Valentina Baldi

valentina.baldi39@tin.it

1765-1790. Appunti di storia del costume in Toscana durante il regno di Pietro Leopoldo attraverso le stampe di Giuseppe Piattoli

DOI: 10.7431/RIV11072015

Nell’ultimo scorcio del Settecento, gli editori fiorentini Niccolò Pagni e Giuseppe Bardi pubblicarono tre raccolte di incisioni su disegno di Giuseppe Piattoli che ebbero, anche fra i contemporanei, un discreto successo1. Si tratta delle due famose serie di Proverbi toscani e di quella altrettanto nota dei Giochi fiorentini2. La prima raccolta dei Proverbi uscì nel 1786, la seconda nel 1788, erano entrambe composte da quaranta tavole a colori, ma differivano per soggetti e formato. La raccolta dei Giochi uscì invece nel 1790 e si componeva di venticinque tavole. Le illustrazioni, tutte colorate ad acquerello, divennero il pretesto per mettere in scena la vita quotidiana, privata o pubblica, dei fiorentini.

Il Piattoli3, nato a Firenze il 24 aprile 1742, discendeva da una famiglia di pittori e miniaturisti piuttosto apprezzati in città; furono difatti i suoi genitori, Gaetano e Anna, nata Bacherini, a fornirgli la sua prima istruzione artistica. Giuseppe ottenne ottimi risultati fin dagli inizi della carriera e già dal 1777 sostituì il padre nel ruolo di maestro di disegno alla Regia Accademia di Belle Arti, conservando l’incarico per ben trent’anni. Nonostante la descrizione non troppo lusinghiera del Pelli Bencivenni che lo definì «ipocondriaco, sparuto e timido»4, dovette godere anche della personale stima del Granduca, visto che nel 1786 fece parte di una commissione per giudicare alcuni nuovi acquisti giunti nelle collezioni della Galleria.

I suoi riferimenti stilistici andavano dalla pittura francese dell’epoca, alle nuove tendenze del vedutismo all’antica, fino alla stampa satirica d’oltremanica: in particolare furono per lui fonte di ispirazione Boucher e Fragonard, Piranesi e Hogarth. Nelle sue opere il tratto è delicato, la linea precisa, le caratteristiche psicologiche dei personaggi mai esasperate; ma il Piattoli, certamente buon conoscitore d’arte e ottimo disegnatore, fu anche un acuto e ironico osservatore del suo tempo. Attraverso la rappresentazione di proverbi e giochi ci offre una spassosa testimonianza della vita quotidiana di nobili e povera gente della Firenze leopoldina, mostrandocene usi, costumi e debolezze. I personaggi, che si muovono liberamente sulla scena costruita come la quinta di un palcoscenico, sono colti in atteggiamenti naturali e quotidiani: momenti d’intimità domestica, eventi pubblici o privati divertimenti; e sebbene il Piattoli non avesse intenti documentari, nel senso di una storia del costume, ha descritto abbastanza attentamente i suoi personaggi da rendere testimonianza delle nuove e numerose fogge abbigliamentarie dell’epoca. Del resto, nonostante non si possa affermare con certezza che i suoi disegni siano tratti dal vero, il loro valore documentario è innegabile, poiché senza dubbio descrivono situazioni verosimili; e se, al contrario di un figurino di moda, queste stampe possono apparire meno precise nel dettaglio minuto, dall’altro ne guadagnano in vitalità, freschezza e contestualizzazione.

Queste raccolte possono insomma diventare una straordinaria testimonianza iconografica per la storia del costume della seconda metà del Settecento, periodo eccezionalmente vivace per la moda.

Il costume in Toscana

Paradossalmente il XVIII secolo – il secolo della ragione, il secolo che sulla scia delle idee roussoiane produsse nuove teorie sull’igiene, che professò una maggiore morigeratezza e auspicò il ritorno a un vestire, oltre che a un modo di vivere, più semplice e naturale – vide un diffondersi del lusso e un susseguirsi di mode e modelli senza precendenti. Lo sviluppo industriale, con il conseguente aumento della fetta di popolazione che delle mode poté usufruire; l’ascesa di una nuova classe sociale, la borghesia, che cercò una sua collocazione e una sua identità anche attraverso nuovi canoni vestimentari; la diffusione della stampa di moda, che fece conoscere in maniera molto più capillare delle elitarie poupées de modes i nuovi abiti; furono alcune delle cause principali del diffondersi della moda e del continuo ricambio di modelli.

Francia e Inghilterra, nazioni traino delle profonde trasformazioni che si verificarono nell’assetto dell’Europa settecentesca, proposero nuovi modelli industriali ed economici, nuovi modelli politici e nuovi modelli sociali. La moda non fece eccezione.

Già dalla metà del Seicento era a Parigi e a Versailles che si sperimentavano le novità abbigliamentarie indossate dalla nobiltà di tutta Europa; mentre a partire dagli anni cinquanta del Settecento, la Francia fu in parte alleggerita dal proprio ruolo di trendsetter grazie ai nuovi modelli all’inglese.

I contemporanei ne erano perfettamente consapevoli. Merciai, sarti e modiste si affrettarono a dare «forestieri nomi/a merci che non mai varcaro i monti»5; scorrendo gli inventari dell’epoca e le descrizioni dei figurini di moda italiani ci si imbatte in un numero impressionate di francesismi e inglesismi: dagli ingangianti e battaloglio (terribili traslitterazioni dei termini francesi engangeantes e battant-d’oeil), ai redingotti (dall’inglese riding-coats). Anche in quei campi in cui inizialmente si era riusciti a resistere alla concorrenza, si ebbero grandi difficoltà. A Firenze, ad esempio, per cercare di risollevare la produzione tessile, i funzionari di corte furono costretti a rivolgersi a un disegnatore lionese, Fayetant de Saint Clair, che nel 1756 fondò una propria scuola di disegno dal nome emblematico: Accademia di Disegno dei Drappi all’uso di Francia6.

Ma proprio a partire dalla seconda metà del secolo la Toscana, nonostante abbia un ruolo periferico rispetto ai grandi mutamenti in atto, può offrire interessanti spunti di riflessione sul costume settecentesco e divenire un luogo privilegiato per l’osservazione dell’evoluzione della moda e del suo significato come marcatore sociale.

