioni che indussero gli europei a cimentarsi nella messa a punto di metodi atti a saggiare uso e consistenza delle vernici orientali. La fase detta “dell’imitazione” si configura come la cronaca dei ripetuti tentativi di carpire il segreto delle lacche orientali. Fu una battaglia combattuta essenzialmente sul terreno della trattatistica, mentre la sperimentazione si ridusse ad escogitare ingegnose varianti per quelle poche formule ben collaudate che avevano dato esiti soddisfacenti62. Nell’arco cronologico che va dall’uscita a Colonia, nel 1693, dell’Epitome Cosmografica di Vincenzo Coronelli63, al 1772, anno di pubblicazione de L’Art du peintre, doreur et vernisseur di Jean Felix Watin64, che grossomodo coincide col periodo di massimo incremento della produzione façon de la Chine, non si rivelano difformità riguardo alle materie prime impiegate. Le differenze riscontrabili a livello di spessore, corposità, brillantezza delle lacche occidentali sono da attribuirsi ai metodi di lavorazione adottati dalle singole botteghe. Furono i missionari di ritorno da lunghi viaggi in Estremo Oriente a svelare il mistero dell’inimitabile lacca cinese. Che si trattasse di una vernice resinosa essudante da specie arboree di vegetazione spontanea in Oriente era noto dal 1655, quando venne pubblicato ad Amsterdam il Novus Atlas Sinensis del gesuita Martino Martini da Trento65, che profuse il sapere accumulato in otto anni di apostolato in Cina. Nel 1667 un altro gesuita, Athanasius Kircher da Fulda, nel suo China monumentalis illustrata66 riportò la formula della lacca orientale messa a punto dall’agostiniano Eustachio Jannard, precisando che «sebbene non fosse cinese, era però stimata tale e molto piaceva»67.

La mediocrità degli esiti però fece balenare l’idea di introdurre in Europa la coltivazione della Rhus vernicifera, o per lo meno di far giungere dall’Oriente le materie prime. In Italia fu il Granduca di Toscana Cosimo III a far pervenire al gesuita Filippo Bonanni il succo resinoso e l’olio siccativo originale, unitamente alle indicazioni per evitarne le esalazioni tossiche68. Il fallimento di quest’altro tentativo acuì la foga nella ricerca di surrogati. Padre Bonanni espose i risultati delle sue osservazioni nel Trattato sopra la vernice detta comunemente cinese in risposta data al signor Abbate Gualtieri 69 che costituisce uno dei capisaldi della trattatistica sull’argomento.

In Europa invece alcuni tentativi vennero fatti da padre Incarville, missionario in Cina, che nel 1750 aveva portato con se una pianta di Rhus vernix e la piantò a Londra ma non diede l’esito sperato in quanto essa, pur appartenendo al genere della Rhus, non era la specie da cui si poteva estrarre la vernice70.

Con patente reale, in data 27 novembre 1730 Luigi XV accordava ai fratelli Martin il monopolio ventennale della fabbrica e vendita delle loro celebri lacche en relief du Japon ou de la Chine71; dal 1753 protetta da brevetto, la vernis Martin divenne la più rinomata fra le lacche d’imitazione europee, anche se rimase insuperata la perizia riproduttiva dei maestri laccatori olandesi, i cosiddetti Japanisch Verlaker 72.

Per l’Italia era inevitabile che le prime contraffazioni delle lacche orientali avessero luogo a Venezia; nel Sei e Settecento i “depentori alla cinese” (come si facevano chiamare gli artigiani dediti alla pratica della laccatura) continuarono a servirsi della vernice per eccellenza, la sandracca, per conferire ai manufatti l’ambita lucentezza e la necessaria protezione. È probabile che più di una bottega veneziana avesse adottato lo speciale ritrovato, a base di sandracca, con cui padre Vincenzo Coronelli73 ammantava, rendendo traslucida ed impermeabile, la superficie sferica dei suoi celebri mappamondi. Ne aveva divulgata la ricetta nella sua opera enciclopedica intitolata Biblioteca Universale Sacra e Profana, antica e moderna. Chi non aderiva ai precetti di Coronelli poteva sempre consultare il Trattato di Miniatura edito dal veneziano Garbo nel 1766, che propagandava altre varianti della “laccatura alla cinese”74.

