Antonio Cuccia

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Il Compianto in mistura del Museo Diocesano di Monreale, un manufatto nell’ambito di una produzione secondaria di Antonello Gagini

DOI: 10.7431/RIV11022015

Da qualche tempo si registra la dovuta attenzione verso manufatti che, realizzati con materiali poveri, quali cartapesta, gesso, stucco, terracotta, paglia, sughero, “cimatura” (frammenti di tessuti sfilacciati) venivano relegati alla seriale produzione artigianale fuori del circuito colto. La rilettura delle Vite vasariane ha consentito di evidenziare gli oggetti e le tipologie e quali erano gli artisti che si dedicavano alla “plastica” in materiali poveri per tutto il Quattro e Cinquecento. Nomi come quelli di Donatello, Jacopo Sansovino (Fig. 1), Michelangelo, tra i molti artisti impegnati nella sperimentazione e utilizzo di tali materiali, hanno rilanciato la ricerca e messo da parte i pregiudizi1.

In questa operazione di recupero larga parte l’hanno avuto il mercato antiquario ed i collezionisti, dalle cui raccolte è venuta fuori una casistica di riferimenti a modelli di ben noti scultori fiorentini quali Benedetto da Maiano, Luca della Robbia, Desiderio da Settignano, Antonio Rossellino (Fig. 2), maestri a cui spetta la creazione del prototipo, spesso in terracotta, che poi la bottega utilizzerà per produrre in serie le copie2.

Nell’ambiente isolano il pregiudizio verso i manufatti in cartapesta o mistura non è stato da meno producendo quell’incuria che ha portato spesso alla distruzione di opere che adesso rimpiangiamo con disappunto. Di contro si registra il primo recupero di un Crocifisso in cartapesta realizzato dagli operatori del Museo Diocesano di Palermo, attraverso il restauro curato da Mauro Sebastianelli, che si è avvalso di indagini preliminari e documentando i risultati in una pubblicazione scientifica in seno alla collana diretta da Pierfrancesco Palazzotto con un saggio di Maria Concetta Di Natale3. Un altro Crocifisso (Fig. 3), a grandezza naturale, ritenuto di cartapesta, nella chiesa di San Francesco a Cefalù, ha rivelato dopo il restauro la sua reale consistenza in terracotta e, cosa più rimarchevole, si è rivelato essere, da un attento studio condotto da Giuseppe Fazio, opera di Pietro Torrigiani, scultore fiorentino del Cinquecento, noto per la rivalità con Michelangelo4, quanto per la sua attività a Londra ed a Siviglia.

E ancora si tende a sottovalutare l’incidenza dell’utilizzo della mistura nella moltiplicazione del tipo di “Crocifisso tardo-gotico”, propugnato dai Matinati, la cui notorietà e diffusione in tutto il territorio isolano lo imponeva come modello allo stesso Antonello Gagini quando, il 13 novembre del 1519, accettava di eseguire, proprio in mistura, il Crocifisso (Fig. 4) per la chiesa madre di Alcamo, poi consegnato nel 1524. Che Antonello lavorasse questo tipo di impasto venne fuori da un documento riguardante un processo intentato contro di lui5 nel 1518 dal decoratore Lorenzo Guastapani e da un garzone, certo Giacomo Fazzini, forse parente di Antonio Fazzuni, dalla cui testimonianza è stata rivelata la composizione della “mistura”, la quale non consisteva di polvere di marmo o era simile alla cartapesta, bensì si evince che fosse composta con gesso, cenere, stracci, colla. Questa massa veniva versata negli stampi e poi le singole parti venivano assemblate. Dalle stesse carte viene fuori un elenco di opere eseguite in questo genere da Antonello Gagini, rispettivamente in cartapesta: una testa di imperatore, tre crocifissi destinati a Marsala, Ferla e Maniace; ed in “mistura”: la Pietà per la chiesa della Magione, due rilievi a mezzo busto della Madonna e una Pietà per Alcamo, che in un primo momento pensai potesse trattarsi del nostro pannello.

Altri documenti menzionano due crocifissi in cartapesta: uno per la chiesa di San Francesco a Ciminna (1521), fortunatamente pervenutoci ed in attesa di un urgente restauro, e l’altro, disperso, per la Confraternita di Santa Caterina all’Olivella a Palermo (1529), che corrispondesse a quello di Ciminna.

