Andrea Ferruggia

andrea.ferruggia@libero.it

Abitudini e ricchezze della nobiltà palermitana di fine Cinquecento: gli inventari post mortem dei Filangeri di San Marco

DOI: 10.7431/RIV11042015

Tra le più note famiglie nobili siciliane, va annoverata quella dei Filangeri che, presente sull’isola già dal 1258 con Riccardello comes Marsici et viceregens generalis Trinacriae 1, ricoprì importanti magistrature a livello cittadino, partecipando a fenomeni politici e militari dal Vespro sino alla metà del XX secolo (Fig. 1).

Eppure, tutt’oggi, attorno a questa casata persistono molte zone d’ombra non essendo state effettuate ricerche complete soprattutto a livello economico e patrimoniale, poiché non si conosce né una mappatura precisa degli immobili posseduti localmente nel periodo medievale, né tantomeno il numero e le tipologie dei bona mobilia 2.

A tal proposito, utili strumenti di ricostruzione del vivere quotidiano nei secoli passati, sono gli inventari redatti dai pubblici notai che, coadiuvati da contabili e fiduciari di famiglia, annotavano scrupolosamente gli oggetti esistenti nel grande hospicium in quo morat et habitat il testatore. Elenchi e repertori di beni, sono da considerarsi uno dei possibili modi scientifici di osservazione della vita privata, delle abitudini e dei ritmi di aristocratici e nobildonne, capaci di restituire aspetti realistici sull’arredamento (baldacchino, scrigni, quadrerie), sull’abbigliamento (stoffe, ricami o merletti) e sui gioielli (bottoni, fibule, gemme) tutti status symbol del ceto di appartenenza3.

Nel caso dei Filangeri, sinora, non è stato pubblicato alcuno studio sulle loro ricchezze private, ciò a causa della dispersione di testamenti e lasciti per i secoli XV e XVII, un tempo conservati presso l’Archivio di Stato di Messina ma andati inesorabilmente distrutti durante l’ultimo devastante terremoto (1908). Attraverso il fortuito ritrovamento di tre inventari, tuttavia, è stato possibile ricostruire parzialmente il numero dei beni materiali ereditati per via maschile e paterna, con le relative stime approssimative, dimostrando come alcuni di questi oggetti di pregio transitassero con cura e continuità dalle vecchie alle nuove generazioni4.

Al momento della stesura di un inventario era dovere del notaio annotare i crediti e le insolvenze che il defunto non aveva ancora sanato, spesso all’interno della stessa famiglia nei confronti di consobrini et parentes e, con essi, anche utensili logori e inservibili che a confronto del lussuoso guardaroba, diventavano specchio di decadenza economica.

Una crisi di un certo rilievo, in effetti, interessò la casata del ramo palermitano già dagli ultimi decenni del XV secolo e per più di un cinquantennio, i cui segni rimangono ben visibili nelle liste degli oggetti scarsi nel numero (posateria incompleta, piatti non accoppiati), trascurati e mal conservati (abiti consumati o strappati) ma ugualmente ritenuti importanti, ai fini ereditari, perché riutilizzabili dai successori limitatamente alla riservatezza della sfera domestica. Attraverso i dati raccolti provenienti dall’archivio gentilizio Lanza-Filangeri di Palazzo Mirto, si comprende come il dissesto finanziario dei Filangeri, causato da sfortunati investimenti e ipoteche sulle rendite fondiarie dei casali di Mirto e Belmonte5, avesse condotto la casata quasi sull’orlo della bancarotta, scongiurata soltanto grazie al prestigioso matrimonio, contratto il 9 giugno 1594, tra Pietro Filangeri Lanza e Francesca Spuches Carbone, figlia di Vincenzo, Giudice della Gran Corte Pretoria.

A fine XVI secolo, i Filangeri risiedevano stabilmente a Palermo da più di un secolo e, con esattezza, nel quartiere del Cassaro lungo la Platea Marmorea dove avevano preso dimora in un magnum palacium sopraelevato e suddiviso in pars superior e pars inferior, provvisto di loggiato e cortile interno, ubicato nell’attuale prospetto meridionale di Piazza Bologni e coincidente con quello che oggi è denominato palazzo Ugo delle Favare. In realtà l’abitazione originaria della famiglia, era stata edificata nella piazza del Seralcadio dal miles Guidone6, pretore urbano nei bienni 1316-1317 e 1328-1329 ma, già sul finire del XIV secolo, era divenuta troppo angusta e poco rappresentativa del prestigio sociale acquisito dalla famiglia, essendo questa ai vertici amministrativi della cittadinanza e desiderosa di primeggiare sul patriziato locale (Fig. 2).

La nuova dimora, pertanto, fu realizzata ai primi del Cinquecento unificando precedenti tenimenti domorum acquistati in blocco dalla polverizzazione dei patrimoni delle famiglie Castiglione, Gioeni, Ram e Lombardo7 e risistemati architettonicamente attorno a un corpo di fabbrica unico, la cui parziale articolazione in sala et camera è stata possibile grazie ad uno dei 3 inventari compilati post mortem e così pure per il maniero di San Marco d’Alunzio sito nel Val Demone, oggi quasi del tutto diroccato a causa dell’incuria del tempo.

1. L’inventario redatto per Francesco Filangeri come strumento di ricostruzione del castello di San Marco

Nell’inverno del 1542 moriva a Palermo Girolamo Filangeri, terzo conte di S. Marco, ricordato dalle cronache siciliane come prode patriota e valente guerriero che, ardente nel desiderio di libertà e indipendenza, si distinse nella sedecion palermitana del 1516 guidata da Guglielmo Ventimiglia e con otros muchos cuyo intento era privar del govierno al Virrey Ugo Moncada, a motivo delle prepotenze ed oppressioni usate da costui nel Regno dopo la morte di re Ferdinando8.

Dal matrimonio contratto con Turella de Nava baronissa Xigli (Scilla), il 6 dicembre 1496, nacquero 3 figli maschi (Francesco, Virgilio e Pietro) che, sebbene cresciuti nell’agiatezza dei 6 castelli di famiglia (Alcara Li Fusi, Belmonte, Capri Leone, Mirto, Pietra di Roma, S. Marco) e della vasta dimora palermitana, nel corso del XVI secolo, dovettero riscattare il blasonato nome della casata dai molti creditori paterni.

La successione al titolo comitale spettò, per diritto di primogenitura, a Francesco che si investì della contea il primo luglio 1542, dopo aver inutilmente tentato di riacquisire i casali di Mirto e Mirtino, già da anni in possesso del nobile Antonio Branciforte signore di Raccuja9.

Per non lasciare nell’indigenza i due restanti figli uterini, intervenne la madre comitissa con un testamento da lei personalmente dettato in punto di morte al notaio Antonino Pettula, mentre infirma et languens in licto, attendeva il sopraggiungere della fine; nel lascito del 26 giugno 1544, i figli vennero designati eredi universali in omnibus et quibuscumque bonis, rebus, iuribus ac dotibus oltre ad essere investiti di una rendita di 600 once, come donazione che il padre voleva fosse fatta non appena rimasti orfani10.

Il bilancio economico non doveva essere più florido come a metà XV secolo, quando Riccardo Filangeri era riuscito a portare a 4 mila once d’oro i proventi delle rendite fondiarie che gli garantirono 4 voti parlamentari, corrispondenti ad altrettante baronie, abitate complessivamente da circa 7 mila anime11.

Dalla metà del Cinquecento, tuttavia, ebbe inizio una graduale ripresa per le casse e le rendite familiari grazie alle capacità imprenditoriali del giovane Francesco Filangeri che volle impiantare presso la propria masseria fortifica di Pietra di Roma, un ampio arbitrium cannamelarum composto da 3000 caselle, abbeverate dalla locale sorgiva Biviere e dai torrenti Rosmarino e Fitalia sui quali stavano i mulini Campi e Deca 12. Si occupò, inoltre, della messa in sicurezza del castello turrito di San Marco perché, come si legge dall’inventario compilato alla sua morte, poiché l’antica struttura olim in parte roynatam venne riedificata e riparata per suo volere e munita di nuove armi da fuoco e da tiro utili alla guarnigione per la difesa del contado13.

L’operato del conte, purtroppo, fu bruscamente interrotto dalla sua prematura scomparsa, avvenuta per infezione intestinale il 7 dicembre 1542, soltanto a distanza di 5 mesi dall’investitura feudale, morte che lo sorprese nel palazzo comitale di San Marco dove a redigere l’elenco dei beni fu il notaio Antonino Glozzi, alla presenza del contabile aluntino Pantaleo Pillicano.

Singolare risulta l’articolazione dell’inventario, diviso in 2 sezioni separatamente compilate, visto che gli iura feudalia et bona stabilia vennero registrati nella giornata del 10 dicembre, mentre gli oggetti personali e il guardaroba del defunto furono, di contro, enumerati soltanto giorno 13 duobus vel tribus noctis mortus et sepultus Don Franciscu. È possibile ipotizzare che, questa breve pausa nella stesura dell’atto, si sia verificata per dar modo alla servitù e agli intendenti di casa di radunare ogni oggetto in domo existentium aiutando il lavoro minuzioso del notaio, altrimenti costretto a creare dei codicilli aggiuntivi vista la provvisorietà e l’incompletezza dell’inventario14.