Un primo fattore, piuttosto banale, è che la Toscana ebbe un canale d’eccezione per l’importazione delle mode, perché moltissimi erano gli stranieri che vi soggiornavano o risiedevano. Firenze fu infatti una delle grandi capitali del Grand Tour e attirava ogni anno numerosi visitatori; si trattava di diplomatici, artisti, conoscitori d’arte, letterati, viaggiatori singoli o intere famiglie. La comunità straniera più numerosa fu sicuramente quella inglese. Horace Mann, ministro britannico a Firenze dal 1738 al 1786, divenne un punto di riferimento per tutti i turisti d’oltremanica che si trovavano a soggiornare in città, tanto che nelle immediate vicinanze della sua abitazione sorse addirittura un albergo7; ma a Firenze si potevano incontrare anche molti francesi, fra questi, oltre a dame e nobili in viaggio di svago, importanti artisti come Jean-Honoré Fragonard, Bénigne Gagneraux e l’allievo di David, François-Xavier Fabre8.

Le fiorentine dal canto loro seppero approfittare di queste presenze per essere sempre aggiornate “dal vivo” sulle ultime novità in fatto di moda: «Le goût des femmes de condition est de prendre les modes angloises, mais comme elles ne les reçoivent que des Angloises qui viennent séjourner à Florance, après avoir passé quelque temps à Paris, elles se trouvent avoir adopté nos modes Parisienne, travesties soulement par les Angloises»9.

L’altro motivo, che fa della Toscana un interessante punto di osservazione, è che Firenze alla metà del secolo si trovò ad accogliere un nuovo sovrano. Com’è noto il Granducato era caduto in mani lorenesi già dal 1737, con la morte dell’ultimo erede maschio della famiglia Medici; ma Francesco Stefano d’Asburgo Lorena non si trasferì mai in Toscana e governò come reggente da Vienna10. Soltanto nel 1763 si riaffacciò nella mente dei fiorentini la speranza di riavere dei regnanti e riacquistare una certa autonomia dall’Impero asburgico, proprio quell’anno infatti Francesco Stefano stabilì una secondogenitura e nominò il figlio Pietro Leopoldo, che si era appena sposato con Maria Luisa di Borbone, Governatore Generale. Due anni più tardi, quando la giovane coppia era in procinto di partire alla volta di Firenze, un evento infausto cambiò le sorti del Granducato: il 18 agosto l’Imperatore morì improvvisamente e la Toscana si trovò ad attendere non più il proprio Governatore Generale, ma il nuovo Granduca, passando dall’essere un semplice Stato satellite dell’Impero, a uno Stato indipendente.

Nonostante gli abiti neri per il recente lutto11, il primo anno di regno fu per la giovane coppia granducale un susseguirsi di corteggi, gala solenni, baciamani, omaggi. Le cerimonie culminarono nella memorabile giornata del 24 giugno 1766, festa di San Giovanni, quando secondo un’antica tradizione «Sudditi, Vassalli, Feudatari e Luoghi sottoposti al Gran-Ducato»12 presentavano i loro omaggi e giuravano fedeltà al sovrano. Pietro Leopoldo, salutato da cento e uno colpi di cannone e il suono a festa delle campane di tutte le chiese fiorentine, scese dalla Villa di Poggio Imperiale in mezzo a un lungo e ordinato corteo, che lo accompagnò fino al trono eretto in piazza del Granduca13, cuore civile della città, dove «un popolo immenso inondava le vie, le piazze: i palchi, le finestre, i tetti medesimi erano angusti a tanta folla di forestieri e di paesani spettatori: in una parola la Toscana era quasi tutta raccolta a Firenze a vedere il suo Sovrano in mezzo allo splendore di una Regia Corte»14.

Una Regia Corte che dopo ventotto anni di latitanza doveva essere completamente riallestita15. Fin da quella prima grande cerimonia pubblica fu chiara l’impostazione del nuovo sovrano illuminato. Solo la coppia granducale ebbe il privilegio di indossare l’abito di gala. Tutti gli altri partecipanti al corteo indossarono o la livrea, segno di appetenza a un casato nobiliare, o l’uniforme, simbolo di una carica di pubblica utilità; fra questi anche alcuni borghesi che sfilarono al fianco dei loro colleghi dai nobili natali16.

Il sistema era impostato su quello asburgico, caratterizzato da una struttura rigidamente gerarchico-piramidale. A capo di tale struttura stava, ovviamente, il Granduca dal quale procedeva ogni carica o ruolo. Tutti i componenti della corte, fossero anche del patriziato fiorentino più in vista, erano comunque considerati a tutti gli effetti servitori del Granduca e come tali chiamati a rendersi riconoscibili attraverso gli abiti che indossavano17.

Fu lo stesso Pietro Leopoldo, appena giunto nella sua nuova patria, a prescrivere fogge, colori di livree e uniformi, nonché a disporle in dotazione per tutti i suoi sottoposti, dagli stallieri al Maggiordomo Maggiore. I modelli degli abiti e le decorazioni erano ricalcati su quelli asburgici, fuorché per il colore, nero per la casa d’Austria, rosso per la Toscana, che voleva anche in questo mantenere la propria indipendenza18.

Poiché livree e uniformi palesavano la rigida gerarchia delle cariche, divenivano ragione di vanto per chi le indossava. D’altronde lo stesso Pietro Leopoldo apparve raramente in pubblico svestito della sua uniforme da Gran Maestro dell’Ordine dei Cavalieri di Santo Stefano19, che aveva il duplice vantaggio di farlo apparire morigerato, semplice e rigoroso, un funzionario dello Stato come tutti gli altri e, allo stesso tempo, ricordava costantemente a tutto il suo popolo che era il Granduca.

Le rigide e articolate norme che ne regolavano la foggia si possono leggere nel numero 42 della “Gazzetta Toscana” del 1775 (pp. 165-166). La marsina doveva essere bianca, per simboleggiare la purezza di cuori dei cavalieri; i bottoni d’oro, gli occhielli bianchi; il taglio del collo doveva essere rotondo con piccola pistagna; sulle alette delle tasche non potevano esserci più di tre asole; le maniche dovevano essere lunghe fino al polso e avere paramani di colore rosso scarlatto. Priori, Graduati e Balì dovevano portare la croce dell’ordine appesa al collo grazie a un nastro rosso, i Cavalieri invece, appesa a un nastro che uscisse da un’asola della marsina o dalla sottoveste; sul petto sinistro doveva essere appuntata una croce di seta rossa contornata da un gallone d’oro più o meno largo in base al grado ricoperto. La sottoveste doveva essere rosso scarlatto, con asole rosse e bottoni d’oro di dimensioni inferiori a quelli della marsina. Sia quest’ultima che la sottoveste dovevano essere confezionate in panno o in cammellotto, le calze di seta bianca, le scarpe nere con fibbia ovale o rettangolare.

