Raimondo Mercadante

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Il progetto critico di Walter Curt Behrendt sull’architettura e le arti decorative in Der Kampf um den Stil im Kunstgewerbe und in der Architektur (1920)

DOI: 10.7431/RIV11092015

È necessario calarsi nell’atmosfera  degli anni che precedettero la Prima guerra Mondiale per comprendere  lo spirito che informa l’interessante testo di Walter Curt Behrendt La battaglia per lo stile nelle arti applicate e nell’architettura (Der Kampf um den Stil im  Kunstgewerbe und in der Architektur), edito a Stoccarda nel 1920 con una premessa di Henry van de Velde1 (Fig. 1). Il volume appartiene a una collana di saggi a cura dello storico della cultura Karl Lamprecht e del suo allievo Hans Helmolt2. Il lavoro, iniziato dal giovane architetto di famiglia ebrea nel 19123, un anno dopo la pubblicazione della sua tesi di dottorato4 e ad alcuni anni dall’inizio della sua collaborazione con Karl Scheffler, costituisce una delle prime storie del modernismo europeo nell’ambito dell’architettura e delle arti decorative, con particolare riferimento all’area tedesca e un occhio a quanto avveniva oltreoceano. L’autore afferma, nella nota introduttiva, di essere stato interrotto nella stesura dal coinvolgimento nella guerra e di aver ripreso e terminato il manoscritto allorché «le condizioni da cui era scaturito il progetto del libro e che ne avevano determinato l’impianto erano radicalmente mutate a causa delle trasformazioni storiche. Anche per il movimento artistico, oggetto dell’opera, la guerra Mondiale rappresenta quantomeno una cesura, se non un epilogo.»5

Le premesse delle riflessioni di Behrendt vanno ricercate nel clima di intensa e vivace concorrenza economica tra le potenze europee per la supremazia, non solo e non tanto strettamente commerciale, quanto estetica, nell’ambito dell’architettura e soprattutto delle arti applicate, ovvero del nascente design dell’arredo e poi del prodotto industriale. D’altra parte, il termine “lotta” (Kampf), applicato allo stile, non manca di richiamare la terminologia politica della Germania guglielmina, cioè il famoso Kulturkampf aperto dal cancelliere Bismarck contro la Chiesa cattolica e il papa Pio IX negli anni della fondazione del Reich6.

Anticipando di oltre vent’anni più note opere storiche sul Modernismo, come Pioneers of Modern Architecture di Nikolaus Pevsner, il libro di Behrendt fa parte di una costellazione di libri apparsi negli stessi anni e dedicati alle declinazioni del fenomeno Arts and Crafts nel mondo germanico: Das Neue Kunstgewerbe in Deutschland di Joseph August Lux(1908), Moderne Baukunst di Karl Scheffler (1908) Wirtschaft und Kunst di Heinrich Waentig(1909), Étude sur le mouvement d’art décoratif en Allemagne di Charles Edouard Jeanneret (1912).

L’opera si compone di due parti, rispettivamente dedicate al Kunstgewerbe, a cui si consacrano sei capitoli e all’architettura, con cinque. Già l’indice è indizio, nei titoli dei paragrafi, dell’impegno anche teorico-concettuale con cui si analizzano i fenomeni artistici contemporanei.  L’introduzione affronta il panorama europeo, esaminato alla luce delle acquisizioni della sociologia contemporanea di Weber, Waentig, Sombart, frequentemente citati, con paragrafi come: Arte e società; Influenza dei rapporti sociali sull’arte; Relazione tra vita e forma artistica(Lebensform und Kunstform); Ambiente sociale nel XIX secolo; Grande impresa e Metropoli(Großstadt); Razionalismo della vita spirituale(Geistesleben); Capitalizzazione della produzione artistica. Il primo capitolo è dedicato all’arte del secolo precedente, esaminata a partire dal Classicismo tedesco e con una riflessione su Schinkel: La nozione del bello del Classicismo; Goethe e Winckelmann; L’arte come prodotto culturale; La rottura con la tradizione; Schinkel, prototipo del suo secolo; Esempi di formazione artistico – intellettuale dal mondo dell’architettura e dell’artigianato; Critica dell’arte didascalica; Gottfried Semper; Arte dei surrogati; Tendenze culturali; Sforzi verso un Neue Stil; Origine del movimento delle arti applicate. Il secondo capitolo si suddivide in tre ampi paragrafi. Il primo segue soprattutto la tesi di Werner Sombart sulla centralità del Socialismo nelle manifestazioni culturali dell’Ottocento: Il Socialismo come stimolo; Socialismo come visione del mondo; La figura dell’artista e il Socialismo.

Il secondo descrive “L’esempio dell’Inghilterra”: Conseguenze dell’industrializzazione sull’artigianato; Reazioni; Ideologia del movimento britannico; Il ritorno al lavoro manuale e alle gilde; Obiettivi etico – pedagogici;  Ruskin; Morris; La Red House; Le officine di Merton Abbey; Norman Shaw e la sua scuola; L’artigianato inglese; la Art and Crafts society; Riforma dell’educazione artistica; Educazione laboratoriale; esiti. Il terzo si intitola “L’utopia del Neue Stil” e descrive i concetti chiave del movimento belga, con particolare riferimento alle tesi di Henry van de Velde, evidenziandone le polarità chiave, tra ricerca della linea, funzionalismo e ideali di aderenza ai materiali: Romanticismo e coscienza del contemporaneo; il Belgio; Affermazione dello Zeitgeist; Henry van de Velde; La scuola naturalista; dottrina estetica del Neue Stil; Funzionalismo, aderenza ai materiali e logica costruttiva; Lo “Stil” di Semper; Nuova tradizione di bottega.

Il quarto capitolo verte sull’influenza dei pittori impressionisti e postimpressionisti, arrivando a trattare dei paesi scandinavi e della situazione tedesca, mentre si eccettuano alcuni filoni simbolisti francesi e l’area latina come quella slava: L’impressionismo come radice del nuovo decorativismo; L’impressionismo come stile pittorico; Il neoimpressionismo; van Gogh e Munch; L’anelito espressivo e il sintetismo; L’impulso per le arti applicate; Simbolismo ornamentale; Il Belgio e Henry van de Velde; Olanda, Danimarca e paesi scandinavi; Germania; Critica del nuovo ornamento; Il superamento della tradizione accademica.

Il quinto capitolo, “L’artigianato come prodotto commerciale”, si concentra sull’analisi teorica della produzione nelle arti applicate, riflettendo sullo statuto di merce degli esiti del Kunstgewerbe: La lotta per il mercato; Esigenza di qualità; Qualità materiale e spirituale; Il valore di mercato della qualità intrinseca dei prodotti; La questione della qualità nell’artigianato, un problema di organizzazione del lavoro; Cooperazione di arte, industria e commercio; il Deutscher Werkbund; l’impresa industriale; L’ideale di qualità del Werkbund e l’antico modello corporativo; Il lavoro come pratica morale; Imitazioni straniere; Prodotto di massa e tipo; Questioni per il futuro.

Il sesto, “Gli esiti pratici”, è un riesame delle produzioni: La rilegatura; Cartellonistica; Tessuti; Ceramica, porcellana, vetri; Il gioiello; Lavori in metallo; Mobili; Un bilancio.

Nella seconda sezione, dedicata all’architettura, il primo capitolo, “Accademia e spirito vitale”, contrappone la lezione dello storicismo alle ricerche del nuovo stile, con rimandi ad Alfred Lichtwark e alle tesi, condivise con Scheffler, sullo stile della metropoli: Autocrazia dell’ideale rinascimentale nell’architettura moderna; Natura di questo ideale; Principi formali nella decorazione; L’arte proporzionale; Propagazione del culto del Rinascimento; Ultima declinazione nel classicismo; Camuffamento e rinnovamento della tradizione; Conseguenze; Contrasto tra l’ideale accademico e l’aspirazione alla vita; Il nuovo anelito verso l’espressività e la caratterizzazione; L’esempio degli ingegneri; La nuova monumentalità; Missioni per il futuro; Riconfigurare l’insegnamento della professione; Defilarsi dall’ideale del Rinascimento, condizione essenziale per un nuovo stile del costruire.

Il secondo capitolo tratta un tema molto sentito dalla letteratura architettonica tedesca di quegli anni: quello del corretto abitare per la classe media; il titolo originale infatti “Bürgerliche Baukunst” non è del tutto traducibile con “Architettura civile”, in quanto bürgerlich rimanda in tedesco a borghesia, Bürgertum, e Baukunst è il termine utilizzato significativamente da autori come Hermann Muthesius in Stilarchitektur und Baukunst (1902) o da Otto Wagner nella riedizione del 1914 di Moderne Architektur, già uscito nel 1895 e intitolata Die Baukunst unserer Zeit. Dem Baukunstjünger ein Führer auf diesem Kunstgebiet. Analizzando, sulla scorta dell’impronta conservatrice di Tönnies, le premesse sociali della famiglia e la sua centralità nel costituirsi della casa, l’autore confronta l’impostazione britannica della country house con quella più urbana, prevalente in Germania, arrivando a suggerire una tipologia di isolato già affrontata nella tesi di dottorato Die Einheitliche Blockfront del 1911 e tipica dell’urbanistica berlinese d’inizio Novecento. I paragrafi sono: La famiglia, depositaria dell’arte di costruire le abitazioni; Antichità e Medioevo; La società nel XVIII secolo; dissoluzione della famiglia e della società nel 19. secolo; Effetti sull’architettura abitativa; La Mietshaus come tipo; L’architettura residenziale in Inghilterra; Costumi nazionali nell’abitare; La casa di campagna britannica; Casa individuale e giardino; Case autonome e complessi realizzati da cooperative; L’impresa edilizia privata; La casa multipiano della grande città; Il disegno unitario degli isolati; Migliorare l’arte di costruire la casa grazie a un innalzamento del livello abitativo.

Il terzo capitolo si affaccia sull’aspetto complementare del costruire: “L’architettura pubblica”. Di essa si biasima lo scadimento contemporaneo a opera sempre più burocratizzata e sottratta a una partecipazione-ideale- con lo spirito della comunità; un approccio, questo, che presenta ancor oggi molti elementi di interesse in rapporto all’attualità. Il capitolo è così scandito: L’architettura come mezzo di rappresentazione; Significato dell’architettura pubblica nel mondo contemporaneo; Burocratizzazione delle costruzioni pubbliche; Il funzionario edile; Lusso; Varietà nel progetto in pianta; Carenza di senso monumentale; Chiese e monumenti; Arte cimiteriale; Edifici per le amministrazioni; Biblioteche e musei; Edifici universitari e scuole; Ospedali e ospizi per anziani; Teatri; Concettismo delle costruzioni pubbliche.

Nel penultimo capitolo, “Le opere legate ai commerci e alla mobilità mondiali”,  viene invece trattato un tema di grande rilievo nella dimensione costruttiva e teorica insieme dell’architettura, ovvero quello delle strutture ingegneristiche realizzate con il materiale tipico della seconda rivoluzione industriale, l’acciaio e con quello ormai largamente in via di affermazione in quegli anni, il cemento armato. Nella trattazione Behrendt si ispira allo stesso ideale di fusione tra esigenze tecniche e afflato artistico, “volontà d’arte”, che si ritrova in Eisenbauten di Alfred Gotthold Meyer(1907), del resto citato nelle pagine behrendtiane7. Nel fare ciò, l’autore intende peraltro rigettare esigenze di ambientamento delle strutture industriali, messe in campo dalle correnti conservatrici animate da Schultze Naumburg e dalle associazioni come il Dürerbund.  I titoli dei paragrafi sono: Nuovi modelli spaziali, nuova accentuazione della massa, incremento dimensionale; Nuove costruzioni; L’acciaio come materiale costruttivo; La scienza statica; La professione dell’ingegnere edile; Sulla formazione dell’ingegnere; Modelli formali delle strutture in acciaio; Costruzioni in cemento armato; Edifici per l’industria; La cosiddetta Heimatzschutz;  Il grande magazzino; Il palazzo per uffici; Grattacieli; La nuova volontà formale.

L’ultimo capitolo, “La città come costruzione”, affronta infine il soggetto dell’urbanistica, a partire dalla composizione urbana e dai volumi edificati per giungere al tema dei trasporti e della dissoluzione della Metropoli in una città-territorio: La Großstadt come creazione del periodo capitalista in economia; Estensione e crescita delle città; Conseguenze dello sviluppo accelerato; Le funzioni della costruzione urbana; La questione della mobilità; Il traffico a lungo raggio e le ferrovie; Trasporto urbano; Arterie di traffico e residenziali; Il centro abitato; Sobborghi e città giardino; Dissoluzione della Großstadt; Superfici libere, parchi e giardini; L’esempio americano; La città commerciale; Concentrazione nella City; Centri organizzativi dell’urbanistica; Il superamento della Großstadt.