Dalla lettura delle carte si evince che parte dell’abitazione comprendesse: un’ampia camera da letto con studiolo annesso seguita da svariate stanze adiacenti usate dalla servitù; una sala di rappresentanza dove desinare in compagnia di ospiti e parenti; due camerette di recente edilizia volute dal defunto come ampliamento della casa padronale; la cucina maggiore ricca di utensili e provvista di ripostiglio per le vivande che giungevano in casa dai viridaria fuori le mura; vari magazzini sottostanti con ampie stalle e infine due torri basse e merlate munite di soppalchi lignei e di cucine minori.

Nel presente caso, è di estrema importanza capire quale fosse la disposizione degli ambienti interni al castello di Alunzio in quanto, oggi, rimangono soltanto pochi ruderi delle possenti mura normanne e 4 bifore trecentesche le cui uniche notizie ci giungono dalle ricerche dell’erudito locale A. Meli che descrisse la rocca munita di spessi bastioni in pietra arenaria e irregolare nella planimetria, perché posta sulla nuda roccia del monte Rotondo, accessibile da 4 porte con garitte e feritoie (S. Antonio, Portazza, Rasizzi e Porta di Vento)15.

Come di consuetudine, il notaio apre il testamento elencando i beni immobili da passare in eredità al figlio primogenito Girolamo II, sgravati da qualsivoglia tassa e debito precedentemente estinto dal padre e cioè: l’intero contado feudale di San Marco comprendente un vasto hinterland a quadrilatero che conglobava al suo interno un migliaio di anime, una ventina di chiese monumentali e una decina di torri costiere con annesse tonnare e osterie (torre Cuffari, Gatto e Favara)16; il bosco di pini nominato Palyscina con il mero e misto imperio sui casali e i borghigiani qui residenti, comprese le minoranze giudaiche; una vigna chiantata in contrada S. Pietro circondata da un firriato di pietra e accessibile tramite 5 porte, con all’interno mille piante di vite locale; una chiusa con iardinu arboratum di gelsi; un oliveto sito in contrada Muschiglia oltre a svariati peri di castagni piantati sul piano di Pietra di Roma e una vignola vocata Santa Anastasia; 3 appezzamenti di terreno presso la contrada di la Favara con rispettive gebbie per l’irrigazione e un cannitu; infine 2 case, 2 tenimenta domorum e un magazzino disposti lungo la pubblica via della rocca di S. Marco17.

A questo punto l’inventario prosegue con l’indicazione degli schiavi che, ritenuti semplice proprietà animata, non possono mancare all’appello dei beni lasciati per testamento dall’aristocratico, enumerati sotto la voce mobilia in maniera seriale con i propri nomi cristiani di battesimo e suddivisi per gruppo familiare di appartenenza, sesso o colore della pelle (3 scavi nigri nomine Christofalo e Nardo di anni 60 e Giacomo di 35; una schiava negra nomine Margherita con la figlia di 30 anni e la nipotina di 3; due schiavi blanchi nomine Valentino di 24 anni e Daniele di 20 acquistati ad una fiera per 25 once)18 accomunati, inoltre, ai capi di bestiame perché di pari valore agli animali da pascolo (6 giumente, 2 muli, 14 animali da fattoria, 49 fra pecore e capre li quali li tieni misser Giovanni Mattuni, 5 buoi lavuraturi per arare i campi in potiri di Nicola Morici e 9 cavalli dal crine baio o stornello, 2 dei quali chiamati Liardello testa dura e Chiappi di frati)19.

Gli attrezzi della cucina sono largamente documentati e con loro le derrate alimentari provenienti dai terraggi di frumento, orzo e grano, questi ultimi sistemati nel vano cantina che precedeva lo spazio adibito alla cottura dei cibi e al forno, dove grazie alla mite temperatura potevano conservarsi a lungo in maniera ottimale.

Nella cucina maggiore, dalla forma quadrata e posta al pianterreno con camini per arrostire la carne, vengono elencati i seguenti utensili: una gistra 20 o cesta con all’interno coltelli e lame; diverse cassette metalliche vuote per la posateria; 5 mattarelli di menzamina 21; una maidda22 per conservarvi i panetti e le spezie per impastare; 2 quadare23 di rame per l’acqua; un servizio di 14 piatti di stagno per uso quotidiano e uno grande oltre a 12 piatti di fattura mursiana perché provenienti dalla città iberica di Murcia; una scavina24 di panno grosso usata per coprire il cibo; infine 3 candelieri di bronzo per l’illuminazione e un tavola di mangiari in legno.

Di contro, appare stranamente più ricco l’inventario delle due cucine minori poste simmetricamente nei torrioni e sovrastate da solai lignei dove furono rinvenuti: 3 trippodi25 grandi di ferro su cui poggiare le 3 caldare mezzane di rame per la cottura dei cibi (arrosto, bollito, fritto); un arrostituri grande per la carne e due spiedi di ferro; 4 candelieri grandi in rame; 2 mortai (1 in metallo e 1 di marmora); una batteria di 40 padelle e tegami di rame, comprati a Patti; 6 piatti di stagno e 8 piatti per la quarta portata; un rifriscature26 di Murcia dove tenere fresco il vino o l’acqua con dentro la neve; infine un colino di rame, 2 giarotti e orcioli vari contenenti acqua rosa.

Nella dispensa e nei magazzini terranei sono stipate: 94 botti di vino buono ad uso della mensa padronale; 10 barili colmi di olio; 4 fiaschi di stagno e uno di legno sempre contenenti vino; una cassetta di castagne e una di mandorle; 33 salme di frumento, 4 rotula di ciciri e 4 di fave, 12 forme di formaggio e ricotta e finanche una varca con li soi rimi in attesa di ricevere le dovute riparazioni prima di essere trasportata alla tonnara fortificata sul litorale marittimo di Torrenova.

Scorrendo ancora l’inventario, è inoltre possibile rendersi conto della modesta armeria posseduta dal conte e disseminata fra i molti scrigni damascati delle camere superiori perché, sin dal XIV secolo, era in uso fra l’aristocrazia riporre le armi all’interno di archibancum a mó di mobilucci adorni di rabeschi dorati, spesso fabbricati a Messina e detti firrati per via dei degli efficienti sistemi di chiusura che proteggevano il contenuto da possibili forzature27.

Nell’armamentario28 troviamo citate: 5 balestre con soi gaffi 29 (o staffe) e pulegge, infallibili armi da tiro complesse nell’uso sia in caccia che in guerra; una spada corredata di coltello e punteruolo oltre ad una daga dorata con lo fondali di villutu, legata alla vita da catene dorate dette “di guardia” e sfoggiata dal nobile durante le cerimonie ufficiali; come armi da fuoco, invece, 5 archibugi30 con rispettive fiaschette per la polvere da sparo e una scupetta longa 31.

Di notevole interesse, sono alcune delle parti che assemblavano la pesante corazza da cavalleria indossata in battaglia e che, seppur antiquata nell’uso, rimaneva importante retaggio da tramandare ai successori nel ricordo del ceto di appartenenza. Ecco allora che ritroviamo: il classico spaduni32 a due mani, soprannominato “lama da macellaio”, gigantesco nelle fattezze e utilizzato nel combattimento corpo a corpo per sferrare fendenti mortali; una lancia da giostra33 con punta a tricuspide in uso durante i tornei banditi periodicamente nel Regno; 2 scudi detti a rotella o rondaccio34 che, grazie alle piccole dimensioni tonde e convesse, erano una maneggevole arma per la difesa del volto dalle offese delle frecce; e ancora il bacinetto35 di ferro cum camaglio, solitamente a “becco di passero”, la cui visuale era alquanto limitata per via della stretta visiera e per concludere le selle (11 pezzi in tutto), le sambuche con staffe e le briglie da cavallo con guarnationi intacciate d’oro e velluto (Fig. 3).

2. Dall’alcova alla tavola: lenzuoli raccamati e posateria alla catalanisca.

Molti dei successivi lemmi, riportano il dettagliato corredo da camera del Filangeri che dimostra la sfarzosa ricchezza ostentata nel Cinquecento dall’aristocrazia isolana, sempre attenta a seguire le mode e i costumi in voga, soprattutto i gusti spagnoli e francesi. Col Rinascimento, infatti, le vesti e non solo si arricchiscono di opulenti ricami e merletti, non di rado tempestate di gemme policrome e di eccessive bordure dorate, vesti lavorate con estrema abilità sartoriale secondo gli influssi di munificenza tipici delle corti principesche italiane (medicea, estense, veneziana etc.) o europee (borbonica e asburgica)36.

Per arginare la pomposità che specialmente dilagava fra gli esponenti del patriziato castigliano, il viceré Pignatelli duca di Monteleone fu il primo a promulgare la Pramamtica de li vestiti nel 1534, dove si faceva espressamente divieto alle donne di indossare camice maschili e agli uomini di non appesantire le loro «con qualsivoglia sorti ne fogia di reccami ne drappi reccamati tanto di oro et argento filato»37, mentre una seconda raccolta di leggi suntuarie emanata nell’aprile del 1552 stabiliva che «di qua innanzi nessuna persona tanto uomo como donna di quasivoglia stato titolo, e condizione che sia possa portare robbe né nullo vestito di broccato, né tela di oro né di argento né guarnito di perni, né di filo d’oro»38.