A monte della procedura di laccatura c’era la scelta dell’essenza lignea più adatta a fungere da supporto: a Venezia si prediligeva il cirmolo, o il noce per lavori di particolare pregio. Spesso si ricorreva alla lastronatura o impiallacciatura per nobilitare la superficie di un legno comune. Dopo aver scelto e preparato l’ossatura del mobile bisognava uniformarne le superfici stuccandole e mascherando le giunture con garze, fissate con colla forte mista a gesso di Bologna. Ogni porosità o scabrosità si eliminavano poi con la stesura di successivi strati di polvere di gesso stemperato con colla, oppure con più mani di colla di pelle stesa direttamente sulla superficie. Accuratamente levigato con pomice finissima e carta vetrata, il fondo così preparato passava sotto la giurisdizione del depentor, che stesa la tinta di base con colori a tempera, procedeva alla decorazione che poteva prevedere anche doratura, a bolo o a missione, e intagli.

I fondi neri e quelli rossi sono stati i più apprezzati ed imitati in Occidente, essendo anche i più ricorrenti nei manufatti orientali in virtù della compatibilità di alcuni pigmenti con l’Urushi. I leganti dello strato di fondo potevano essere vari: colla animale, vernice a spirito o vernici oleo-resinose. Le tipologie di vernici descritte potevano, a loro volta, essere di due tipi: già pigmentate e stese direttamente sul supporto ligneo senza preparazione, oppure trasparenti, applicate sopra uno strato di fondo colorato. Secondo Stalker75 ad esempio la vernice a spirito, a base di gommalacca già pigmentata con nero di lampada, doveva essere stesa in più mani direttamente sul supporto. Le vernici oleo-resinose invece, indicate ad esempio da Bonanni76, comportano l’impiego di bitume o “spalto”, utilizzato da solo, unito all’olio di lino, oppure in miscela con altre resine, tra cui primeggia la copale.

I particolari decorativi potevano essere realizzati a pastiglia, ottenuta facendo colare dal pennello, negli appositi tracciati e senza poter ricorrere a stecche per eventuali correzioni, una fluida amalgama di gesso e colla. Ne risultava una specie di bassorilievo, dello spessore di pochi millimetri: la traduzione del taka-maki giapponese. Anche per questo tipo di decorazione sembra essere imitata la tecnica orientale, applicando i rilievi sullo sfondo già verniciato e ben levigato, in contrasto con la tradizionale prassi operativa adottata in  Europa. In particolare Bonanni lo considera il “miglior metodo” per l’imitazione dei rilievi delle lacche orientali77.

La sandracca veniva stesa fino a quindici o diciotto mani, nell’arco di due settimane, avendo l’accortezza di far bene asciugare uno strato prima di passare al successivo, in ambiente temperato ed al riparo dalla polvere. Ad epilogo l’ultimo strato veniva levigato, indi lucidato passandoci sopra un tampone imbevuto di olio78.

La progressiva emancipazione del depentore dal decoro “alla cinese” determina, nel corso dei primi decenni del Settecento, un’evoluzione in senso comico delle chinoiseries79, assorbite entro categorie ornamentali di conio europeo; è il momento dell’affabulazione creativa, della contaminatio per cui «mandarini e dame veneziane, fumatori d’oppio e guerrieri reggono vessilli con il drago dei Ming» convivono con disinvoltura «in un contesto di particolari lagunari camuffati alla cinese»80. È la fase della fusione fra il gusto orientalizzante e l’inflessione gioiosa del nascente stile Rococò, con la sua spiccata propensione alla miniaturisation e quella pronunciata asimmetria che permette di associare questo stile all’arrivo in Europa delle porcellane dell’Estremo Oriente, soprattutto di quelle giapponesi in stile kakiemon nonché dei pannelli laccati.

Attorno alla metà del XVIII secolo fa il suo ingresso, nel repertorio decorativo del laccatore, la tematica arcadico-pastorale81 affiancata e frammischia, talvolta, al filone floreale.

