Giovanni Boraccesi

g.boraccesi@libero.it

Una sinfonia di argenti nell’isola di Tinos: le chiese di Chatziràdos, Koumàros, Kròkos e Steni

DOI: 10.7431/RIV12062015

Data l’ampiezza del patrimonio d’argenteria rilevato nelle chiese cattoliche dell’isola greca di Tinos, che è sede di un’autorevole diocesi latina, dopo l’analisi e la pubblicazione di un primo gruppo di argenti custoditi in alcuni villaggi interni1, è ora la volta di un secondo gruppo di reperti liturgici rintracciati in altri luoghi dell’isola, segnatamente negli edifici religiosi di Chatziràdos, di Koumàros, di Kròkos e di Steni.

Anche qui il corpus che si presenta è di particolare interesse perché documenta le caratteristiche tipologiche e formali di questa collezione, in prevalenza materiali dei secoli XVII, XVIII e XIX. Esso è principalmente costituito da argenti veneziani, in virtù del lungo dominio della Serenissima; tuttavia, non mancano opere di manifattura romana e turca, queste ultime giustificate sia per il dominio della Mezzaluna dal 1715 al 1821, sia per il fatto che molti abitanti di Tinos andarono a stabilire attività commerciali a Costantinopoli e a Smirne, a tal punto da determinare una fitta committenza di suppellettili liturgiche confezionate sui modelli trionfanti nel continente europeo nei rinomati laboratori di queste due città della Turchia.

La difficoltà a classificare alcune di queste opere deriva, come più volte evidenziato, oltre che dalla mancanza di documenti anche dal fatto che non sempre gli argenti sono punzonati.

La chiesa di Chatziràdos, dedicata a Santa Maria ad Nives, è un edificio religioso di piccolo aspetto che custodisce alcuni interessanti argenti.

L’analisi prende le mosse da una raffinata croce astile (Figg. 1a e 1b) che, come ebbi a dire in altra sede, costituisce forse il prototipo di quelle rinvenute nelle chiese cattoliche dell’isola; di certo è la più antica. In essa si rendono espliciti riferimenti al Cinquecento veneziano – al riguardo penso alla più nobile croce astile di Fratta di Caneva2 – sia per quanto concerne la morfologia, sia per il fitto impaginato degli elementi decorativi in bronzo dorato e argento che ne accentuano la policromia e il movimento chiaroscurale.

Al Gesù Crocifisso, inchiodato su una croce a rilievo, si accompagna la figura del Padre Eterno, in alto; della Vergine, a sinistra; di San Giovanni Evangelista, a destra; della Maddalena, in basso. Nel verso, all’incrocio dei bracci, è posta la Madonna con il Bambino. Nelle terminazioni quadrilobate trovano posto i quattro evangelisti con i rispettivi attributi: San Matteo, in alto; San Marco, a sinistra; San Luca, a destra; San Giovanni, in basso. In asse con la figura della Madonna è inserita l’Addolorata con le sette spade conficcate nel cuore. La croce è profilata da palmette vegetali a fusione e a traforo e da un motivo di volute affrontate; all’incrocio dei bracci si diparte una raggiera.

Elegantissimo ed eseguito con estrema cura è il nodo, anch’esso dorato, decorato da motivi a baccelli e, nel mezzo, da festoni penduli i cui lembi sono trattenuti da testine alate.

Quanto alla datazione del manufatto in argomento, l’ipotesi più probabile è che sia stato realizzato tra gli ultimi anni del XVI secolo e il primo decennio del Seicento. Una qualche analogia, per esempio, si può istituire con la croce astile di Pieve di Cadore3 e, per il solo nodo, con la croce astile del Duomo di Motta di Livenza4.

Di mano diversa ma di cultura affine è il successivo ostensorio (Fig. 2) in bronzo fuso. La base circolare e il fusto a balaustro sono interessati da un elegante repertorio vegetale, inciso a bulino, di gusto tardorinascimentale. La teca è circondata da una ghirlanda vegetale e, più esternamente, da raggi lisci alternati a quelli serpeggianti; nella parte apicale trionfa una croce.

La tipologia di questo reperto, databile alla prima metà del Seicento, riscuoterà ampio successo nei territori della Serenissima, come indica il confronto con l’ostensorio della parrocchiale di Gosaldo5.