La conclusione sottolinea, alla luce delle conseguenze morali della Guerra sulla cultura europea, lo svuotamento di senso del Kunstgewerbe tanto ricercato dai padri del Modernismo, ridotto a mero gioco formale ma auspica, sempre sulla scia di quel Neue Stil invocato da van de Velde e da Scheffler, l’instaurazione di un nuovo clima di natura religiosa e spirituale che carichi di nuovi valori e istanze morali la produzione futura nei settori oggetto del volume.

1. La scalata verso il successo delle produzioni artigianali: il quadro europeo e la spinta della Germania come sfondo dell’opera

Nell’Europa alle soglie della Prima Guerra Mondiale, il sistema economico protezionista favorisce una forte concorrenza delle produzioni nazionali anche nel campo degli articoli di lusso, quali quelli dell’artigianato di qualità, il Kunstgewerbe analizzato da Behrendt, e il nascente design industriale.

Inviato dal maestro L’Eplattenier, il giovane Charles Edouard Jeanneret, allora in soggiorno di studio a Monaco di Baviera, inizia la sua inchiesta sulla situazione delle arti decorative in Germania8: nel 1908, secondo quanto afferma nel testo, edito quattro anni più tardi, era stato preso da Josef Hoffmann, a Vienna, nell’ambito delle Wiener Werkstätten; successivamente a Monaco sarebbe entrato in contatto con Theodor Fischer e poi con Gunther von Pechmann, direttore della testata “Vermittelungsstelle für angewandte Kunst” e a Berlino avrebbe fatto il rilevante incontro con Peter Behrens. Conosce poi Hermann Muthesius e, a Dresda,  Wolf Dohrn e Heinrich Tessenow per poi passare da Hagen dove fa conoscenza con Karl Ernst Osthaus. Obiettivo dichiarato dell’opera era «la ricerca sulle radici, il percorso biologico di questo organismo, le arti applicate in Germania, un organismo così precocemente giunto a maturità, e la cui forza e vitalità ci appaiono così incredibilmente potenti»9. Il venticinquenne architetto rileva, nelle pagine dello storico testo, la predisposizione della Germania al predominio nelle arti applicate, perché paese privo di una solida tradizione nel settore, tradizionalmente dominato dalla Francia, le cui manifatture erano state innalzate a grande dignità da Luigi XIV  e da Colbert. Ma, mentre in Francia, paese sentito proprio per la vicinanza linguistica e culturale dal futuro Le Corbusier, gli sviluppi più interessanti sarebbero stati negati dalla chiusura del fronte accademico nei confronti di Delacroix, Courbet, Manet, Daumier, Cézanne, Van Gogh, provocando così l’atrofia delle correnti più fruttuose per l’avvenire, la Germania, educata secondo l’autore alla perenne imitazione delle mode e degli stili stranieri(con particolare enfasi sulla Francia), avrebbe operato una svolta nella sua politica culturale dopo il 1870.

«Durante questo periodo, la Germania non formata politicamente vivacchiava senza esprimere nulla di originale; copiava la Francia, da secoli… fino a che non arrivò la Guerra. Era designata più di ogni altro paese ad accettare lo spirito borghese (bourgeoisisme): lo coltivò fino alle sue espressioni ultime; perché non aveva tradizione propria e la sua disorganizzazione paralizzava la sua creatività(non mi riferisco qui, ben inteso, alle arti popolari tradizionali, che non sono più tedesche che bulgare, svedesi, ungheresi: le arti folkloriche sono anzitutto dell’uomo, poi internazionali). (…) Ma ecco il 1870. La Germania trionfa!

Concentrazione, unificazione. Essa diviene un organismo. È la piena vittoria e il suo popolo era robusto e vigoroso. L’orgoglio poteva essere visto sui visi di tutti; la borghesia stava diventando fiera; così facendo, peggiorò la propria condizione! Fu di certo un raro momento nell’arte dei popoli europei. Le città che ne vennero fuori ne sono testimonianza, la Berlino rapidamente ampliata, la Monaco rinnovata, la Stoccarda cresciuta del dopo 1870! Era nata la prosperità economica; esplosero città, fatte di industrie, strade sporche e immensi palazzoni di un gusto imperdonabile; viaggiando attraverso la Germania si apprende molto a questo proposito. Ma l’epicentro di questo spirito appare Berlino, con il suo imperatore che la abita tra i satelliti intorno a lui. E questo spirito, iscritto su ogni pietra sproporzionatamente grande e l’orgoglio, il senso di trionfo, l’affronto ai vinti (e al buon gusto): il Palazzo del Reichstag, il Duomo, il monumento a Guglielmo I dinanzi al Palazzo reale e la Colonna della Vittoria, monumento simbolico al potere- e alla bruttezza- che si fa bella per la sua forza espressiva!

È chiaro che in questa temperie spirituale, la Germania restava al di qua degli scrupoli idealisti dei pittori ribelli di Parigi. Essa crea il proprio Stato, la sua industria, il suo commercio, il suo esercito; in pittura, non offre nient’altro che un Feuerbach, incarnazione di un versante del suo animo sentimentale e romantico, il cui complemento è Boecklin; uno Schwind che favoleggia di greggi abbarbicati in montagna o di borghi di provincia, un Menzel che, con felice coincidenza, viene a dipingere questo popolo con un pennello molto forte. E la Germania produceva ancora un Hans von Marées, il cui genio doveva risultare insopportabile al suo paese e che si allontanò, in cerca di comunione spirituale, a Pompei; un Leibl, legato per amicizia e affinità elettive a Courbet. Le gallerie si riempivano di enormi scene di battaglie, in cui i Francesi fuggono davanti ai caschi a punta. Ora, ecco un aspetto nuovo e inatteso della situazione: la Francia persiste nel rinnegare i suoi artisti tradizionali, l’Institut fulmina e distrugge. Ma la Germania si mette nel settore dell’arte indipendente, anche se trae il suo nuovo gusto dall’assorbimento(acquisto) sistematico di opere dei pittori e scultori parigini(Courbet, Manet, Cézanne, Van Gogh, Matisse, Maillol, etc.) e, d’altra parte, si mostra, inaspettatamente e all’improvviso, colossale per potenza, volontà e capacità di realizzare nell’ambito delle arti applicate. Questi fattori pongono i due paesi in opposizione: la Germania mossa da una rivoluzione, la Francia in  lenta evoluzione. È un fatto accidentale in Germania, che conduce oggi a una sproporzione tra le troppo esigue radici e la smisurata fioritura. È, a causa di una vittoria improvvisa, un’espansione istantanea, un avvenimento di ordine passeggero. La Francia fa uno sforzo lento di concentrazione, lottando contro ciò che si potrebbero dire, “i vizi di un figlio di famiglia”. (…)

Ebbri di successo, essi [i Tedeschi, n.d.T.] hanno una fede illimitata, generatrice di opere. In questa prodigiosa evoluzione, hanno messo un entusiasmo, una freschezza, una disciplina soprattutto, un ammirevole senso pratico, un opportunismo ispirato; hanno demolito le pareti d’avorio che, in Francia, hanno sempre separato gli artisti dalle masse; si sono fatti popolari, sociali, imperialisti, secondo l’occasione, e allo stesso tempo spietati speculatori. Le roccaforti amministrative sono state soggiogate e prese in un sol colpo; le corti dei principi, rivaleggiando in amor proprio, come un tempo Mecenate, diffondevano i fondi e incoraggiavano le iniziative. Adesso lavoravano per il loro imperatore, l’uomo dal casco a punta, l’uomo del Duomo, del Reichstag, del monumento al Kaiser Wilhelm I, della Siegessäule. Gli mettono addosso, per finire, la toga di Pericle. Pericle al comando di un dreadnought!»10

Nella lettura lecorbusierana si mescolano suggestivamente, in una rinnovata Germania tacitiana, la rozzezza dei costumi e del livello di acculturazione con la forza e la vitalità del messaggio di rinnovamento insito in un paese “giovane” e ricco di potenzialità produttive, che facilmente si legano al settore del Kunstgewerbe; paese, insomma, l’Allemagne descritta dal giovane architetto svizzero, che si presenta come gli Stati Uniti del vecchio continente e che rimanda all’americanismo culturale rilevato anche da Karl Scheffler11.

Sfuggiva forse a Jeanneret l’ostilità tra il potere politico ed economico del Kaisertum e le implicazioni culturali del modernismo, ostilità che fatalmente avrebbe spazzato via l’avanguardia culturale dal suolo tedesco prima della Seconda guerra Mondiale, quando lo spirito conservatore che animava nel  profondo il militarismo tedesco si sarebbe estrinsecato nella maniera più evidente.

Non è possibile cioè non sottolineare la dialettica che oppone le manifestazioni del modernismo nell’arte, nella letteratura, nell’architettura e nella musica, se si va oltre Wagner, e la concezione del potere in Germania nella Gründerzeit: mettere Liebermann sullo stesso piano del Dom di Raschdorff, gli interventi di Henry van de Velde con l’insegnamento accademico berlinese, la scultura di Barlach e le incisioni di Kollwitz con le opere di Reinhold Begas e le acqueforti di Menzel. La cultura d’avanguardia, già agli inizi del secolo, venne accettata solo in cerchie molto limitate in Germania e non incise sul gusto, fondamentalmente conservatore, dei poteri dominanti: questo è storia nota e sarebbe sufficiente ricordare le pagine di Julius Meier Graefe, Harry Kessler, Karl Scheffler, Maximilian Harden, o il diario dei tesi rapporti di van de Velde con il Granduca di Weimar per averne conferma.

Tuttavia Jeanneret coglie nel segno quando osserva un compromesso, nel segno della rivalità commerciale tra nazioni in lotta, fra potere e avanguardia. E qui rientrano anche le arti decorative.

Nell’importante volume di Waentig, alcuni estratti rafforzano l’idea di un’alleanza fra Kunst, Macht e Industrie all’insegna della supremazia culturale tedesca anche nella vita quotidiana: «Abbiamo sconfitto i Francesi, ma li abbiamo anche vinti?- si chiedeva Friedrich Nietzsche nel 1873- Se avessimo realmente smesso di imitarli, non soltanto avremmo riportato una vittoria su di essi ma ci saremmo liberati: solo quando avremo imposto una cultura tedesca originale, sarà possibile parlare di un trionfo della cultura tedesca. Ma esiste in particolare una cultura tedesca originale? La cultura è in primo luogo l’unità di uno stile artistico in tutte le manifestazioni esistenziali di un popolo. Sapere e aver appreso tanto non è tuttavia uno strumento necessario della cultura, né un suo segnale e anzi, se è il caso si associa perfettamente con quello che è il contrario della cultura, la barbarie, ovvero la mancanza di stile o il caotico accostarsi di qualsiasi stile. I tedeschi dei nostri giorni vivono in questo caotico guazzabuglio di stili e rimane un serio problema come sia possibile che non si accorgano di ciò, malgrado tutta la loro erudizione e per di più siano capaci di gioire di cuore dello stato attuale dell’educazione. Peraltro, ogni cosa dovrebbe dirglielo, ogni sguardo al proprio abbigliamento, la loro camera da letto, le loro case, una qualsiasi passeggiata per le strade delle loro città, o quando entrano nel magazzino dei mercanti di mode artistiche. (…) Forme, colori, prodotti e curiosità di tutti i tempi e le zone del mondo si affollano intorno ai tedeschi, arrecando quel moderno colorito fieristico che i suoi eruditi dovrebbero contemplare e definire come “la Modernità”.(…) Con questo genere di cultura, in realtà solo una flemmatica snervatezza della cultura odierna, però, non è certo possibile trionfare su nessun nemico, tantomeno su quelli che, come i Francesi, possiedono una vera cultura vitale- non importa di quale valore essa sia- e di cui fin qui abbiamo imitato ogni dettaglio e soprattutto senza un briciolo di buon gusto»12.  Alla citazione nietzschiana si possono associare le parole conclusive dello stesso professore di economia politica: «Così è innegabile, in realtà, come anche dal punto di vista dell’economia nazionale in genere, il miglioramento della produzione artigianale sia da considerare una conquista per il nostro paese e che tutti gli sforzi operati dallo Stato per l’educazione estetica delle masse verranno ripagati anche economicamente.»13