Complementare a quest’attività sarà per lo scultore palermitano la lavorazione della terracotta, di cui il Gagini farà uso nei bozzetti delle statue per la tribuna della cattedrale di Palermo e di cui sopravvivono due gruppi: il primo, documentato al 1528, quasi a grandezza naturale, raffigura la Madonna col Bambino seduta tra i Santi Giuseppe e Francesco di Paola, proveniente dal duomo di Monreale, poi passato alla Collegiata e adesso al Municipio, come appurato dalla Demma6; l’altro nella chiesa dell’Abbazia di Santa Maria d’Altofonte, raffigurante la Natività, gli viene qui attribuito da chi scrive. Più problematica si rivela l’attribuzione del bellissimo busto di San Giovanni evangelista, ora nel convento di San Francesco d’Assisi a Palermo, che gli viene riferito già dal secolo XVII.

Ricordiamo, non a caso, che la matrice dalla quale si ricavava lo stampo, veniva realizzata in terracotta.

L’immagine iconica del Compianto (Figg. 567) viene espressa in questo altorilievo nel disporsi delle figure a mezzo busto in uno spazio vincolato dal rigore prospettico. In primo piano la spirale concentrica, disposta obliquamente, focalizza il dolore espresso dai volti accostati della Madre e del Figlio morto; mentre sul fondo neutro punteggiato d’oro s’affacciano, in rigida simmetria, Giovanni il discepolo e la Maddalena quali testimoni parlanti della tragedia. Lo scultore ha rinunciato a qualunque accessorio d’ambiente, salvo il brano della croce, per indirizzare l’attenzione sull’essenziale: la descrizione dei corpi attraverso astrazioni geometriche servendosi di una rappresentazione scenica ravvicinata ed una tipologia talmente concentrata da suggerire un senso di intima vicinanza alla scena sacra. Il resto è affidato al rivestimento policromo, che, rifiutando i toni  lugubri, privilegia una gamma cromatica dai colori squillanti e preziosi, che svolge la funzione di attenuare con grazia diafana la drammaticità della scena in sintonia col clima positivo rinascimentale, dove la luminosità delle tinte diventa tuttuno con l’andamento modellato. Le forme delineate con grande finezza esecutiva, di densità quasi lapidea, rivelano il vigore e la forza plastica dell’artista che, specie nell’ideazione, richiamano la poetica di Antonello Gagini, che già si era misurato nell’espressione del pathos nel gruppo marmoreo della Pietà (1521) di Soverato Superiore in Calabria e nel rilievo di Ciminna, dove l’accostamento dei due volti, come nel nostro pannello, accentua la carica emotiva. Lo stesso sentimento viene espresso da Antonello nel Crocifisso in “mistura” di Alcamo, risolto in sciolte cadenze raffaellesche. Mentre nel distrutto gruppo in “mistura” della chiesa della Magione il Gagini evidenziava non pochi caratteri di matrice nordica (Vesperbild), dove la corda del pathos viene stirata al limite del macabro, con risultati di moderno espressionismo, riscontrabili soprattutto nel Crocifisso di Assoro, pure in “mistura”, attribuito allo stesso scultore7, che richiama quello della Collegiata di Monreale8, dove questa volta bisogna parlare di bottega aprendo un capitolo sulla contemporanea interazione  dei figli collaboratori, specie nel campo delle cosiddette arti applicate su materiali diversi alternativi al marmo, quali legno, stucco,terracotta, argento e “mistura” appunto. Appare sempre più evidente, con l’avanzare degli studi, il ruolo che ogni componente della famiglia Gagini si andava ritagliando in seno alla bottega paterna durante e specialmente dopo la scomparsa di Antonello nel ’36. Sarà Antonino ad ereditare l’officina e la stessa tutela dei fratelli, preoccupandosi di assolvere alle commesse intraprese dal padre e quindi uniformandosi allo stile di questi il più vicino possibile per non scontentare le attese dei committenti, avvalendosi della stretta collaborazione di Fazio e di Giacomo, quest’ultimo impegnato a scolpire il legno, come testimonia la statua di San Rocco a Carini, documentata allo scultore nel 15769. Vincenzo, il più raffinato esponente della bottega, alternerà alla produzione marmorea quella in terracotta. Nibilio, nipote di Antonello, coprirà il campo delle oreficerie. Ed infine, per quanto attiene alla lavorazione di opere in “mistura”, sembra sia toccato a Giandomenico seguire gli esempi documentati del padre. Giandomenico Gagini (Messina 1503 c. – Cerami ? ante 1567) è il più anziano dei fratelli, figlio della prima moglie messinese di Antonello e primo collaboratore del padre dopo il trasferimento a Palermo. Tale ruolo, purtroppo, non gli consentirà di avere delle commissioni in proprio, salvo qualche eccezione testimoniata da opere sopravvissute: la Madonna della Grazia e il San Michele, datate 1542 per l’eponimo monastero di Mazara e i rilievi di due colonne in pietra, firmate e datate 1560 e ’62 nel duomo di Enna, dove a quella data lo scultore aveva spostato la sua attività10. L’esiguità delle opere disponibili ha reso difficile allo studioso l’individuazione del suo stile ed ha portato al clamoroso equivoco dell’attribuzione a Giandomenico della monumentale ancona lapidea della chiesa della Badia di Petralia Sottana. Tale attribuzione è basata esclusivamente sul fatto che allo scultore, che doveva realizzare una cappella a Polizzi, fu imposto di servirsi “di quilla pietra chi si fichi la cona di la abbatia di Petralia…”, ritenendo arbitrariamente che ad utilizzare quel tipo di pietra fosse stato lo stesso Giandomenico, laddove invece la terminologia, usata impersonalmente, parla chiaro: “si fichi” e non “fichi”. Pertanto è opportuno escludere categoricamente tale attribuzione dal suo catalogo, non fosse altro che per le contraddizioni generate tra gli studiosi.