In gran voga nel Settecento, ma già in uso nel secolo precedente, la prassi della cosiddetta lacca contraffatta, o lacca povera, che si configura come un metodo sbrigativo ed economico della ben più elaborata “laccatura alla cinese”. Da fogli incisi su carta particolarmente sottile, per garantire un’aderenza perfetta al supporto e, nel contempo, resistente, per ben assorbire la colla, venivano ritagliate vignette intere o particolari; rifinite a tempera dai miniadori, racchiuse entro cornici fatte a mano o ritagliate da serie di contorni calcografici, erano applicate con colla forte sulla superficie dei mobili e degli oggetti d’uso comune, cui la stesura di numerose mani di sandracca conferiva protezione e lucida levigatezza. Vasta è la rete di calcografie specializzate in stampe da ritaglio e solo frammentariamente studiata, ispirate a resoconti di viaggi o esemplate su dipinti ad acquerello originali, vignette di declinazione esotica, incisioni a chinoiseries 82.

La lacca contraffatta o alla cinese, improntò indelebilmente l’epopea artistica del Settecento veneziano sino a divenirne simbolo.

Largamente apprezzata anche oltre i confini della Serenissima, trovò indiscriminata applicazione ad una illimitata varietà di oggetti sia di lusso che di uso quotidiano.

Se quella veneziana è considerata la lacca d’imitazione per eccellenza, arredi laccati si producevano anche altrove in Italia, però con esiti diversi e non sempre paragonabili a quelli veneziani. Per esempio di un certo credito dovevano godere le scatole in lacca genovesi: a Genova infatti si trovava una particolare bottega davanti la chiesa della Maddalena che aveva talmente tanto prestigio in città che si parlava della vernice della Maddalena come a Parigi si diceva le vernis Martin.

L’imitazione della lacca cinese in Sicilia non si discostò molto dai tentativi italiani in quanto, per la produzione di oggetti laccati alla cinese, non si faceva altro che preparare le superfici, lisciandole e levigandole, poi si passava alla decorazione delle superfici a tempera, costituita da una base di colla forte o colla di ossa, alla quale venivano aggiunti i pigmenti e, in qualche caso, del gesso come eccipiente per dare maggiore pastosità alle pitture, ed infine il tutto veniva ricoperto da alcuni strati di sandracca che fissava ed arricchiva cromaticamente il colore83.

L’avvento della stagione neoclassica, caratterizzata dal monocromo, decreta in Europa il declino della laccatura e bisognerà attendere la fine del XIX secolo per una ripresa d’interesse nei confronti del genere laccato; questo però non comporterà nessuna novità a livello di tecnica della laccatura, che rimarrà anche in questo caso legata alle metodologie già studiate, applicate e messe appunto nel secolo precedente.