Ben poco valsero i rigorosi provvedimenti per il pubblico decoro e ciò, a causa del lato ridicolo delle stesse ordinanze dove, in chiusura, si sanzionavano le pene per i contravventori che, nel caso dei nobili si statuì semplicemente in multe pecuniarie o all’esilio di un anno per i recidivi mentre, per i popolani, 6 mesi di remi sulle galere39.

Intraprendendo un ideale percorso fra gli spazi interni del castrum Sancti Marci, guidati dal solo elenco delle suppellettili, il primo e più importante ambiente da osservare è l’alcova nuziale con sponziaturi 40, dove si trova un letto sorretto da 4 cavalletti di ferro posti agli angoli, montante un materasso imbottito di lana cardata e foderato di seta gialla e bianca, ricoperto da una pregiata carpita di cotone (3 nell’inventario) sulla quale stendere la cultre serica d’Olanda lavorata con motivi a ciura et arbori (sono citate altre 2 coltri una gialla e una bardiglia)41.

All’interno delle camere, in tutto sono presenti: 4 materassi per i componenti familiari (i figli Girolamo e Ottavio e la moglie Castellana) appartenenti all’illustre domina Centelles in conto della robba della dote sua, figlia di Giuliano conte del Faro e Collesano; 4 materassi di tela bianca per gli ospiti; 2 materassi di lana nigra più consunti in cui far dormire i paggi di servizio posti nel vestibolo adiacente; 2 materassi bianchi dove dormino li fimmini, quindi le damigelle della nobildonna; infine sono annotati 4 altri materassi in cui riposò, con il suo seguito e durante un soggiorno al castello, lu Signuri Visconti Almerico fratello maggiore della contessa42.

Ognuno dei letti padronali doveva essere, senza dubbio, a baldacchino e ciò lo si deduce dalla presenza di 5 pavigliuna 43 o cortinaggi gialli e turchini guarnuti con cordelli di seta e ricamati con filo d’oro, sostenuti da 4 rispettivi bastoni dorati, mentre adagiati scenograficamente sui capezzali, stavano 20 coxinelli di velluto lavorati con seta olandese rossa e bianca e miniati di verde con fronzoli argentati ed ancora lunghi capizzi 44 di velluto neri che fungevano da guanciale sopra al quale riporre il capo.

Continuando nella descrizione, l’arredamento delle stanze viene riportato con estrema cura: 2 litteri di noce, simili a divanetti, composte da 4 tavolette dorate intarsiate a fiori (2 braccioli e 2 spalliere) e un coscinetto di raso bianco guarnito con cento fogliette dorate e fronzoli, lettiere che all’occorrenza potevano essere riutilizzate come eleganti portantine signorili sorrette dai servi45; 4 tavulidda intagliati a motivi vari con rispettive sedie; 2 arazzi grandi di Livanti presumibilmente acquistati a Bisanzio; un cascioneddo 46 o cassettiera dove conservare i ducati d’oro e un forziere con certi mazzi di carte riguardanti la vendita dei feudi di Mirto, Montemaggiore e Sperlinga con un quiterno contabile recante i nomi dei debitori e creditori del Filangeri47.

L’abbondanza del corredo da camera, viene passata attentamente in rassegna dall’occhiuto sguardo del notaio che, nella sola stanza del dicti condam illustris, conta un totale di 10 scrigni in noce chiara, rivestiti all’interno di panno cremisino48 rabescato, entro li quali vi foru truvati: 5 paia di lenzuola miniate in seta siciliana, 3 di seta olandese nera e dorata e un paio di lino filato; 3 bancali 49 di lana di Godrano portati in dote da Madonna Castellana che insieme ai 5 chiomazza 50 di damasco (nero, giallo e morato) provenienti da Corfù, servivano a coprire le panche; un faudale 51 di lana bianco e nero, usato nel Cinquecento come copertura per le gambe mentre si andava in carrozza; 2 frazzate 52 bianche, un panno con sopra ricamato il blasone e le armi dei Filangeri oltre a un manto di Fiorenza; 3 pizzotti 53 di tela dorati di fattura genovese; 2 sopratesta, ossia federe per i cuscini di cremisino argentato e in ultimo 9 panni di infasciaturi 54 (5 in cotone bianco, 2 in tela rossa e 2 in seta olandese) usati per avvolgere, sotto gli abiti, alcune parti del corpo o per fasciare i neonati55.

Va osservato, inoltre, come don Francesco, nei bauli sparsi fra le camere private, fosse solito conservare una notevole varietà di pregiati scampoli di tessuto colorato, acquistati in eccesso nelle botteghe di mercanti e tessitori stranieri, non già per il gusto di sperperare denaro, quanto piuttosto nella possibilità di farsi confezionare in casa, a suo piacimento, nuovi e sfarzosi abiti dal sarto di fiducia. Ecco dunque ritrovare: il raso francese (2 palmi verde e 7 bianchi), il velluto iberico lavorato cum filo aureo (7 palmi neri, 5 rossi), i panni di lana fiorentina (10 palmi neri) acquistati nelle botteghe dell’oratorio dei Buonomini di S. Martino56 e ancora la stametta 57 (4 palmi rossi), la tela locale (10 palmi neri), la seta fiamminga (9 canne bianche e 3 marredda 58) e maiorchina (3 canne rosse), il cuculeo 59 greco (4 rotoli), il lino spazzolato (10 rotoli e 14 canne) e infine alcuni rotoli di panno napoletano dal valore di 2 once d’oro60.

Non va tralasciato il ruolo primario occupato dagli tutti quegli oggetti che adornavano la tavola dell’aristocratico, dall’argenteria differenziata secondo il numero delle portate e dei commensali, agli oggetti in vetro e al pregiato tovagliato che, nel presente inventario, è da considerarsi anche per uso della toletta personale e della pulizia mattutina del corpo; tra i beni che davano lustro alla tavola del signore troviamo: 3 delicate tovaglie grandi di fiandina, tessute nella regione delle Fiandre; una tovaglia di tela per asciugarsi le mani e 2 tovagliette in seta lavorata; 4 tovaglie di tela con un motivo a ramo duppi usate quando si avevano li genti a tavola e 7 listate in filo di cotone; 10 tovaglie in seta olandese (4 dorate, 4 nere con cordelle e 2 bardiglie 61); 86 stuivucca 62 ovvero salviette di tela di Fiandra, 3 muccaturi 63 o fazzoletti di seta argentata e nera e 2 bavagli.

Per quanto riguarda i servizi in argento di fattura spagnola troviamo: 3 saliere a 2 pezzi e una spuria (una dorata, una in argento dal peso di 4 once e una di 13); una brocca dal peso di 7 once; 2 paia di piatti grandi in ambra; 7 cocchiarelli dal peso di 6 once di cui 3 per i picciotti ovvero i bambini; 2 tazze grandi alla catalanisca per il vino dal peso di 3 once e infine 12 campanelli da tavola usati per richiamare i famigli e far servire le portate64.

3. Il ricco guardaroba del conte e i monili preziosi di Contessa Centelles

La maggior parte del restante inventario, è stato compilato passando in rassegna gli eleganti capi d’abbigliamento che componevano il vasto guardaroba del conte e i gingilli in oro che facevano da complemento del corrispettivo grado sociale per il quale, nel Cinquecento, era divenuto ormai una necessità sociale il vestire sfarzosamente. La cupida mania di ostentare il benessere economico, produsse tra i secoli XV e XVI, un graduale proliferare di nuove tipologie di vestiario attestando allo stesso tempo come il potere d’acquisto della classe magnatizia siciliana fosse aumentato, superando la crisi quattrocentesca che aveva interessato molte famiglie, tra cui i Filangeri65.

Il catalogo compilato alla morte del conte, non comprende soltanto abiti a lui appartenuti bensì anche alcune vesti del quondam illustris Girolamo suo padre oltre a riportare, stranamente, svariati monili preziosi della dote matrimoniale di la signura Castellana Centelles, perché conservati nei medesimi scrigni del defunto. Viene, tuttavia, più volte specificato che i gioielli della contessa sono di sua unica proprietà, sebbene riportati nell’elenco del marito, in considerazione del fatto che il matrimonio fu stipulato secondo rithum et consuetudinem more graecorum rendendo la nobildonna padrona assoluta dei suoi beni mobili e immobili e, dopo la sua morte, non il marito bensì la famiglia d’origine, nello specifico il fratello o lo zio materno, sebbene durante la convivenza il patrimonium venisse ugualmente gestito dallo sposo che aveva diritto alla libera fruizione66.

Iniziando dal guardaroba di donna Castellana all’interno di un bauletto ricoperto di cuoio troviamo: 3 cammiselle in seta olandese adorne nel collo quanto nelle maniche di fili d’oro (2 dorate e una nera), molto in voga tra le dame rinascimentali67 ed infatti vengono citate assieme a due 2 colletti in seta lavorata e 3 paia di manicotti (un paio in raso bianco e 2 paia in tela d’Olanda); un gippuni di raso bianco, ovvero una veste simile a un farsetto con gorgiera68; una cintura di seta che nel XVI secolo era generalmente composta da una sola striscia con applicazioni di lamine metalliche in oro e perle69; 6 scufie dorate usate dalle nobildonne siciliane per raccogliere le lunghe acconciature entro queste reticelle che avvolgevano l’intero capo, lasciando libera la sola fronte sulla quale porre un diadema o un cerchio prezioso, moda che fu adottata dalle fanciulle d’oltralpe dopo la discesa di Carlo VIII in Italia70; infine 2 cursetti di velluto e raso rosso cremisino, un tempo usati indistintamente da uomini e donne con la differenza che quelli femminili portavano cucita dietro una coda71.