L’opera di Waentig, seriamente presa in considerazione da Behrendt come, più avanti, da Pevsner nella ricostruzione del modernismo, risentiva fortemente nel suo impianto della considerazione in chiave economica delle arti decorative e naturalmente partiva dall’Inghilterra, prendendo le mosse da Carlyle e Ruskin, Morris e le Arts and Crafts per poi passare a Francia e America, Germania e Austria; una seconda sezione trattava il tema “Arte e Industria”, con capitoli dedicati a “arte e lavoro” e “arte e necessità”. Significativamente, il Belgio non aveva un ruolo centrale nella trattazione: più che agli sviluppi strettamente estetici: l’autore volgeva lo sguardo sul ruolo delle grandi esposizioni internazionali e sul tema della concorrenza commerciale. Il recensore dell’opera su “Deutsche Kunst und Dekoration” sottolineava infatti: «Senza dubbio, già oggi la Germania appare aver guadagnato potentemente anche dal punto di vista politico-commerciale, grazie al movimento moderno.»14

Più sfumate riguardo alle considerazioni in tema economico appaiono le pagine di Joseph August Lux: la sua storia del movimento delle arti applicate in Europa percorreva un decennio, dal 1897/’98 al 1908, le cui radici venivano poste nella fervida attività editoriale di Julius Meier-Graefe in seno alla rivista “Pan”, fondata nel 1895 e tesa a diffondere le nuove idee estetiche nate in Inghilterra con William Morris. Si passava poi alla storia di Ruskin e del movimento preraffaellita, con la sua fitta trama di interessi, dalla pittura, all’architettura, alla concezione del mobile, agli arazzi e tessuti, alle ceramiche, nonché alla grafica e al design editoriale. Si affrontava poi il tema del rinnovamento in ambito ornamentale ma con ampiezza di riferimenti e con un’apertura decisamente più europea per ciò che attiene al ruolo dei pittori nello sviluppo dell’Art Nouveau, collegati alle coeve tendenze letterarie simboliste e al rifiuto del precedente Naturalismo di impronta sociale. Un ruolo notevole si attribuiva alla “Primavera sacra viennese”, con il fiorire della Sezession e con notevole risalto per Klimt e Olbrich da una parte e Otto Wagner e la sua scuola dall’altro15. Si passava poi all’ambiente propriamente tedesco, con le “Deutsche Werkstätten” di Hellerau, la situazione a Monaco e Dresda e i profili di alcuni maestri dell’architettura e della progettazione di interni e arti applicate: Bruno Paul, Richard Riemerschmid, Hermann Obrist, Bernhard Pankok,  Josef M. Olbrich, Peter Behrens, Paul Schultze Naumburg. Altri capitoli erano consacrati a “Dieci anni di insegnamento artistico”, “Le esposizioni”, “L’architettura”, dove si entrava più nello specifico rispetto alle parti precedenti, trattando del rapporto tra progettazione e ambiente-città; gli ultimi due capitoli approfondivano invece “Le arti manuali in rapporto all’ambiente architettonico” e “Industria e arte”. Rispetto ad altri autori tedeschi, Lux, austriaco e co-fondatore, nel 1904, della rivista “Hohe Warte”16, espressione degli ideali delle Wiener Werkstätten, accentuava l’unità culturale fra Austria e Germania, collocando la rinascita del Kunstgewerbe in una prospettiva più ampia; riguardo al tema della produzione in serie e dell’industrializzazione dei prodotti d’arte, lungi dal condividere gli appelli a una tipizzazione, l’estensore dell’opera tendeva a esaltare l’apporto creativo individuale e a considerare gli oggetti prodotti a macchina come destinati a una clientela di fascia bassa17. Tuttavia, anche Lux non manca di osservare le manifestazioni del filone più nazionalista nel campo delle arti applicate e le sue parole su Alfred Lichtwark potrebbero essere considerate un corollario delle tesi di Le Corbusier precedentemente riportate: «Dovevamo apprendere dai rivali a sviluppare e a utilizzare le nostre energie. E una volta fatto ciò, se  fossimo stati in grado di incrementare la qualità, mettendo un freno al pattume[finora prodotto, N.d.A.], avremmo potuto trarne le ricadute economiche. Allora avremmo potuto sperare di salvaguardare il mercato interno, tutelando le nostre produzioni e, se possibile, entrare in competizione con gli stranieri.(…) Un personaggio che ha chiaramente contemplato ed espresso obiettivi nazionali nell’ambito della fondazione di “Pan”, è stato Alfred Lichtwark. Bode e Woldemar von Seidlitz gli sono stati alacremente a fianco.  Lichtwark ha riconosciuto limpidamente in Germania la preminenza culturale dei paesi stranieri, in special modo dell’Inghilterra, così come l’arretratezza tedesca nei medesimi settori, ma anche l’incommensurabile valore delle tradizioni arcaiche e popolari locali, facendo di ciò il proprio opus intellettuale. Immenso è stato il suo merito nella rinascenza della cultura tradizionale(heimisch). Lichtwark ha agito da apripista. “Pan” figurava allora come sorgente delle tante correnti spirituali parallele e con un comune obiettivo culturale.»18

Anche Lux, quindi, pur dal suo osservatorio viennese e dalle posizioni progressivamente neocattoliche e anti-industriali, sottolineava lo sforzo corale dei paesi di lingua tedesca di risollevare la Germania dalla cattiva reputazione dei suoi prodotti19, imitando la Gran Bretagna ma non senza trovare stimoli autonomi nelle tradizioni locali, da riprendere come matrice stilistica degli oggetti di design per la classe media. In questo senso, egli rappresentava una delle tante voci del dibattito tedesco sulle produzioni artigianali e industriali, da Friedrich Naumann, a Franz Reuleaux, a Hermann Muthesius, Fritz Schumacher, Theodor Heuss, Ernst Jäckh, solo per citarne alcuni20.

Tutta questa prospettiva, come afferma Kai Gutschow, coinvolge intimamente le riflessioni behrendtiane, che traggono alimento dall’immagine di uno sforzo della borghesia tedesca di dotarsi di un’arte capace di rappresentare il paese, ancora privo di una forte tradizione propria, di fronte alle altre nazioni più avviate: «La critica dell’architettura di Walter Curt Behrendt in Germania tra il 1907 e il 1927 rivela una retorica frequente, spesso di marca nazionalista, quella di una nazione desiderosa di preservare e riplasmare la propria identità nell’atto di creare un’architettura moderna.» 21

2. Progetto critico e Neue Stil

Estremamente significativa per le sue ripercussioni su Behrendt è la trattazione di Scheffler in Moderne Baukunst: in essa, il redattore di “Kunst und Künstler” esponeva la sua teoria, impregnata del Kunstwollen riegliano e  di elementi positivisti ed evoluzionisti, sulla necessità di riportare le istanze artistiche agli elementi trainanti dello Zeitgeist. Secondo Scheffler, l’architettura, il disegno della città, dei monumenti e, fatta salva la minore importanza attribuita a questo campo artistico nel saggio del 1908, le arti decorative, devono entrare in assonanza con le grandi ragioni spirituali e materiali dell’epoca contemporanea, pena il rischio di un’arte di nicchia o marginale. In  questo senso si spiega l’ambizione behrendtiana di descrivere lo sviluppo dell’architettura e del Kunstgewerbe come espressione dei rapporti sociali vigenti e delle aspirazioni profonde della propria epoca. Per Scheffler, «La nostra epoca annuncia un’arte del futuro, che sarà realizzata non da un solo popolo ma da un’intera razza- la germanica. (…) Dobbiamo anzi farci dettare dalle forze della storia, sottratte al volere dei singoli. Solo le determinanti sociali possono rappresentare una reale prospettiva. L’arte, in particolar modo l’architettura, che adempie agli ideali comunitari, non può essere vissuta come gioco da un’umanità seria, che voglia dirsi moderna, cioè vitale, non può essere abbandonata all’arbitrio ma dovrà piuttosto essere vista come un organismo che cresce in ragione dei poteri della vita sociale, come negli organismi naturali la vita nasce in accordo con le forze della natura. Quanto insegna la scienza legata al nome di Charles Darwin sull’esistenza di piante, animali e uomini può essere validamente tradotto nel campo delle leggi evolutive dell’architettura.»22

Il valore protrettico della scrittura richiama in Scheffler, come in Behrendt, l’esempio dell’apostolato artistico di Henry van de Velde, di cui si riprende come premessa, in Der Kampf um den Stil, un brano, di Aperçus en vue d’une synthèse d’art del 1895: in esso, l’autore descrive la produzione dell’arte come un processo ciclico, fatto di vita e morte, fioritura e putrefazione, in cui all’artista spetta il compito di operare per il rinnovamento, mantenendo però memoria della profonda crisi di cui è frutto: «È destino della nostra generazione vedere l’arte abbattuta come un albero che, nel cadere, abbia schiacciato, contorto, strappato, sparso qua e là i propri rami. Sorpresi, a causa della nostra venerazione per l’arte, siamo portati a pensare che la sua caduta sia stata provocata da un avversario potente come la folgore, e il cataclisma che trascina con sé. In realtà sono stati dei vermi ad aver ragione dell’albero dell’arte: sono usciti dalla melma del cuore degli uomini e lo hanno abbattuto senza gloria, senza splendore, senza ricorrere alla sorpresa. La loro azione è stata ineluttabile come una cancrena. (…) Così, la catastrofe si compie periodicamente; l’arte crolla e si disgrega nel corso della storia dell’Umanità, per poi riprendere il suo cammino come un bambino che cresce per diventare l’uomo che va dalla vita alla morte senza che niente di lui si perda. Cambia e si trasforma. La causa della sua distruzione e quella della sua resurrezione sono sempre l’immoralità e la moralità degli uomini. Destino della nostra generazione è stato di trovarci ai confini dell’una e dell’altra; di vivere sul terreno su cui l’albero si è abbattuto e di vedere nello stesso tempo i luoghi in cui germoglia il nuovo seme. Il momento è importante, e ogni fenomeno merita di essere rilevato: i soprassalti dell’agonia e i vagiti della nascita. Affrettiamoci dunque a registrare subito i fatti prima che sia troppo tardi, prima che la corrente ci abbia condotti troppo lontano e che lo spettacolo del Rinnovamento ci abbia abbagliati al punto di cancellare in noi la memoria di tutta la desolazione che pure abbiamo dovuto contemplare.»23

Per Behrendt, l’evoluzione dell’arte è legata indissolubilmente alla società e l’arte, in particolare quella più eteronoma, ovvero l’architettura, insieme alle arti applicate, per essere autentica, deve rispecchiare le tensioni e le motivazioni della comunità(Gemeinschaft):« L’arte è soltanto una parte integrante della cultura nel suo complesso; il suo destino dev’essere scritto dalla condizione generale dello spirito dei tempi e dei costumi vigenti. Il quadro generale della genesi dell’arte sarebbe dunque necessariamente incompleto, la sua valutazione critica non corretta e parziale, se l’arte fosse contemplata in modo autonomo, come prodotto isolato della vita spirituale(Geistesleben) e isolata dal complesso della cultura.» 24

Rifacendosi alle parole di Wilhelm Riehl25 e di Karl Schnaase26, nell’introduzione Behrendt afferma che le circostanze sociali influiscono sull’arte molto più profondamente che non quelle politiche e che dunque, a favorire la fioritura dell’arte non è tanto il prestigio di un regime o un governo quanto la condivisione di un ideale di vita comunitario:«L’arte è il prodotto di una comunità sociale(Die Kunst ist das Werk einer sozialen Gemeinschaft), conferisce espressione formale a un volere e a un sentire comuni»27. Diritto, senso morale e tradizioni contribuiscono a rafforzare il senso di appartenenza, mentre l’unità del modo di vivere (Einheitlichkeit der Lebensformen) produce bisogni di natura materiale come spirituale(estetica). Tra queste esigenze si inserisce l’ossessiva insistenza di fine secolo, comune ancora a van de Velde e Scheffler, sulla creazione di un nuovo stile. Solo l’esistenza di rapporti di vita organici può garantire le condizioni necessarie alla nascita di uno stile artistico; perché ciò accada, secondo il critico alsaziano, è auspicabile la formazione di un’etica corporativa, che garantisca la qualità dei prodotti e il senso di classe degli artisti. Ciò con particolare rilievo per architettura e arti decorative. La borghesia del tardo Medioevo, la classe artigiana del XVII e XVIII secolo si esprimevano unitariamente nell’arte della società di corte e nobiliare, nella sua ricerca del lusso, mentre nelle campagne fiorivano la Volkskunst e l’architettura vernacolare.

