Angelo Pantina

angelo.pantina@unipa.it

“Impressioni in Sicilia”

DOI: 10.7431/RIV10002014

Oggetto di questo articolo è un genere di produzione che si colloca fra l’artigianato e il disegno industriale. ‘Impressioni in Sicilia’ è la storia poco comune di una piccola impresa operante a Palermo tra il 1974 e il 1994. Per vent’anni, Regine Hildebrandt, anima un laboratorio di stampa serigrafica a schermo piatto, creando dei motivi ispirati alla cultura, ai paesaggi, alla tradizione e alla vegetazione della Sicilia.
Per anni abbiamo assistito allo sviluppo del disegno industriale da una parte e dell’arte dall’altra, fino a quando una serie di studi e di ricerche ma soprattutto un rinnovato rapporto tra progetto e certe aree di produzione, ha rimesso in circuito una quantità di energie tali da contribuire in modo determinante allo sviluppo del design in Italia.
Sia chiaro che non intendiamo presentare un fenomeno produttivo di compromesso, almeno nell’accezione più corrente e peggiorativa tra i due tipi di attività più noti e tradizionali, ma tentare di definire un campo che, pur risentendo di tali tipi, presenta una sua specificità progettuale, produttiva, di vendita e di consumo, che ne traccia la sua fenomenologia
La produzione artigianale, dalla seconda metà dell’Ottocento in poi, ha subito un’evoluzione tale da differenziarsi notevolmente dalla sua condizione dei secoli precedenti. D’altro canto il design, in Italia nato nella stessa data, ha subito altrettante trasformazioni tanto che oggi è diventato una sorta di contenitore dentro il quale ognuno mette ciò che vuole.
Questa duplice metamorfosi ha fatto si che si creasse una specie di avvicinamento tra le due esperienze – in alcuni casi si può parlare di una loro fusione – ma in generale si può constatare la formazione di un genere ‘nuovo’ con proprie caratteristiche e finalità.
L’idea stessa di arte ha subito anch’essa delle modificazioni che hanno influito sia sul nuovo artigianato, sia sul nuovo design, sia su questo genere intermedio che racchiude appunto il riferimento alle arti figurative, all’artigianato e al design.
«Il nostro design (che non ha mai posseduto uno stile unico né un’unica metodologia di lavoro) usa la tecnologia per le sue possibilità artistiche, e l’arte per le sue possibilità tecnologiche; e nella sua filosofia di progetto conserva tracce dell’animismo latino e della cultura misterica italica, che attribuivano agli oggetti un’anima e una funzione esorcistica, e non soltanto l’utilità e l’estetica. In Italia gli oggetti domestici, gli strumenti di lavoro e gli elementi di arredo sono co-protagonisti di storie più ampie, di vicende “alte” legate alla cultura antropologica, alla religione, e alla politica; al punto che il nostro design costituisce una parte integrante della storia del Paese, di cui fornisce informazioni preziose sulle logiche di comportamento e di pensiero»1.
Alla base di tutta la vicenda storica dell’artigianato e del moderno design sta l’esperienza dell’arte e più specificatamente della pittura e della scultura. E ciò sia perché pittori e scultori appartenevano a una corporazione ritenuta superiore, sia perché le loro ricerche e proposte morfologiche erano svincolate da diretti scopi pratici, sia perché l’arte stessa era considerata sinonimo di valore, libera espressione spirituale, modello di produzioni minori.
Questa contrapposizione tra arte e tecnica, che attraversa i secoli, si ricompone con l’avvento del disegno industriale. Scrive, infatti, Maldonado: «Si è creduto di trovare nella storia del modern design, proprio in quanto esso intendeva mediare l’arte e la tecnica, una spiegazione del modo in cui si è giunti storicamente a superare la pregiudiziale ideologica contro la tecnica»2.
L’idealismo aveva relegato la tecnica nel campo della produzione strutturale negandole ogni contributo simbolico, ma come osserva Maldonado «Il “pregiudizio corrente” che oppone i prodotti strutturali a quelli sovrastrutturali, i prodotti della mano (e della macchina) a quelli della testa è definitivamente superato nel momento in cui tutti i prodotti del lavoro umano sono intesi come artefatti. (…) In ultima analisi, si tratta della concezione, oggi generalmente accettata, secondo cui i prodotti dell’attività tecnica umana sono sempre da considerare fatti di “vita materiale”, o meglio: di cultura (o civiltà) materiale. Idea che Braudel ha così precisato: “La vita materiale sono gli uomini e le cose, le cose e gli uomini” »3.
Si può, dunque. riconoscere realisticamente che artigianato e design sono delle arti applicate, anche tenendo conto delle trasformazioni teoriche della questione.
Va riconosciuta alle arti applicate una certa autonomia anche in fatto di proposte formali e linguistiche.
Ma al di là di queste considerazioni, miranti in qualche modo a smentire l’unilateralità ideologica e a ridurre il divario fra arte e artigianato, si vuole sottolineare il fatto che l’arte ha subito delle trasformazioni tali da avvicinarsi all’artigianato prima e al design dopo.
Un’altra causa delle trasformazioni concettuali subite dall’arte cui si vuole accennare è quella dovuta alla modificata concezione di quantità. Osserva Argan: «Sappiamo per l’esperienza di tanti secoli di storia dell’arte, che cosa significhi qualità; e non è un caso che questo termine venga specificamente applicato all’arte, quasi per contrasto, proprio nel momento e nel luogo in cui ha principio la cosiddetta rivoluzione industriale. Invece il concetto di quantità, come concetto di valore, è nuovo. Esso presuppone evidentemente l’idea di ripetizione e, s’intende, della ripetizione identica. Si ammette da tutti che la macchina opera in maniera più precisa della mano dell’uomo, sia pure armata degli utensili appropriati»4.