Tra i gioielli, vi sono i paternostri in corallo (3 nel presente inventario) di cui la Sicilia era la maggior produttrice insieme a Genova, tanto che venivano spediti finanche a Damasco e nel mercato orientale vista la qualità e quantità dei rami lavorati con abile maestria dalle botteghe orafe (Trapani, Mazara, Messina etc.)72; i rosari appartenenti a la Signura contissa, avevano delle crocette pendule smaltate con partiture in oro a menzu coccio e attaccata una catenella con una cunochia 73 finale del peso di 7 libre dove si soleva apporre qualche immagine sacra madreperlata o dipinta.

Vengono inoltre elencati: 4 rosari di ambra nigra provenienti dalla Siria, probabilmente dalla città di Aleppo da cui giungevano insieme alle gemme; 10 rosari in legno con reliquie, forse di ebano o cedro e provenienti dalla Terra Santa; una coroncina d’oro usata a modi ghirlanda per fermare il velo serico da testa detto buscheri, gioiello pressoché uguale a quello citato nel contratto matrimoniale tra Desiata Filangeri e Guglielmo Naccone (1365)74 ed infine un collaretto in oro75.

Concludendo con il guardaroba di don Franciscu, esso comprendeva: 5 paia di causi (3 rosse e 2 nere) di stametta lavorate con 2 canne e mezzo di passamaneria nera e indossate, a modi culotte sino al ginocchio, fermate da lunghi stivali in pelle lucida con fibule dorate (2 paia) che furono i calzari tipici delle classi elevate sino al XVII secolo76; 3 cammise masculine in seta fiamminga bianca con motivi dorati, 3 in seta locale nera e 4 di tela con ricamature nel collo e nelle maniche larghe, tutti indumenti che venivano portati lunghi simili a delle vesti e stretti alla vita da larghe cinture per creare un vistoso rigonfiamento77; 3 collari e un collaretto di seta con ricami in oro che potevano essere inamidati e abbottonati alla camice separatamente per renderle più adorne e sfoggiarli in varie occasioni78; un paio di ferraioli 79, ovvero mantelli corti provvisti di bavero e dalla forma semicircolare; 2 cordoni di seta bianca con ghirigori in filo aureo e argentato e una cintura di velluto arricchita da buccole centrali in oro e delicatamente niellate tutt’intorno da lavorazioni varie alla quale era solitamente legata la borsa per i denari o il pugnale80; una bandirola di raso bianco, cioè un piccolo ventaglio con manico ligneo a rocchetto molto in uso fra la nobiltà soprattutto per trovare sollievo dalla calura estiva oppure per allontanare gli olezzi che provenivano dalle strade cittadine; 11 gipponi con abbottonatura ad alamari (1 di fustagno nero, 9 in raso bianco e 1 nero) sopra i quali porre una casacca (1 di velluto bruno) o una cappa di cremisino (2 di colore rosso)81; 2 pelli di daino conzate ad uso di mantelle, 7 saii (4 di velluto nero, 1 di velluto rosso, 1 di raso e 1 di panno) frixiati con passamanerie in oro e altri 4 appartenenti al condam Signuri Geronimo; infine una vasta tipologia di copricapo, indumenti distintivi delle classi alte come un cappello di seta, 5 cappucci (4 in velluto nero e cordelle in oro e 1 di raxia 82 con passamanerie), 2 berritte di velluto nero, 6 scufie mascoline nere oltre ad una cappiglia picciotta, quindi piccola, appartenente al figlio di Madonna Francesca, sorella del conte83.

4. Il senso di decadenza negli inventari di Pietro Filangeri e del figlio Girolamo

Morto Francesco Filangeri, quarto conte di S. Marco, fu chiamato a succedergli Girolamo II, suo unico figlio naturale che, il 4 dicembre 1543, si investì delle rendite feudali paterne disseminate nel Val Demone potendone godere soltanto per breve tempo poiché il 3 marzo 1562, ormai moribondo, con atto rogato dal notaio Antonino Carasi designò come suo fedecommesso il fratellastro Ottavio Lanza, signore di Mussomeli84.

Contestualmente, dal dicembre 1542 all’ottobre 1559, fu designato come tutore del patrimonio familiare, lo zio paterno don Pietro Filangeri il quale, rimanendo alla conduzione della casata per un quindicennio, si occupò amorevolmente del nipote sino alla maggiore età, gestendo gli affari finanziari dalla propria dimora cittadina, dove morì il 15 ottobre 1559, confortato dal pianto della moglie Giovanna, dai figli maggiori Giuseppe, Eleonora, Girolamo e dai fanciulli Turella e Franceschiello. Del nobile rimane un semplice e conciso inventario, compilato dal puplicus notarius Antonino Glozzi, coadiuvato dai testes Francesco e Antonio Galletti di S. Cataldo, alla presenza del baiulo della terra aluntina Antonino Gentile, accorso frettolosamente a Palermo per ordine della vedova, affinché la spartizione dei beni di quella contea, fosse eseguita in conformità e nel pieno rispetto delle regole vigenti85.

I beni immobili di cui si fa menzione in apertura, sono per di più di tipo burgensatico e cioè: alcuni casamenti rustici ubicati in contrada S. Basilio nella contea di San Marco; un celseto, una vigna e una giardino alberato d’aranci difeso cum sua turri, con attigui terreni incolti e scapuli ubicati nella zona costiera delle contrade di la Favara e di lu Valluni; una vigna e un viridarium ubicati in contrada Palyscina lungo la strada che conduce alla nuova chiesa di lu Succurso.

È certo che l’elenco degli oggetti dovesse essere solo temporaneo e quindi da incrementare nei giorni successivi al funerale poiché, come postilla di chiusura, si legge di avvertire il notaio entro quadraginta dies si vi fussero più beni e di prenderne nota; tuttavia ciò che si evince dall’analisi del repertorio, è che questo si discosta qualitativamente e quantitativamente dal precedete per via dello stato di conservazione degli oggetti, spesso citati come vecchi e spirtusati, consunti o logori, dando un forte senso di decadenza opposto allo sfarzosità dei tessuti e dei gioielli appartenenti al ramo principale della famiglia.

Non è dato sapere il perché di un tale degrado, forse gli esosi debiti e le insolvenze unite alle martellanti richieste di pagamento dei creditori o ancora le ipoteche maturate sulle proprietà terriere furono la causa del declino del Filangeri ma, tuttavia, anche il solo riportare questi oggetti, per quanto rovinati, rappresenta per gli studiosi un utile campo d’indagine per la ricostruzione archeologica degli usi e delle consuetudini delle classi alte nel Cinquecento86.

L’elenco diviso in due sezioni (bona stabilia e mobilia in domo existentium) ordinate secondo la natura e l’importanza dei beni, comprende circa 150 suppellettili fra preziose e di uso comune, raggruppate in gioielli e biancheria ma anche arredi da camera utilizzati per desinare come un tavolo di mangiari in legno lavorato, insieme ai servizi di piatti in stagno (4 piatti mezzani e 12 piccoli) corredati da 6 tovaglie di Fiandra usate, un braciere attorno al quale riscaldarsi durante le ore fredde del giorno, 4 grosse botti contenenti olio e vino, infine utensili da cucina conservati nella dispensa adiacente, come varie padelle di ferro e la caldaia per cuocere i cibi.

Come di consueto si inizia sempre con il passare in rassegna la servitù componente la manodopera domestica, giuridicamente trasmessa ai legittimi eredi quasi fosse un comune arnese pari nel valore alle mandrie da pascolo, perché del resto gli schiavi venivano acquistati nelle fiere cittadine o presso i negrieri portuali seguendo la stessa prassi usata per scegliere e comperare un animale (capacità di lavoro, robustezza, salute etc.).

I 7 schiavi neri presenti nell’inventario (4 scavi masculi nigri nomine Marco, Vincenzo, Giorgio e Giuliano; 3 scavi nigri femine nomine Impollonia con le figlie Natala e Minica) furono probabilmente acquistati a Messina, dove già nel Medioevo esisteva un fiorente smercio e dovevano essere di origine africana, forse tunisina o libica, per via del colore della pelle  mulatto, mentre 4 erano i servi bianchi (una sclava bianca nomine Antonina con i tre figli Cesare, Angelo e Caterina) dei quali si può ipotizzare un’origine musulmana e una provenienza mediorientale87; di contro, il bestiame trascritto risulta scarso (una giumenta di razza sturnella; 2 pecore e 2 capre; 200 vacche e vitelli; 3 buoi, 3 muli e una mula) ed è possibile che esso fosse sotto temporanea custodia del contabile in qualche masseria agricola fuori città.