Ma i regolamenti in fatto di abbigliamento in epoca leopoldina non furono molti, e soprattutto non mirarono mai a porre limitazioni o divieti.

Non che in Toscana non si conoscesse il lusso sfrenato, o che i nobili non facessero a gara nel superarsi in sfarzo di abiti, stravaganza di accessori e preziosità di gioielli20, piuttosto Pietro Leopoldo non credeva nell’efficacia delle leggi suntuarie. Lo spiega egli stesso in una “rivoluzionaria” lettera circolare, datata 1781: «S.A.R. nel sistema che si è formato di costringere il meno possibile la libertà nelle azioni dei suoi Sudditi non ha voluto fare alcuna legge sopra il lusso; Oltre di che ben comprende quanto sia difficile il regolare con leggi una materia tanto soggetta a prendere diverse forme, specialmente per ciò che spetta agli ornamenti donneschi […], reputerà sempre repugnanti alla Sua Clemenza quelle leggi che danno troppa facilità non meno alle trasgressioni che alle vessazioni. Ma ha tal fiducia nel rispetto dei suoi Sudditi da non dubitare che essendo ad essi note queste sue paterne cure non siano per farsi il più preciso impegno di secondarle e d’incontrare in questa parte il suo Sovrano gradimento. Essendo necessario che la riforma incominci dalla Nobiltà, e che col suo esempio si estenda agli altri ranghi VS. dovrà partecipare al Casino dei Nobili queste Reali intenzioni. […] gradiranno le LL. AA. RR. se agli Appartamenti di Corte, alle Gale, ed in qualunque altra occasione, si presenterà la Nobiltà tanto Uomini, che Donne in abiti puri, e ancora neri, e colla massima semplicità d’ornamenti, convenendo assai meglio alla decenza ed alla proprietà il vestito semplice che l’ornamento caricato, e teatrale. Devono i loro Sudditi essere ormai persuasi che le RR. AA. LL. hanno troppo buon senso per non valutare la Nobiltà dal più ricco vestito, ma valutarla dai sentimenti onorati, dalla buona condotta, dal buon uso delle sostanze, e dalla generosità utilmente diretta. All’incontro nel formarsi il carattere di ogni individuo, S.A.R. il Gran-Duca valuterà la moderazione, o l’eccesso nel vestiario tanto degli Uomini di ogni ceto, che delle loro Mogli, e Figlie, come una presunzione la più forte della loro buona, o cattiva condotta, e della loro saviezza, o debolezza di pensare; E questa presunzione porrà molto influire nella distribuzione delle Sovrane beneficenze, e specialmente degl’Impieghi, nei quali si richiede giudizio, ed una sicurezza dallo sconcerto nella domestica economia»21.

Queste parole, rivolte in modo particolare alla classe dirigente del proprio paese, sono un invito alla parsimonia, alla misura, a dare il buon esempio con una condotta seria, sobria e impeccabile22. Esprimono una visione paternalistica del potere, in cui le classi più elevate sono tenute ad agire per il bene di tutto il popolo. Rivelano una concezione quasi borghese dell’abito che può apparire davvero rivoluzionaria, soprattutto considerando che le altre corti europee, preoccupate dai fermenti che si stavano diffondendo nella società (la Rivoluzione Francese è alle porte!), tendevano ad arroccarsi sulle proprie posizioni cercando di conservare rituali e convenzioni anche in fatto di abbigliamento.

In realtà Pietro Leopoldo, forte della moderna istruzione ricevuta alla corte asburgica, fu soprattutto un acuto osservatore e un abile interprete di quelle profonde trasformazioni che si stavano verificando nella società del suo tempo; così, anziché rimanerne soggiogato, seppe sfruttarle e farsene promotore23.

Nella seconda metà del Settecento si assiste a una diffusa ansia per semplicità e morigeratezza. L’Inghilterra è ormai considerata la patria della vita all’aria aperta, dello sport, del lavoro industrioso, della sobrietà e di quell’atteggiamento borghese ed egualitario destinato a sostituirsi al lusso e all’ostentazione aristocratica24. Anche Parigi, che da oltre un secolo dettava le regole per le corti e i nobili di tutta Europa, restò stregata dalle fogge inglesi25.

I gentiluomini della seconda metà del Settecento si affrettarono ad abbandonare l’habit à la française26 pomposamente decorato da ricami e galloni, e fecero posto nei loro guardaroba alla nuove fogge  d’oltremanica: il frac e la redingote27.

Il frac era caratterizzato da falde molto arretrate. I più belli erano doppiopetto e con il taglio squadrato in vita, come quello indossato dal giovanotto protagonista della cena allestita per raffigurare il proverbio Chi tardi arriva male alloggia (Fig. 1). Sebbene il frac potesse essere tranquillamente indossato in occasioni formali, veniva portato volentieri anche per trascorrere momenti di svago come fa il gentiluomo che assiste al Beccalaglio (Fig. 2), in questo caso la grande raffinatezza del completo sta nell’accostamento dei colori: frac rigato color rubino su gilet e calzoni color canarino.

Le redingotes si indossavano di preferenza per il viaggio e per i momenti da trascorrere all’aria aperta, erano di solito più lunghe rispetto al frac, senza taglio in vita e dotate ampi colletti a risvolti (Figg. 3, 4).

Queste due fogge divennero talmente diffuse che anche la tradizionale marsina dell’habit fu costretta a mutuarne alcune caratteristiche eliminando le decorazioni sovrabbondanti, diminuendo l’ampiezza delle falde e talvolta arricchendosi di un colletto ribattuto28. L’elegante damerino circuito dalle giovani donne all’uscita delle messa, raffigurato nel proverbio Chi s’impaccia con le frasche la minestra sa di fumo (fig. 7), indossa proprio un modello di marsina aggiornato secondo gli ultimi dettami della moda.

Il risultato di tutte queste innovazioni fu che alla fine degli anni ottanta la silhouette maschile si trasformò completamente. Esaltati da un gran sovrapporsi di baveri e colli a risvolti, le spalle e il torace acquistarono maggior importanza, mentre la parte inferiore del corpo diventò più sfilata e meno ingombrante (Fig. 5)29.