Finalmente un documento d’archivio, reperito recentemente dal Termotto11, restituisce a Giandomenico l’interessante statua lignea di San Sebastiano (travisata da ridipinture e dagli occhi settecenteschi di vetro) realizzata per Polizzi nel 1563, quando lo scultore si dichiara, come sempre, cittadino palermitano e residente a Cerami. Ancora nel 1568 gli è documentata la statua di San Leonardo a Militello Val di Catania, da realizzare in legno e cartapesta in collaborazione col figlio Antonuzzo12.

Queste recenti scoperte aprono un nuovo capitolo sull’operosità di Giandomenico e sulla sua versatilità verso la tecnica mista attorno agli anni Sessanta, un genere che diversificava il suo lavoro da quello dei fratelli ma che si riallacciava a quanto praticato dal padre. Pur non disponendo di specifiche testimonianze che attestino per Giandomenico l’uso della “mistura”, tuttavia vari elementi fanno ritenere che il Compianto in questione possa essere opera sua. Elemento qualificante che sposta l’opera dal padre a lui, suggerendo una datazione tarda, è il tratto marcatamente disegnativo a cerchi concentrici attorno alla figura della Vergine e lo stesso tracciato grafico delle chiome del Cristo e dei Santi, tutte espressioni di chiaro gusto manierista, che in Antonello non c’è mentre la stessa preziosità cromatica ribadisce la connessione con la cultura ricercata ed elitaria, propria della tarda maniera, ben evidente nei testi pittorici. Dal raffronto stilistico con la statua di San Sebastiano (Fig. 8) emerge lo stesso modo di tracciare la massa dei capelli impastati a ciocche che ritroviamo nel San Giovanni, che evidenzia anch’esso il lobo auricolare fatto emergere dai capelli, nonché il taglio plastico dei sopraccigli e della bocca dischiusa. Spostando l’attenzione al volto della Vergine, si ravvisa nel plastico ovale e nel tracciato avvolgente del mantello, la stretta correlazione con la Madonna della pala marmorea, datata 1562, della chiesa ennese di San Cataldo, attendibilmente attribuitagli dal Di Marzo. E’ molto probabile che l’ideazione del pannello sia dovuta ad Antonello Gagini, che avrà realizzato la matrice in terracotta sulla quale Giandomenico ha ricavato il calco utilizzando, a distanza di tempo, una creazione lasciata in bottega dal padre. Tale osservazione tiene conto dell’alto livello qualitativo del manufatto che rimanda ad Antonello Gagini, tanto più che, allo stato attuale, risulta prematuro avanzare valutazioni sul grado di creatività di Giandomenico. Va detto ancora che il motivo iconografico del Compianto rientra a pieno titolo nella poetica di Antonello perché trae ispirazione da temi presenti nella cultura veneta, verso cui lo scultore palermitano risulta particolarmente sensibile, transitati nell’ambiente palermitano possibilmente attraverso le incisioni di Girolamo Mocetto, che traduce con grandi effetti cromatici la pittura di Giovanni Bellini e di Andrea Mantegna ma anche di Benedetto  Montagna e Jacopo de’ Barbari, i cui testi incisori giustificherebbero gli accenti “nordici” dell’opera in esame13. Né va dimenticato l’apporto di scultori veneti presenti e operanti a Palermo, primo fra tutti Francesco Trina, recentemente messo in luce da chi scrive14 con i suoi mirabili crocifissi; per non parlare dello stesso Antonello da Messina e del suo soggiorno veneziano, fonte d’ispirazione per i toccanti Ecce Homo, uno dei quali era presente a Palermo nella collezione del Principe Alliata.