Ma, come per il van de Velde di Vom Neuen Stil28, la Rivoluzione Francese costituisce il cardine, il punto nodale del passaggio dal premoderno al moderno nella produzione artistica, con il conseguente smarrimento dei vincoli comunitari a cui essa era legata in passato.  Dalle ceneri della società organica, in cui i valori sono andati dispersi, nasce l’industrialismo, alla produzione manuale si sostituisce sempre più l’impatto della macchina, al sapere di bottega l’insegnamento scolastico e sistematico; alle vecchie classi sociali subentra la contrapposizione tra ceto industriale e proletariato operaio. Soprattutto però, per Behrendt, seguendo le letture sociologiche di Max Weber e di Werner Sombart(quest’ultimo esplicitamente citato), caratteristica della nuova epoca è il predominio del raziocinio, l’intellettualismo che ragiona per nessi di causa ed effetto. All’ipertrofia del Verstand si lega ineluttabilmente il decadimento delle facoltà creative, come già aveva osservato Schiller, altro autore richiamato da Behrendt. Come declina l’inclinazione ingenua verso l’arte, così decade anche la facoltà di godere del bello artistico, cui si sostituisce la feticizzazione del prodotto d’arte come bene di lusso. La Großstadt diventa l’epicentro frenetico della nuova vita sociale29. Perduto il contatto con il prodotto finito, l’operaio, che ha preso il posto dell’artigiano, è privato del rapporto di responsabilità con la sua opera come con il committente. Nella accesa conflittualità del presente, segnato da tensioni tra produttori e produttori e tra capitalisti e classe operaia, non si intravedono le condizioni favorevoli per la ricerca di un nuovo stile unitario del XX secolo; solo con il ripristino di una certa organicità sociale, secondo Behrendt, si avrà modo di realizzare una nuova unità delle espressioni artistiche30.

2.1 Organicismo sociale e produzione artistica. Predominio del Verstand

La ricerca di un nuovo stile, ancor prima che in van de Velde, affonda le radici nel dibattito ottocentesco in Germania sull’esaurimento dell’eclettismo e sulle nuove potenzialità estetiche delle tecnologie, che va fatto  risalire almeno ad Heinrich Hübsch e al suo In welchem Style sollem wir bauen? del 182831. Già Klaus Dohmer negli anni ’70 del Novecento ha ricostruito i capisaldi della diatriba sullo stile architettonico da adottare per il mondo moderno dagli anni del Classicismo ai primi del Novecento32.

Le polarità principali sono quelle di stile e tecnica, classico e gotico, artigianale e industriale, ripetibile in serie versus unico; ma nella seconda metà del secolo e negli anni fino alla Prima Guerra Mondiale domina una dialettica irrisolta tra cultura e civilizzazione che è espressione delle tensioni che attraversano più in generale la società, anche da un punto di vista politico.

Le posizioni behrendtiane sull’organicismo sociale riprendono, nella contrapposizione tra comunità e società, un punto cruciale della sociologia tedesca, a partire da Tönnies; le parole di György Lukács, ne La distruzione della ragione rendono validamente l’affinità del progetto critico dell’autore con tale clima: «La topica del contrasto della “Comunità” rivela pertanto il carattere di questa critica[quella di Tönnies, estranea all’anticapitalismo romantico, N.d.A.]. È il contrasto fra ciò che è morto, meccanico, artificiale, della “Società”, con l’organicismo della “Comunità”: «Come un congegno costruito ad arte o una macchina, predisposto per un preciso scopo, sta ai sistemi organici e ai singoli organi di un corpo animato, così sta un aggregato di volontà di questa sorta- una forma di volontà elettorale- rispetto a un aggregato di natura differente- una forma di volontà consustanziale.»(Tönnies, Gemeinschaft und Gesellschaft, 3 Aufl., Berlin 1920, p. 102) Questa contrapposizione non è affatto originale ma trae comunque valore metodologico dal fatto che Tönnies ha influito sul contrasto, successivamente divenuto fondamentale per la sociologia tedesca, fra “Kultur” e “Zivilisation”.

Questa dialettica sorge naturalmente dal sentimento di disagio dell’intellighenzia borghese nei confronti dello sviluppo culturale capitalistico e in particolare imperialistico. La questione teorica posta in realtà, al di là di questo alone sentimentale, è la nota affermazione di Marx secondo cui il capitalismo in generale influirebbe negativamente sul progresso dell’arte(e soprattutto della cultura)»33.

Nel primo capitolo dell’opera, Behrendt sottolinea l’intellettualismo dell’arte dal XIX secolo in poi: con richiami a Lessing, Winckelmann, Goethe, si fa luce nell’architettura e nelle arti applicate il predominio del raziocinio e delle metodologie basate sull’istruzione e la formazione scolastica, su scienza, filosofia e storia anziché sulla pratica e sul gusto artigianali. La soglia tra il modo premoderno e quello influenzato dal Verstand sta negli anni “intorno al 1800”: l’autore divide perciò l’opera realizzata di Schinkel, il maestro più significativo in Germania in quegli anni, tra una prima fase, fino alla Neue Wache, ancora legata alla continuità con la tradizione del sapere manuale e una successiva, con l’Altes Museum e la Nikolaikirche di Potsdam come oggetti di punta, segnata dal prevalere del criticismo sull’impulso artistico. Stessa modalità viene intravista nei tentativi di riforma dell’artigianato intrapresi dall’architetto. Si osserva in questa posizione ancora un’affinità con il maître-à-penser Scheffler, che si era espresso in termini analoghi nel saggio Idealisten, del 1909, ove il critico operava un radicale ripensamento della tradizione artistico – filosofica tedesca. Secondo Scheffler, lo spirito della cultura tedesca, nell’intento di superare la contingenza dovuta, specie nel Nord e nella Prussia, priva di solidi riferimenti estetico – ideologici, alle migrazioni di popoli, all’incertezza politica e geografica, si sarebbe aggrappata all’idealismo come materia per costruire una forte immagine di sé. Esso avrebbe prodotto, in tal modo, un’arte imitativa e disorganica, classicista e non classica, laddove ultimo momento creativo sarebbe stato invece il Barocco34.

Una prima coscienza dell’immanenza dei fattori materiali nell’arte si sarebbe avuta con il lavoro teorico di Gottfried Semper e con lo strutturalismo del suo approccio, teso a valorizzare le tecniche come elemento genetico del costruire. A sua volta, Semper avrebbe intuito il rischio insito nell’eccessivo entusiasmo per le nuove tecnologie e l’acciaio35. Tuttavia, nemmeno Semper sarebbe riuscito a sottrarre il diciannovesimo secolo all’intellettualismo di fondo, rimproverato da Behrendt, il quale adduce come prova estrema la nota vicenda della competizione indetta da Massimiliano II di Baviera per la creazione ex-nihilo di un nuovo stile architettonico36. Tale peccato originale si ripercuoterebbe ancora nello stesso modernismo analizzato: anche il movimento per il Kunstgewerbe non sarebbe nato da un impulso organico ma da un progetto culturale.

Anche questo punto di vista il libro di Behrendt coincide nel suo approccio teorico con caratteristiche della coeva sociologia, che associa al capitalismo l’immagine del culto dell’efficienza e del razionalismo:«una presentazione epidermica del capitalismo, incapace di penetrarne i reali problemi economici(soprattutto la questione del plusvalore, dello sfruttamento). La realtà dell’alienazione del lavoratore dai mezzi di produzione, del lavoro franco, viene placidamente riconosciuta e gioca un ruolo importante, specie nella sociologia weberiana. Ma il segno caratterizzante del capitalismo resta il razionalismo, la mentalità calcolatrice. (…) Questa distorsione astrattizzante dà ai sociologi tedeschi la possibilità di attribuire a forme ideologiche, in primo luogo diritto e religione, un ruolo pari a quello dell’economia, anzi determinante di essa. Ciò ha per conseguenza, d’altra parte, che l’analogismo prende sempre più il posto dei nessi causali dal punto di vista metodologico. (…) Sulla base di tali analogie si gettano le fondamenta di una critica della cultura che mai giunge ai temi essenziali del capitalismo, pur dando libero spazio all’insoddisfazione nei confronti della cultura capitalistica, nonostante si affermi il razionalismo proprio di essa come “destino”(Rathenau), ipostatizzando così il capitalismo come necessario e inevitabile.»37

3. Socialismo e utopia del nuovo stile

Ancora parzialmente legata al quadro epistemologico della sociologia tedesca di fine Ottocento è la trattazione delle premesse socialiste del movimento del Kunstgewerbe, ricondotto, com’è naturale, a Ruskin, Morris e al movimento preraffaellita nelle arti. Behrendt riprende nell’impianto generale assunti tratti dal saggio di Sombart Sozialismus und soziale Bewegung im 19. Jahrundert38 ma unendoli ad altre voci della cultura decadente di fine secolo come il teorico dell’estrema destra Paul de Lagarde, il controverso scrittore di simpatie socialiste Paul Ernst o a un padre della fantascienza come Herbert George Wells, in un impasto di cultura alta e di massa, decisamente poco scientifico o marxista ma comunque eterogeneo, stimolante e rivelatore della prospettiva culturale dell’autore, in quegli anni molto vicino a Karl Scheffler e alle caratteristiche ambiguità di “coscienza di classe”, tra esaltazione della borghesia e aspirazioni estetico-sociali39.  Behrendt sostiene come il socialismo sia stata la matrice comune di tutte le forme progressiste in arte e nel pensiero, essendo esso basato su una critica ai limiti materiali e ideologici del capitalismo. Ponendo il movimento socialista in una prospettiva culturale e di storia delle idee, ne esalta soprattutto il valore religioso. Questo carattere, comune all’irrazionalismo di fine secolo, nella riflessione artistica come in quella politica, si lega ai fantasmi di una religione germanica vagheggiati da Lagarde: «la religione non è altro che la coscienza della formazione metodica e finalizzata degli individui, dei popoli e della specie umana»40. Come molti altri intellettuali ebrei del periodo, Behrendt non si lascia frenare dall’antisemitismo di Lagarde, giudicato da alcuni storici precursore delle teorie razziali nazionalsocialiste41: il filologo e storico delle religioni era diventato uno degli autori più letti e divulgati in Germania alla fine dell’Ottocento. Un filo concettuale lega il pensiero nazionalista di Lagarde, fondatore, almeno nelle intenzioni, di una religione “germanica”, anticlericale e totalizzante, alle riflessioni di Paul Ernst, scrittore in rapporti di amicizia per un certo periodo con Scheffler42. Socialismo e democrazia «sono la grandiosa fantasmagoria, il maestoso riflesso mitizzato delle forze economiche: non la volontà di un futuro migliore ma la trasfigurazione ottimistica, la transustanziazione religiosa di un presente negativo», questa la citazione behrendtiana di un contributo del 1906 dove il letterato giustificava il suo trasferimento a Weimar43.

Dopo studi di teologia che lo avevano portato ad accarezzare l’idea di diventare pastore protestante, Ernst, figlio di un direttore minerario della regione dell’Harz, si era entusiasmato al socialismo umanitario tolstoiano, poi riformulato in un marxismo intransigente che lo aveva portato alla rottura con lo stesso Engels44. Dal 1903 si era trasferito a Weimar, nell’ambiente della corte granducale frequentato dallo stesso van de Velde: lì si era dedicato all’attività teatrale, collaborando con lo scrittore ebreo Samuel Lublinski e il drammaturgo e poeta Wilhelm von Schmolz, quest’ ultimo futuro sostenitore del nazismo. Come annotava lo stesso Scheffler, Ernst riversava nel socialismo una carica religiosa, eredità degli studi di teologia, che conferiva un approccio irrazionalistico, messianico e predicatorio al suo marxismo: non a caso esiste una fitta corrispondenza tra il poeta e il giovane Lukács45. Behrendt riprende dal saggio di  Ernst l’idea secondo cui la società capitalistica imprime arbitrio, disordine e superficialità nella produzione artistica; pertanto è compito dell’artista far riemergere istanze sociali e una riorganizzazione corporativa e tendente alla qualità del lavoro come del prodotto finito.

Nella narrazione del movimento Arts and Crafts, Behrendt prende le mosse dalle osservazioni di Gottfried Semper, che evidenziavano la progressiva alienazione dall’arte tipica dell’industrialismo dominante; passando alle teorie di Ruskin e Morris, ne critica però la natura reazionario-romantica, indicando una posizione più propensa agli obiettivi della grande industria che non al miglioramento della condizione del lavoratore e dell’artigiano. In pratica, declina le tesi moderniste già nella linea di Naumann e di Muthesius. Nella ricostruzione vera e propria, il critico si sofferma sulle varie produzioni della ditta Morris, sulla Red House di Philip Webb, sulle officine di Merton Abbey, sull’influenza sul successivo movimento britannico, capeggiato da Ashbee e sulla Guild of Handicraft. Si menzionano anche la Liberty&Co., gli architetti Voysey, Baillie Scott e Mackintosh a Glasgow. I fatti inglesi vengono rapportati alla situazione tedesca: così, ad esempio dopo aver parlato di Norman Shaw si introduce a proposito dell’architettura domestica Alfred Messel, già oggetto di una monografia da parte dell’autore nel 1911; oppure, quando si ricollega il mobile e il decoro Art and Crafts al Seicento inglese, si associa ciò alla figura di Paul Schultze-Naumburg e al recupero del vernacolare o del Biedermeier.