Sull’altare della chiesa di Chatziràdos è venerata un’icona di Santa Maria ad Nives, di difficile datazione a causa del suo rivestimento in argento, in definitiva una Coperta di immagine sacra (Fig. 3); per altro, l’icona è in non buone condizioni, come si evince dal viso della Vergine, ormai privo di colore perché nel tempo sottoposto a drastiche puliture. L’attaccamento dei fedeli verso questa immagine mariana è evincibile dai numerosi ex-voto, soprattutto gioielli, che la coprono in parte e, come detto, dalla preziosa Coperta di immagine sacra, una delle tante rinvenute sull’isola cicladica. La particolarità dei decori di questo manufatto argenteo, che non ho potuto visionare più da vicino, m’induce a datarlo tra la fine del Settecento e il primo Ottocento e ad assegnarlo ipoteticamente a un argentiere greco o turco.

Al mecenatismo di un fedele del posto, il suo nome in greco è inciso sulla superfice metallica, si deve la consegna di una lampada pensile (Fig. 4) realizzata nel 1799 in un laboratorio della Turchia, come attesta il punzone con le lettere dell’alfabeto arabo. Il manufatto, dal profilo movimentato e lavorato a traforo, si connota principalmente per un ricco decoro a motivi vegetali e floreali ancora legato alla tradizione barocca, segnatamente ai modelli veneziani. Esso annovera molteplici esempi rinvenibili ovunque nelle chiese della Grecia: è il caso, per esempio, della nota lampada pensile del 1787 conservata nella chiesa di Santa Parasceva, sempre nell’isola di Tinos6.

Analoghi motivi decorativi si ritrovano nella seconda lampada pensile (Fig. 5) di questa medesima chiesa, che pur in mancanza di punzonature, va ragionevolmente ascritta a un argentiere turco che la dovette forse realizzare poco dopo la lampada appena analizzata.

Di gusto certamente neoclassico è l’ultimo argento rinvenuto in questa chiesa di Chatziràdos, ossia un calice (Fig. 6). Il piede circolare e gradinato è adornato da testine di cherubini intervallate da festoni penduli. Il collo della base presenta una decorazione di foglie lanceolate. Il nodo del fusto è a balaustro. Sul sottocoppa ricompaiono le testine di cherubini, i festoni penduli e le foglie lanceolate; la parte superiore del movimentato bordo è arricchita da un elegante tralcio di foglie. L’oggetto, assegnabile a un argentiere turco, è ascrivibile per motivi stilistici ai primi decenni del XIX secolo.

Nell’orbita culturale di Venezia va inserito un ragguardevole calice (Figg. 7a e 7b) in argento massiccio conservato nella chiesa della Trasfigurazione a Koumàros.

Il piede circolare è decorato nel bordo da una fascia di ovoli dorati mentre l’intera superficie è impreziosita da sei clipei che racchiudono i simboli degli evangelisti e le figure di Cristo e della Madonna col Bambino, quest’ultime di gusto bizantineggiante. Il collo del piede è interessato da un elaboratissimo e intricato motivo vegetale che si ritrova, in un intreccio di nastri, nel nodo ovale. Il sottocoppa è lavorato a traforo con decori vegetali attorcigliati a sinuose volute. Sulla coppa è impresso il bollo di garanzia della Zecca di Venezia con la raffigurazione del leone di san Marco e quello dell’anonimo argentiere, contrassegnato da tre lettere intrecciate tra loro (ZAF) che Piero Pazzi individuò su un reperto del 16447. La morfologia del calice in esame, a mio parere databile attorno alla prima metà del XVII secolo, e alcuni suoi decori mi portano ad accostarlo a quello conservato nella sacrestia della basilica di Sant’Antonio a Padova8 e all’altro del 1627 custodito nella chiesa di San Giovanni evangelista a Rimini9.