Il discorso è riferito alla ripetitività propria delle tecniche industriali e per esse al nascente design ma riguarda anche lo stesso artigianato, a sua volta modificato da tali tecniche.
Infatti, mentre il lavoro artistico resta fatto a mano, quello dell’artigiano comincia ad avvalersi della tecnologia meccanica. I nuovi materiali, i processi di lavorazione, la tipologia dei nuovi oggetti, fanno sì che l’artigiano attinga sempre meno all’arte fino al punto da prelevare da essa solo motivi decorativi.
Questo nuovo genere di attività, tra artigianato e design, ha caratteri diversi dall’artigianato, infatti per l’attività artigianale, il progetto è solo un momento del processo ideativo-esecutivo, interno al processo stesso non distinguibile cioè come fase a sé stante: l’attenzione dell’artigiano non è tanto rivolta al progetto quanto all’oggetto. Questa nuova attività, al contrario, benché non miri a una grande serialità, tutt’al più ad una serie limitata, non può trascurare il momento progettuale. Anzitutto perché mentre l’artigianato tradizionale tende a evidenziare i segni del “fatto a mano” e con essi il carattere unico e irripetibile dell’oggetto, l’art design non ha questo obiettivo, anzi tende a mostrarsi come operazione ripetibile sia pure per piccola serie. In secondo luogo essa pone l’esigenza del progetto come manifestazione ideativa che precede la realizzazione, come atto separato e preparatorio, come risposta alle esigenze del tempo. In questo nuovo genere, il progetto oltre ad essere un elaborato tecnico vuole anche dichiararsi come espressione culturale, un attestato della storicità del prodotto cui da’ luogo. Un’altra distinzione dall’artigianato tradizionale, che va sottolineata come caratteristica invariante dell’art design, è la non ripetizione di modelli del passato, ma come s’è appena detto, mira a operare esclusivamente nella linea del gusto contemporaneo.
Ma allora da che cosa si differenzia dal progetto del design?
Sostanzialmente è molto simile, anche se bisogna fare dei distinguo: ha la stessa affinità formale ma non quella operativa, la tendenza al piccolo numero e non al grande, quello di preordinare un prodotto più durevole degli altri fatti a macchina, ecc.
Già da questi cenni sulle differenze tra artigianato e art design, per i soli fattori progettuali e tecnico-produttivi, si possono cogliere alcune specificità. Nel primo si notano: la riproduzione di oggetti esistenti, la riproduzione interpretata dall’artigiano, la produzione con un progetto redatto in corso d’opera, l’impiego di materiali naturali, la relativa tecnica manuale, l’adattamento di una tecnica alla costruzione di un determinato prodotto.
L’art design, propende per una tecnologia meccanica sia pure nei limiti di una produzione quantitativamente modesta, infine pur conservandosi valori progettuali e operativi di grande flessibilità il progetto è quasi totalmente definito, la tecnica quasi adattabile esclusivamente al prodotto da costruire.
Se si passa dall’ambito della progettazione e dell’esecuzione a quello della vendita, una delle maggiori differenze fra le due categorie che si rilevano riguarda il rapporto fra domanda e offerta. Infatti, se l’artigianato è un’attività che si socializza prevalentemente sul principio della commessa, nel caso dell’art design si realizza e si diffonde, più che altro sull’offerta del prodotto.
A questo fenomeno dobbiamo aggiungere il fatto che la nostra società ama sperimentare nuovi modelli di comportamento ambientale, ma desidera anche conservare, rievocare, ripercorrere antichi rituali.
Ed è proprio la coabitazione di antichi e nuovi rituali che ha contribuito a far riscoprire, l’oggetto d’eccezione, l’oggetto di piccola serie “fatto ad arte”. Così da qualche tempo si stanno moltiplicando esperienze finalizzate a incentivare il processo che vede l’incontro tra la cultura del progetto e la produzione artigianale, spesso legata alle tradizioni e alle risorse di alcuni territori.
La piccola impresa di cui ci stiamo occupando può essere considerata come paradigma dell’evoluzione dell’artigianato verso l’art design.
“Impressioni in Sicilia”, prima di diventare un laboratorio artigianale di stampa su stoffe, è nato da un’idea del Centro studi ed iniziative di Danilo Dolci5.
È la stessa Regine Hildebrandt, titolare del ‘Laboratorio’ a raccontare gli antefatti che portarono alla nascita di questa piccola, prestigiosa impresa.
«Dopo pochi mesi dal mio ritorno Franco Alasia mi propose, in nome di Danilo, di occuparmi del settore dell’artigianato da molto tempo abbandonato. Non so’ fino ad oggi quale era il motivo che lasciava supporre ad essi che fossi la persona adatta ad occuparmene. Ma spesso Danilo aveva intuiti da chiaroveggente. Ad un tratto, tutte le mie varie attività svolte in passato avevano un senso: il mio apprendistato di cucito, il mio lavoro da vetrinista che mi aveva avvicinato a diverse tecniche manuali, il mio tirocinio di disegnatrice tecnica, i miei tentativi di diventare una designer.
Mi buttai a capofitto nell’impresa, visitai artigiani, compilai questionari, con l’aiuto di esperti ed altri collaboratori del Centro formai una cooperativa di artigiani, la “Tre Valli”.