Passando al Neue Stil, Behrendt, dopo aver introdotto con una citazione dalle Considerazioni inattuali di Nietzsche, descrive la migrazione delle idee morrisiane in Belgio, paese segnato storicamente dal Socialismo46: qui non si può parlare di una vera ricostruzione storica, perché si escludono completamente dalla scena Paul Hankar, Victor Horta, Gustave Serrurier-Bovy e il contesto belga per incentrare invece la trattazione sul solo van de Velde47. «È stato van de Velde a formulare l’utopia del Nuovo Stile, esprimendo la tensione del nostro tempo per un’arte propria, viva, il desiderio di annientare il materialismo che soffoca ogni impulso organico-spirituale.»48

Questa versione volutamente parziale dei fatti naturalmente si lega al rapporto dell’architetto belga con il movimento tedesco e la sua fondamentale germinazione esercitata sulla storia dell’architettura e del design in Germania, con i suoi lavori di fine secolo a Berlino e l’opera prestata per la corte del Granduca di Weimar, con le note vicende della Kunstgewerbeschule49. Lo Stil di Semper viene così legato al nuovo stile vandeveldiano, in una comune ansia di farsi interpreti dei problemi spirituali del proprio tempo, primo fra tutti il rapporto con l’universo della macchina: non a caso, sulla fine del capitolo, Behrendt si rifà a un motto utilizzato quasi identico nel primo numero degli Annali del Deutscher Werkbund: «Die Durchgeistigung der gewerblichen Arbeit»50.

4. Principi formali del modernismo

Altrettanto orientata è la ricerca storica sui modelli formali desunti, nell’artigianato, dalla pittura impressionista, postimpressionista e simbolista: a parte i dovuti riferimenti ai maestri francesi iniziatori della rivoluzione pittorica, si tace quasi del tutto sulla scuola di Nancy, sul contesto francese e l’area latina e slava51. Anche l’Austria è messa chiaramente in secondo piano, nella prospettiva tedesca assolutizzante che caratterizza l’opera. Behrendt inizia la trattazione dall’Impressionismo, giudicato fondamentale per il contributo antistoricista, per la sua pittura infiammata dalla vita moderna, per le sue valenze decorative. Stilisticamente, però, l’Impressionismo viene legato a una tendenza alla dissoluzione della forma chiusa, tendenza che si associa a uno slegamento della pittura dal contesto architettonico e dalle arti sorelle52. La successiva generazione di pittori è invece animata, secondo l’autore, dalla volontà di ricollegare la pittura a un sistema più ampio. Si va contro i valori atmosferici, per esaltare le facoltà espressive interiori; si sostituisce alla ricerca dell’impressione istantanea il vigore e il pathos di un’arte monumentale. L’impulso verso il grande stile porta a svuotare di naturalismo le immagini del paesaggio e la rappresentazione in generale. Si esaltano i valori del ritmo e del colore, ci si ispira a Giotto e ai mosaici ravennati, al decorativismo della pittura su vetro e degli arazzi. Si fa riferimento ai neoimpressionisti e alle loro ricerche sul pointillisme e la scomposizione dello spettro visivo. Si sottolinea il rilievo delle ricerche di van Gogh e Munch sull’arbitrarietà nella scelta dei colori e sul loro significato simbolico; a questo proposito si parla del progetto vangoghiano di decorare un ambiente con i suoi girasoli, per creare l’effetto di una sala con vetrate gotiche. I due artisti proto-espressionisti vengono accomunati dall’ansia di esprimere il pathos spirituale e l’inquietudine del proprio tempo. Solo cenni vengono dedicati alla scultura, di cui peraltro si evidenzia il crescente legame con l’architettura: si citano Hermann Haller, Barlach, Willumsen, Zyl (quest’ultimo menzionato per i lavori relativi alla Borsa di Amsterdam di Berlage53). La ricerca di modelli anticlassici, nella tensione verso il monumentale, porta ad avvicinarsi all’antico Egitto, all’arte asiatica e indiana, al Gotico. In particolare, si richiama il testo di Worringer, Formprobleme der Gotik, del 1911, per l’analogia con la volontà d’arte nervosa ed espressionistica della scultura coeva. In tal senso si osserva un’altra vicinanza con le riflessioni di Scheffler in quegli anni, espresse in Die Architektur der Großstadt del 1913 e nel saggio Der Geist der Gotik, apparso nel ’1754.

Non manca un passaggio sui paesi scandinavi, con Gerhard Munthe in Norvegia, Anker Kyster, Ferdinand Willumsen e l’architetto Thorvald Bindesbøll  in Danimarca. Per l’Olanda, si parla di Jan Toorop, Jan Thorn Prikker, l’architetto Karel De Bazel, il grafico J.M.L. Lauweriks.

A questo punto si passa al design del mobile, con ancora un posto determinante per van de Velde, giudicato il vero fondatore del vitalismo plastico nel dominio dell’arredamento moderno e ricollegato alle correnti tedesche, con August Endell, Hermann Obrist, Bernhard Pankok. Viene valorizzato il ruolo delle riviste d’arte, “Pan”, fondata nel 1894 da Julius Meier Graefe, “Jugend” nel 1896 da Georg Hirth a Monaco, “Dekorative Kunst” di Bruckmann, sempre nella capitale bavarese, “Deutsche Kunst und Dekoration”, di Alexander Koch, a Darmstadt. A proposito del capoluogo dell’Assia, si ricorda naturalmente la Künstlerkolonie con gli interventi di Peter Behrens, Hans Christiansen, Joseph Olbrich.

A Monaco, segno di un interagire degli sforzi artistici con l’industria, Behrendt richiama le “Vereinigten Werkstätten”; a Dresda, la colonia abitativa di Hellerau, voluta dal fabbricante Karl Schmidt. Il terzo capitolo si chiude con due citazioni: una di Wilhelm Riehl, l’altra di Semper. Entrambe sostengono la centralità delle arti “minori” nel rinnovamento dell’architettura: la prima, sostenendo l’importanza di un punto di vista esterno ai fatti, per poter suggerire nuove prospettive; la seconda sottolinea l’importanza dell’artigianato nel mutamento di linguaggio dell’architettura55.

4.1. Avanguardia e reazione. Werkbund e concorrenza commerciale

Altro tema trattato nel libro è quello del contrasto fra radicalismo e tradizionalismo nel dibattito tedesco. Se infatti in Inghilterra il tema dominante era quello delle ripercussioni sociali della produzione nelle arti applicate, in Germania il tema dominante era quello del Neue Stil. Behrendt ricostruisce il processo attraverso cui in Germania il pubblico dei professionisti si è reso consapevole dell’esigenza di rinnovare il repertorio formale delle produzioni, ormai svalutato anche nella reputazione straniera, con contenuti moderni; tuttavia, secondo l’autore, il mondo accademico sarebbe stato incapace di abbracciare una soluzione culturalmente estranea alla tradizione formativa classicista, e ciò per motivi strutturali. In questo frangente si inserisce così la proposta degli architetti autodidatti, animati dalle prime istanze funzionaliste, come Behrens e van de Velde, a cui risalgono esperimenti per la creazione del mobile funzionale.

Ma troppo forte nel mondo professionale e dei non addetti ai lavori era l’aspirazione a un modello stilistico a cui ricondurre le varie ricerche, ed ecco che la nuova via della sobrietà e del rigore, caratterizzata da una forte riduzione dell’ornamento e dall’enfasi sulla struttura dell’oggetto, lanciata dagli architetti di cui sopra, si identifica con un rinnovato classicismo. Sconcerta in questo passaggio la mancata menzione di Adolf Loos, oggi riconosciuto come uno dei massimi rappresentanti di una modernità legata profondamente al classico e senza dubbio uno dei maggiori polemisti e protagonisti attivi del dibattito sul design del tempo. Invece, Behrendt si sofferma sulla figura molto più controversa di Paul Schultze-Naumburg, architetto sostenitore del classicismo “Um 1800”, noto per il suo successivo avvicinamento al regime nazista56. Il silenzio su Loos può essere interpretato come facente parte di una generale sottovalutazione di Vienna, facente parte dell’habitus berlinese del critico, oltre che come uno schierarsi in difesa di van de Velde, oggetto di feroci attacchi da parte dell’architetto di Brno. Il soffermarsi invece sull’animatore della Heimatschutz si spiega invece con la vicinanza dell’autore con la corrente tradizionalista facente capo all’estensore dei Kulturarbeiten e a Paul Mebes, responsabile della nota opera sull’architettura tedesca classicista-vernacolare di cui stava curando una seconda edizione negli stessi anni di Kampf um den Stil. Pur con una venatura critica riguardo al metodo divulgativo dei contrasti visivi Beispiel/Gegenbeispiel, il giudizio behrendtiano è sostanzialmente positivo riguardo agli effetti del messaggio neoconservatore di Schultze-Naumburg, a cui si attribuisce una riscoperta dei valori formali di semplicità dell’epoca Biedermeier, ancorati a un bagaglio di forme certe e pertanto fuori dal rischio di improvvisazioni.

A questo proposito, Behrendt ritorna sulla qualità del prodotto artigianal-industriale menzionando la proposta di riforma dell’insegnamento delle arti e mestieri recentemente ispirata, nel 1905, da Hermann Muthesius, per gli istituti del Land prussiano, con elementi tratti dal sistema britannico57. La trattazione si lega così al tema del Werkbund e della rivalità commerciale con la Francia, di cui, se si tacciono le produzioni e i protagonisti, si elogia il riguardo da sempre osservato nei confronti dei settori produttivi del lusso e dell’alta qualità. L’autore afferma che il Werkbund, con i suoi obiettivi legati al miglioramento delle manifatture legate all’arredamento, ha ispirato paesi come Austria, Danimarca, Scandinavia e perfino le stesse Francia e Inghilterra nella creazione di simili organismi centralizzatori. Tuttavia riconosce anche elementi fallimentari dell’associazione, come il legarsi opportunistico alla corrente della politica commerciale tedesca. D’altra parte, se l’obiettivo del sodalizio artistico era sempre più il raggiungimento di un tipo standardizzato per le produzioni, Behrendt sostiene che questo sarebbe stato ricercato ancora in maniera intellettualistica e non spontanea, dalla naturale evoluzione del fare.

Dopo aver steso un panorama delle produzioni, dall’arte del libro, al manifesto, ai tessuti, la ceramica, la porcellana, i vetri, il gioiello, i ferri, il mobile, tuttavia il critico traccia un bilancio complessivamente positivo per i progressi raggiunti. Sono raffigurati esempi ragguardevoli ma non da manuale: un arazzo di Morris, tessuti di Obrist ed Endell, un lampadario di Otto Eckmann, mobili di Pankok, van de Velde, Riemerschmid, la sala da pranzo della casa Behrens sulla Matildenhöhe, un arredo navale di Bruno Paul, gioielli di Lalique e Lettré, un pavone in porcellana di Copenhagen, bicchieri Lobmeyer di Josef Hoffmann (Figg. 234).

5. Dall’architettura alla costruzione della città. L’abitare nella società di massa

«Quanto oggi riscontra il consenso dei migliori come delle masse è l’architettura. La razionalità tecnica dell’ingegneria trova, in un processo anonimo, le forme funzionali per gli oggetti di uso quotidiano. Il limitarsi al realmente controllabile li conduce a una perfezione, che fa apparire il prodotto umano come necessità di natura; non contiene lacune, durezze, elementi marginali o superflui. Nell’oggettività tecnica in quanto tale, tuttavia, quand’anche raggiunga la perfezione, non si riscontra alcuno stile nel senso delle epoche anteriori. Il raggiungimento di linee, spazi, forme, logici e chiari basta a se stesso. Poiché la nostra epoca non intravede ancora il proprio stile e non è sicura sulle proprie aspirazioni, rimane legata alla funzione pratica; le chiese appaiono inadeguate alla tecnica moderna, perché non possiedono uno scopo tecnicamente adatto. Il mancato soddisfacimento porterebbe involontariamente a perturbare la purezza tecnica. Negli esempi più maestosi, invece si consegue qualcosa in più della forma pratica: una sorta di analogo dello stile.»58 Queste parole di Karl Jaspers potrebbero delineare adeguatamente i limiti della riflessione behrendtiana sull’architettura nel volume qui in esame: per l’autore le istanze attuali del costruire sono determinate dal progressivo ridursi dell’influenza del Rinascimento e dal prevalere dell’elemento tecnico, che si traduce in un crescente minimalismo, evidente nelle strutture più caratteristiche della modernità, i ponti, mercati coperti, silos, stazioni ferroviarie, abitazioni di massa.