Tra i primi oggetti citati, troviamo gli arredi dell’alcova nuziale ovvero: 8 materassi, uno per ogni membro familiare, riempiti di burdo xilandrato (cotone locale) e listati di federe di seta, tutti ricoperti da carpite di lana grossolana al di sopra delle quali erano poste le cultri bianche decorate a farde seriche per ostentare la ricchezza dei motivi; seguono 6 paia di lenzola usati e spirtusati intarsiate con filo in oro; le coperte di lana dette frazzati; i tendaggi rossi e gialli lavorati con motivi diversi a certi riti dei padigliuni 88 del baldacchino che, già presente nell’inventario del fratello, a differenza del letto era portato in dote dallo sposo; 9 cuscini di seta bianca e 5 di seta rossa raccamata, oltre a 2 giraturi di litto ovvero guanciali posti sul letto per abbellirlo scenograficamente89.

Accanto al letto sono presenti 5 scrigni e una cassetta in legno povero intro li quali consirvari cosi vari e chiusi con 12 catinazzi mascoli, quindi grandi, poiché qui venivano custoditi gioielli e pietre preziose ma soprattutto il sontuoso corredo dotale e gli abiti da cerimonia confezionati da manifatture di alta sartoria fiorentina, napoletana e fiamminga90.

Riguardo alla documentazione sulle abitudine igieniche nel Cinquecento, va detto che essa non è numerosa poiché spesso il notaio tralasciava volutamente di enumerare oggetti utilizzati per la cura e la pulizia del corpo, quali il cantaro per orinare detto anche sedia per fare axu, le tinozze o i rasoi, tutti ritenuti bassi e spregevoli per l’uso che espletavano; tuttavia nell’inventario del Filangeri si ritrova l’antico bacileddu da porre sul comodino accanto al letto, indispensabile per la toletta mattutina dell’aristocratico e usato per lavare le mani, il viso e il corpo con acqua calda e aceto, al tempo comune disinfettante91.

Nell’inventario, inoltre, vi sono 3 litteri lignee con intagli e pomi di bronzo foderate di panno scarlatto, usate dalla nobiltà del tempo come comodo divanetto arricchito di cuxinelli di seta dove riposare durante il giorno92.

La tavola, luogo privilegiato dalla nobiltà per disquisire tra amici e familiari degustando delicate prelibatezze, occupa un ruolo di primo piano nel repertorio del Filangeri poiché gran parte degli oggetti citati appartiene al corredo della sala da pranzo come: una saliera d’argento indorata recante le armi della casata come in quella appartenuta a Maria di Navarra93; 2 cucchiarelli d’argento da minestra; 4 candelieri d’oro usurati e infine il tovagliato ricamato cum filo aureo diversorum colorum tutto in delicata seta d’Olanda94 (una tovaglia di colore torchino, 2 di colore nigro, una di colore oro e nera, una bianca e una di lino con soi cordelli pendenti).

Modesto risulta il numero degli abiti di don Pietro, indossati dal nobile nelle più svariate occasioni che, messi a confronto con quelli presenti in altri inventari già editi negli ultimi anni, danno l’idea di come i ceti ricchi seguissero tutti le medesime tendenze nel campo della moda. Ecco dunque che ritroviamo la scufia in filo d’oro e d’argento indossata corta alla nuca, pressoché identica a quella elencata nell’inventario del mercante siciliano Antonio Macinghi95 (1590); un cappuccio nero di panno e una cappicella menza usata come quelle indossate alla morte dal marchese Ferdinando D’Avalos (1571), viceré isolano96 o ancora una cappa guarnutam dentro et di fori con motivi arabescanti; un cursetto 97 di raso morato sdrucito, 3 di velluto turchino, giallo e nero, uno di panno nero con soi guarnizioni, tutti simili a quelli citati nell’inventario del notabile Francesco Bononia (1552)98; una cammisa 99 bruna in tessuto fiammingo lavorata con passamanerie in oro e bottoni100 smaltati ed una del tipo mascolina in seta turchina come quelle presenti nell’inventario del conte Tommaso Moncada (1595)101; un saio nero consumato nella trama, usato dagli uomini come indumento che copriva la persona fin sopra alle cosce102; infine 3 paia di causi nere usate, portate corte al ginocchio come si evince dai coevi inventari di don Francesco II Moncada (1592) e del nipote Cesare103.

L’elenco si chiude con i pochi gioielli: 2 anelli d’oro incisi, uno con lapislazzuli incastonati e uno corillino 104; un paio di circelli a cerchio con armille impreziositi con perle simili a quelli appartenuti alla regina Maria d’Aragona105 presenti in Sicilia per via dell’influenza della moda greco-araba106; per concludere un soprammobile a foggia di vitello d’oro e argento, simbolo di abbondanza, da porre sopra un cassettone.

A Pietro Filangeri, succede il figlio Girolamo III che, tuttavia, potrà essere investito dei bona feudalia soltanto il 18 febbraio 1572, data in cui venne a mancare il cugino suo omonimo, designato ancor prima come legittimo conte d’Alunzio; costui sposatosi nell’aprile del 1562 con la cugina Margherita Lanza Centelles, morì presso il castello di San Marco il 5 febbraio 1603 e fu seppellito, per sua volontà, presso la chiesa di S. Maria dei Poveri dove fuit inventum dicto testamento 107.

L’elenco parziale dei beni mobili presenti in casa al momento del decesso, venne stranamente compilato alcuni mesi dopo, il 13 luglio, dal notaio messinese Antonino Li Presti sotto l’attenta supervisione dell’erede maggiore Pietro il quale, sembrò mostrare particolare interesse soltanto per gli argenti di valore racchiusi nelle 15 casse di abete e nei 7 barulli di noce citati o per le poche armi da sparo (8 archibugi, una scopetta, una scupettina e una spada). A tal proposito risulta di grande interesse conoscere la posateria e gli oggetti posti attorno alle tavole rinascimentali degli aristocratici, perché è possibile comprendere come fossero articolati i banchetti, quali e quante portate venissero proposte ai commensali, le tipologie di mobilia usate e i materiali pregiati che solitamente erano utilizzati (argento, avorio e cristallo) per la fabbricazione dei servizi da mensa.

L’inventario della sala da pranzo del quondam Girolamo era, pertanto, composto da: una lunga tavola di legno con 24 larghe segge dette alla “spagnola”108 con sedute e spalliere rivestite in cuoio e 3 piccoli tavolini con 4 sedie imbottite di seta e velluto giallo109; 3 buffette 110 usate come ripiano su cui poggiare le bevande oppure come tavolieri per giocare a scacchi o a carte dopo aver desinato; 2 grandi candelieri d’argento a più bracci; 12 brocche in argento per il vino e 2 coppe per la frutta; 2 bicchieri alla catalanisca in argento con le rispettive sottotazze; infine, sempre in argento, 12 piatti grandi per le pietanze da cacciagione, 2 vassoi maggiori e 24 piattini con 12 cucchiarelli per il dolce.

Legenda

ALF: Archivio Lanza Filangeri

ASCP: Archivio Storico Comunale di Palermo

ASPa: Archivio di Stato di Palermo

Quando non specificato i documenti sono da intendersi come inediti, diversamente si sono   indicate le fonti dove il documento è stato pubblicato.

I documenti sono stati inseriti seguendo l’ordine cronologico, ritenendo opportuno non pubblicare le trascrizioni integrali ma sono state riportate soltanto quelle parti riguardanti arredamento, gioielli e vestiario.