Disegnai linee di produzione per fabbri, tornitori, falegnami, mosaicisti, sarte e ceramisti, preparai campionari, e i primi articoli in serie cominciavano a confluire nel mio ufficio al piano superiore di Palazzo Scalia. Danilo mi aveva messo in contatto con esperti per lo sviluppo dell’artigianato, aveva convinto Ramy Alexander6 a venire da Firenze in Sicilia, ammalato, e in pieno inverno, dall’America venivano i Tillett,7 marito e moglie, in viaggio tra la Persia e le isole greche dove stavano realizzando un progetto per Onassis e Jackie. A Palermo chiedeva la collaborazione di Enzo Sellerio e Giacomo Baragli. Non lontano si stava costruendo la Città del Mare, complesso turistico con 1800 posti letto. La cooperativa ‘Tre Valli’ ha potuto aprire un negozio al suo interno. Mi occupavo delle vendite, viaggiavo negli intervalli con la mia Mehari rossa fra Sciacca, Castellammare, Salemi, Alcamo e Palermo per rifornirmi di merce, mettevo su un laboratorio di donne a Partinico, il tutto con collaborazioni da parte del Centro e degli artigiani stessi. Vivevo un momento alto della mia vita, e ne ero consapevole.
Danilo aveva visto giusto, c’era una grande potenzialità attorno a noi, e gli oggetti prodotti erano graditi ai turisti, gli artigiani erano fieri del loro lavoro.
Danilo portava nei suoi viaggi regali realizzati da noi che erano testimonianze tangibili di quello che si riusciva a creare con l’aiuto del Centro Studi»8.
In vista del nuovo progetto per la costruzione della scuola in Contrada Mirto, nella quale si sarebbe applicato il metodo pedagogico innovativo, concepito da Danilo, sulla formazione dei bambini di Partinico, l’esperienza del laboratorio artigianale volgeva al termine. Inoltre gli introiti del negozio bastavano appena a coprire le spese, un altro negozietto in via Vittorio Emanuele, che nel frattempo era nato a Palermo, non riusciva ad attirare i turisti di passaggio e finì così questa prima attività.
«Da mesi mi ero trasferita a Palermo. La mia famiglia che vedeva nel licenziamento la conclusione della mia esperienza siciliana, m’invitava a tornare in Svizzera. Dall’altro lato diversi amici e conoscenti mi incoraggiavano a mettere su un’ attività mia in Sicilia.
Quando i Tillett erano venuti a trovarci al Centro, lo avevano fatto per proporci di inserire nel nostro programma una stamperia di tessuto, attività che loro svolgevano a New York.
Ci avrebbero dato il supporto tecnico, noi dovevamo trovare il finanziamento.
Il progetto non ha avuto inizio, per mancanza di soldi.
Adesso, a una mia lettera nella quale prospettavo di realizzare io una stamperia a Palermo mi hanno accettato come apprendista e sono partita per New York. Il tirocinio è durato tre settimane a quattordici ore al giorno. Disegnare, copiare, stampare»9.
Leslie Tillett e Doris Doctorow (Fig. 1) sono una coppia di designer americani che molta parte hanno avuto nella formazione di Regine e, di conseguenza, nella genesi di “Impressioni in Sicilia”.
I Tillett hanno vissuto e lavorato sulla Upper East Side, hanno aperto uno studio al 170 E. 80th Street, nel 1946, dove hanno creato tessuti per più di quattro decenni. La notorietà dei loro tessuti è stata creata dalla loro clientela, personaggi dell’alta società e arredatori di Manhattan.
I Tillett sono stati reclutati da Jackie Kennedy per favorire il lancio di Design Works di Bedford Stuyvesant10.
Design Works (nasce nel 1969 e chiude nel 1978) è stato un progetto pilota di sviluppo comunitario, autorizzato dalla legislazione introdotta dal senatore Robert Kennedy.
Nel loro laboratorio, i Tillett hanno addestrato tutto il personale di Design Works, con entusiasmo e competenza creando un ambiente di progettazione collaborativa; hanno condiviso il loro sapere, le loro tecniche di serigrafia e miscelazione di coloranti.
Nel corso della sua esistenza, Design Works ha raggiunto una grande notorietà per i suoi modelli sorprendenti e colorati, ispirati all’arte africana.
Replicano questo modello di workshop a Nantucket, un’isola degli Stati Uniti d’America, 48 km a sud di capo Cod, nello Stato del Massachusetts. In questa esperienza essi utilizzano l’estetica locale e le competenze della comunità.
Lo stile innovativo e visionario dei loro tessuti e dei capi di abbigliamento colorati trae ispirazione dai loro viaggi e dal loro innato senso dello stile e del bello (Figg. 2345).
Donald Albrecht, curatore nel Museum of the City of New York di architettura e design, ha detto che i Tillett sono stati i precursori di molti giovani designer di oggi in quanto mantenevano il controllo artistico completo, producendo essi stessi piccole tirature e curando la vendita a livello locale o nel proprio negozio.
Carica di entusiasmo per l’esperienza americana, Regine riapproda a Palermo.
Nel 1973 si lancia in questa nuova avventura con l’aiuto di due studenti siciliani d’architettura Rosario Rotondo e Tonino Ciaramitaro
«Sono tornata con modelli, qualche telaio, un’idea vaga di come si realizzavano gli attrezzi, e una infarinatura approssimativa del mestiere nel quale volevo lanciarmi. Ma nondimeno convinta. Così è iniziata l’avventura Impressioni in Sicilia, che mi ha trattenuto in Sicilia per molti anni»11.