L’architettura rinascimentale, arte derivata, aveva diffuso il suo linguaggio formale anche fuori dal vecchio continente, trasformandosi, con un ulteriore arricchimento di potenzialità nel Settecento. Poi, con il diciannovesimo secolo, si era avuto lo svuotamento semantico dell’eclettismo. Ma il modello della macchina, con la sua essenzialità, trovava un sorprendente riscontro nello stile “Um 1800”: uno stile per la metropoli, fatto di edifici in sé non eclatanti ma informati a un severo ethos industriale:«Ispirati in pieno all’enfasi sulle linee e alla brusca forza dei profili, sono le semplici costruzioni utilitarie degli ingegneri, gli arditi ponti e padiglioni in vetro, i gasometri, le torri d’acqua e le gru, malgrado ogni rinuncia ad addizioni ornamentali, conseguono spontaneamente un effetto monumentale, di cui mai sarebbe stata capace l’arte decorativa accademica, con i suoi canoni ereditati dalla storia.»59 Tuttavia, si apre qui, secondo l’autore, il rischio di una divaricazione o di un dualismo tra le competenze dell’architetto e quelle dell’ingegnere: dualismo evidentemente da sanare quanto prima.

Le argomentazioni riprese da Behrendt riguardo l’architettura abitativa prendono ancora le mosse da concetti weberiani, o desunti da Riehl o Gustav von Schmoller: ad esempio quando mette alla base della casa privata il concetto di oikos, ricollegandolo etimologicamente all’economia domestica(Hauswirtschaft) e facendo risaltare il ruolo antropologico e sociale della famiglia, peraltro analogamente a Scheffler. La casa antica, greco-latina, si incentrava sulla corte interna; quella moderna, dal XVI secolo in poi- si noti la marginalità del Medioevo nella visione del critico, almeno relativamente a questo passaggio- manifesta invece una maggiore complessità di funzioni, evidenti in esempi come quelli del patrimonio abitativo di Norimberga, dove l’organizzazione si riflette anche negli esterni. Il XVIII secolo è quello della magnificenza e della fastosa vita signorile, rispecchiata dall’hôtel particulier della nobiltà. Ma già il diciannovesimo secolo mostra l’infiacchirsi della famiglia come generatore di significati e modelli dell’architettura domestica: manca alle abitazioni contemporanee una socialità pari a quella delle classi alte prima della Rivoluzione Francese. L’appiattirsi della vita sociale, unito al prevalere degli interessi economici e della mobilità, porta alla dissoluzione della comunità patriarcale e a un’atomizzazione della famiglia.

Espressione evidente di questo processo è la crisi della casa individuale a vantaggio dell’abitazione condominiale: riprendendo da Hegemann a piene mani, l’autore riporta alla situazione berlinese, dove si era passati da un 50% di case unifamiliari nel 1700 all’1% del 190060.  Un contraltare da seguire attentamente è costituito invece dall’Inghilterra, dove la struttura sociale più conservatrice avrebbe favorito la sopravvivenza e anzi il rilancio della casa singola: se è evidente il rifarsi a Das Englische Haus di Muthesius, chiaro anche il parallelo con la trattazione scheffleriana degli stessi problemi61. Behrendt quindi richiama l’abitudine inglese al possesso della terra e alla coltivazione, la sensibilità per la campagna, la migrazione stagionale verso la country house, la struttura della casa inglese. Immediato il passaggio a Port Sunlight e Bourneville, esempi della garden city ampiamente discussi in quegli anni: come altri autori, Behrendt richiama l’attuabilità di questi programmi in seno a un decentramento della metropoli, reso possibile dai trasporti su rotaia. Da qui, si introduce la divulgazione delle medesime tematiche in Germania, con l’attività illuminata di alcuni industriali come Schmidt a Hellerau o Krupp a Essen. Si suggerisce la standardizzazione e si parla delle cooperative edilizie berlinesi, con le prime Siedlungen.

Tuttavia il critico propende per una coesistenza del quartiere di case singole con la più applicabile abitazione multipiano, a proposito della quale fa il nome di Otto Wagner, riferendosi allo scritto sulla Großstadt del 1910, di cui condivide l’impostazione ma con meno apoditticità e maggiore realismo: «La casa d’affitto multipiano non è l’ideale dell’abitare ma in molti casi rappresenta un’ineludibile necessità.»62 Sulla configurazione esterna da adottare, rimanda alle asserzioni della sua tesi di dottorato sul fronte unitario dell’isolato: la ricerca dell’omogeneità estetica come emblema dell’urbanità e del moderno. Ma la standardizzazione(Typisierung), proprio perché equipara esplicitamente la casa a un prodotto di massa, va attuata di pari passo con le cooperative, lavorando sulla diversificazione per modelli planimetrici adatti alle diverse esigenze sociali e familiari. La socialità permessa dalle corti a giardino, l’uso del colore, la distinzione fra arterie veicolari e pedonali – private, saranno strumenti di articolazione linguistica della nuova Mietshaus. Ma ancora si sottolinea la necessità di un agganciamento dell’architettura all’evoluzione della civiltà, e ciò con un rimando a Tessenow. Tra le illustrazioni del capitolo si trovano complessi di città giardino del London City Council, quartieri di case a schiera di Bonatz e Scholer a Stoccarda, una casa individuale di Tessenow a St. Moritz: chiaramente il criterio non è stato di mostrare riferimenti realmente significativi ma solo suggestivi e in un blando rapporto con il testo.

Per l’architettura pubblica, si presentano la scalea monumentale del tribunale berlinese di Otto Schmalz, la Garnisonkirche di Ulm di Theodor Fischer, la Borsa di Amsterdam di Berlage, la stazione ferroviaria di Helsinki di Eliel Saarinen, strutture tecniche come il ponte sul Reno a Colonia di Behrens, le pensiline in acciaio di Karlsruhe di August Stürzenacker, un silo per merci di Duluth, Stati Uniti, il palazzo per uffici del 1911 di Hans Poelzig a Breslavia, la Nordsternhaus di Paul Mebes a Berlino, la Grosse Schauspielhaus, sempre a Berlino, di Poelzig, i grattacieli dell’Hudson Terminal di New York (Figg. 567).

Dopo aver premesso che la molteplicità di funzioni assemblate nell’edificio pubblico moderno ostacola l’organicità formale del prodotto finito, rendendo difficile la compattezza monumentale degli esempi della tradizione, Behrendt affronta in ordine il tema degli edifici religiosi, dell’arte cimiteriale (riferendosi al crematorio ma senza menzionare quello di Hagen, di Peter Behrens), dei palazzi amministrativi per lo Stato, degli edifici per l’istruzione, delle biblioteche, dei musei, delle strutture universitarie e per lo sport. Non manca il riferimento alle attrezzature sanitarie e ai teatri. Più che a una completezza della trattazione (sarebbe facile scandalizzarsi per la mancanza di una enorme sequela di opere, oggi consacrate come capolavori delle tipologie suddette nel periodo in questione), l’autore ha mirato a una trattazione generale, sui principi ispiratori della produzione architettonica. Certamente, sia al livello della documentazione fotografica che da quello del panorama dei maestri citati, la lacunosità del testo behrendtiano può apparire deludente al lettore odierno: ma forse bisogna ricordare che già le riviste del tempo fornivano un eccellente e ramificato quadro della produzione mondiale nel campo dell’architettura e che all’autore interessava soprattutto sviscerare la propria lettura dei processi in corso nell’ambito del Kunstwollen dei progettisti, orientando anche formalmente il lettore in una interpretazione personale del contemporaneo, parallela a quella di Scheffler o di Fritz Hoeber, autore della fondamentale monografia su Behrens del 191363.

Riguardo agli edifici di carattere tecnico, infatti, è fondamentale riconoscere l’approccio riegliano dell’autore ai temi trattati: riprendendo le tesi di Alfred Meyer64, Behrendt spinge sul valore dell’acciaio e del cemento armato come stimoli a un universo formale nuovo, teso sempre alla creazione di un nuovo stile: si parla ancora di stazioni ferroviarie, e della Anhalter Bahnhof di Schwechten del 1878, di strutture per l’industria, anche qui con un occhio più alle caratteristiche che non ai modelli più noti(non si parla dei lavori per la AEG di Behrens). Si critica l’atteggiamento degli Heimatschützer, difensori del paesaggio alla Schultze-Naumburg, sostenendo l’ineluttabilità delle trasformazioni in corso.

Si trattano poi i grandi magazzini, con elogi per i Wertheim di Messel, i palazzi per uffici, i grattacieli americani, con cenni a Richardson e Burnham, suggerendone l’applicazione in Germania65.

Per quanto concerne l’urbanistica nella visione behrendtiana degli anni a cavallo della Prima Guerra Mondiale, che sarà oggetto di prossime pubblicazioni a cura dello scrivente, si deve sottolineare da un lato il monumentalismo classico di fondo(oggi motivo di grande suggestione, alla luce degli ultimi cinquant’anni di storia dell’architettura, da Louis Kahn e Giorgio Grassi fino ad Hans Kohlhoff e oltre), dall’altro lo stretto legame con le posizioni di Eberstadt, Petersen e Möhring sul piano regolatore per Berlino66.

Il critico richiama alcune voci del dibattito sulla metropoli, da Strindberg al geografo Ratzel; evidenzia i rischi anche per la salute dello sviluppo incontrollato e della sovrapposizione di impianti industriali agli abitati; biasima la squadratura informe di piazze ed arterie, il “culto della strada”, che porta a far lievitare in maniera forzata i valori fondiari, la dipendenza dall’esterno dell’organismo artificiale venutosi a creare negli ultimi anni con l’esplosione della Großstadt, la caoticità del sistema infrastrutturale del trasporto su rotaia a Berlino, fonte di grande perturbazione della mobilità per via delle numerose stazioni di testa (quest’ultimo, un tema su cui molto si sarebbe dibattuto negli anni Venti).

Per contrastare l’immagine sensuale ma opprimente della metropoli come prodotto di un’accumulazione di volumi e attività economiche senza un piano, Behrendt mette l’accento sul tema della decentralizzazione, arrecando l’esempio inglese con Ebezener Howard, seguito in Germania da Theodor Fritsch e dal Gartenstadtbewegung, o ancora il modello statunitense dei grandi parchi, intesi come polmoni verdi della città. In quest’ambito, fa i nomi di Olmsted e di Charles Eliot, del progetto per il parco sul lago Michigan a Chicago, della cintura verde della Grande Boston67.

Insomma, l’autore risente di quel richiamo verso la salubrità, frutto della Mechanisierung, che farà parlare Harry Kessler nel 1933 di «un estremo bisogno di igiene, di salute fisica, luce, aria e sole, ovvero di un nuovo stile di vita» per il nuovo tipo umano, contrapposto «agli snervanti effetti delle odierne imprese tecniche e socio-economiche»68; oppure di quella “freddezza tecnica” descritta da Ernst Bloch ne Lo Spirito dell’Utopia: una tensione a sanificare lo sviluppo capitalistico dai suoi mali, senza rimuoverne la causa, tensione caratteristica di tutto il modernismo.

6. Conclusione. La Grande Guerra e la crisi (momentanea) dello Stile

La conclusione del volume riconduce ancora al motivo dell’ansia “religiosa”, necessaria al movimento artigianale, affinché le istanze di rinnovamento stilistico si possano saldare a quelle che animano la società: è una lettura psicologizzante della produzione artistica, comune a molta della critica d’arte del Primo Novecento: «Solo quando, mediante un mutato posto della religione all’interno della vita spirituale nel suo complesso, si darà luogo a una nuova sensibilità, esisterà, in rinnovato rapporto dell’arte con l’architettura, un nuovo stile, per il quale da tanto tempo lottiamo invano»69.