L’ostensorio (Fig. 8) in metallo fuso, purtroppo ridipinto a porporina, si sviluppa su una base circolare decorata da due fasce di foglie. Il fusto, dal profilo movimentato, presenta un nodo a vaso anch’esso interessato da decorazioni fogliacee. La raggiera, impreziosita in basso da una coppia di testine di angeli alati, presenta una teca circolare circondata da piccole foglie e sovrastata in alto da un’elaborata croce. Come si evince dall’iscrizione incisa sotto il piede: SAG.A CONGREG.E PROPAGAN.A FIDE, l’opera pervenne alla chiesa di Koumàros per volontà della Sacra Congregazione della Propaganda Fide con sede a Roma e non nuova a questo genere d’iniziative, giacché altre suppellettili liturgiche con questa iscrizione si sono rinvenute nella cattedrale di Naxos10 e in altri edifici religiosi di Tinos che esporrò in altra sede. Proprio a Roma, nel Palazzo della Congregazione, il 9 dicembre 2010 è stato inaugurato il Museo Missionario di Propaganda Fide.

Il manufatto è da riferire a un argentiere romano della prima metà del XVIII secolo. Di un livello paragonabile all’ostensorio in esame (in particolare per quanto attiene la base, il fusto e le due teste affrontate degli angeli) è quello del duomo di Tuscania11.

Notevole è pure la successiva pisside (Fig. 9), il cui impianto morfologico e l’apparato decorativo la legano indiscutibilmente al gusto rococò del tardo Settecento come suggerirebbero evidenti analogie con alcuni esemplari diffusi a Roma, in particolare nelle chiese di San Lorenzo in Lucina, di San Salvatore in Lauro e di San Bartolomeo all’Isola Tiberina12, come pure nelle Marche13. Il piede gradinato è decorato nel bordo da un motivo a baccelli lisci; nella parte centrale esso è scompartito da robuste costolature che delimitano ampie foglie. Tale decoro ricompare sul sottocoppa e sul coperchio munito di crocetta apicale.

Ancora un altro calice (Fig. 10) arricchisce il patrimonio di questa chiesa. Il piede, rigonfio e con il bordo smerlato, è suddiviso da costolature e da baccelli. Il nodo, molto sobrio, ha un profilo movimentato. Il sottocoppa in argento dorato, forse di riutilizzo, è lavorato a traforo ed è decorato da teste di angeli, foglie di acanto e volute. L’opera è ascrivibile per motivi stilistici alla produzione veneziana del XVIII secolo.

Com’è frequente nelle chiese cattoliche dell’isola di Tinos, anche nel villaggio di Koumàros si trova una croce astile (Figg. 11a e 11b) in argento e argento dorato. Presenta al centro il Cristo tra la Vergine e San Giovanni evangelista; il Padre Eterno, in alto e la Maddalena, in basso. Sul rovescio è la figura dell’Immacolata e nelle terminazioni quelle dei quattro evangelisti. Il fondo della croce è decorato a sbalzo a motivi di racemi, gli stessi che pressappoco decorano, ma in maniera più ricca, il nodo e l’asta tubolare. Una serie di palmette a giorno, delle quali molte perdute, corre lungo il perimetro del manufatto. Pur ispirata dai modelli lagunari aulici, la croce in esame è da riferire, per le caratteristiche stilistiche e di esecuzione, a un modesto argentiere veneziano della fine XVIII secolo; un accostamento possibile è con la croce della chiesa di Sant’Antonio da Padova a Smardakito14.

A Kròkos la chiesa dell’Annunciazione conserva un calice (Fig. 12) in bronzo fuso e argento (coppa) che ritengo vada ricondotto a un argentiere romano della seconda metà del XVII secolo. Il calice, pur non essendo in metallo nobile, non è privo di eleganza. Si sviluppa su base gradinata decorata da foglie e da motivi a volute contrapposte. Tali decori si ritrovano sul nodo piriforme e sul sottocoppa con bordo irregolare. Sotto il piede è incisa la seguente scritta: CO.TIS  NOMI.S ET MORTIS che ne riferisce l’antica appartenenza alla Confraternita della Buona Morte.