Per più di vent’anni, infatti. il laboratorio creerà dei tessuti impressi a mano, e tanti altri prodotti con dei motivi decorativi originali e innovativi.
«Cercai una struttura adatta per iniziare con la stampa su stoffa. Individuai un bel padiglione Liberty, simile ad una serra posata sopra un corpo basso, che mi sembrava andasse bene per impiantare il laboratorio. C’erano da pulire tutti i vetri, si sono offerti Rosario e Tonino ad aiutarmi. C’era da togliere le tracce dell’attività precedente, telai a contatto, negativi, lastre fotografiche, vecchie fotografie. Il nostro laboratorio è stato in passato il prestigioso studio fotografico Seffer12. Nella torretta ho istallato un tavolo da disegno. Nella “serra” entrava giusto giusto di sbieco un tavolo lungo dieci metri. Il sottoscala si doveva adattare a cucina colori. Due altri tavoli da cinque metri ciascuno hanno trovato posto sotto il grande lampadario nel salotto buono. Nel corridoio troneggiava il primo forno per termofissare i tessuti stampati fabbricato per noi dalla ditta Stancampiano, specializzata in costruzione di forni per il pane, che rispondeva vagamente ai nostri bisogni. Un altra stanza che dava sulla viuzza stretta era destinata ad atelier di cucito nel quale abbiamo trasformato i tessuti stampati in oggetti da vendere»13.
ll contesto culturale e politico nei primi anni Settanta è quello che fa capo a gruppi di progettisti contestatari, interessati all’aspetto umano della produzione, intenzionati a rivalorizzare i mestieri. Li animava di sicuro una polemica antindustriale, ma prima ancora il desiderio di riavvicinare design e artigianato. Per questo si arrivò, al design radicale, all’esperienza di Global Tools (un network di laboratori che aveva l’obiettivo di “stimolare il libero sviluppo della creatività individuale”, come dichiarava il Documento n. 1 del gennaio 1973), animata soprattutto da Ettore Sottsass e Andrea Branzi.
C’è da aggiungere che il movimento di riscoperta dell’artigianato fu internazionale: dalla California, all’Austria, fino all’Italia. L’obiettivo non era un impossibile ritorno all’artigianato, ma la valorizzazione dei mestieri all’interno di un processo industriale.
L’azienda dei Tillett non solo fu l’antesignana (nasce nel 1946), ma risulta emblematica di un nuovo percorso che vede l’incontro tra la cultura del progetto e la produzione artigianale.
Sulla stessa linea si era sviluppata un’altra famosa azienda scandinava, la Marimekko, che ha costituito un altro fondamentale punto di riferimento per l’attività di designer di Regine.
La Marimekko, specializzata in tessile e abbigliamento, fu fondata da Armi Ratia nel 1951 dopo un precedente fallimento di una fabbrica per tela cerata. L’azienda nacque dal desiderio di creare qualcosa di nuovo, duraturo e bello per la vita quotidiana finlandese.
Armi Ratia desiderava portare una ventata di novità nel mondo delle stampe su tessuti e per questo scelse di mettere in produzione i disegni di giovani e promettenti designer, motivi grafici eccentrici e innovativi, gettando le basi di quello che Marimekko è ancora oggi. Caratteristici di quei disegni erano i colori forti e brillanti e le nuove combinazioni di colori.
I disegni di Marimekko rappresentavano qualcosa di nuovo rispetto ai tradizionali disegni usati per i tessuti e per questo Marimekko conquistò subito un largo pubblico.
Molti dei tessuti classici sono nati per mano di Maija Isola. Finlandese, Maija Isola aveva una formazione da pittrice e, in effetti, la maggior parte dei suoi motivi sono più dei dipinti che decorazioni adatte a essere stampati su tessuto. In particolare Silkkikuikka, Joonas e Rautasänky (Figg. 67) nacquero di notte sul tavolo da stampa della fabbrica dipingendo e ascoltando musica. L’impronta da pittrice si conserva anche una volta che il motivo è stampato su tessuto.
Lokki e Kaivo (1961), (Fig. 8) si basa su delle linee ondeggianti con un’impressione un po’ ottica ottenute tagliando della carta colorata. Unikko (1964), (Fig. 9) è il primo dei tessuti Marimekko con fiori. Questi due motivi decorativi di Maija Isola portarono nel mondo dei tessuti finlandesi disegni dalle dimensioni gigantesche.
Contrariamente a quanto Armi Ratia, aveva annunciato che Marimekko non avrebbe prodotto tessuti con motivi floreali, Unikko, disegnata per protesta da Maija Isola, è diventata l’icona della casa. Oggi Unikko è più famoso che mai ed è disponibile una quantità innumerevole di prodotti con questi grandi fiori.
Oggi la forte tradizione dei tessuti Marimekko continua con una nuova generazione di giovani designer pieni di talento quali Maija Louekari, Teresa Moorhouse e Erja Hirvi. L’architetto d’interni Maija Louekari appartiene a quel gruppo di giovani designer che collaborano con Marimekko all’inizio degli anni 2000. Dietro ogni motivo che Maija Louekari ha disegnato per Marimekko c’è una storia interessante. Nel tessuto Hetkiä/Moments (2003), (Fig. 10) c’è uno scorcio del parco Esplanadi nel centro di Helsinki.