Tuttavia, è in un articolo dell’autore, apparso nel 1925 su “Die Form”, che si apprezza la saldatura teorica fra le riflessioni sul Kunstgewerbe dell’anteguerra e la nuova situazione postbellica, che a breve sarebbe maturata nei capolavori dello stile funzionale, vissuto del resto da Behrendt a fianco dei massimi rappresentanti della nuova corrente. «L’anno 1914 rese evidente la fine del movimento per il Kunstgewerbe in Germania. La Grande Mostra del Deutscher Werkbund di Colonia forniva un panorama ampio e profondo sull’operare delle arti applicate nel nostro paese. Se mancavano del tutto a questa mostra delle cime vertiginose, si osservava peraltro un notevole innalzamento di qualità delle produzioni medie. Il livello, nel complesso, era indiscutibilmente elevato: dominava il gusto, un decoroso buonsenso, una competenza tecnico-artigianale spesso virtuosistica. Ma degli ideali originari e del contenuto profondo del movimento, era ben difficile trovar traccia in tali produzioni di medio rango(…)  Il cosiddetto Kunstgewerbe si trova attualmente in una situazione quanto mai precaria e complessa. Manca ad esso il chiaro orientamento morale che possa conferire ai suoi prodotti problematicità e impegno, mettendoli sulla via di un’autentica, essenziale progettazione, al di là del semplice decorativismo.(…) Il buon gusto da solo non basta. Esso non può prendere il posto di un orientamento spirituale assente e senza uno stretto legame con un’idea di stile sopraindividuale, la produzione delle arti applicate è campata in aria.(…)Un chiaro orientamento spirituale può arrivare al movimento per l’artigianato solo dall’architettura. Soltanto essa può liberarlo dall’infruttuoso l’art pour l’art della sua attuale condizione, legando l’impulso creativo al senso per lo spazio, creando opere dai contorni netti, che procedano dal modello al dettaglio ornamentale, con uno scopo organico, legato alla progettazione sulle tre dimensioni, che conferisce senso e materia.(…) L’istinto vitale della nostra epoca è diretto verso l’essenziale. Esso mira alla purezza formale come espressione compiuta di un progetto razionale. Il nostro tempo, lasciandosi alle spalle tutto ciò che è frivolo, non ha più il senso per la varietà e le idiosincrasie. È a-ornamentale, non-decorativo, in una parola, antiartigianale.(…) Solo la circostanza per cui la creazione architettonica è oggi sempre più al centro degli interessi di tutto il mondo artistico giustifica la speranza che l’attuale, sventurata e inarrestabile condizione delle arti applicate finisca presto e nel prossimo futuro una volontà creatrice unitaria abbracci tutti i rami della creatività.»70

La crisi della Guerra aveva rappresentato una forte battuta d’arresto per il movimento delle arti decorative e del nascente design, alimentato soprattutto in Germania da motivazioni legate all’imperialismo politico e commerciale, venute ovviamente a cadere con la disfatta del Reich: da questa crisi sarebbe nato l’effimero ma fondamentale Neues Bauen, che avrebbe trovato in Behrendt un ispirato cantore, ancorché immerso nelle medesime ambiguità di coscienza di classe del suo mentore, Karl Scheffler.