Legenda

A.S.P.: Archivio di Storia Patria


  1. H. HONOUR, L’Arte della cineseria. Immagine del Catai, Firenze 1963. []
  2. G. Bufalino, Nel Regno delle Due Sicilie. Le Cineserie, Palermo 1994, p. 45. []
  3. H. HONOUR, L’Arte…, 1963,  pp. 33-41. []
  4. H. HONOUR, L’Arte…, 1963, pp. 47-50. []
  5. H. HONOUR, L’Arte…, 1963, pp. 58-60. []
  6. G. BUFALINO, Nel Regno…, 1994, p. 17. []
  7. H. HONOUR, L’Arte…, 1963, pp. 98-99. []
  8. P. PALAZZOTTO, Chinoiserie di Sicilia, in Per salvare Palermo, n. 4, settembre/dicembre 2002, p. 32. []
  9. H. HONOUR, L’Arte…, 1963, p. 103. []
  10. T. CHIPPENDALE, The Gentleman and Cabinet-maker’s Director, Londra 1754, tavv.  n. XXV-XXVII, CV, CIX, CXII-CXIX, CXXX, CLVII-CLX. Cfr. J. KENWORTHY-BROWNE, Il mobile inglese. L’età dei Chippendale, in I Documentari: Conoscere l’Antiquariato, Novara 1967, pp. 5-10. []
  11. G. MARIACHER, Il mobile barocco veneziano, in I Documentari…, 1967, p. 10. []
  12. Per approfondimenti sulla diffusione dell’esotismo in Piemonte nel Settecento si veda L. CATERINA – C. MOSSETTI, Villa della Regina. Il riflesso dell’Oriente nel Piemonte del Settecento, Torino 2006. []
  13. H. COSTANTINO FIORATTI, Il Mobile Italiano dall’antichità allo stile Impero, a cura di G. Fossa, Firenze 2004, pp. 150-158. []
  14. A. DISERTORI – M. GRIFFO – A. GRISERI – A. M. NECCHI DISERTORI – A. PONTE, Il mobile del Settecento, Novara 1988, p. 278. []
  15. L. APPOLONIA – R. BIANCHI – L. LUCARELLI – C. MOSSETTI – S. VOLPIN, Protocollo analitico per lo studio dei “dipinti alla china” di Villa della Regina a Torino. Finalità e criteri di lavoro, in Lo Stato dell’Arte IV, Siena 2006, pp. 71-78. []
  16. H. HONOUR, L’Arte…, 1963, p. 143. []
  17. G. BUFALINO, Nel Regno…, 1994, p. 17. []
  18. Il maggiore divulgatore di scenette di vita cinese immerse in un paesaggio popolato da animali e con una vegetazione lussureggiante e fantastica è il disegnatore e pittore Jean Baptiste Pillement, le cui stampe si diffondono a livello internazionale e il termine “style Pillement” diventa sinonimo di cineseria francese. []
  19. G. BUFALINO, Nel Regno…, 1994, p. 19. []
  20. G. BUFALINO, Nel Regno…, 1994, pp. 60-61. []
  21. G. BUFALINO, Nel Regno…, 1994, pp. 63-65. []
  22. Si ricordi tra gli altri quello dell’erudito palermitano Francesco Maria Emanuele e Gaetani, marchese di Villabianca, autore di preziosi contributi sulla Palermo di fine Settecento, che a seguito di un sopralluogo svoltosi nel 1798 disse «fatta tutta d’ossatura di legno…fabbrica stravagante di nulla durata e scevra affatto di magnificenza». Cfr. G. BUFALINO, Nel Regno…, 1994, p. 116. []
  23. R. GIUFFRIDA – M. GIUFFRÈ, La Palazzina Cinese e il Museo Pitrè: nel Parco della Favorita a Palermo, Palermo 1987, p. 11. []
  24. Come si legge in A.S.P., Atto del notaio Antonio Maria Cavaretta Conti, in data 23/01/1799. []
  25. R. GIUFFRIDA – M. GIUFFRÈ, La Palazzina…, 1987, p. 11. []
  26. G. BUFALINO, Nel Regno…, 1994, pp. 118-119. []
  27. H. HONOUR, L’Arte…, 1963, p. 145. []
  28. P. PALAZZOTTO, Riflessi del gusto per la cineseria e gli esotismi a Palermo tra Rococò e Neoclassicismo: collezionismo, apparati decorativi e architetture, in Argenti e Cultura Rococò nella Sicilia centro-occidentale 1735-1789, a cura di S. Grasso e M. C. Gulisano, con la collaborazione di S. Rizzo, Palermo 2008, pp. 535-561. []
  29. Si ringrazia cortesemente il dott. Salvatore  Civiletti per la segnalazione fotografica. []
  30. Per le riprese fotografiche di Villa Airoldi si ringrazia per la preziosa disponibilità la Sig.ra Guia Airoldi. []
  31. A. BOIDI SASSONE – E. COZZI –  M. GRIFFO – A. PONTE – G. C. SCIOLLA, Il mobile dell’Ottocento, Novara 1988, p. 264. []