Altri tessuti molto conosciuti di Maija Louekari sono Ho-Hoi! e Kaiku (2004), (Fig. 11) entrambi ispirati dal paesaggio finlandese, e i più recenti Siirtolapuutarha, Räsymatto e Puutarhurin parhaat (2010) (Fig. 12).
Dal canto suo, Erja Hirvi rappresenta la natura con uno stile semplificato, che il suo motivo più conosciuto, Lumimarja (2004), (Fig. 13) ben esemplifica. Bottna è anche uno dei tessuti più venduti di Marimekko, sia in Finlandia che all’estero
Nello stile forte e caratteristico dei motivi di Marimekko è ancora oggi possibile ritrovare l’idea portante di Armi Ratia.
I Tillett e la Marimekko costituiscono, dunque, i modelli per la nascita e lo sviluppo del laboratorio di Regine. Ma continuiamo a seguire la storia.
«Malgrado le stime ottimistiche dei miei maestri americani, era difficile che turisti salivano la scala stretta fino al laboratorio. Cercammo contatti con i villaggi turistici, con negozi di arredamento e andavamo a caccia di clienti privati. Il lavoro scarseggiava. I nostri primi amici collaboratori del gruppo Machno ci hanno abbandonato ben presto considerandomi “autoritaria”. Fece seguito un viavai di studenti e giovani artisti che, insieme ai numerosi fratelli di Rosario e a vari amici, ci davano una mano»14.
I primi anni del laboratorio sono stati avversati anche da alcuni problemi tecnici: nella prima spedizione in Svizzera i colori stampati sulle tovaglie sparirono al primo lavaggio, metri di stoffa si bruciarono durante il termofissaggio, per l’impossibilità di regolare la temperatura del forno, anche dopo l’installazione di un termostato.
Data l’esiguità di clientela, il gruppo pensa di aprire un negozio in un posto più commerciale per questi articoli e affitta un locale in via Principe di Belmonte.
«L’arredo era un atto di funambolismo, tra legna presa a Ponte Ammiraglio (travi di pino pece trasformati in un tavolo grande, diversi pouff, scaffali e una cassettiera, che ancora esistono) e tubi di ferro fissati lungo le pareti per accogliere i tessuti stampati, e qualche spot recuperato in altro luogo, il tutto non doveva costare più di due milioni di lire. Una girandola prodotta da noi era l’insegna, si leggeva “Workshop”, una lettera per ogni pala. Un giocattolo-apparecchio in legno, per dimostrare la tecnica di stampa, posto dietro la vetrina completava l’arredo»15. Quando, finalmente, ottengono un prestito dai parenti per un vero forno professionale, Regine si reca a Torino per comprarlo.
«Quando arrivò, il suo peso era tale che non avevamo il coraggio di appesantirne il pavimento logoro della nostra serra. L’abbiamo collocato provvisoriamente in una stalla nel palazzo di fronte. L’arrivo del forno ci ha costretti di andare alla ricerca di un nuovo laboratorio»16.
A questo punto, un trasloco sembra inevitabile e diventa necessario cercare un nuovo laboratorio.
«Ci eravamo messi d’accordo che volevamo trovare un laboratorio dove potevamo unire i nostri tavoli da stampa, aggiungendo altri dieci metri per poter imprimere pezze intere da trenta metri che avrebbero permesso di conquistare più ampie fasce di mercato. Quindi ci serviva uno spazio di almeno trentacinque metri di lunghezza. Un giorno stavamo avvicinandoci a Partanna Mondello, quando tra alberi spuntò un tetto lungo, che sembrava corrispondere alla struttura ricercata. Da vicino dimostrò di far parte di un baglio, la parte posteriore della Villa Santocanale»17.
La villa, del XVIII, secolo si trova in quella che nel Settecento era un’elegante zona di villeggiatura dell’aristocrazia, nella periferia occidentale di Palermo. Qui, i tessuti da imprimere si potevano stendere in tutta la loro lunghezza dentro l’ampio magazzino. I gelsomini, le buganvillee, le palme nane e altre specie della flora mediterranea e tropicale affollavano il giardino davanti questi ambienti e diventeranno fonte d’ispirazione per alcuni dei più bei disegni.
«Il locale era adatto: lungo trentotto metri, illuminato da ampie finestre, pulitissimo, e pronto dopo poche modifiche, ad essere preso in possesso. Il prezzo per l’affitto era nei limiti, la possibilità di abitare nelle casette del baglio rendeva ancora più allettante il trasferimento.
Ci siamo rimasti per sedici anni, fino all’epilogo della nostra storia.
Che avevamo fatto il passo da bottega a piccola industria, ce ne siamo accorti solo in seguito.
Visto che lo spazio abbondava, abbiamo aggiunto un altro tavolo da trenta metri. La struttura era diventata come un mostro affamato. Chiedeva lavoro, commesse. Rosario cominciò a viaggiare per tutta Italia, riuscì a interessare molti negozi di arredamento, alla fine erano in settecento. Stampavamo per conto terzi, per la “Porcellana Bianca”, per La ceramica Caleca, per altre ditte ancora. L’Albero del Cotone ed altri negozi di arredamento in città si occupavano dei clienti palermitani, dopo la chiusura del nostro Workshop. Siamo stati invitati a partecipare alle prestigiosissime fiere di “Incontri”, eravamo ospiti ai vari “Star”, a mostre in Svizzera. Una linea nuova rappresentava una collezione di tende ricamate che Rosario curava. La nostra perizia aumentava, il prodotto si arricchiva di disegni complementari al disegno principale, Rosario era diventato bravissimo a comporre campionari. Lavoravamo alacremente, senza stancarci, fino a tardi la sera e non conoscevamo né festivi, né domeniche. Qualche volta però era come un risveglio, quando ci accorgevamo che tutti i nostri sforzi non bastavano. Abbiamo pregato i nostri amici di sostenerci finanziariamente… Abbiamo lottato per salvare la nostra impresa, ma poi non potevamo più chiudere gli occhi davanti all’evidenza, che non ce la facevamo più. Alla fine ci siamo arresi»18.