L’altro calice (Fig. 13) di questa chiesa, dalla tipica linea settecentesca, si sviluppa su piede circolare con orlo espanso ornato da motivi fogliacei; più ricca è la decorazione della superficie bombata, ove accanto a motivi vegetali si alternano cartelle lisce di forma quadrilobata. Il nodo a vaso è anch’esso interessato dai medesimi motivi del piede; perduto è il sottocoppa. Sulla coppa è impresso il punzone contraddistinto dalle lettere ZP separate da una papera, di pertinenza di Zuanne Premuda, pubblico controllore della Zecca di Venezia15. Rispetto a quanto indicato in passato e in ragione dei dati nel frattempo raccolti da Piero Pazzi che gentilmente ha voluto farmi conoscere, Zuanne Premuda nacque nel 1672 e morì nel 1754; occupò l’ufficio di controllore della Zecca dal 1716 al 1749. Ne consegue che il calice in esame andrà datato a prima del 1754.

L’identificazione del bollo di San Marco (il leone alato) impresso su questa croce astile (Figg. 14a e 14b) e quello dell’argentiere contraddistinto dalle lettere MG intervallate da due stelline, finora documentato tra il 1762 e il 177616, impone di datare l’opera alla seconda metà del Settecento. La croce, la cui tipologia è abbastanza diffusa negli arredi ecclesiastici delle chiese di Tinos, ha subito dei rimaneggiamenti, come attesta l’errata posizione delle figure nelle terminazioni. Probabilmente rifatte, inoltre, sono le lamine dei bracci che si presentano sostanzialmente lisce e perimetrate da perline. Nella parte anteriore è presente il Crocifisso e nelle terminazioni San Marco, in alto; San Matteo, a sinistra; San Luca, a destra; la Maddalena, in basso. Nella parte posteriore è presente la Madonna; il Padre Eterno, in alto; la Vergine Addolorata, a sinistra; San Giovanni evangelista, a destra; ancora una volta l’evangelista Giovanni, in basso.

Un linguaggio semplificato caratterizza una settecentesca pisside (Fig. 15) la cui base e fusto sono in bronzo fuso, mentre la coppa è in argento liscio. L’orlo esterno del coperchio, ove insiste una crocetta apicale, è interessato da un motivo a ovoli e listelli. La tipologia di questa pisside fu per lungo tempo adottata ed esportata dai laboratori orafi di Roma: si veda, per esempio, l’esemplare della chiesa di Aetofolia17 e l’altro, benché più antico, della cattedrale di Naxos18.

La successiva navicella (Fig. 16) riunisce due parti diverse: il piede, che sostituisce l’originale andato perduto, e la coppa. Il primo, di forma circolare, è decorato da motivi vegetali di gusto revivalistico. In ragione del punzone impresso, ovvero la sigla S125F posta all’interno di una losanga, si può dire opera dell’argentiere Stefano Fiori (Roma 1794, documentato fino al 1870)19. A questo punzone si affianca quello dello Stato Pontificio, connotato dalle due chiavi di San Pietro sovrastate dal triregno. Di foggia tardo settecentesca è, invece, la coppa. Essa appare di fattura più raffinata come dimostrano gli elementi decorativi di natura vegetale lavorati a sbalzo che interessano il corpo e il coperchio incernierato che si arricchisce di due cartigli lisci. È, a mio parere, da assegnare a un argentiere italiano.

A questo preciso ambito culturale va riferito anche il turibolo (Fig. 17) come certifica il punzone di Roma. Il manufatto, dalla linea elegante, si sviluppa su piede circolare con piccole foglie appuntite. Il braciere ha una decorazione a larghe foglie d’acanto inframezzate da testine di angeli. Il coperchio presenta un lavoro a traforo di volute e foglie mentre il cupolino è decorato da foglie lanceolate. Il turibolo propone una tipologia largamente usata nel secolo XIX. Corrispondenze puntuali si colgono nei due turiboli della cattedrale di Naxos20 e nell’altro conservato nella basilica di San Marco a Roma21.

Il terzo calice (Fig. 18) allogato nella chiesa Kròkos rientra nella moda del revival degli stili storici, in particolare di quello gotico di matrice italiana e francese. Il decoro è prettamente di natura vegetale e non mancano i simboli eucaristici. La cronologia proposta per quest’opera, forse di manifattura parigina, è quella della seconda metà del XIX secolo.