Al pari di quella maschile, anche la figura femminile subì netti cambiamenti. Dagli inizi del secolo le signore erano costrette in busti molto rigidi e avevano i fianchi esageratamente allargati dai cerchi, l’immagine che ne risultava era una figurina esile e quasi bidimensionale (Fig. 6). Fu solo dagli anni settanta che le dame relegarono la robe à la française 30 alle occasioni di rappresentanza, per vestire finalmente abiti più semplici che, alleggerendo le sottostrutture, resero al corpo femminile rotondità e maggiore naturalezza31.

L’abito elegante più diffuso divenne quello all’inglese. La giovinetta raffigurata nel proverbio Con le chiavi d’oro s’apre ogni porta (Fig. 7) ne indossa uno con la sottana che si apre su cerchi ancora molto ampi, le maniche en sabot orlate di pizzo e una raffinata decorazione sul corpetto; ma l’abito all’inglese, che restava comunque un abito formale, si poteva indossare anche senza sottostrutture. Il corpetto infatti era rinforzato da stecche che seguivano in maniera più naturale la linea della schiena e del torace, mentre l’ampiezza della sottana era data dall’increspatura del tessuto e dai cuscinelli32, piccoli sacchi imbottiti decisamente meno ingombranti rispetto ai cerchi. In questo caso gli abiti erano spesso arricchiti da cuffia e fichu.

Per i momenti di svago, le passeggiate e il viaggio le signore sceglievano come abito d’elezione la redingote. Importata dal guardaroba maschile, era caratterizzata da ampi colli a risvolti. Nelle raffigurazioni dei Giochi fiorentini, che si svolgono spesso all’aperto, ne possiamo ammirare una lunga carrellata: quella indossata dalla dama che assiste distratta alla partita dei birilli, corredata da un bel cappello di forma cilindrica, l’ombrello da passeggio e il grande fichu che aumenta il volume del petto, è senza dubbio una delle più graziose.

Una linea posteriore molto accentuata caratterizza anche la veste alla polacca, che ebbe un enorme successo, diffondendosi nei vari strati della popolazione. Il suo largo impiego fu dovuto al fatto che fosse una veste pratica e poco ingombrante. La parte superiore dell’abito seguiva la linea naturale del busto, mentre le falde erano sollevate mediante un sistema di coulisse in modo da formare tre lembi arricciati.  Nel proverbio Le donne per parer belle, si fanno brutte è la cameriera a indossarne una molto leziosa (Fig. 8), mentre in quello Cicisbei, e damerini fanno la vita dei facchini possiamo vedere il modello chiamato polonaise aux ailes (Fig. 9), in cui i due lembi laterali erano più lunghi della coda centrale. Una variante piuttosto diffusa della polacca fu la circassienne, in questo caso i lembi della sottana erano tutti della stessa lunghezza, mentre le maniche cortissime della sopravveste lasciavano in vista quelle lunghe del corpetto. Polacca e circassa, traevano evidentemente ispirazione dal mondo orientale.

L’Oriente con tutto l’immaginario che lo circondava, influenzò in maniera significativa l’abbigliamento europeo già dalla fine del XVII secolo, ma a partire dagli anni settanta del Settecento le fogge d’ispirazione orientale si susseguirono senza interruzione33; avevano i nomi più vari (à la turque, à la sultane, à la levantine, à la levite) ma differivano, più che nella concezione dell’abito, nei dettagli e nelle decorazioni: piume sulle acconciature, fusciacche che stringevano la vita, bordure di pelliccia, taglio delle maniche, in variabili pressoché infinite di combinazioni (Fig. 10).

Le fonti di ispirazione per la moda femminile furono dunque molto articolate e complesse, ma c’è un abito dove tutti questi rimandi trovarono una sintesi perfetta: l’abito en chemise. Come i modelli di ispirazione orientale era tagliato in un unico pezzo, una sorta di ampio camicione; in accordo con i principi d’igiene diffusi dalle teorie illuministe, era spesso confezionato in tessuti lavabili e indossato senza sottostrutture; visto il diffondersi del gusto all’antica, dovuto alla recente riscoperta dei siti di Paestum, Ercolano e Pompei, il colore che si prediligeva per questa tipologia d’abito era il bianco.

Per un beffardo scherzo del destino, quello che fu l’abito più rivoluzionario del periodo – passo imprescindibile per la realizzazione delle vesti, che a fine secolo lasciarono piena libertà al corpo femminile – fu portato alla ribalta da Maria Antonietta di Francia. Nel delizioso hameau completo di fattoria, colombaia, latteria e laghetto che la Regina si era fatta costruire nei giardini di Versailles, le dame di corte trascorrevano il tempo passeggiando, facendo il burro e visitando gli animali, avvolte in soffici nuvole di mussola bianca.

La moda delle “pastorellate” e della “vita campestre” si diffuse in breve tempo fra la nobiltà più in vista di tutta Europa. Nell’illustrazione del Ballo (Fig. 11), Piattoli raffigura una giovane coppia che si lancia in un ballo scatenato, accompagnata al suono del tamburello da un’orchestrina di campagna. La damigella protagonista della deliziosa scena campestre indossa proprio un’elegantissima chemise.

Sulla scia delle idee roussoiane e di opere come la Nuovelle Hèloise, il mondo di contadini e pastori era considerato un universo idilliaco, una sorta di Arcadia, custode di una vita semplice che si svolgeva secondo i ritmi della natura, priva degli artifici e delle costrizioni dell’età contemporanea. Ovviamente divenne un punto di riferimento imprescindibile anche per la moda. È curioso notare come i tourists spesso tralascino di descrivere, nei loro diari di viaggio, le abitudini vestimentarie dei nobili, mentre si soffermino volentieri a elencare le caratteristiche delle vesti popolari, giudicate leggiadre e piene di fascino: «la figure agréable naturelle aux Italiens n’y étant ponit enlaidie par / la mal-propreté, ou par la misere, les femmes de ce pays paroissent plus jolies, et ont réelement plus d’éclat que dans les autres provinces. Lorsqu’elles sont à l’ouvrage, ou qu’elles vont vendre leurs denrées au marché, leur cheveux sont renfermés dans un filet de soie […]; les jours de la fête, elles se parent d’une maniere tout-à-fait pittoresque. Elles ne portrent point de robes, mais une espèce de casaquin sans manches. La partie supérieure des bras n’est couverte que de celles de leurs chemises relevées avec des rubans. Leurs jupes sont généralement écarlates. Elles portent des pendans d’oreilles et des coliers. Leurs cheveux sont arrangés d’une maniere qui leur sied parfaitement, et ornés de fleurs. Elles s’attachent sur l’oreille un petit chapeau de paille; à tout prendre, je leur trouve l’air plus gai, plus piquant, et plus galant qu’à aucune paysanne que j’aie vue»34.