Nel 1987, in un articolo per il New York Time, Mary Taylor Simeti19 così descriveva l’attività di “Impressioni in Sicilia”: «C’è qualcosa nell’aria di Sicilia che stimola la creatività degli stranieri. Il meglio dell’arte siciliana – i templi greci, i mosaici bizantini, le chiese arabo-normanne – sono la testimonianza della ricchezza che le culture straniere hanno raggiunto dopo aver colonizzato l’Isola. Non è dunque sorprendente che alcuni dei più bei tessuti che oggi sono prodotti in Sicilia provengono dai progetti di una straniera, una giovane svizzera, che qui trova le sua ispirazione nei paesaggi spettacolari dell’Isola, nei suoi fiori esuberanti e nelle sue tradizioni artistiche secolari»20.
Difatti, la cultura cui attinge Regine e di cui fortunatamente conserviamo ampia documentazione non è il prodotto di poche generazioni. È il risultato di secoli di storia, di un’opera lenta e progressiva di prestiti e innovazioni, di assorbimenti e selezioni, di una continua rielaborazione, cui per gli apporti esterni avevano contribuito le varie genti che si erano succedute o nel popolamento o nel semplice dominio dell’Isola, e che nel suo procedere in forma autonoma aveva trovato la condizione del suo equilibrio. Questa cultura aveva anche un suo ricco universo di forme artistiche popolari, profondamente radicate nella storia economica e sociale dell’Isola.
L’arte popolare siciliana ha un suo specifico carattere realistico. Ma è anche vero che nell’arte popolare è sensibilmente presente l’inclinazione per l’ornato e che i punti, le rette, i cerchi, le linee spezzate ad angoli, i rosoni, le foglie e i fiori fortemente stilizzati e gli animali più o meno immaginari, in molti sensi ricordano un antico patrimonio figurativo in cui l’attitudine all’astrazione e al simbolismo è chiaramente presente.
La genesi del repertorio ornamentale, anche se con diverse articolazioni, si deve ricercare nel lontano passato. I reticolati, le rette spezzate, i punti graffiti oppure il meandro e la spirale che distinguono la ceramica del neolitico siciliano e la ricca gamma di decorazioni dipinte in rosso, giallo e nero dell’età dei metalli ritornano a decorare l’arte siciliana nel Medioevo.
Insomma, secoli di storia e di arte siciliana, i paesaggi, la flora, contribuiscono a formare il ricchissimo abaco cui ispirarsi.
Regine s’inserisce su questa strada per attingere a quei motivi decorativi che, attraverso la sua sensibilità, ci restituirà in modo originale nei suoi prodotti. Oggetti d’uso, che non si rifanno a linguaggi consumati, ma neanche dettati da un vuoto modernismo ispirato da manifestazioni di moda. Gli oggetti progettati e realizzati da Regine hanno un valore durevole per la qualità dei disegni e dei materiali ma soprattutto, perché il suo progetto di ricerca è destinato all’identificazione e alla proposizione di “tratti culturali ed identitari” attraverso la prototipizzazione e la successiva realizzazione in serie di prodotti.
Una serie di disegni s’ispirano ai paesaggi siciliani, le case di Noto, i tetti di Siculiana, i dammusi di Pantelleria, i paesaggi eoliani, i carrubbi disseminati nella Contea di Modica, e ci restituiscono immagini di grande poesia. (Figg. 1415) Il passato immaginario, le finestre moresche, i minareti slanciati di una città saracena, o una scena marittima popolata di navi elleniche- si stendono su eleganti e divertenti pareo. L’Etna, il grande vulcano situato sulla costa occidentale della Sicilia, orna un sacco da spiaggia, mentre un paesaggio delle isole Eolie è riprodotto su un pannello di stoffa utilizzato come rivestimento di un paravento.
Il cappero con i suoi lunghi sarmenti di foglie in forma di volute e la sua delicata fioritura,
l’acanto che fiorisce in un lunga spiga rosa pallido, il capelvenere e le palme nane sono stampate nei colori vivi della primavera siciliana su fondo grigio o bianco. Il tessuto utilizzato è mussolina di cotone per le tende, mentre di un cotone più pesante, misto con lino, per meglio adattarlo ai tendaggi d’estate. Ciascuno dei disegni floreali è disponibile nella versione plastificata per essere tagliato in fogli e adattare allo stile informale della villeggiatura. (Fig. 16)
Più di venticinque secoli di arte siciliana contribuiscono a una grande varietà di motivi decorativi: le monete delle colonie greche di Siracusa, Megara, Camarina, Gela, Agrigento, Taormina, Selinunte, la testa leonina di un doccione del tempio della Vittoria d’Imera, i meandri e le greche, sono pensati per tendaggi e arazzi, mentre con i motivi geometrici dei vasi greci crea delle bordure semplici ed eleganti. Un processo originale conferisce una patina antica ai colori, specialmente nel caso dell’oro, del marrone e del blu dell’estate siciliana (Figg. 1718).