Apre la rassegna degli argenti conservati nella chiesa di San Nicola di Bari a Steni un bel calice (Fig. 19) che si sviluppa su piede mistilineo e gradinato, decorato da una profusione di ornati vegetali inframezzati da testine angeliche; analoghi motivi, ma meno appariscenti, caratterizzano il nodo del fusto. Altrettanto ricca e variegata è la decorazione che investe il sottocoppa. La linea che caratterizza questo calice, di gusto rococò, è la stessa che connota in tale periodo i calici prodotti a Genova, a Venezia, a Roma, a Napoli e a Palermo. Tuttavia, per la particolare profusione degli ornati e la morfologia del reperto, proporrei di assegnare il calice di Steni a un argentiere veneziano della seconda metà del XVIII secolo. Un calice gemello, che esporrò più diffusamente in un’altra occasione, è conservato nella chiesa della Santissima Trinità a Kampos.

Di tutt’altra cultura è un servizio per incensazione che daterei alla prima metà dell’Ottocento. La navicella (Fig. 20) presenta una linea di estrema sobrietà, con un’unica decorazione a traforo che connota i manici a volute saldati alle estremità (quello di sinistra è rotto). Sul piede e sul corpo della navicella, oltre alla prova d’assaggio e al probabile bollo dell’argentiere, è impresso il punzone di Stato della Turchia, in uso dal 1844 al 192322.

Nello stesso torno di tempo si dovette realizzare il turibolo (Fig. 21), anch’esso marchiato con il bollo della Turchia. Il manufatto in esame è contraddistinto da un’elegante foggia e da un dovizioso apparato decorativo a incisione: foglie di acanto e ghirlande floreali sono distribuite sul piede, sul braciere e sul coperchio traforato.

Coerentemente con la sua destinazione, gli elementi decorativi a sbalzo che contraddistinguono lo sportello di tabernacolo (Fig. 22) sono quelli legati all’eucaristia: dall’apertura di una tenda, si mostra un calice da cui fuoriesce l’ostia consacrata con il trigramma IHS; esso poggia su un banco di nuvole popolato da due teste di angeli. L’opera, di non eccelsa qualità, va stimata intorno alla prima metà del XIX secolo e assegnata a un anonimo argentiere greco o turco.

Il successivo ostensorio (Fig. 23) si connota per una decorazione eclettica e di suggestioni decorative che rimandano all’arte neoclassica. Il piede circolare ha due bordi lisci alternati ad altri due con motivi a foglie. Sul collo della base si dispongono lunghe foglie lanceolate. Sul fusto, con nodo a vaso, si erge la figura di un angelo alato che sostiene la teca dell’ostia circondata da un fitto numero di raggi. L’ostensorio porta la scritta con la data e il nome della devota: Cath. Palamari donavit 1874. Si tratta di Caterina Palamari, una parrocchiana di Steni, che si distinse per altri doni alla chiesa e per alcuni legati pii23. Sotto il piede è impresso un punzone rettangolare con la sigla FS, forse da identificare nelle iniziali dell’argentiere probabilmente attivo a Roma.

La parrocchiale di Steni conserva un arredo di immagine sacra (Fig. 24) costituito da un pastorale con riccio a voluta vegetale, da una mitria decorata con elementi naturalistici, da due mani e da due fermagli di piviale. Queste opere in origine erano sistemate sulla tela di San Nicola di Bari, posta sull’altare maggiore, come certifica una foto degli anni Venti del Novecento. Gli oggetti in argomento sono ascrivibili a un argentiere italiano della prima metà del XIX secolo, il cui punzone, finora inedito, è contraddistinto dal nome P. TASSI inscritto in un rettangolo.

Un ulteriore arredo di immagine sacra (Fig. 25) è quello costituito da una corona regale e da tre piccole spade che quasi certamente arricchivano una tela dell’Addolorata. Sul piano stilistico tali pezzi andrebbero datati al XIX secolo e ascritti a un argentiere turco.

Delizioso è un ex voto raffigurante un veliero (Fig. 26), un oggetto qui particolarmente indicativo dato che la chiesa è dedicata a San Nicola di Bari, ovverosia il principale protettore dei naviganti e dei pescatori. Il nostro manufatto, forse realizzato da un argentiere turco della prima metà del XIX secolo, va ad assommarsi ai tanti ex voto di argomento marinaro presenti nel santuario di Vrissi24 come pure in quello ortodosso della Panaghia Evangelistria.