  1. L’opera, di cui non esiste traduzione italiana, non ha finora ricevuto alcuna trattazione autonoma, al di fuori delle osservazioni di K. Gutschow, Revising the paradigm: German modernism as the search for a National architecture in the writings of Walter Curt Behrendt, Berkeley School of Architecture 1993 e di D. Mertins, introd. di W.C. Behrendt, The victory of the new building style, Los Angeles 2000(ed. inglese di Der Sieg des neuen Baustils, Stuttgart 1927), pp. 41-44. Altri elementi sull’opera di Behrendt si deducono da M.L. Scalvini, M.G. Sandri, L’immagine storiografica dell’architettura contemporanea da Platz a Giedion, Roma 1984 e nelle introduzioni alle recenti traduzioni italiane: W.C. Behrendt, Il costruire moderno. Natura, problemi e forme, a cura di R. Amirante e E. Carreri, Bologna 2007 e G.A. Platz, L’architettura della nuova epoca, a cura di M. Stavagna, ivi, 2009. []
  2. E. Utitz, recensione apparsa su “Zeitschrift für Ästhetik und allgemeine Kunstwissenschaft“, XV, 1920. Aggiungo che Utitz, filosofo, estetologo e studioso di psicologia, fu autore anche di un volume dal titolo Was is Stil?, Stuttgart 1911. []
  3. Nato nel 1884 a Metz, in Lorena, da una famiglia di borghesia impiegatizia(il padre aveva ottenuto un posto di direttore presso la Reichsbank di Hannover, dopo vari trasferimenti che avevano coinvolto la famiglia), Walter Curt Behrendt compie gli studi universitari al Politecnico di Charlottenburg e successivamente presso quello di Monaco di Baviera. Consegue il dottorato al Politecnico di Dresda nel 1911. Dal 1907/08 e fino all’anno seguente, fa parte del comitato editoriale della rivista “Neudeutsche Bauzeitung”, che comprendeva anche personaggi come Hendrik Petrus Berlage, Peter Behrens, Paul Mebes,Hans Bernoulli, Hermann Muthesius. Dal 1908 fino alla chiusura della testata per motivi politici, scrive per la sezione architettura di “Kunst und Künstler”, la rivista di Karl Scheffler. Dal 1912 al ’16 è architetto per il Ministero dei Lavori Pubblici; sempre nel ’12 prende parte al Deutscher Werkbund. Nel 1914 redige, su incarico di P. Mebes, la seconda edizione dell’opera Um 1800, pubblicata nel ’18. Nel 1913 sposa la pianista Lydia Hoffmann.Sempre nel ’14 diventa redattore di “Architektonische Rundschau”, poi ribattezzata “Wasmuths Monatshefte”. Dopo aver preso parte alla Grande Guerra, dal 1919 al 1926 è operativo presso il Ministero dell’Urbanistica e delle Politiche edilizie della neonata Repubblica di Weimar, occupandosi di edilizia popolare. Fonda nel ‘19 la testata “Die Volkswohnung”, continuata dal 1924 col titolo “Der Neubau”. Agli anni Venti risalgono alcuni dei suoi contributi concreti più rilevanti nelle vicende dell’architettura moderna: dal 1925 è curatore della rivista del Werkbund, “Die Form” e nel medesimo anno partecipa come consulente artistico alla realizzazione del Weissenhof di Stoccarda, insieme a Mies van der Rohe e Hans Poelzig. Contemporaneamente inizia a stringere relazioni con il mondo degli architetti americani e in particolare con il sociologo urbano Lewis Mumford, suo grande sostenitore negli Stati Uniti. In questo contesto pubblica due importanti opere: Der Sieg des neuen Baustils e Städtebau und Wohnungswesen in den Vereinigten Staaten, entrambi nel ’27. Nel 1930 partecipa alla giuria del criticato monumento ai caduti, opera di Heinrich Tessenow, a Berlino presso la Neue Wache.  Nel 1934, a seguito dell’ascesa al potere di Hitler, emigra negli Stati Uniti, dove ricopre, dal 1937 al ’41 la cattedra di urbanistica presso l’ateneo di Buffalo. In precedenza aveva insegnato al Dartmouth College, dove poi ritorna, dal 1941 fino alla morte, avvenuta nel 1945. In America, nel 1937 aveva pubblicato Modern Building. Its nature, problems and forms.   K. Gutschow, op. cit., pp. 80-81; B. Miller-Lane, Architecture and politics in Germany, 1918-1933, Cambridge, Mass., 19852. Il fondo archivistico relativo al critico tedesco si trova presso la Columbia University. []
  4. Die Einheitliche Blockfront als Raumelement im Stadtbau, Berlin 1911: a breve  verrà pubblicata, a cura dello scrivente, la traduzione italiana, nell’ambito di un’antologia di scritti sull’architettura moderna. []
  5. W. C. Behrendt, Der Kampf um den Stil im  Kunstgewerbe und in der Architektur, Stuttgart-Berlin 1920, p. 8. D’ora in poi DK. Tutte le traduzioni di passi in lingua straniera, tranne ove segnalato, sono a cura dell’autore. []
  6. P. Paret, Art as History: Episodes in the Culture and Politics of Nineteenth-Century Germany, Princeton, 1988; H.U. Wehler, The German Empire 1871-1918, engl. transl., Leamington Spa-Dover, 1985; J.C.G. Röhl, Kaiser, Hof und Staat. Wilhelm II und die deutsche Politik, Darmstadt 1987. []
  7. Il titolo completo del testo, completato dall‘architetto Wilhelm Freiherr von Tettau è Eisenbauten: ihre Geschichte und Aesthetik, Esslingen 1907. []
  8. Cfr. la bibliografia americana, presso la quale il testo ha ricevuto maggiore attenzione che non nel nostro paese: N. Troy, Étude sur le mouvement d’art decoratif en Allemagne (A Study of the Decorative Arts Movement in Germany), “Design Issues”, vol. 23, n. 2, pp. 55-65 Massachusetts Institute of Technology, Cambridge  2007; A. Anderson,  Learning  from the German Machine: Le Corbusier’s 1912 Étude sur le mouvement d’art décoratif en Allemagne, in Le Corbusier, Étude sur le mouvement d’art décoratif en Allemagne, Weil am Rhein 2008, pp.331-341(premessa alla riedizione in lingua inglese). Il testo lecorbusieriano era stato riedito in forma anastatica da Da Capo Press, New York, 1968. Minori accenni si ricavano da F. Tentori, Vita e opere di Le Corbusier, Roma-Bari 1979. []
  9. C. Edouard Jeanneret, Étude sur le mouvement d’art décoratif en Allemagne, La Chaux de Fonds 1912, p. 6. []
  10. Ivi, pp. 12-14. []
  11. Cfr. V. Gregotti, Il dissidio su Berlino americanizzata, “Corriere della sera”  del 14.11.2013, recensione a K. Scheffler, L’architettura della metropoli e altri scritti sulla città, a cura di R. Mercadante , Milano 2013. []
  12. F. Nietzsche, Werke, I Abt., Bd. I, Leipzig 1895, Unzeitgemäße Betrachtungen, p. 183 e segg., cit. in H. Waentig, Wirtschaft und Kunst, Jena 1909, pp. 271-272. L’opera di Nietzsche è tradotta in Opere complete di Friedrich Nietzsche, Vol. III, tomo 1: La nascita della tragedia – Considerazioni inattuali, I-III, a cura di G. Colli e M. Montinari, tr. di M. Montinari e S. Giametta, Adelphi, Milano 1972. []
  13. Ivi, p. 409. []
  14. O. Sch., Wirtschaft und Kunst, “Deutsche Kunst und Dekoration”  25, Darmstadt 1909-1910, p. 250. []
  15. A Wagner e alla sua scuola è dedicato il volume Otto Wagner. Eine monographie, München 1914. []
  16. Cfr. M. Jarzombek, Joseph August Lux, Werkbund promoter, historian of a lost modernity, JSAH 63.2, Chicago, June 2004. []
  17. A questo proposito, nel 1908 si sarebbe verificato uno strappo con la posizione favorevole agli interessi industriali di Naumann e di Muthesius in seno al Werkbund tedesco, cfr. nota precedente e J. Campbell, The German Werkbund. The politics of reform in the applied arts, Princeton 1978, tr. it. Venezia 1987, p. 17. []
  18. J.A. Lux, Das Neue Kunstgewerbe in Deutschland,  Leipzig 1908, pp.17-19. Di Lichtwark(1852-1914), celebre direttore della Kunsthalle di Amburgo dal 1886 fino alla morte,  si deve ricordare in questa sede il volume Palastfenster und Flügelthür, Berlin 1899, ried., ivi, 2000 che tratta, sulla base di vari contributi tratti da conferenze, diversi aspetti del costruire moderno e del mobile in ambito borghese; l’autore voleva suggerire, al posto della ripetizione e rielaborazione delle formule accademiche tratte dalla grande storia dell’arte, una progettazione basata su elementi desunti dalla tradizione tedesca, specialmente settentrionale. []
  19. Cfr. S. Muthesius, Das Englische Vorbild. Eine Studie zu den deutschen Reformbewegungen in Architektur, Wohnbau und Kunstgewerbe im späteren 19. Jahrundert, München 1974 e, più recentemente, Id., Nationalisme versus internationalisme: aspects du disours sur les arts appliqués et le folklore en Europe centrale dans les dernières décennies du XIX siècle, in J.Y. Andrieux, F. Chevallier, A. Kervanto Nevanlinna, a cura di, Idée nationale et architecture en Europe 1860-1919. Finlande, Hongrie, Roumanie, Catalogne, Presses Universitaires de Rennes 2006, pp.79-86. []
  20. Cfr. al riguardo i noti contributi di T. Maldonado, Tecnica e cultura. Il dibattito tedesco da Bismarck a Weimar, Milano 1979 e di F. Dal Co, Teorie del Moderno. Architettura Germania 1880-1920, Roma-Bari 1982 con antologie di scritti del periodo. In particolare, il testo di Maldonado contiene un estratto di J.A. Lux, Ingenieur-Aesthetik del 1910. []
  21. K. Gutschow, Revising the paradigm, cit., p. 1. []
  22. K. Scheffler, Moderne Baukunst, Leipzig 1908, pp.2-3. A tal proposito, si apre una interessante intersezione tra il pensiero di Darwin e la teoria riegliana del Kunstwollen su cui segnalo l’introduzione all’edizione francese di Stilfragen, a cura di H. Damisch, nella qualo lo storico dell‘arte accosta il pensiero di Riegl piuttosto all’evoluzionismo di Lamarck e a un meccanismo pulsionale legato a Freud: « A bien des égards, le concept de Kunstwollen se presente comme un concept opératoire, et qui joue, à l’instar de celui de pulsion, à la charnière de deux registres: loin d’opposer au strict déterminisme technico-matériel qui aurait été le fait de Semper une détermination collective en elle-même immotivée et imprévisible, ce que Riegl s’est efforcé de penser sous ce titre n’est rien d’autre que les multiples manifestations d’une volonté qui doit trouver son inscription dans le réel. Et cela, quoi qu’il en soit des rapports que le vouloir, dans sa prétention à la maîtrise, peut entretenir, en termes d’histoire, avec la sphère désignée comme pulsionnelle: c’est là tout le problème, chez Riegl comme chez Freud.», in Alois Riegl, Questions de style. Fondements d’une histoire de l’ornamentation, Paris 2002, pp. XVIII-XIX. []
  23. Cenni introduttivi a una sintesi d’arte, trad. it. di A. Ceruti, in H. van de Velde, Sgombero d’arte e altri saggi, a cura di R. Bossaglia, Milano 1986, pp.59,60. []
  24. DK, p. 13 []
  25. Wilhel Riehl(1823-1897) fu tra i padri della moderna etnografia in Germania. Dopo studi di teologia, abbracciò la carriera del giornalismo politico, occupandosi poi di economia, storia della Chiesa e studi etnografici e sui paesaggi europei, fu professore all’Università di Monaco e membro dell’Accademia bavarese delle Scienze. Tra le sue opere spicca Die Naturgeschichte des Volkes als Grundlage einer deutschen Sozial-Politik, 4 voll., Stuttgart 1851–1869. Cfr. M.B. Stein, Wilhelm Heinrich Riehl and the Scientific-Literary Formation of “Volkskunde”, “German Studies Review”, 24, n. 3, ott. 2001, pp. 487-512. []
  26. Karl Schnaase (1798-1875) fu uno storico tedesco dell’arte; dopo aver compiuto studi ad Heidelberg e Berlino, divenne procuratore prussiano a Düsseldorf tra il 1829 e il 1848, per poi interessarsi sempre più alle arti figurative, nell’ambito delle quali scrisse la sua Geschichte der bildenden Künste, 7 voll., Düsseldorf 1843-1864 ma anche diversi contributi sull’architettura del suo tempo, dove si evidenzia una vicinanza nei confronti del Rundbogenstil e delle tesi di Gottfried Semper. Cfr. H. Karge, Projecting the future in German art historiography of the nineteenth century: Franz Kugler, Karl Schnaase and Gottfried Semper, “Journal of Art Historiography”, 9, Birmingham Dec. 2013. []
  27. DK, p. 14 []
  28. H. van de Velde, Vom Neuen Stil, Laienpredigten II Teil, Leipzig 1907, p. 4 :«La Rivoluzione Francese costituisce un punto di svolta, che demarca fortemente il passato dal futuro. Due forze contrapposte, due principi antitetici cozzavano  con impeto furioso l’un contro l’altro: aristocrazia e democrazia.  E colpisce il fatto che solo lo stile sia perito in battaglia. Oggi i due principi sono l’uno l’opposto dell’altro. Lo stile è stata la vera vittima della parte vincitrice e la sua rabbia sembra essersi placata dopo la vittoria. La Rivoluzione negava lo stile del XVIII secolo, perché il potere e la ricchezza delle classi dominanti oltraggiavano la democrazia. Ma l’epoca sorta dalla rivoluzione è nata, a causa di ciò, senza un suo stile.» []
  29. Evidente qui il rifarsi di Behrendt a due noti capisaldi della sociologia del tempo, Die Großstädte und das Geistesleben di Simmel, pubblicato nel volume Die Großstadt. Vorträge und Aufsätze zur Städtebau Ausstellung, a cura di T. Petermann, in “Jahrbuch der Gehe-Stiftung” IX, Dresden 1903 e Luxus und Kapitalismus di Sombart, apparso nel 1913 nell’ambito della raccolta  Studien zur Entwicklungsgeschichte des modernen Kapitalismus, uscito a Lipsia. Quest’ultimo testo sarebbe poi stato ripubblicato in edizione tascabile, sempre a Lipsia, nel 1922 con il titolo esteso Liebe,Luxus und Kapitalismus. Über die Entstehung der moderner Welt aus dem Geist der Verschwendung. []
  30. Dk, p. 20 []
  31. Karlsruhe 1828; cfr. la recente edizione in lingua inglese In what style should we build? The German debate on architectural style, a cura di W. Herrmann, Santa Monica, Getty Center for the History of Art and the Humanities 1992. []
  32. K. Dohmer, In welchem Style sollen wir bauen?: Architekturtheorie zwischen Klassizismus und Jugendstil, München 1976. []
  33. G. Lukács, Die Zerstörung der Vernunft, Bd. III, Irrationalismus und Soziologie, Darmstadt-Neuwied 1974, pp.47,48. []
  34. K. Scheffler, Idealisten, Berlin 1909; Idem, Die fetten und die mageren Jahre, Leipzig-München 1946, p. 172 e segg.: «In realtà si tratta di un processo storico psicologicamente comprensibile: l’idealismo ripreso per vari cammini da Platone, sul finire del diciottesimo secolo, in stretto parallelismo con il classicismo dominante nell’ideologia, doveva necessariamente divenire in Germania dittatura dello spirito. Ciò poteva accadere solo in un territorio di mezzo, dai confini aperti, notevolmente minacciato, in cui si trovano sempre più razze, popoli ed etnie, che si sono anche incrociate e in cui prevalgono naturalmente l’insicurezza esteriore e interiore, in un paese il cui destino storico è stato di divenire sempre e non essere mai. In questa terra, minata dall’incertezza, l’idealismo è potuto diventare uno strumento di elevazione, forte supporto dell’autostima(…)». []
  35. Cfr. W. Herrmann, Deutsche Baukunst des 19. und 20. Jahrhunderts, Basel-Stuttgart 1977 e Id., Gottfried Semper : Architettura e teoria, Milano 1990; H. F. Mallgrave, Gottfried Semper, architect of the nineteenth century, Yale-New Haven 1996. []
  36. L’episodio risale al 1850, quando l’Akademie der bildenden Künste di Monaco, su ordine del sovrano avrebbe indetto un concorso relativo all’elaborazione di un nuovo stile: la proposta, significativa dell’atteggiamento del tempo nei confronti dell’arte, avrebbe suscitato già allora le facili ironie di varie voci specializzate, tra cui riviste come il “Deutsches Kunstblatt” o l’architetto Leo von Klenze. Cfr. W. Herrmann, introd. a In what style should we build?, cit., p.9. []
  37. Idem, p. 59. []
  38. Edito a Jena, 1896. Il testo venne più volte ampliato e ripubblicato, fino al 1924, con l’uscita di Der proletarische Sozialismus, di tono nettamente antimarxista e conservatore. []
  39. In tale impasto di cultura alta e popolare, a mio avviso, Behrendt anticipa i caratteri della storiografia architettonica di Reyner Banham. []
  40. P. De Lagarde, Deutsche Schriften, Göttingen 1878, p. 241. []
  41. F. Stern, The politics of cultural despair, Berkeley 1961; T. Ryback, Hitler’s private library, tr. it., Milano 2008. Stern, ivi, p. 85, riferisce dell’influenza esercitata dagli scritti di Lagarde su alcuni protagonisti del dibattito sulle arti, come Hermann Bahr o su teorici che hanno ispirato il Werkbund tedesco, come Friedrich Naumann. []
  42. Scheffler, Die fetten und die mageren Jahre, cit., p. 160 e segg. []
  43. P. Ernst, Der Weg zur Form, Berlin 1906, p. 182; l’estratto fa parte di un articolo del 1905 sul “Berliner Tageblatt”, riedito nella suddetta antologia, Gesellschaftliche Voraussetzungen. []
  44. Neue Deutsche Biographie, ad vocem; S. Pierson, Marxist intellectuals and the working-class mentality in Germany, 1887-1912, Harvard 1993, p. 52 e segg. []
  45. M. Jay, Marxism and totality. The adventures of a concept from Lukács to Habermas, Berkeley 1984, p. 82; carteggio pubblicato in K. A. Kutzbach, a cura di, Paul Ernst und Georg Lukács: Dokumente einer Freundschaft, Düsseldorf, 1974. []
  46. «Formt in euch ein Bild, dem die Zukunft entsprechen soll, und vergesst den Aberglauben, Epigonen zu Sein» DK, p. 46 e segg. Sull’influenza di Nietzsche nel milieu di van de Velde a Weimar, O. W. Fischer, Nietzsches Schatten. Theorie und Werk Henry van de Veldes im Spiegel der Philosophie Friedrich Nietzsches. Eine vergleichende Studie in der frühen Moderne, ETH Zürich 2008. []
  47. Bovy viene poi citato solo a p. 63 per la sua attività di importatore di mobili della ditta Morris. Horta a p. 66 viene menzionato solo per la sua collaborazione con i pittori Alfred William  Finch e Georges Lemmen: non per la casa Tassel, né per la Maison du Peuple. []
  48. DK, p. 48. []
  49. H. van de Velde, Geschichte meines Lebens, München 1962, tr. it., La mia vita, a cura di H. Curjel, Milano 1966. []
  50. DK, p. 54; “Jahrbuch Deutscher Werkbundes”, Die Durchgeistigung der deutschen Arbeit, Jena 1912. []
  51. Unici omaggi alla Francia, le illustrazioni di p. 96, raffiguranti gioielli di René Lalique ed Emil Lettré e un laconico cenno a Emile Gallé a p. 110, in relazione ai lavori in vetro. []
  52. DK, p. 55 e segg. []
  53. Su cui, cfr. A. Pit,  Der Holländische Bildhauer Zyl, “Deutsche Kunst und Dekoration”, München 1898, p. 72 e segg. []
  54. Cfr. l’introduzione, a cura dello scrivente, dell’edizione italiana(per la quale, v. nota 10). È in preparazione un articolo sull’altro testo del 1917. []
  55. DK, pp. 72, 73. []
  56. DK, p. 81 e segg. Cfr. B. Miller Lane, Architecture and politics, cit., p. 16 e segg.; J. Posener, Berlin auf dem Wege zu einer neuen Architektur. Der Zeitalter Wilhelm II, München 1979. []
  57. DK, p. 85. []
  58. K. Jaspers, Die Geistige Situation der Zeit, Berlin 1933, p. 114 e seg. []
  59. DK, p. 132. []
  60. DK, p. 144. []
  61. H. Muthesius, Das englische Haus: Entwicklung, Bedingungen, Anlage, Aufbau, Einrichtung und Innenraum. 3 voll. Berlin, 1904/1905. []
  62. DK, p. 169. []
  63. F. Hoeber, Peter Behrens, München 1913. La lacuna del volume in termini di riferimenti a opere e autori fu riscontrata anche da Emil Utitz nella recensione, cfr. nota n. 2. []
  64. Su Meyer e Tettau, K. Romba, Objective engineering and empathic experience: iron construction as German architectural paradigm, 1900-1910, “The Rutgers Art Review”, New Jersey n. 21, 2005, pp. 77-92. []
  65. Cfr. sul tema del grattacielo a Berlino, molto fortunato nel decennio successivo, V. Magnago Lampugnani, R. Schneider, Moderne Architektur…, cit. e M. Caja, Berlino anni Venti. Progetti urbani per il centro, Firenze 2012. []
  66. Rimando al dattiloscritto non pubblicato del mio intervento nell’ambito del Laboratorio  tenuto dal Prof. M. Caja, Architectural Design Studio 2 / Architectural and Urban Composition: R. Mercadante, Rethinking the Urban Block. Karl Scheffler, Walter Curt Behrendt and the growth of modern building and urbanism in Berlin, Politecnico di Milano, 25.03.2014. []
  67. DK, p. 254 e segg. Cfr. R. Mariani, Abitazione e città nella rivoluzione industriale, Firenze 1975; G. Samonà, L’urbanistica e l’avvenire della città, Roma-Bari 1967; M. Tafuri, F. Dal Co, Architettura contemporanea, Milano 1976. []
  68. H. Kessler, Der neue Menschentyp, in “Die neue Rundschau“, Berlin, Jg. 44, 3, mar. 1933, ried. in Id., Künstler und Nationen. Aufsätze und Reden 1899-1933, Frankfurt 1988, p. 292. []
  69. Dk, p. 267. []
  70. W.C. Behrendt, Die Situation des Kunstgewerbes, “Die Form : Zeitschrift für gestaltende Arbeit”, 3, Berlin, dic. 1925, pp. 37-41. []