Ma non solo l’arte e la natura anche l’artigianato e le tradizioni costituiscono un ricco serbatoio cui attingere. I ricami e le trine, che nella trasparenza dei tessuti intrecciano immagini e disegni tramandati da una generazione all’altra, sollecitano la creatività. Ed ecco allora che un pizzo antico si dispiega nella sua geometria compositiva a formare un arazzo. Un altro disegno, un filet dai rami aggrovigliati con uccelli, trae spunto da un piatto policromo del XIV secolo, che si trova nel Museo di Palazzo Abatellis a Palermo (Figg. 1920).
Il pane, entro l’universo della cultura contadina, è qualcosa di più di un semplice alimento.
Può assumere di volta in volta il valore di offerta o di dono, di ex voto o di talismano, può trasformarsi in strumento di solidarietà e di aggregazione. Risulta, dunque, particolarmente affascinante il disegno ispirato dai pani votivi che le donne siciliane preparano per la festa di San Giuseppe. Linee delicate che danno forma ad angeli e santi, a fiori rossi e arancio su fondi bianchi per dei tessuti da trasformare in divertenti sacchi per pane appesi nella cucina.
U siminzaru, con la sua bancarella coloratissima e decorata con pitture dei carretti siciliani, bandierine tricolori, frange e stagnola luccicante e l’immagine di Santa Rosalia al centro, diventa Bancarella e Banniata (Figg. 2122). Le luminarie artistiche, che a Palermo e in tutta la Sicilia allietano le feste religiose con le loro forme colorate e barocche sono lo spunto per Festa (Fig. 23).
L’azienda produce, con i suoi tessuti stampati, bellissimi oggetti poco costosi (set da tavola, guanti da cucina, grembiuli, pareo, sacche, ecc.) che prendono poco spazio nella valigia del turista. Questi tessuti stampati sono adatti anche per tapezzare i mobili. Dato che la sua produzione è di piccola serie, Impressioni in Sicilia non possiede un magazzino. Ma è proprio questa produzione ridotta che permette al laboratorio di accettare delle commesse di qualsiasi disegno nei colori o nel tessuto scelti dai clienti. Tutta la produzione di Impressioni in Sicilia è volta all’ideazione di manufatti che “significhino” questi territori. L’idea progettuale di Regine è che ogni prodotto deve “parlare” del territorio, “raccontarlo” a distanza. Deve permettere al turista di portare con sé “parte” dei luoghi visitati. Deve “appropriarsi” di spazi sensoriali e fisici fino racchiudere in se elementi simbolici, analogici e iconici della nostra Sicilia (Figg. 2425).
Nonostante i riconoscimenti del valore, della qualità dei prodotti, dell’accuratezza dello stampato che gli pervenivano, sia dal mondo imprenditoriale, che dai non pochi clienti che in tutta Italia e all’estero li apprezzavano l‘azienda è costretta a chiudere. Come spesso accade in Sicilia, per l’insipienza dei politici e degli amministratori locali, non ci fu nessun riconoscimento, né aiuto, né incoraggiamento per quest’azienda in difficoltà, non hanno neanche capito che avrebbero potuto trarre vanto dall’artigianato di qualità che l’isola ha prodotto e di un’impresa che portò come un vessillo il nome della Sicilia.
Forse non sbaglieremo se il senso di tutto il lavoro di questa piccola impresa lo riassumiamo con una citazione di Gesualdo Bufalino.
«Questo mi pare il carattere più immediato che distingue l’operosità isolana: una nativa destrezza mai soddisfatta da semplici risultati economici ma spontaneamente intesa alla ricerca di un valore aggiunto (solo in apparenza superfluo) di leggiadria e di ricreazione.
Al punto che non esce dalle mani dell’operatore nessun oggetto utilitario dove non splenda altresì un qualche lume d’arte o d’artificio; nessun manufatto di uso comune che non lasci intravedere dietro di sé un miraggio, una truvatura (così nel mio dialetto si chiamano i tesori nascosti) fantastica e lietamente arbitraria»21.

  1. A. Branzi, Le sette ossessioni del design italiano , in “L’Europeo”, Periodico bimestrale, n. 6 a. VI, dicembre 2007, Numero speciale per Triennale Design Museum. []
  2. T. Maldonado, Disegno industriale: un riesame, VII ed., Milano 2005, p. 17. []
  3. T. Maldonado, Disegno…, 2005. p. 15. []
  4. G. C. Argan, Il disegno industriale, in Progetto e destino, Milano 1965, p. 25. []
  5. Il Centro studi e iniziative, fondato nel ’58, ha posto le sue ragioni d’essere e di lavorare partendo da una concreta situazione economica-sociale – quella della Sicilia occidentale – e dalle esigenze che tale realtà dimostrava. In un lungo periodo iniziale – dal ’52 al ’56 – Danilo Dolci e un piccolo gruppo di volontari collaboratori si inserirono nel vivo della più tragica realtà siciliana, condividendo la vita quotidiana della parte più misera della popolazione locale. Questa esperienza diede frutti di sostanziale importanza su due diversi piani: da un lato, attraverso episodi che alcuni forse ricordano, richiamò l’attenzione dell’opinione pubblica italiana e mondiale su una cruda realtà da molti ignorata o mal conosciuta (il digiuno di Trappeto, lo “sciopero alla rovescia” sulla trazzera di Partinico, l’arresto di Danilo e dei sindacalisti, il relativo processo, ecc.); d’altro canto, permise a Danilo e al piccolo nucleo dei suoi amici e collaboratori di iniziare uno studio approfondito dell’ambiente che li circondava, cominciando ad individuare le componenti dei fenomeni economico-sociale di quelle zone e ad indagare con rigore sulle interferenze ed interdipendenze di manifestazioni e situazioni caratteristiche della Sicilia occidentale: arretratezza economica, disoccupazione e sottoccupazione, basso livello tecnico – culturale, difficoltà alla vita associativa, mafia. []
  6. Esperto di sviluppo integrato, nel 1959 è il Coordinatore del “Progetto Sardegna” dell’OCSE. Da questo progetto nacquero nuove linee d’intervento per la tutela e lo sviluppo dell’artigianato attraverso: la valorizzazione delle produzioni nelle loro diverse espressioni territoriali, artistiche e tradizionali; l’ammodernamento tecnologico, l’incremento produttivo e il miglioramento qualitativo della produzione dell’artigianato; la distribuzione dei beni e dei servizi prodotti dall’attività artigianale; il sostegno delle attività promozionali in favore dell’artigianato destinate alla conoscenza e alla propaganda dei prodotti e alla loro maggiore diffusione e commercializzazione, anche attraverso agevolazioni all’esportazione. []
  7. Leslie Tillett e Doris Doctorow sono designer straordinari nel campo del design tessile, ma non solo; oltre ai tessuti disegnano abbigliamento e gioielli. I Tillett utilizzano il design come strumento per il cambiamento sociale attraverso il loro attivismo, la scrittura, e l’insegnamento.