  32. G. LANZA TOMASI – A. ZALAPÌ, Dimore di Sicilia, Verona 1998, pp. 28-45. []
  33. P. PALAZZOTTO, Chinoiserie…, 2002, p. 32. []
  34. Ibidem. []
  35. Ibidem. []
  36. Sull’argomento cfr. D. LANDINO, Palazzo Mirto e il suo Salottino Cinese, in Nel Regno delle Due Sicilie. Le Cineserie, a cura di G. Bufalino, Palermo 1994, p. 144; G. DAVÌ – E. D’AMICO, P. GUERRINI, Palazzo Mirto: cenni storico-artistici ed itinerario, per Assessorato Regionale dei Beni Culturali Ambientali e della Pubblica Istruzione, Soprintendenza per i Beni Artistici e Storici della Sicilia Occidentale, Palermo 1985; E. CATELLO, Cineserie e Turcherie nel ‘700  napoletano, Napoli 1992; P. PALAZZOTTO, Chinoiserie…, 2002, pp. 32-33. []
  37. D. PIVA, Il grande libro del mobile antico, Milano 1996, p. 273. []
  38. H. COSTANTINO FIORATTI, Il Mobile Italiano…, 2004, p. 136. []
  39. La placcatura consisteva nel sovrapporre alla struttura “cartelle” o “lastroni” di legno pregiato di circa 5-10 mm di spessore, che miglioravano la stabilità dell’insieme e impreziosivano l’aspetto del mobile. Tuttavia questo era un procedimento molto costoso e ciò ne decretò il lento declino facendo preferire la più economica impiallacciatura. Tale tecnica fu possibile quando si migliorarono gli utensili utilizzati per ricavare sottili lamine, i “piallacci” di 1-4 mm di spessore che venivano incollati alla struttura e lo rendevano simile al mobile lastronato. Il minore spessore però rendeva più delicata la superficie, vulnerabile a umidità, sbalzi termici e urti. L’applicazione dei “piallacci” richiedeva una perfetta preparazione della superficie che doveva presentarsi del tutto piana, per favorire la presa della colla si passava una piccola pialla, “pialletto dentato”, che zigrinava la superficie per adattarla a ricevere la colla e il piallaccio. Cfr. M. GIARRIZZO – A. ROTOLO, Il Mobile Siciliano Dal Barocco Al Liberty, introduzione di M.C. Di Natale, Palermo 2004, p. 137. []
  40. M. GIARRIZZO – A. ROTOLO, Il Mobile…, 2004, p. 138. []
  41. H. COSTANTINO FIORATTI, Il Mobile Italiano…, 2004, p. 194. []
  42. C. ORDOŇEZ – L. ORDOŇEZ – M. DEL MAR ROTAECHE, Il Mobile: conservazione e restauro, Firenze 2003, pp. 26-27. []
  43. Il termine nell’accezione d’origine può anche designare una gommoresina, dalla tonalità bruno-rossastra, prodotta dalle secrezioni di un piccolo insetto della famiglia delle cocciniglie, la Tachardia lacca, composta da resine in una percentuale del 70-80%, materie coloranti per il 4-8% e cera per il 6-7%. []
  44. C. SANTINI,  Le lacche dei veneziani: oggetti d’uso quotidiano nella Venezia del Settecento, Modena 2003, p. 4. []
  45. La principale componente della lacca prende il nome di “urushiol” o “laccolo”, un alcool polifenolico insolubile in acqua presente in una percentuale che varia tra il 65 e il 70%. Oltre ad acqua, presente per il 20-25%, polisaccaridi e sostanze azotate per il 10%, è presente un 1% di un particolare enzima detto “laccasi” responsabile del processo di polimerizzazione ossidativa. []
  46. F. PASQUI, Arte della laccatura, Urbino 1934, p. 211, in cui annota la presenza degli unici due esemplari presenti in Italia nel giardino del Quirinale a Roma. []
  47. C. SANTINI, Le lacche…, 2003, p. 6. []
  48. Ogni albero può dare dai 25 ai 55 grammi di succo. []
  49. A. TURCO, Coloritura, verniciatura e laccatura del legno, Milano 1985, p. 493. []
  50. A. TURCO, Coloritura…, 1985, pp. 499-500. []
  51. G. LORENZETTI, Lacche veneziane del Settecento, Venezia 1938, p. 9. []