In Toscana l’abbigliamento delle contadine era così curato: «elles ont de simples jupes, courtes et légeres, ordinairement bleues ou couleur d’écarlatte, et des corps sans manche, de sorte qu’on ne voit que les manches de leurs chemises. Tout autour des épaulettes de leur corps, il y a quantité de longs rubans de diverses couleurs, qu’elles laissent tomber et voltiger ou gré du vent; elles n’ont que des fleurs sur les épaules ou sur la gorge. Elles ont les cheveux nattés en rond derriere le chignon. Quelquefois elles y mêlent des fleurs; elles s’attachent sur la tête de très-petits chapeaux de paille qu’elles mettent un peu sur l’oreille et dont elles se servent plutôt comme de parure que pour couvrir: tout cet ajustement respire l’élégance  et la coquetterie»35.

La descrizioni trovano un corrispettivo perfetto nelle immagini del Piattoli (Figg. 1213). Per gli uomini casacche, calzoni al ginocchio e gilet; certo i tagli non sono ricercati, le stoffe sono grossolane, le scarpe allacciate da comuni stringhe, ma c’è comunque un certo buon gusto nell’accostamento dei colori e nella ricerca del dettaglio. Per le donne corpetti che stringono la vita, gonne increspate in colori vivaci, scolli accentuati, fiocchi alle maniche, grembiuli, cappellini di paglia e gioielli di corallo.

Le dame non esitarono a emulare queste deliziose mises, e fu tutto un fiorire di pet-en-l’air, giacchini e corpetti. Erano davvero molto graziosi: si accostavano alla vita rendendola sottile in modo da mettere in evidenza la sottana che si gonfiava sui cuscinelli. Le gonne sempre più spesso si arricchirono di grandi grembiuli e si diffuse l’uso del fichu o fazzoletto da collo, come si chiamava in Toscana. Confezionato con tessuti impalpabili, spesso tulle o mussola, veniva incrociato sul petto e poi legato dietro la schiena o aggiustato all’interno del busto, in modo che risultasse molto vaporoso; divenne addirittura oggetto di scherno, lo stesso Pelli Bencivenni si rammaricava della «sciocca moda presente di farsi il petto mostruoso con veli sostenuti artificialmente fino alla faccia»36. I cappellini di paglia presero ad arricchire le acconciature delle dame più eleganti.

Anche l’uso del corallo, pietra d’elezione per le ragazze del popolo vestite a festa, divenne di gran moda. A Livorno veniva prodotto in quantità e la sua meticolosa lavorazione attirava l’attenzione dei viaggiatori stranieri: «On les divide d’adord en 14 nuences différentes, dont voici les noms: 1. Schiuma di sangue, 2. Fior di sangue, 3. Primo sangue, 4. Secondo sangue, 5. Terzo sangue, 6. Stramoro, 7. Moro, 8. Nero, 9. Strafine, 10. Sopraffine, 11. Carbonetto, 12. Paragone, 13. Estremo, 14. Passaestremo. Aprés cela on les taille de longueur; d’autres ouvriers leur donnent la forme, en les arrondissant sur une roue de grès cannelée; il y en a qui ne sont occupés qu’à les percer, ce qui se fait avec beaucoup d’adresse et de propeté; d’autres à les assortir. Pour leur donner le poli, on les frotte les uns contre les autres en les remuant dans un sac de cuir, où l’on a mis aupravent un peu de pierre ponce pulvérisée»37.

Nel giro di pochi anni dunque anche nel campo della moda le parole d’ordine divennero sobrietà e praticità.

Bisogna tuttavia sottolineare che l’ossessione per la semplicità aveva anche l’aspetto meno bucolico di tracciare (difficile stabilire fino a che punto intenzionalmente) nuove linee di demarcazione fra le diverse classi sociali. Mentre fino ad allora il privilegiato si era distinto dall’indigente per ricchezza di decorazioni, sfarfallio di trine e luccichio di pietre preziose, a partire dalla seconda metà del Settecento grazie alla rivoluzione industriale, che permise di produrre oggetti preziosi a basso costo o per lo meno a costo accessibile; grazie al variare rapidissimo delle mode, che rese molto ben fornito il mercato dell’usato38; grazie alla liberalizzazione – e questo vale in modo particolare per la Toscana illuminata di Pietro Leopoldo – del commercio di trine, galloni e ricami in oro e argento, anche falsi39; ecco che i nuovi veri criteri di distinzione diventarono abiti spogli ma nuovissimi nel taglio, rivoluzionari nella concezione e pregiati nei tessuti, meno carichi di orpelli e allo stesso tempo più inaccessibili per i meno ricchi. Nel “Giornale delle Dame e delle Mode” del 15 ottobre 1786 si può leggere: «Esaminando un abito ricamato si trova in esso una confusione, un misto, che all’occhio spiace, e lo confonde; altro motivo che fa abbandonare il ricamo si è, che quelli che credono di distinguersi con un abito ricco se lo vedono subito disputato da chiunque, poiché chicchessia può comperare a molto buon prezzo da un Rigattiere un abito ricamato senza che si sappia se l’abbia comperato o fatto espressamente»40.

Paradossalmente fu la “semplicità” a diventare aristocratica e ricercata. Nobili e borghesi di buon gusto si allontanavano dai tessuti vistosi e le decorazioni eccessive puntando sulla «qualità»; al contrario, coloro che avevano disponibilità più modeste erano spesso costretti a ripiegare su abiti pieni di incrostazioni ormai démodé, scadendo nella «teatralità».