    Anche se meno noti dei contemporanei come Florence Knoll, George Nelson e Charles e Ray Eames, il loro posto nel panorama del design del dopoguerra era influente e distintivo. Ricercati da icone di stile, come Jacqueline Kennedy e Brooke Astor, i Tillett proponevano un’estetica che era esotica e classica al tempo stesso. Dall’Europa all’Africa, dall’arte contemporanea ai manufatti tradizionali di Giappone e Messico, le loro combinazioni inaspettate di colore e tessuti distinguono i Tillett come veri e propri precursori. []
  8. R. Hildebrandt, Alla ricerca di una vita che vale la pena di essere vissuta, ms, XXI sec., Palermo, collezione privata, f. 3. []
  9. Ibidem f. 3. []
  10. “The Design Works” è stata fondata nel 1969, su suggerimento esplicito di Jacqueline Kennedy Onassis come parte del Bedford-Stuyvesant Restoration Corporation, un progetto di rivitalizzazione sociale, ideato e iniziato in precedenza da Robert F. Kennedy. Le opere di design prodotte sono di grande successo. L’impresa, commerciale e creativa, è una vera e propria vetrina di spirito di comunità e di talenti. Motivi africani classici costituiscono la base per gli audaci colori brillanti dei tessuti stampati per le opere di design. []
  11. R. Hildebrandt, Alla ricerca di una vita che vale la pena… ms., f. 3. []
  12. Pochissime sono le notizie storiche sulla famiglia Seffer.
L’inizio dell’attività della ditta Seffer si può far risalire alla fine dell’800.
 Enrico Seffer (1839-1919) dopo avere imparato il mestiere di fotografo, in uno studio sito in vicolo Marotta fu assunto come direttore nello studio fotografico di D’Alessandro, che poi rilevò come unico proprietario, in salita San Domenico (oggi Giovanni Meli) n. 68, dove esiste ancora la veranda del suo atelier. 
Fu un eccelso ritrattista, con una produzione di ritratti dalla composizione armoniosa, accattivanti nelle pose di studiata naturalezza.
Il logo apposto sul retro di alcune stampe fa riferimento all’esposizione di Palermo del 1891 dove Enrico Seffer ebbe una menzione d’onore. Enrico aveva tre figli maschi, di cui solo Pietro (1873-1947) continuò l’attività paterna. 
Dei quattro figli di Pietro, Domenico rilevò l’attività dell’atelier, continuando la sua attività di fotografo fino al 1970. []
  13. R. Hildebrandt, Alla ricerca di una vita che vale la pena… ms., f. 4. []
  14. R. Hildebrandt, Alla ricerca di una vita che vale la pena… ms., f. 6. []
  15. R. Hildebrandt, Alla ricerca di una vita che vale la pena… ms., f. 6. []
  16. R. Hildebrandt, Alla ricerca di una vita che vale la pena… ms., f. 7. []
  17. R. Hildebrandt, Alla ricerca di una vita che vale la pena… ms., f. 8. []
  18. R. Hildebrandt, Alla ricerca di una vita che vale la pena… ms., f. 8. []
  19. Mary Taylor Simeti è arrivata a Palermo da New York City nel 1962, fresca di Bachelor of Arts in Storia medievale ad Harvard, per incontrare Danilo Dolci, già allora ben noto negli Stati Uniti, e lavorare con lui. La sua intenzione era di lavorare un anno in Sicilia e di ritornare ai suoi studi in America. Si è sposata ed è rimasta in Sicilia. È autrice di diverse opere, pubblicate negli Stati Uniti e in Inghilterra, sulla nostra isola, sulle nostre tradizioni, con particolare riguardo alla cucina e sulla nostra storia. In italiano ha pubblicato Mandorle amare, che trae spunto dalla storia di Maria Grammatico, di Erice, la “pasticciera” dei famosi dolci di mandorle. Vive tra la Sicilia e gli Stati Uniti. []
  20. M. Taylor Simeti , L’été sicilien sur étoffe,, in Impressioni in Sicilia Dialogue avec un territoire, Mulhouse 2001, p. 4. []
  21. G. Bufalino, La luce e il lutto, Palermo 1998, p. 81. []