  1. R. Pirri, Sicilia sacra disquisitionibus et notitiis illustrata, Palermo 1773, Bologna 1987 (ris. an.), p. 57; cfr. G. Evangelista Di Blasi, Storia cronologica dei Vicerè, dei Luogotenenti e dei Presidenti del Regno di Sicilia, Palermo 1842, vol. I. Una fonte ulteriore attesta che Riccardo era nel 1288, al tempo di re Carlo I d’Angiò, giustiziere della terra di Bari coadiuvato in tal ruolo da Giovanni di San Felice dottore in legge e Auditore, C. de Lellis, Discorsi delle famiglie nobili del Regno di Napoli, ms. Napoli 1654, f. 316. []
  2. I primi studi e una parziale ricostruzione patrimoniale sui beni immobili posseduti dai Filangeri a Palermo tra Trecento e Cinquecento, sono riportati all’interno del personale lavoro di ricerca universitaria: Tesi di laurea di Andrea Ferruggia, relatore Chiar.mo Prof. Daniela Santoro, I Filangeri a Palermo fra XIV e XVI secolo. Storia di una famiglia e di un patrimonio, Università degli Studi di Palermo, Facoltà di Lettere e Filosofia, Corso di Laurea Magistrale in Studi Storici, Antropologici e Geografici (anno accademico 2013/2014). []
  3. Relativamente agli studi sugli inventari siciliani: E. Mauceri, Inventari inediti dei secoli XV e XVI, “Archivio Storico per la Sicilia Orientale”, XII, fasc. I-II (1915), pp. 105-117 e XIII, fasc. I-II (1916), pp.182-190; F. Gabotto Inventari messinesi inediti del Quattrocento, “Archivio Storico per la Sicilia Orientale”, III (1906), pp. 251-276, 479-487; IV (1907), pp. 154-164, 339-346, 483-495. []
  4. Museo Regionale di Palazzo Mirto, Archivio Lanza Filangeri (d’ora in poi ALF), Tassa delle doti di paraggio del Principe di Santa Flavia nominibus contro il Conte di San Marco, reg. II, ff. 1r. – 2 v. []
  5. Girolamo I Filangeri in data 15 ottobre 1536 si vide costretto a vendere le terre di Mirto e Belmonte a Giacomo Balsamo, al prezzo di 6 mila e 772 once d’oro, sebbene il valore reale fosse di 9600 once, dovendo estinguere il debito verso il regio erario che il padre Francesco aveva contratto alcuni anni prima della morte. Notizie sulla vendita del feudo di Mirto: F. San Martino De Spucches, La storia dei feudi e dei titoli nobiliari di Sicilia dalle loro origini ai nostri giorni (1925), Palermo 1940, vol. IX, p. 35 e  ALF, b. 677, ff. non numerati. []
  6. V. Di Giovanni, La topografia antica di Palermo dal secolo X al secolo XV, vol. I, Palermo 1889-90, p. 40. []
  7. A. Chirco, Palermo la città ritrovata: itinerari entro le mura, Palermo 2005, p. 72. []
  8. B. L. Argensola, Primera parte de los Anales de Aragòn que prosigue los del secretario Geronimo Zurita, Barcellona 1629, p. 45; cfr. R. Cancila, Congiure e rivolte nella Sicilia del Cinquecento, “Mediterranea Ricerche Storiche”, n. 9 (aprile 2007), p. 52; G. Giarrizzo, La Sicilia dal Cinquecento all’Unità d’Italia, in V. D’Alessandro-G. Giarrizzo, La Sicilia dal Vespro all’Unità d’Italia, Torino, 1989, p. 130. []
  9. F. San Martino De Spucches, La Storia dei feudi e dei titoli nobiliari di Sicilia dalla loro origine sino ai nostri giorni (1925), vol. VII, Palermo 1931, pp. 180-183. []
  10. ALF, Tassa delle doti di paraggio del Principe di S. Flavia nominibus contro il Conte di S. Marco, reg. 6, ff. 9 r.-12 v. []
  11. D. Ligresti, La feudalità parlamentare siciliana alla fine del Quattrocento, in Signori, patrizi, cavalieri nell’età moderna, a cura di M. A. Visceglia, Roma-Bari 1992, pp. 18-19; E. I. Mineo, Nobiltà di stato, pp. 167-170. []
  12. Sulla pianta edilizia del castello e le sue stratificazioni: Castelli medievali di Sicilia. Guida agli itinerari castellani dell’isola, a cura di Regione Siciliana, Centro Regionale per l’Inventario e la Catalogazione dei Beni Culturali e Ambientali, Palermo 2001, p. 261; A. G. Filoteo degli Omodei, Descriptio Siciliae: il Val Demone, in Biblioteca storica e letteraria di Sicilia, a cura di G. Di Marzo, XXIV, 6, Palermo 1876, vol. I, ad vocem; M. Scarlata, L’opera di Camillo Camilliani, Roma 1993, p. 114-115. []
  13. L’intero inventario con annesso testamento del quondam Francesco Filangeri è conservato in: ALF, Tassa delle doti di paraggio cit., reg. 6, ff. 553 r. – 570 r. []
  14. Su alcuni termini specifici utilizzati negli inventari siciliani tra Medioevo e prima età Moderna, si veda: G. Alfieri, Aspetti semantici del lessico in alcuni inventari siciliani del Quattrocento, in Lessico e semantica a cura di A. Leonti-F. De Blasi, “Atti del XII Congresso Internazionale di Studi” (Sorrento 19-20 maggio 1978), Roma 1979, pp. 467-94. []
  15. A. Meli, Istoria antica e moderna della città di San Marco, manoscritto (sec. XVIII) della biblioteca dell’Assemblea Regionale Siciliana, Società Storia Patria di Messina, Palermo 1991 (ris. an.), Deca II, par. I, p. 85 ss; cfr. E. Sthamer (a cura di), Die Verwaltung der Kastelle im Königreich Sizilien unter Kaiser Friedrichs II und Karls I von Anjou, in Dokumente zur Geschichte der Kastellbauten Kaiser Friedrichs II und Karls I vof Anjou, Lipsia 1914, pp. 65-66. []
  16. Sulle torri e le strutture difensive del Val Demone, si veda: S. Mazzarella-R. Zanca, Il libro delle torri: le torri costiere di Sicilia nei secoli XVI-XX, Palermo 1985; F. Maurici, Castelli medievali in Sicilia. Dai Bizantini ai Normanni, Palermo 1992. []
  17. ALF, Tassa delle doti di paraggio cit., reg. 6, ff. 553 r.- 554 v. []
  18. Sulla schiavitù in Sicilia tra Medioevo ed età Moderna, si veda: R. Livi, La schiavitù domestica nei tempi di mezzo e nei moderni, Padova 1928; C. Verlinden, L’ésclavage dans l’Europe Médièvale, in Annali del Mezzogiorno, III, Brugge 1963; G. Marrone, La schiavitù nella società siciliana dell’età moderna, Sciascia editore 1972; C. Trasselli, Considerazioni sulla schiavitù in Sicilia alla fine del Medioevo, “Clio”, n. 1, Roma 1972, pp. 67-90. []
  19. Sulle razze equine e le caratteristiche del manto peloso, si veda: E. Marchi, Ezoognosia redatto per la Nuova Enciclopedia agraria italiana in ordine metodico, Torino 1901 ad vocem. []
  20. Gistra: «arnese a modo di gran paniere da tenervi e da portarvi entro robbe», V. Mortillaro Villarena (marchese di), Nuovo Dizionario siciliano-italiano, Palermo 1853 ad vocem. []
  21. Alcuni degli oggetti presenti in cucina sono detti Menza mina ovvero di bassa e scadente fattura, usurati e logori «Voce di spregio, usato per avvilitivo quando si vuole svillaneggiare alcuno. Dozzinalismo.», V. Mortillaro, Nuovo Dizionario sicilianoitaliano cit., ad vocem. []
  22. Maidda o magilla: «mobile di legno, generalmente a foggia di cassettone rettangolare usato tradizionalmente in campagna per impastare il pane, conservare la farina, il lievito e altri generi alimentari», V. Mortillaro, Nuovo Dizionario sicilianoitaliano cit., ad vocem e cfr. H. Bresc, Nomi e cose nel Medioevo. I recipienti siciliani, in Una stagione in Sicilia, a cura di M. Pacifico, “Quaderni Mediterranea Ricerche Storiche”, n. 11, t. II, pp. 491-614. []
  23. Quadara: «vaso ordinariamente di rame da scaldarvi o bollirvi checchesia», V. Mortillaro, Nuovo Dizionario sicilianoitaliano cit., ad vocem. []
  24. Scavina: «covertura di panno grosso», V. Mortillaro, Nuovo Dizionario sicilianoitaliano cit., ad vocem. []
  25. Trippodo: «strumento triangolare di ferro con tre piedi per uso per lo più di cucina», V. Mortillaro, Nuovo Dizionario sicilianoitaliano cit., ad vocem. []
  26. Rifriscature: «vaso di metallo o di terra simile a una boccia dove si mette acqua fresca o vino in bicchiere», V. Mortillaro, Nuovo Dizionario sicilianoitaliano cit., ad vocem. []
  27. P. Lanza di Scalea, Donne e gioielli in Sicilia nel Medioevo e nel Rinascimento, Bologna 2009 (ris. an.), pp. 166-167; M. G. Muzzarelli, Guardaroba medievale. Vesti e società dal XIII al XVI secolo, Bologna 1999, pp. 27-35. []
  28. Sulle armi dal medioevo all’epoca moderna si veda: A. Guglielmotti, Vocabolario marino e militare, Milano 1889. []
  29. Gaffa: «si dice di un ferro che sostiene, rinforza o tiene collegato checchesia ed è di forma quadra o anche curva», V. Mortillaro, Nuovo Dizionario sicilianoitaliano cit., ad vocem. []
  30. Sulle armi da fuoco in uso in Europa nel Cinquecento, si veda: C. Oman, A History of the art of war in the Sixteenth  century, Londra 1937. []