Abbreviazioni:

AK = Archiv Klagenfürt

ASF = Archivio di Stato di Firenze

BNCF= Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze

  1. Le lastre furono incise a bulino dal giovane Carlo Lasinio (Treviso 1759 – Pisa 1838) con la tecnica dell’acquaforte, seguendo in maniera scrupolosa le illustrazioni del Piattoli. Per le notizie sull’attività dell’artista trevigiano si rimanda a: U. Thieme – F. Becker, Allgemeines Lexikon der Bildenden Künstler von der Antike bis zur Gegenwart, XXII, Lipsia 1928, p. 404; A. Calabi, La gravure italienne au XVIIIe siècle, Parigi 1931, pp. 38-39, p. 58, pp. 61-62; A. Forlani Tempesti, I contadini della Toscana, Milano 1970, pp. 7-10; Dizionario enciclopedico Bolaffi dei pittori e degli incisori italiani: dall’XI al XX secolo, VI, Torino 1974, ad vocem, p. 362; P. Cassinelli Lazzeri, Carlo Lasinio: proverbi e folclore, in “Antichità Viva”, XXXII, 1993, 2, pp. 24-29; Eadem, Carlo Lasinio: incisioni, catalogo della mostra, Firenze 2004; V. Di Piazza, Carlo Lasinio, in Dizionario Biografico degli italiani, LXIII, Roma 2004, pp. 803-806; C. Pazzini, È meglio un uccello in gabbia che cento in aria. Proverbi figurati nell’età dei Lumi 1786-1788: incisioni di Carlo Lasinio dalle collezioni della Uguccione Ranieri di Sorbello Foundation, catalogo della mostra, Perugia 2005. []
  2. BNCF, Palat. A.B.3.3, Raccolta di quaranta proverbi toscani espressi in figure da Giuseppe Piattoli, parti I – II, Firenze 1786-1788; Ivi, Palat. C.B.1.4, Giuochi, trattenimenti e feste annue che si costumano in Toscana e specialmente in Firenze, disegnati sa Giuseppe Piattoli, Firenze 1790. []
  3. Sulla vita e le opere di Giuseppe Piattoli si vedano: P. D’Ancona, Due libri popolareschi di Giuseppe Piattoli pittore fiorentino del secolo XVIII, in “L’Arte”, XII, 1909, pp. 261-268; Proverbi toscani: raccolta di proverbi toscani illustrati con incisioni di Giuseppe Piattoli, a cura di T. Tentori – J. Recupero, Roma 1959; Dizionario enciclopedico Bolaffi…, IX, Torino 1983, ad vocem, pp. 9-10; La pittura in Italia. Il Settecento, II, a cura di C. Briganti, Milano 1990, ad vocem, p. 832; W. Apolloni, I Proverbi di Giuseppe Piattoli, Roma 2001; P. Scandolera, Disegni e stampe di Gaetano, Anna e Giuseppe Piattoli. Pittori fiorentini del Settecento, Firenze 2006. []
  4. F. Borroni Salvadori, A passo a passo dietro a Giuseppe Bencivenni Pelli al tempo della Galleria, “Rassegna storica toscana”, 1983, 28, p. 162, cit. in P. Scandolera, Disegni e stampe…, 2006, p. 13. []
  5. Da G. Parini, Il Mattino, cit. in R. Levi Pisetzky, Il costume e la moda nella società italiana, Torino 1978, p. 259. []
  6. R. Orsi Landini, La produzione serica fiorentina e la Fabbrica Imperiale, in I paramenti sacri della Cappella Palatina di Palazzo Pitti, Firenze 1988, pp. 21-33, in partic. p. 29; M. Brunori – C. Chiarelli, L’abito al tempo dei Lorena. Dall’Ancien Régime alla moda borghese, in Sovrani nel giardino d’Europa: Pisa e i Lorena, a cura di R.P. Coppini – A. Tosi, Pisa 2008, pp. 233-238. []
  7. Firenze e l’Inghilterra. Rapporti artistici e culturali dal XVI al XX secolo, catalogo della mostra, Firenze 1971; F. Borroni Salvadori, Personaggi inglesi inseriti nella vita fiorentina del Settecento: Lady Walpole e il suo ambiente, “Mitteilungen des Kunsthistorischen Institute in Florenz”, 27, 1983, pp. 83-110; C. De Seta, in Grand Tour. Il fascino dell’Italia nel XVIII secolo, a cura di A. Wilton – I Bignamini, Milano 1997, pp. 17-25; J. Ingamells, Alla scoperta dell’Italia: viaggiatori inglesi nel XVIII secolo, in Grand Tour…, 1997, pp. 27-33. []
  8. F. Borroni Salvadori, Memorialisti e diaristi a Firenze nel periodo leopoldino. 1760-1790. Spigolature d’arte e di costume, “Annali della Scuola Normale Superiore di Pisa”, III, 1979, pp. 1189-1291; Grand Tour. Il viaggio in Toscana dalla fine del XVII secolo agli inizi del XX secolo: https://grandtour.bncf.firenze.sbn.it. []
  9. J.J. De La Lande, Voyage en Italie, contenant l’histoire et les anecdotes les plus singuliers de l’Italie et sa description; les usages, le gouvernement, le commerce, la littérature, les arts, l’histoire naturelle, et les antiquités; avec des jugemens sur les ouvrages de peinture, sculpture et architecture, et le plans de toutes les grandes villes d’Italie, III, Paris 1786, pp. 9-10. []
  10. Sul periodo della Reggenza lorenese si vedano: F. Diaz, I Lorena in Toscana. La Reggenza, Torino 1988; M. Verga, Da “cittadini” a “nobili”. Lotta politica e riforma delle istituzioni nella Toscana di Francesco Stefano, Milano 1990; Il Granducato di Toscana e i Lorena nel XVIII secolo, incontro internazionale di studio, a cura di A. Contini – M.G. Parri, Firenze 1999; A. Contini, La reggenza lorenese tra Firenze e Vienna. Logiche dinastiche, uomini e governo, 1737-1766, Firenze 2002. []
  11. Fu la stessa Maria Teresa a fornire al figlio le istruzioni da far attendere alla corte toscana per osservare il lutto in onore dell’amato marito: «Ne permettés pas à votre Cour l’usage du rouge. Qu’on soit habellé decentement, mais avec modestie, sans faste et avec peu d’or». AK, Archiv Rosenberg, 65-358, agosto 1765, cit. in A. Contini, Concezione della sovranità e vita di corte in età leopoldina (1765-1790), in La Corte di Toscana dai Medici ai Lorena, atti delle giornate di studio a cura di A. Bellinazzi – A. Contini, Roma 2002, pp. 129-212, in partic. 136 nota 19. []
  12. ASF, Auditore alle Riformagioni, 100, ff. 252-253, trascritto in Lo splendore di una regia corte: uniformi e livree del Granducato di Toscana, 1765-1799, catalogo della mostra, Firenze 1983, doc. 1, pp. 54-55. []