L’indagine sull’argenteria di Steni termina con un ennesimo ostensorio (Fig. 27), realizzato in bronzo argentato, che è anch’esso un efficace episodio di cultura eclettica con la riproposizione di motivi barocchi e neoclassici. Pertanto pare lecito collocare l’esecuzione dell’ostensorio verso la fine dell’Ottocento e assegnarlo a una manifattura italiana (Milano?).

  1. G. Boraccesi, Una sinfonia di argenti nell’isola di Tinos: le chiese di Aetofolia, Kalloni, Karkados, Smardakito e Vrissi, in «OADI – Rivista dell’Osservatorio per le Arti Decorative in Italia», n. 10 – Dicembre 2014, DOI: 10.7431/RIV10072014. []
  2. L. Caselli, Croce astile, in In hoc signo. Il tesoro delle croci, catalogo della mostra (Pordenone e Portogruaro, 4 aprile-31 agosto 2006) a cura di P. Goi, Milano 2006, pp. 452-453. []
  3. A. Cusinato, Santa Maria Nascente a Pieve di Cadore, Cinisello Balsamo 2000, pp. 105-106. []
  4. S. Claut, Croce astile, in Ornamenta Ecclesiae. Dipinti, oreficeria liturgica e paramenti ecclesiali a Motta di Livenza, Asolo 1988, p.41. []
  5. T. Conte, Oreficerie liturgiche tra XVI e XIX secolo nei vicariati di Agordo e di Canale d’Agordo, in M. Pregnolato (a cura di), Tesori d’arte nelle chiese dell’Alto Bellunese. Agordino, Belluno 2006, p. 50 e 54. []
  6. Ι. Γκερέκος, Σκεύη ιερά τω Θεώ ανατεθειμένα, Tήvoς 2010, p. 44. []
  7. P. Pazzi, I punzoni dell’argenteria veneta, Pola 1992, p. 142 n. 437. []
  8. C. Rigoni, Calice, in M. Collareta, G. Mariani Canova, A. M. Spiazzi (a cura di), Basilica del Santo. Le oreficerie, Roma 1995, p. 195. []
  9. A. Faranda, Argentieri e argenteria sacra in Romagna dal medioevo al XVIII secolo, Riminì 1990, p. 178. []
  10. G. Boraccesi, Rapporti tra la Grecia e l’Occidente europeo negli argenti della Cattedrale di Naxos, in «Arte Cristiana», 863, marzo-aprile 2011, p. 137. []
  11. Argenti romani restauro di arredi sacri del Duomo di Tuscania, catalogo della mostra (Roma, 15 giugno – 15 settembre 1983), a cura di A. M. Pedrocchi, Roma 1983, p. 39. []
  12. A. M. Pedrocchi, Argenti sacri nelle chiese di Roma dal XV al XIX secolo, Roma 2010, pp. 83, 85, 108. []
  13. G. Barucca, Argenti romani del Settecento nella Marca Picena, in G. Barucca e B. Montevecchi, Atlante dei Beni Culturali dei territori di Ascoli Piceno e di Fermo. Beni Artistici. Oreficerie, Milano 2006, figg. 32, 54, 57. []
  14. G. Boraccesi, Una sinfonia di argenti…, 2014. []
  15. P. Pazzi, I punzoni…, 1992, p. 150, n. 479. []
  16. P. Pazzi, I punzoni..., 1992, p. 114, n. 287. []
  17. G. Boraccesi, Una sinfonia di argenti…, 2014. []
  18. G. Boraccesi, Rapporti tra la Grecia…, 2011, pp. 133-134. []
  19. A. Bulgari Calissoni, Maestri argentieri gemmari e orafi di Roma, Roma 1987, p. 197. []
  20. G. Boraccesi, Rapporti tra la Grecia, cit., pp. 137-138. []
  21. A. M. Pedrocchi, Argenti sacri, cit., p. 149. []
  22. J. Diviš, I marchi negli oggetti d’argento, La Spezia 1989, p. 36 e 234. []
  23. Queste informazioni mi sono state riferite da don Marco Foscolo che ringrazio. []
  24. G. Boraccesi, Una sinfonia di argenti…, 2014. []