La dissertazione, qui messa in atto, porta a focalizzare la fonte iconografica che va ricondotta al genio di Giovanni Bellini, di cui il motivo ispiratore è riconoscibile in quell’accostamento dei volti tra madre e figlio, insuperabile invenzione patetica, assieme ai due testimoni che completano la composizione. Il tema del Compianto è uno dei soggetti più rappresentativi del Bellini, più volte replicato in termini nuovi e superlativi, dalla Pietà di Brera (Fig. 9) a quella del monocromo degli Uffizi (Fig. 10), a quella urlante del Palazzo Ducale di Venezia. A conclusione vanno spese due parole riguardo la destinazione originaria dell’opera, che va motivata nell’ambito del culto domestico, come confermerebbe il taglio del pannello e la stessa consistenza materica; a questo si aggiunge la testimonianza dell’acquisizione, da parte della chiesa parrocchiale di Villaciambra attorno agli anni ’50 del Novecento, come dono proveniente da un palazzo nobiliare della zona per il quale si potrebbe ipotizzare Villa Castrone ai Pagliarelli o la Villa del barone Scala a Villagrazia. E sicuramente il rilievo doveva essere corredato di una cornice lignea lavorata, di supporto, per la quale non abbiamo esemplari di riscontro ma di cui ci dà un’idea il disegno (Fig. 11), questa volta di Jacopo Bellini, conservato al Louvre, che raffigura, guarda caso, il Compianto esibito dentro una ricca cornice intagliata, con tanto di coronamento a timpano e largo piedistallo che suggerisce una collocazione su un altarolo o su di un cassettone, proprio per il carattere bivalente che l’aspetto prezioso dà all’opera, invariabilmente oggetto di culto, quanto di arredo.

  1. S. Fiore, Cartapesta ed effimero nelle Vite vasariane, in “La scultura in cartapesta Sansovino, Bernini e i Maestri leccesi tra tecnica e artificio”, a cura di R. Casciaro, Cinisello Balsamo (Mi) 2008, pp. 175-177. []
  2. G. Gentilini, La cartapesta nel Rinascimento toscano, in “La scultura in cartapesta…, 2008, pp. 29-33. []
  3. M.C. Di Natale, M. Sebastianelli, Il restauro del cinquecentesco Crocifisso in cartapesta del Museo Diocesano di Palermo, Bagheria 2010. []
  4. G. Fazio, Un Crocifisso fiorentino in terracotta a Cefalù, in “Studi in memoria di Nico Marino”, Vol. I, Cefalù 2011, pp. 175-181. []
  5. C. Matranga, Nuovi documenti su Antonello Gagini in “L’Arte” 12, 1909, pp. 133-146; H.W. Kruft, Arbeiten in “Mistura” terracotta und bronze, in Antonello Gagini und seine söhne, München 1980, pp. 49-52. []
  6. M.P. Demma, Scheda 1,13, in “Gloria Patri”, a cura di G. Mendola, Palermo 2001, pp.70-71. []
  7. A. Cuccia, Scheda n.7, in XIV Catalogo di Opere d’Arte restaurate (1981-1985), Palermo 1989, pp. 43-47. []
  8. G. Davì, Scheda n.5, in XV Catalogo di Opere d’Arte restaurate (1986-1990), Palermo 1994, pp. 52-55. []
  9. G. Mendola, Maestri del legno a Palermo fra tardo Gotico e Barocco, in Manufacere et scolpire in lignamine, a cura di T. Pugliatti, S. Rizzo, P. Russo, Catania 2012, p. 158. []
  10. S. La Barbera, Ad vocem “Gagini Giandomenico”, in L. Sarullo, Dizionario degli Artisti Siciliani, Vol. III, Scultura, a cura di B. Patera, Palermo 1994, pp. 139-140. []
  11. R. Termotto, Scultori e intagliatori lignei nella Madonie. Un contributo archivistico, in Manufacere et scolpire…, 2012, pp. 245-246. []
  12. C. Guastella, Militello in Val di Catania, in Luoghi di Sicilia, suppl. al n. 6 di Kalòs, Novembre-Dicembre 1996, pp. 21-22. []
  13. M.C. Paoluzzi, Stampa d’Arte, “Venezia e l’incisione”, Milano 2003, pp. 65-69. []
  14. A. Cuccia, Francesco Trina: la singolare esperienza di uno scultore veneziano del legno in Sicilia, in “Bollettino d’Arte”, volume speciale 2011, pp. 115-132. []