  13. Si tratta dell’attuale piazza della Signoria. []
  14. ASF, Auditore alle Riformagioni, 100, ff. 252-253, trascritto in Lo splendore di una regia corte…, 1983, doc. 1, pp. 54-55. []
  15. Sulla riapertura e riallestimento dei palazzi regali si vedano: Curiosità di una Reggia. Vicende della Guardaroba di Palazzo Pitti, Firenze 1979, pp. 75-144; I mobili di Palazzo Pitti. Il primo periodo lorenese. 1737-1799, a cura di E. Colle, Firenze 1992; L. Baldini Giusti, Il primo periodo lorenese (1737-1799): la Reggenza e i granduchi Pietro Leopoldo e Ferdinando III, in Gli appartamenti reali di Palazzo Pitti. Una reggia per tre dinastie: Medici, Lorena e Savoia tra Granducato e Regno d’Italia, a cura di M. Chiarini – S. Padovani, Firenze 1993, pp. 67-80. Sulla regolamentazione del cerimoniale, impostato su quello asburgico, si faccia riferimento ai documenti conservati a Firenze: ASF, Imperiale e Real Corte, 2182. []
  16. ASF, Imperiale e Real Corte, 3479, ff. 52-53, Ivi 3438, ff. 233-242, Ivi 1786, ff. 5-10, 17-23. Cfr. Lo splendore di una regia corte…,1983, pp. 9-12. []
  17. Durante le occasioni di gala Pietro Leopoldo impose ai gentiluomini della corte di vestire con le uniformi; come sottolinea anche il Pelli Bencivenni, tale provvedimento aveva lo scopo preciso di «togliere il lusso». BNCF, N.A. 1050, Giuseppe Pelli Bencivenni, Efemeridi, s. II, t. IV, f. 563. Consultabile on-line al seguente indirizzo: https://pelli.bncf.firenze.sbn.it/it/PelliGiuseppeListfWork.html. []
  18. Sulle uniformi si vedano: Lo splendore di una regia corte… cit., 1983; M. Cataldi Gallo – C. Traverso – E. Coppola, Fasti della burocrazia; uniformi civili e di corte dei secoli XVIII-XIX, catalogo della mostra, Genova 1984; G. Kugler, Des Kaisers Rock. Uniform und mode am österreichischen Kaiserhof 1800 bis 1918, catalogo della mostra, Eisenstadt 1989; C. Aschengreen Piacenti, Cerimonia a Palazzo abiti di corte fra Ottocento e Novecento, Firenze 1990.  []
  19. Con questa stessa uniforme amava posare per i ritratti ufficiali: William Berczy, La famiglia di Pietro Leopoldo Granduca di Toscana, 1781-1782, gouache su pergamena, cm. 55.6×64.2, Firenze, Palazzo Pitti, Galleria d’Arte Moderna, inv. O.d.A. Petraia n. 141; Filippo Lucci, Ritratto di Pietro Leopoldo d’Asburgo Lorena, 1780ca., olio su tela, cm. 117×81.7, Firenze, Palazzo Pitti, Galleria d’Arte Moderna, inv. 1890, 2817 (1890 post). []
  20. Lo annotava lo stesso Pietro Leopoldo nelle sue Relazioni: «Il lusso smoderato è uno dei vizi del paese». Pietro Leopoldo D’Asburgo Lorena, Il Governo della Toscana, a cura di A. Salvestrini, in “Rassegna storica toscana”, XIII, 1967, 2, p. 171. []
  21. “Notizie dal Mondo”, XIII, MDCCLXXXI, n. 66, p. 527. []
  22. A questo proposito, è sicuramente utile ricordare le parole di Maria di Teresa nelle istruzioni date al figlio alla vigilia della sua partenza per il trono di Toscana: «L’ordre et la façon de vivre à votre Cour decidera beaucoup de votre felicité. […] Que tout soit decent, sans hauteur et sans bassesse». AK, Archiv Rosenberg, 65-358, agosto 1765, cit. in A. Contini, Concezione della sovranità… 2002, p. 145, nota 51. []
  23. Su Pietro Leopoldo si vedano: A. Wandruszka, Pietro Leopoldo. Un grande riformatore, Firenze 1968; Pietro Leopoldo D’Asburgo Lorena, Relazioni sul governo della Toscana, a cura di A. Salvestrini, Firenze 1969-1974; C. Cresti, La Toscana dei Lorena: politica del territorio e architettura, Firenze, 1987; E. Mingoni, Pietro Leopoldo un sovrano fra pubblico e privato, in Gli appartamenti reali di palazzo Pitti…, 1993, pp. 81-87; L. Baldini Giusti, Il primo periodo lorenese (1737-1799)…, 1993, pp. 67-80; F. Diaz – L. Mascilli Migliorini – C. Mangio, Il Granducato di Toscana. I Lorena dalla Reggenza agli anni rivoluzionari, XIII, 2, in Storia d’Italia, diretta da G. Galasso, Torino 1997; L. Mascilli Migliorini, L’età delle riforme, in Il Granducato di Toscana…, 1997, pp. 247-421; A. Contini, La corte dei Lorena…, 1997, pp. 9-24; Eadem, Concezione della sovranità…, 2002, pp. 129-220. []
  24. Sulle profonde trasformazioni strutturali dell’abito maschile e dei significati culturali e sociologici  che vi si legano, si veda il fondamentale P. Perrot, Il sopra e il sotto della borghesia. Storia dell’abbigliamento nel XIX secolo, Milano 1982. []
  25. Cfr. R. Levi Pisetzky, Storia del costume in Italia, IV, Il Settecento, Milano 1967, pp. 378-379; G. Butazzi, Mode e modelli culturali nell’ultimo ventennio del secolo XVIII attorno a un’iniziativa editoriale milanese, in Giornale delle nuove mode di Francia e di Inghilterra, a cura di G. Butazzi, Milano 1988, pp. CXI-CXXXIX; Eadem, La moda di corte alla fine dell’Antico Regime tra novità e tradizione, in L’Europa delle corti alla fine dell’Antico Regime, a cura di C. Mozzarelli – G. Venturi, Roma 1991, pp. 391-402; Eadem, Trasformazioni e significati del sistema vestimentario tra Antico Regime e Regno d’Italia: abbigliamento quotidiano e costume di corte, in Il tessuto nell’età di Canova, a cura di M. Cuoghi Costantini, Milano 1992, pp. 55-78. []
  26. Con il termine habit si indica l’abito classico maschile. Questo vestimento, in uso fin dall’ultimo decennio del XVII secolo, si componeva di una sopravveste, spesso molto ricca di passamanerie, ricami o broccature, tagliata all’altezza delle ginocchia, svasata grazie ai cannoni sui fianchi, pari collo e con alti paramani; una veste generalmente ricca di decorazioni in pendant; un paio di calzoni al ginocchio, calze di seta e scarpe nere fermate da fibbie preziose. Cfr. F. Boucher, Histoire du costume en Occident. Des origines à nos jours, Paris 2001, pp. 382-285. []