  52. Stando agli antichi testi cinesi nelle fabbriche di stato della lacca erano stati allestiti fino a quattro o più locali, posti uno dentro l’altro, per evitare la penetrazione della polvere, mentre in Giappone le ultime fasi di lavorazione erano eseguite su imbarcazioni ancorate in mare aperto, o comunque in mezzo ad un vasto specchio d’acqua. A. RISPOLI FABRIS, L’arte della lacca, Milano 1974, pp. 34-35. []
  53. Sulla superficie di base, in lacca nera o bruna, viene tracciato il motivo ornamentale, in seguito colorato mediante applicazioni successive di lacche policrome, in ultimo protette da una mano di lacca trasparente, cui fa seguito la “brillantatura” finale. []
  54. Ricalcano le fasi di lavorazione delle lacche dipinte, discostandosene solo per l’uso di lamelle o polveri dorate, d’argento o di bronzo, distribuite sulla superficie prima che l’ultimo strato decorativo sia asciutto. Il Lorenzetti, soffermandosi su questa ornamentazione con «polveri metalliche», precisa come «esse potevano venir distribuite con un sottile pennello o con un batuffolo di bambagia, oppure se si trattava di pagliuzze più grosse, queste venivano sparse mediante un tubo sottile». La lacca così ornata prendeva il nome di “lacca aventurina”, con analogia rispetto al vetro muranese a bagliori d’oro che veniva così chiamato. Cfr. G. LORENZETTI, Lacche…, 1938, p. 10. []
  55. Il fondo, spesso 1-2 mm, di tonalità nere o bluastre, oppure gialle, viene inciso ed asportato con arnesi uncinati che compongono tracciati ornamentali, in un secondo momento vengono colmati con lacche diversamente pigmentate, dorate o argentate. []
  56. Eseguita a rilievo, è la tecnica più antica e ricercata, necessita di superfici laccate di grosso spessore, anche 20-30 mm, e richiede tempi di lavorazione assai lunghi. []
  57. Dette anche “lacche cinesi”, erano le lacche provenienti dalla costa sud-orientale dell’India in cui si trovava lo stabilimento francese di Pontichèry; esse sono ricavate intagliando il fondo, di solito di colore nero, e successivamente riempiendo gli incavi con lacche colorate, d’oro o d’argento, che ricostruiscono la superficie in modo uniforme, perfettamente levigata. []
  58. «Nel 1874 si narra che una nave che trasportava oggetti laccati, destinati all’Esposizione di Vienna, affondò nella baia di Yakoama in Giappone, il carico rimase per un anno sotto l’acqua e quando venne recuperato si potè constatare che gli oggetti laccati non avevano subito alcun danno». Cfr. A. TURCO, Coloritura…, 1985, p. 496. []
  59. A. TURCO, Coloritura…, 1985, p. 494. []
  60. F. CARLETTI, Giro del mondo del buon negriero, Milano 1941, p. 234. []
  61. Il più antico esempio in Europa è il sontuoso gabinetto in lacca nera al primo piano di Rosemborg a Copenaghen, con chinoiseries in “lacca aventurina” con incrostazioni di madreperla, turchesi e coralli, opera realizzata tra il 1663 e il 1665 da François de Bray per Federico III. []
  62. Come annotato dalla Rispoli Fabris: «componenti essenziali di tutte le vernici indicate nei trattati di Seicento e Settecento sono le resine o le loro miscele con l’aggiunta , talvolta, oltre che di gomme, di altri elementi come il Bitume di Giudea, idrocarburo del mar Morto, Ambra del Baltico, resina fossile, albume d’uovo. […] Le sostanze resinose che più frequentemente vengono indicate nelle varie formule e che già in precedenza erano usate per la verniciatura, sono oltre alla gommalacca, la sandracca e il mastice». Cfr. A. RISPOLI FABRIS, L’arte…, 1974, p. 114. []
  63. V. CORONELLI, Epitome Cosmografica, Colonia 1693, pp. 402 – 403. []
  64. J. F. WATIN,  L’Art du peintre, doreur et vernisseur, Parigi 1772, pp. 247 – 368. []