  31. Sclopeta: «tormentum bellicum manuale» ovvero una pistola a pietra focaia di media grandezza anche conosciuta come trombino per via della caratteristica canna strombata e calcio a fucile che permetteva di appoggiare l’arma all’anca per assorbire il forte rinculo, C. Du Cange, Glossarium mediae et infimae latinitatis, Niort 1883-87, vol. VII, ad vocem. []
  32. T. Newark (a cura di), Storia della guerra, uniformi luoghi e protagonisti, Modena 2010, pp. 84-85. []
  33. Eadem, pp. 284-285. []
  34. Eadem, p. 307. []
  35. Eadem, pp.86-87. []
  36. Sul vestiario e le mode in voga nel Rinascimento si veda: H. Zerner, Historire du costume en Occident de l’antiquité à nous jours, Parigi 1996. []
  37. F. P. Di Blasi, Pragmaticae sanctiones Regni Siciliae quas iussu Ferdinand III Borboni, t. I, Palermo 1741, p. 336. []
  38. M. La Barbera, Il costume in Sicilia nella seconda metà del Cinquecento, “Rivista per l’Osservatorio per le arti decorative in Italia”, Anno I, n. I, (2010), p. 152-179. Sui divieti esposti nelle leggi e prammatiche siciliane dei secoli XVI e XVII, si veda: Lettera del p. d. G. E. Di Blasi, abate cassinese, regio storiografo, al p. p. d. Salvatore suo fratello, sugli antichi divieti del lusso e del giuoco in Sicilia, “Nuova raccolta di opuscoli di autori siciliani”, vol. III, Palermo 1790, pp. 89-115. []
  39. Archivio Storico Comunale di Palermo (d’ora in poi ASCP), Atti, Bandi e Provviste della città di Palermo anno 1597-98, ind. IX, c. 95 sgg. Documento inedito e parzialmente trascritto da A. Cutrera, Storia della prostituzione in Sicilia, Palermo 1971, pp. 124-135. []
  40. Sponzura o sponzeri: «è la sponda del letto», A. Traina, Nuovo vocabolario siciliano-italiano, Palermo 1868 ad vocem. Notizie di alcuni sponzeri si trovano nei coevi inventari riportati da Archivio storico per la Sicilia orientale, a cura di Società Siciliana di Storia Patria (sez. di Catania), vol. I, Palermo 1916. []
  41. H. Bresc-G. Bresc Bautier, La casa del «Borgese». Materiali per una etnografia storica della Sicilia cit., pp. 455-474. []
  42. Sulla famiglia Centelles si consultino i seguenti volumi di araldica: A. Mango di Casalgerardo, Il Nobiliario di Sicilia, Palermo 1912-1915, ad vocem; V. Palizzolo Gravina, Il Blasone in Sicilia ossia raccolta araldica, Palermo 1871-75, ad vocem. []
  43. Padiglione: «panni vel serici species, sic dicta, ut pallium, pro pallii materia», C. Du Cange, Glossarium cit., vol. II, ad vocem. []
  44. Capizzu: «guanciale lungo quant’è la larghezza del letto dove si pone il capo», V. Mortillaro, Nuovo Dizionario Siciliano-Italiano cit., ad vocem. []
  45. A tal proposito il cronista Bartolomeo da Neocastro, ricorda come la regina Costanza d’Altavilla amasse far visita al santuario della Madonna di Montereale, mollemente adagiata sopra una lettiera, suscitando l’invidia di Macalda, nobildonna palermitana che non tardò a farsene realizzare una anche lei per girovagare pubblicamente in città cfr. Bartolomeo da Neocastro, Historia Sicula, in Rerum Italicarum Scriptores, Bologna 1921, tomo XIII, cap. LXXXVII. []
  46. Casciuneddu: «piccolo arnese a foggia di cassetta», V. Mortillaro, Nuovo Dizionario Siciliano-Italiano cit., ad vocem. []
  47. Sull’arredamento degli ambienti signorili tra i secoli XVI e XVII, si veda: E. Bartolini Ferrari, Arredi del Seicento: mobili italiani dal Rinascimento al fasto Barocco, Modena 2005.    []
  48. Carmesinus: «color ostrinus, purpureus, Chermisi, Italis: Cramoisi, nostris: a Kermes, voce Arabica, quæ vermiculum sonat, qui gignitur in baccis cocci, ex quorum liquore panni coccino, seu purpureo colore tingi solent. Perperam Cremesinum et Carmesinum pannum, pannum sericum», C. Du Cange, Glossarium, vol. II, ad vocem). Il cremisino prevedeva un tipo di lavorazione di color rosso acceso con ricami a filo d’oro e argento che impreziosivano paramenti, scrigni e stoffe pregiate. Il termine deriva dal vocabolo arabo quirmizì e indicava una particolare grana rossa ricavata dalla cocciniglia, cfr. T. De Mauro, Il dizionario della lingua italiana, Milano 2007, ad vocem. []
  49. Bancali: «Tapes, quo bancus seu scamnum insternitur», C. Du Cange, Glossarium cit., vol. I, ad vocem. []
  50. I chiomazzi o stramazzi erano drappi di vario tessuto che in Sicilia furono importate nel XIV secolo a seguito della conquista aragonese dell’isola greca di Corfù e della città montenegrina di Cattaro, presenti in alcuni inventari editi e raccolti da G. Di Marzo (a cura di), Diari della città di Palermo dal secolo XVI al XIX, vol. I, Palermo 1869, pp. 295 e 304. []
  51. Fadali: «pezzo di panno d lino o altro, che tengono dinanzi cinto le donne e pende loro fin sotto i ginocchi o più giù mentre quello da carrozza ribaltabile in avanti e indietro per coprire le gambe di chi è in calesse», A. Traina, Nuovo vocabolario siciliano-italiano cit., ad vocem. []
  52. Frazzata: «coperta di letto fatta di panno di lana grosso», V. Mortillaro, Nuovo Dizionario Siciliano-Italiano cit., ad vocem. Nel dialetto siciliano lo stesso vocabolo è associato alla parola coltre, S. Salomone Marino, Le pompe nuziali e il corredo delle donne siciliane nei secoli XIV, XV e XVI, Palermo 1876, p. 236. []
  53. Pizzottu: «specie di tela derivante dal pizzotto che usan i genovesi», A. Traina, Nuovo vocabolario siciliano-italiano cit., ad vocem. []
  54. Infasciaturi: «panno di lino quadrangolare in cui si avvolga il bambino primo di fasciarlo», A. Traina, Nuovo vocabolario siciliano-italiano cit., ad vocem. []
  55. Sul corredo da camera della nobiltà siciliana, si veda: R. Starabba, Di alcuni contratti di matrimonio stipolati in Palermo nel 1293-99, «Archivio Storico Siciliano» (1883), VIII, pp. 175-178. []
  56. Sulla lavorazione dei panni di lana fiorentini e sull’oratorio dei Buonomini di S. Martino, si veda: M. Giuliani, Le Arti fiorentine, Firenze 2006 e J. M. Bradburne (a cura di), Voci nascoste: alla scoperta dei Buonomini di San Martino, catalogo della mostra “Denaro e Bellezza, i banchieri, Botticelli e il rogo della vanità” Firenze Palazzo Strozzi (17 settembre 2011-22 gennaio 2012), Firenze 2012. []
  57. Stametto: «sorta di drappo fatto di stame, ovvero la parte più fina della lana e che ha più nerbo impiegata per tessuti di particolare qualità grazie alla maggior filabilità e finezza», E. Bianchi, Dizionario internazionale dei tessuti, Como 1997, ad vocem. []
  58. Marredda: «certa quantità di filo avvolto sull’aspo o sul guindolo», V. Mortillaro, Nuovo Dizionario Siciliano-Italiano cit., ad vocem. []
  59. Il cuculeo era una tipologia di lana proveniente dalla Grecia con la quale si confezionavano alcune vesti dette capaseon, A. Rechenbergio, Hierolexicon reale, Lipsia 1714, p. 883. []
  60. Sull’impiego delle stoffe e dei tessuti in Sicilia nel XVI secolo, si veda: R. Piraino, Il tessuto in Sicilia, Palermo 1998. []
  61. Bardigghiu: «di colore turchino buio», V. Mortillaro, Nuovo Dizionario Siciliano-Italiano cit., ad vocem. []
  62. Stiavucca: «piccola tovagliuola che a mensa tegniamo dinanzi, per mettarci le mani e la bocca», V. Mortillaro, Nuovo Dizionario Siciliano-Italiano cit., ad vocem. []
  63. Muccaturi: «pezzuola da soffiarsi il naso o altro fazzoletto», V. Mortillaro, Nuovo Dizionario Siciliano-Italiano cit., ad vocem. []
  64. Sull’argenteria da tavola nei secoli passati, si veda: H. Brunner, Vecchi argenti europei: storia e splendori dell’argenteria da tavola, Milano 1970. []
  65. Sulle dinamiche ereditarie e la situazione economica dell’aristocrazia siciliana fra Trecento e Quattrocento, si veda: E. I. Mineo, Nobiltà di Stato. Famiglie e identità aristocratiche nel tardo Medioevo. La Sicilia, Roma 2001. []
  66. E. I. Mineo, Formazione delle élites urbane nella Sicilia del tardo Medioevo: matrimonio e sistemi di successione, “Quaderni Storici” n. 88 (1995), pp. 9-42; F. Ciccaglione, Origine e sviluppo della comunione dei beni fra coniugi in Sicilia, “Archivio Storico per la Sicilia Orientale” n. 3 (1906), pp. 6-25; A. Romano, Famiglia, successioni e patrimonio familiare nell’Italia medievale e moderna, Torino 1994, pp. 100-116. []