  27. Sulle vesti maschili del XVIII secolo si vedano: R. Levi Pisetzky, Storia del costume in Italia…, 1967, pp. 378-379; M. Davenport, The book of costume, New York 1968, pp. 652-792; D. De Marly, Luis XIV and Versailles, London 1987; G. Butazzi, La moda di corte alla fine dell’Antico Regime…, 1991, pp. 391-401; F. Boucher, Histoire du costume en Occident…, 2001, pp. 382-285; A. Ribeiro, Dress in Eighteenth Century Europe 1715-1789, New Haven 2002. []
  28. Cfr. G. Butazzi, La moda di corte alla fine dell’Antico Regime…, 1991, pp. 391-402; Eadem, Trasformazioni e significati del sistema vestimentario…, 1992, pp. 55-78. []
  29. Cfr. Ibidem. []
  30. Per recarsi a corte le dame dovevano indossare la robe de Cour nelle varianti di gala, mezza gala e d’appartamento. La sontuosissima mise era composta da busto e veste. Il busto era strettissimo, steccato e terminava con una punta che scendeva molto al disotto della vita; la veste, che poteva anche essere aperta sul mezzo-davanti, si stendeva su una sottana; le maniche, à pagode o à sabot si fermavano all’altezza del gomito. Con questo tipo d’abito, confezionato con stoffe pesanti ed elaborate (in genere taffetas o gros broccati), arricchito con ogni sorta di decorazione che la fantasia potesse suggerire, era d’obbligo l’uso del guardinfante grazie al quale la gonna raggiungeva sui fianchi un’ampiezza enorme. Durante gli anni settanta la robe de Cour iniziò a comparire sempre più raramente alla corte fiorentina, finché nel 1780 «le Dame dell’accesso e dell’Appartamento» poterono partecipare agli eventi in «Andrienne di gala» (ASF, Imperiale e Real Corte, 2149, f. 380). L’andrienne, detta anche robe à la française, era nata agli inizi del Settecento come veste da camera caratterizzata da una morbida increspatura sulla schiena, ma si era ormai trasformata in una ricca sopraveste, veniva indossata su busto e cerchi, era molto aderente al busto e aveva cannoni strutturati che partendo dalle spalle andavano a dare ampiezza alla sottana. F. Orlando, Storia del vestire nel Granducato di Toscana al tempo dei Lorena, Milano 1993, p. 37. []
  31. Per una storia delle vesti femminili del XVIII secolo si vedano: R. Levi Pisetzky, Storia del costume in Italia…, 1967, pp. 40-125; M. Davenport, The book of costume…, 1968, pp. 652-792; F. Boucher, Histoire du costume en Occident…. 2001, pp. 263-281; A. Ribeiro, Dress in Eighteenth Century…, 2002;  E. Morini, Storia della moda. XVIII-XX secolo, Milano 2006, pp. 9-62. Per seguire l’evoluzione  dell’abbigliamento femminile sono utilissime le coeve riviste di moda: “Giornale delle Nuove Mode di Francia e Inghilterra” pubblicato a Milano, “La donna galante ed erudita” pubblicato a Venezia, la “Galerie de Modes”, il “Cabinet des Modes ou les Modes Nouvelles” e il “Journal des Dames et des Modes” pubblicati a Parigi, il “Giornale di Mode e di Aneddoti” pubblicato a Firenze, il “Corriere delle Dame” pubblicato a Milano, e in generale tutte le riviste femminili dell’epoca. Cfr. S. Moronato, Le prime riviste di moda (1785-1820), in Il tessuto nell’età del Canova…, pp. 79-99; E. Morini, Storia della moda…, 2006, pp. 23-32. []
  32. Cfr. F. Orlando, Storia del vestire…, 1993, p. 48. []
  33. Cfr. G. Butazzi, Incanto e immaginazione per nuove regole vestimentarie: esotismo e moda tra Sei e Settecento, in L’abito per il corpo, il corpo per l’abito. Islam e Occidente a confronto, Firenze 1998, pp. 35-44; F. BOUCHER, Histoire du costume…, p. 274. Sull’ampia bibliografia riguardante le influnze orientali sulle arti decorative nel XVIII secolo si rimanda a: Touches d’exotisme. XIV-XIX siècles, Paris 1998; M. Pasquali, Verso Oriente e ritorno: l’arte orientalista e gli scambi di modelli decorativi nel bacino del Mediterraneo, Firenze 2012. []
  34. J. Moore, Essai sur la société et les moeurs des italiens, ou lettres d’un voyageur anglois sur l’Italie. Traduit de l’anglois de mr. Moore, II, Lausanne 1782, pp. 295-296. []
  35. J.J. De La Lande, Voyage en Italie…, 1786, p. 11. []
  36. BNCF, N.A. 1050, Giuseppe Pelli Bencivenni, Efemeridi, serie II, tomo XVI, ff. 3033-3034, cit. in F. Orlando, Storia del vestire…, 1993, p. 52. []
  37. J.J. De La Lande, Voyage en Italie…, 1786, p. 229. []
  38. Il mercato dell’usato è stato fondamentale, e per una grossa fetta della popolazione indispensabile, fino al momento in cui la produzione industriale, la confezione e la distribuzione su ampia scala dei grandi magazzini hanno reso disponibile ingenti quantità di vestiario nuovo a buon mercato. Sulla conformazione del mercato dell’usato si vedano: D. Roche, Il linguaggio della moda, Torino 1991, in partic. pp. 343-399; P. Venturelli, Milano tra Sei e Settecento: persone, modalità, luoghi per la diffusione dell’abito preconfezionato, in Per una storia della moda pronta. Problemi e ricerche, atti del V Convegno internazionale del CISST Milano, Firenze 1991, pp. 51-60; A. Musiari, Commercio di abiti usati o già confezionati a Parma nei secoli XVII e XVIII, in Per una storia della moda…, 1991, pp. 69-79; M. Cataldi Gallo, Il commercio degli abiti usati a Genova nel XVII secolo, in Per una storia della moda…, 1991, pp. 95-103. []
  39. “Gazzetta Toscana”, 1771, n. 20, p. 78; “Gazzetta Toscana”, 1772, n. 19, p. 74. []
  40. Cit. in G. Butazzi, Trasformazioni e significati del sistema vestimentario…, pp. 55-75, in partic. p. 71, nota 4. []