  65. M. MARTINI, Novus Atlas Sinensis, Amsterdam 1655. Cfr. C. SANTINI, Le lacche…, 2003, p. 25. []
  66. A. KIRCHER DA FULDA, China Monumentalis Illustrata, Amsterdam 1667. Cfr. C. SANTINI, Le lacche…, 2003,  p. 29. []
  67. La ricetta divulgata da padre Jannard consisteva nel «prendere la gommalacca molto ben purgata e posta in un vaso di vetro si cuopre con ottimo spirito di vino in modo che sopravanzi quattro dita, e al caldo del sole, ovvero fuoco temperato si fa liquefare per tre o quattro giorni, sbattendo il vaso di quando in quando, e liquefatta che sia la gomma, si cola per pannolino e di nuovo si espone al caldo. Passato un giorno incirca si ottiene una vernice e si adopera quella più chiara che galleggia stendendola col pennello sopra li legni prima coloriti lasciando seccare la prima mano, avanti che sia la seconda e la terza», in G. LORENZETTI, Lacche…, 1938, p. 7. []
  68. Il gesuita a questo riguardo, da fanatico di ricette orientali, ricorse all’antidoto impiegato dai cinesi stessi: un decotto di penne di gallina col quale detergeva viso e mani, prima e dopo essersi messo all’opera, lasciando che si asciugassero da sole senza usare tela o cose simili. Cfr. G. MORAZZONI, Mobili veneziani laccati, Milano 1954, p. 12. []
  69. F. BONANNI, Trattato sopra la vernice detta comunemente cinese in risposta data al signor Abbate Gualtieri, Roma 1720. Cfr. C. SANTINI, Le lacche…, 2003, p. 21. []
  70. M. GIARRIZZO – A. ROTOLO, Il Mobile Siciliano…, 2004, p. 144. []
  71. T. WOLVESPERGES, Le meuble français en lacque au XVIII siecle, Bruxelles 2000, p. 100. []
  72. È stata formulata l’ipotesi che maestranze orientali fossero giunte in Olanda per ammaestrare i laccatori del posto. Cfr. H. HONOUR, L’Arte…, Firenze 1963, p. 75. []
  73. V. CORONELLI, Epitome…, 1693, pp. 402 – 403. []
  74. G. F. GARBO, Trattato di miniatura, Venezia 1766. Cfr. C. Santini, Le lacche…, 2003, p. 33. []
  75. J. STALKER – G. PARKER, A Treatise of Japanning and Varnishing, Oxford 1688, pp. 26-33. []
  76. F. BONANNI, Trattato …, 1720. Cfr.  L. APPOLONIA – R. BIANCHI – L. LUCARELLI – C. MOSSETTI – S. VOLPIN, Protocollo…, 2006, p. 75. []
  77. F. BONANNI, Trattato …, 1720, cap. XVII, p. 109. []
  78. C. SANTINI, Le lacche…, 2003, pp. 33-37. []
  79. H. HUTH, Lacquer of the West. The history of a craft and an industry 1550-1950, Chicago-Londra 1971, pp. 29 – 30. A questo mutato atteggiamento nei confronti della cultura orientale sembra non essere stata estranea la bolla emessa nel 1715 da papa Clemente XI, ostile al Confucianesimo. []
  80. C. ALBERICI, Il mobile veneto, Milano 1980, p. 188. []
  81. «Superata la prima fase di imitazione dei modelli orientali, il laccatore veneziano, viene via via acquistando una maggiore libertà di invenzione ed interpretazione. Continuano ad usarsi le scenette di cineseria, ma a queste si aggiungono altri tipi di decorazioni di fiori e di paesi, di figure e di animali. […] suddivisa la superficie da decorare in comparti di forme le più varie e complesse, ecco apparire, racchiuse entro le più dolci pastorellerie d’Arcadia, o vignette tratte dalla vita mondana del tempo, di dame e di cavalieri; o figurine di contadini e pastori su sfondi di paese». Cfr. G. LORENZETTI, Lacche…, 1938, p. 14. []
  82. Nel territorio veneziano famose sono le stampe prodotte da una famiglia di artisti, i Remondini di Bassano, che godevano ormai di una grande fama e specializzazione nella preparazione delle stampe destinate allo scopo di decorare mobili in “lacca contraffatta”, cfr. G. MARIACHER, Il mobile…, 1967, p. 4. []
  83. M. GIARRIZZO – A. ROTOLO, Il mobile siciliano…, 2004, p. 146-147. []