  67. V. Gay, Glossaire archéologique du Moyen Âge e de la Renaissance, t. I, Parigi 1887 ad vocem Chemise.   []
  68. Sull’abbigliamento delle aristocratiche siciliane, si veda: C. Vecellio, Degli habiti antichi et moderni di diverse parti del mondo, Venezia 1589, pp. 226-228. []
  69. A. C. A. Racinet, Le Costume historique: cinqcents planches, trois cents en couleurs, or et argent, deux cents en camaieu. Types principaux du vêtement et de la parure, rapprochés de ceux de l’intérieur de l’habitation dans tous les temps et chez tous les peuples, avec de nombreux détails sur le mobilier, les armes, les objets usuels, les moyens de transport, etc, vol. IV (Europe XIV-XV siècle), Parigi 1887, ad vocem Ceinture de femme. []
  70. F. D’Éze-A. Marcel, Historie de la coiffure des femmes en France, Parigi 1886, p. 81 sgg. []
  71. A. C. A. Racinet, Le Costume historique cit., ad vocem Corset. []
  72. M. Amari (a cura di), Biblioteca arabo sicula, Torino-Roma 1881, vol. I, cap. XV, p. 233. Sull’arte orafa di lavorazione del corallo siciliano, si veda: M. C. Di Natale (a cura di), Il corallo trapanese nei secoli XVI e XVII, Brescia 2002. []
  73. Cunetta: «medaglietta di santi, con forame dalla parte superiore per potersi infilzare», A. Traina, Nuovo vocabolario siciliano-italiano cit., ad vocem. []
  74. ALF, b. 676, doc. IV, ff. 1r.-4 v. []
  75. Sull’abbigliamento delle donne in Sicilia, si veda: R. Gregorio, Lusso e maniera di vestire delle donne siciliane dei mezzani tempi, in Discorsi intorno alla Sicilia, Palermo 1821, pp. 107-121. []
  76. Causi: «quella parte del vestito che cuopre dalla cintura al ginocchio ed ora sino alla malleola, e forse più giù», V. Mortillaro, Nuovo Dizionario Siciliano-Italiano cit., ad vocem. []
  77. F. Michelet, Recherches sur le commerce, la fabrication et l’usage des étofes de soie, d’or et d’argent et autres tissus précieux en Occident principalment en France pendant le Moyen Âge , vol. II, Parigi 1852-54, p. 255 sgg. []
  78. L. Laborde (marchese di), Glossaire français  du Moyen Age, Parigi 1872 ad vocem Collier. []
  79. Firriolu: «sorta di mantello semplice, talare con collare che si chiama bavero», V. Mortillaro, Nuovo Dizionario Siciliano-Italiano cit., ad vocem. []
  80. E. Viollet-le-Duc, Dictionnaire raisonné du mobilier français de l’époque carolingienne a la Renaissance, vol. III, Parigi 1872 ad vocem Ceinture. []
  81. Sulle tipologie di mantelle e casacche siciliane, si veda: C. Naselli, Manto siciliano e “faldetta” maltese, «Bollettino Storico Catanese», vol. I, Catania 1940, pp. 67-88. []
  82. Volgarizzazione in dialetto siciliano della rascia, ovvero un tessuto di provenienza serba con il quale nel Medioevo e Rinascimento si lavoravano vestiti con motivi a spigatura dorata, C. Du Cange, Glossarium cit., vol. VII ad vocem. []
  83. Sui diversi modelli di copricapo in uso nel Cinquecento, si veda: C. F. Colllier, Cappelli e Copricapi nella Firenze del Rinascimento. L’emergere dell’identità sociale attraverso l’abbigliamento, in Moda e Moderno dal Medioevo al Rinascimento, a cura di E. Paulicelli, Roma 2006, pp. 103-128. []
  84. Archivio di Stato di Palermo (d’ora in poi ASpa), Notai Defunti, Antonino Carasi, reg. 6314, ff. non numerate. []
  85. L’intero inventario di don Pietro Filangeri è conservato in ALF, Tassa delle doti di paraggio cit., reg. 2, ff. 1 r.- 2 v. []
  86. Sul senso di ricchezza e decadenza negli inventari nobiliari di Sicilia, si veda: M. A. Russo, Gli inventari post mortem specchio delle ricchezze e delle miserie familiari. Il caso dei Luna (XV secolo), “Mediterranea Ricerche Storiche” n. 28, anno X, (agosto 2013), pp. 249-274. []
  87. Sulla schiavitù domestica in Sicilia, si veda: M. Gaudioso, La schiavitù domestica in Sicilia dopo i Normanni, Palermo 1926. []
  88. Baldakinus: «Pannus, omnium ditissimus, cujus utpote stamen ex filo auri subtemen ex serico tegitur, plumario opere intertextus, sic dictus quod Baldacco, seu Babylone in Perside, in Occidentales provincias deferretur», C. Du Cange, Glossarium cit., vol. I ad vocem. Il padiglione, nello specifico, era la struttura del baldacchino che componeva con tendaggi scenografici, l’intera alcova nuziale. []
  89. H. Bresc, Une maison de mots: inventaires palermitains en langue sicilienne (1430-1456), in Una stagione in Sicilia cit., pp. 623-700. []
  90. M. G. Muzzarelli, Guardaroba medievale cit., pp. 27-35. []
  91. Sulla pulizia del corpo e gli accessori utilizzati per le cure del corpo, si veda: G. Vigarello, Lo sporco e il pulito: l’igiene del corpo dal Medio Evo ad oggi, Venezia 1987. []
  92. P. Lanza di Scalea, Donne e gioielli in Sicilia, p. 141. []
  93. D. Santoro, Il tesoro recuperato, p. 88. []
  94. Su i panni serici, si veda: L. Pisetzky-G. Treccani degli Alfieri, Storia del costume in Italia: il Trecento, vol. II, (1975), p. 167. []
  95. M. La Barbera, Il costume in Sicilia cit., 168-169. Sulla moda delle scufie, si veda: G. Di Marzo, Biblioteca Storico Letteraria di Sicilia, vol. I: Diario della città di Palermo dai M.SS. di Filippo Paruta e Nicolò Palmerino, Palermo 1871, p. 11. []
  96. L’inventario completo del viceré Francesco Ferdianndo D’Avalos è stato pubblicato da R. Bernini, La collezione D’Avalos in un documento inedito del 1571, “Storia dell’Arte” n. 88 (1996), pp. 384-445. []
  97. Corsetus: «Tunica foderatam quo erat su cappa indutus», C. Du Cange, Glossarium cit., vol. II, ad vocem. []
  98. L’inventario completo del nobile Francesco de Bononia è conservato in ASP, Case ex gesuitiche (Collegio Massimo e Chiesa di Palermo) Serie B ff. 129-139. 3 febbraio XI ind. 1552. Inventarium dell’eredità di Francisci de Bonomia confactum per P. Nicolaus de Bonomia. []
  99. Camisa: «Interula, interior tunica, hoc est, supparum, quod vulgo dicitur Camisia.», C. Du Cange, Glossarium cit., vol. II ad vocem. []
  100. Per conoscere le diverse tipologie di buctonos, si veda: V. Gay, Glossaire archéologique du Moyen Âge cit., ad vocem Bouton []
  101. M. La Barbera, Il costume in Sicilia cit., pp. 163-164. []
  102. M. G. Muzzarelli, Guardaroba medievale cit., p. 359. []
  103. Oggi l’intero inventario si trova pubblicato da R. Zaffuto Rovello, Caltanissetta Fertilissima Civitas (1516-1650), Caltanissetta–Roma 2002. L’inventario di Don Francesco dal titolo “Inventarius pro heredibus quondam Ecc. D. don Franciscu De Moncada Principe Paternionis, redatto a Caltanissetta nel 1592, Romme comprate per mia Sra la Duchessa et per il Principe mio Sre di paggi e staffieri, Palermo 1590” è edito in D. Vullo, Arredi sacri e profani, abbigliamento e commercio delle stoffe a Caltanissetta. Secoli XVI-XVII, in Magnificenza nell’Arte Tessile della Sicilia centro-meridionale (Catalogo della mostra, Catania 2000), pp. 193-208. []
  104. Sulle tipologie di gioielli maschili e femminili in uso in Sicilia, si veda: M. C. Di Natale, Gioielli di Sicilia, Palermo 2000. []
  105. D. Santoro, Il tesoro recuperato. L’inventario dei beni delle regine di Sicilia confiscati a Manfredi Alagona nel 1393, “Anuario de Estudios Medievales” n. 37/1, (2007), pp. 71-106. []
  106. D. Santoro, Il tesoro recuperato, pp. 79-80 e I. Mirazita, La truvatura di Margherita. Storia incompiuta del ritrovamento di un tesoro (1341), in Trecento siciliano da Corleone a Palermo, Napoli 2003, pp. 203 sgg. []
  107. L’inventario post mortem dei beni di Girolamo Filangeri è conservato il ALF, Tassa delle doti di paraggio cit., reg. 4, ff. 175 r. 177 v. []
  108. Alcune sedie “alla spagnola”, simili a quelle del Filangeri, erano presenti nell’inventario di Federico Ubaldo Della Rovere, duca di Pesaro, pubblicato da B. Montevecchi, Mobili rovereschiani in ebano e avorio e un inginocchiatoio per Vittoria granduchessa di Toscana, “Rivista per l’Osservatorio per le arti decorative in Italia”, Anno V, n. 9 (giugno 2014), pp. 67-77. []
  109. Sulle tipologie di sedie tra Cinquecento e Seicento, si veda: R. De Fusco, Storia dell’arredamento, Torino 1985. []
  110. Buffetta: «quel tavolino da mensa fatto proprio ad uso di giuocare. Tavoliere», B. Puoti, Vocabolario domestico napoletano e toscano, Napoli 1841 ad vocem. []